Mostra: 331 - 340 of 1.318 RISULTATI
RECENSIONI

CLAIR

JEAN CLAIR, BREVE STORIA DELL’ARTE MODERNA – SKIRA, MILANO 2011

Il critico d’arte francese Jean Clair da anni porta avanti una sua coraggiosa, e soprattutto anticonformista, denuncia del declino e dell’imbarbarimento dell’arte contemporanea: critica che alcuni hanno voluto leggere come reazionaria.
In Breve storia dell’arte moderna, questo breve saggio pubblicato da Skira, definisce in primo luogo quali siano i confini cronologici in cui situare l’arte del ’900: dal 1905 (fauvisme, protocubismo, espressionismo e astrattismo: cioè tutte le forme di pittura che facevano i conti con la liberazione dell’inconscio e attingevano alla sfera dell’invisibile e dell’immateriale) al 1968, anno in cui una grande rivolta libertaria sancì in tutto il mondo la distruzione delle regole che garantivano una qualche eternità all’opera d’arte.

Nei primi settant’anni del XX secolo pittura, scultura e architettura si erano confrontate assiduamente e proficuamente con la scienza e la filosofia, nutrendosene e arricchendo il proprio spessore creativo.
Da allora, si è iniziato a snobbare la norma, la tradizione, l’insegnamento, la tecnica e la manualità: oggi tutto diviene arte, ogni gesto si autoproclama artistico. Jean Clair oppone a questo “totalitarismo degli imbecilli” il ritorno alla creazione delle forme rispetto alla “produzione di immagini”, secondo cui “il cosiddetto artista dovrà sorbirsi corsi di strategia, di marketing… ma non riceverà nessuna formazione specifica nel suo mestiere né nelle tecniche per praticarlo”.

Si salvano da questa mercificazone desolante solo pittori come Lucien Freud, Balthus, Szafran, Zoran Music, molto e giustamente amati dal pubblico (nota per l’editore: Music è morto nel 2005!). Artisti che nascono nel solco di una tradizione e di una temperie culturale, che sanno sfruttare e far fruttificare. È necessario, secondo Jean Clair, che oggi si abbia l’umiltà di tornare a studiare, ripercorrendo la storia dell’arte dalle origini, per non soccombere a quell’estetica del disgusto che sembra aver preso il posto dell’estetica del gusto, dominante dal 1750 al 1970.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/storia-arte-moderna-Clair.html      1 settembre 2016

RECENSIONI

CLARE

JOHN CLARE, L’OLMO CADUTO – MEDUSA, MILANO 2021

L’olmo caduto, antologia pubblicata dalle edizioni Medusa, raccoglie una sessantina di poesie di John Clare tratte da sette diverse raccolte, uscite tra il 1820 e il 1864. Nato nel 1793 nel villaggio di Helpston, nella contea del Cambridgeshire, John Clare proveniva da una famiglia di contadini, contadino egli stesso. Autodidatta, lettore onnivoro, iniziò a scrivere da ragazzo. Conobbe già con il suo primo libro di versi, ispirato al mondo rurale, un grande successo di pubblico: commuoveva la sua sensibilità quasi infantile verso l’ambiente naturale, e incuriosiva i lettori la sua scrittura istintiva, priva di ricercatezze formali, basata su di un lessico semplice e una sintassi elementare, densa di espressioni dialettali.

Clare non ebbe vita facile, provato da difficoltà economiche e lutti familiari, continue pressioni e censure editoriali, stati depressivi e allucinatori che lo portarono all’internamento in manicomio poco più che quarantenne, fino alla morte avvenuta nel 1864. Nonostante fosse continuamente minacciata dalle tormentose vicende private, la sua poesia fu tra i contemporanei più popolare di quella di Wordsworth, Keats e Coleridge, venne recitata e musicata nei teatri londinesi alla moda, conobbe estimatori tra gli intellettuali più in vista. Etichettato come “The Peasant Poet”, o “The Green Man”, fu in un primo momento la peculiarità della sua storia personale ad attirare tanta attenzione sulla sua produzione letteraria. Che da un’iniziale interesse rivolto empaticamente agli animali e alla vegetazione, affrontò nella maturità temi più impegnativi, sia socialmente sia esteticamente, fino alla misteriosa enigmaticità dei versi visionari scritti nella clinica psichiatrica in cui fu rinchiuso per 23 anni.

Se oggi certa critica tende ad accreditarlo come poeta ecologista, il suo interesse per la natura non esprimeva in realtà alcuna polemica nei confronti della nascente urbanizzazione e industrializzazione; era piuttosto sincero amore per la terra e per l’innocenza dei suoi abitanti non-umani: tutti i tipi di uccelli, le talpe, i ricci, i conigli, le piante e i fiori che rendono il paesaggio più gentile.

“Benvenuta pallida primula! Spunti tra / il morto fogliame di frassini e querce /… quanto la tua presenza fa più bella la terra”, “Nel basso di siepi e mura al riparo dal vento / i moscerini si radunano in sciami per giocare”, “Le api si lisciano le zampette passandole tra le ali / e osano piccoli voli ove il bucaneve lascia pendere / le campanule d’argento”, “Le timide lepri dismesse le paure del giorno / Sulla stradina s’impolverano danzano e giocano”, “Amo vedere le vizze felci della brughiera antica / Mischiare le crespe foglie a ginestrone ed erica / Mentre dal lago deserto il vecchio airone / Parte lento battendo l’ala malinconica”.

Piante e animali, fenomeni atmosferici e stagni patiscono, nei versi di Clare, gli stessi sentimenti degli uomini: paura e gioia, ansia di libertà e ferocia, imperturbabilità e irruenza. Ogni cosa risponde al richiamo eterno e insopprimibile della sopravvivenza, della riproduzione fisica, del desiderio appagante, e il poeta ribellandosi alla violenza di chi turba la semplice autenticità dell’esistere, soffre per l’abbattimento di un olmo, per la macellazione di un bue, per lo squartamento di un tasso. I bambini che escono da scuola correndo, i braccianti nei campi, le belle ragazze da spiare di nascosto, il trapassare delle stagioni; ma anche la solitudine, il silenzio, la morte stessa: ogni cosa per lui è degna di venire raccontata con meraviglia e gratitudine. L’ultima composizione del volume è una vera dichiarazione d’amore per ciò che ci circonda: “Tutto in natura è sentimento – boschi campi rivi / Sono vita eterna – e in silenzio / Parlano di felicità inaccessibili ai libri”.

John Clare ha suscitato l’ammirazione di poeti come Dylan Thomas, John Ashbery, Seamus Heaney, che l’hanno ritenuto degno di venire menzionato tra i grandi della letteratura inglese. Per questo l’elegante antologia proposta da Medusa ha reso un prezioso favore ai lettori italiani, per la maggior parte ignari della sua esistenza.

 

© Riproduzione riservata           «Il Pickwick», 16 settembre 2021

 

RECENSIONI

CLAUDEL

PAUL CLAUDEL, L’ANNUNCIO A MARIA – RIZZOLI, MILANO 2001

Di uno dei maggiori autori cattolici del novecento, Paul Claudel (1868-1955), questo testo teatrale scritto nel 1912 rimane forse ancora il lavoro più noto. Si tratta di un dramma in quattro atti, ambientato nel tardo medioevo, in cui agiscono sei personaggi legati tra loro da vincoli familiari o affettivi. Il padre-patriarca, Anna Vercors, tanto religioso da abbandonare per anni il suo ruolo di capofamiglia per fare un pellegrinaggio in Terrasanta; la madre Elisabetta, piuttosto meschina nella mentalità e nei comportamenti; le due figlie: la dolcissima, bella e ingenua Violaine e l’invidiosa e caparbia Mara, che finirà per uccidere la sorella per gelosia. Poi c’è un fidanzato conteso, Giacomo, e un artigiano di nobili sentimenti che si ammala di lebbra per guarire insperatamente grazie alla sua fede. L’intreccio che si sviluppa tra i protagonisti si anima di improvvise rivelazioni e incredibili colpi di scena: morti e resurrezioni, miracoli e tradimenti, amori e ribellioni, tutti raccontati con entusiastico fervore, ma anche con il didascalismo e la sentenziosità che sempre contraddistingue la scrittura dei convertiti quando ambiscono a convertire i lettori. Don Luigi Giussani ha scritto la prefazione all’opera in termini di assoluto ed estatico rapimento: «… la più bella scena d’amore che sia mai stata scritta… una delle opere più grandi che siano state scritte nel Novecento… Queste pagine contengono l’ideale di tutto… Questo dramma è pieno di corrispondenze, di simmetrie; non c’è una parola che non corrisponda a un’altra dopo; è bellezza senza fine». Per concludere: «L’Annuncio a Maria è l’invito a stare al proprio posto nel mondo e questo non può non passare attraverso la croce, ma dalla croce alla risurrezione, non nell’aldilà, ma qui». A un occhio laico, tuttavia, il lavoro oggi appare datato e piuttosto farraginoso. Persino un cattolico come Carlo Bo scriveva nel 1936 a proposito di Claudel: «I suoi testi sono come delle preghiere lontane e inutili».

IBS, 27 aprile 2016

RECENSIONI

CLEIS

FRANCA CLEIS, LA PIRAMIDE DI PESCHE DELLA SAGGIA REGGITRICE  – LUCIANA TUFANI, FERRARA, 2007

Franca Cleis, scrittrice e studiosa di storia del femminismo, cofondatrice degli Archivi Riuniti delle Donne Ticino, che diresse per molti anni, ha dedicato e dedica tuttora la sua esistenza alla ricerca, alla diffusione e alla difesa della cultura femminile nel suo paese. Cinque anni fa ha pubblicato per le edizioni Tufani un volume sulla vita e il pensiero di una straordinaria donna dell’ottocento, Angelica Cioccari-Solichon, affermata pedagogista e divulgatrice scientifica, attivista politica e emancipazionista, descrivendone con ammirata partecipazione il coraggioso e anticonformista impegno in favore dello sviluppo intellettuale e professionale delle donne. Angelica Solichon nacque a Milano nel 1827, crebbe a Zurigo e morì nel 1912 nel Canton Ticino, ma visse anche a Palermo e a Napoli, all’epoca del colera, seguendo il marito medico Carlo Cioccari, e lavorando con dedizione al suo fianco in favore della classi meno abbienti. Fu maestra d’avanguardia, e fautrice di numerose iniziative didattiche rivoluzionarie per l’epoca, autrice tra l’altro nel 1855 del primo libro di testo di economia domestica  L’amica di casa, che conobbe larga diffusione sia in Svizzera sia in Italia. A questa eccezionale figura di donna, Franca Cleis dedica questo documentatissimo volume, arricchito di una ricca bibliografia e di numerose testimonianze della pubblicistica coeva, che si offre al lettore suddiviso in due parti. La prima sezione, letteraria e d’invenzione dell’autrice, è animata poeticamente dalla rivisitazione empatica dei tempi e dei luoghi in cui visse e si prodigò Angelica Solichon.

«Ariosa ed emozionale, la scrittura evoca scenari intimi, domestici, familiari, con grande vitalità sensoriale – il profumo della pagnotta, il sapore dei vròcculi arriminati, la squisitezza della piramide di pesche, la linfa di annoso castagno- che permea anche il racconto dei momenti pubblici, ufficiali», come ben commenta nella sua prefazione la Professoressa e storica Emma Scaramuzza. La seconda parte del libro affronta invece, con scrupolo documentaristico e stile oggettivo, non solo la biografia ufficiale della Solichon, ma anche aspetti e questioni sociali e politiche significative della storia ticinese e italiana tra Otto e Novecento.
Un lavoro accurato e documentato, questo di Franca Cleis, che ha avuto il pregio di far conoscere oggi a un pubblico più vasto l’illuminante e generosa esperienza intellettuale e di vita di una precorritrice delle istanze femministe di uguaglianza e sviluppo: lavoro a cui Franca si è dedicata con disinteressata passione, riuscendo addirittura a impedire lo smantellamento della tomba di Angelica, e salvandone così anche l’unica immagine fotografica rimastaci, e restituitaci in questa sua importante e vitale ricerca.

 

«Leggendaria» n. 94, luglio 2012

RECENSIONI

COCTEAU

JEAN COCTEAU, IL CAMMINO DI UN POETA – ARCHINTO, MILANO 2015

Questo ultimo (e postumo) libro di Jean Cocteau vide la luce in Germania (paese che il poeta riteneva più ricettivo della Francia, «con il suo retaggio filosofico, metafisico e metapsichico») nel 1953, e solo oggi l’editrice Archinto ce lo propone con un’esaustiva prefazione di David Gullentops. Non propriamente un’autobiografia, né un libro di memorie: piuttosto, una serie di illuminanti considerazioni sull’esistenza, sull’arte, sulla creazione di chi ha fatto della poesia la sua missione. A partire da una rivendicazione esplicita al diritto di invenzione e ricostruzione fantastica della propria vicenda umana: «Il poeta cammina avvolto da una nebbia di inesattezza, di parole mal comunicate, di atti che non ha commesso, di leggende». Chi scrive è destinato a non essere compreso dai lettori («Anche se la gente lo legge, essa è attratta solo da quel che le sembra corrispondere a ciò che prova. Non lo legge. Si legge. Non lo guarda. Si guarda.»; «Quel che accade nell’anima di un poeta è lontano e incredibile»), è individualista ed eretico («Io sono un anacronismo. Un uomo libero»), si allontana da ogni norma, «si accanisce a disobbedire», sempre in cerca di «un vero che non è quello degli altri». Cocteau racconta la sua nascita nel 1889 nel Seine-et -Oise «da una famiglia semplice e amabile», segnata da «un misto di conformismo e anticonformismo», e subito modifica o censura alcuni eventi biografici fondamentali, come il suicidio del padre. Si sofferma sulle amicizie parigine degli anni ’20, sugli incontri arricchenti (con Stravinskij, Picasso, Radiguet, Satie, Proust, Rodin, Maritain, Apollinaire, Jacob, Modigliani, Cendrars, Poulenc), e su quelli più conflittuali con Gide o Mauriac. Da tutti loro assorbe «un’audacia interna invisibile», che lo fa «correre più veloce della bellezza» e gli insegna «quell’insulto alle abitudini senza il quale l’arte ristagna e resta un gioco». Da allora Jean Cocteau entra «in lotta contro se stesso e contro gli altri», ma solamente con l’intento di raggiungere un unico scopo, quello che ogni artista si deve prefiggere: arrivare a comprendere «l’estremo di sé», le proprie ossessioni, ma anche il proprio inesauribile e imperdonabile desiderio di felicità e di amore, immodificabile come ogni destino. L’arte con cui si confronta non è solo quella della scrittura: umilmente impara a tentare le vie sconosciute della pittura, della cinematografia, del teatro, e addirittura della fabbricazione artigianale di arazzi. Perché misurarsi con la creazione significa annullarsi a favore della propria opera, farsi sacerdoti di una possessione e di un’energia irrazionale simile all’inconscio desiderio erotico, collezionare «le più grandi ingiurie e i più grandi elogi», ben sapendo però che «la libertà trova sempre la sua ricompensa».

«succedeoggi», 7 aprile 2015

RECENSIONI

COHEN

ALBERT COHEN, IL LIBRO DI MIA MADRE – RIZZOLI, MILANO 2008

Quante madri nella letteratura di ogni Paese: madri scolpite in versi memorabili, o a cui sono dedicati libri interi (da noi, per citarne alcuni, Camon, De Luca, Sanvitale, Celati; in Austria l’indimenticabile Handke di  Infelicità senza desideri, quasi che gli autori – tutti gli autori – venissero presi a un certo punto della loro vita dall’invincibile necessità di raccontarsi dalle viscere, dal tremendo e ricattante groviglio di passioni che è la nascita, con la pretesa scandalosa di scandagliare il più assoluto dei rapporti. Raramente tuttavia ci è capitato di leggere in precedenza un tale esaltato o dolente omaggio alla propria madre quale quello scritto da Albert Cohen nel ’54, e ripubblicato in Italia da Rizzoli nel 2008 : Il libro di mia madre, titolo essenziale ed esclusivo per un amore essenziale ed esclusivo.
Albert Cohen è un classico della letteratura francese contemporanea, conosciuto e ammirato nel nostro paese solo dopo la tardiva ma fondamentale traduzione di Bella del Signore: un narratore lirico, composto e raffinato sulla pagina quanto dilaniato e pungente nello spirito. Scomparve nel 1981 dopo una lunga e affermata esistenza di scrittore e diplomatico. La presenza femminile che viene delineata dal libro è quella di una piccola donna ebrea, rotondetta e regale, «goffa e maestosa», capace di dedicare non solo la sua stessa esistenza, ma anche l’annullamento della propria personalità ai suoi due unici amori, il marito e il figlio. Il marito sposato per obbedienza e servito con timoroso, biblico rispetto («Il vero amore, vuoi che te lo dica? È l’abitudine, è invecchiare insieme»); il figlio, ineguagliabile capolavoro, in cui si annulla con totale e appagata dedizione.
A lui bambino fa trovare, prima di andarsene al lavoro, accanto alla tazza di caffellatte avvolta in panni di lana, «un disegnino rassicurante che sostituiva il suo bacio». Alla scapestrata leggerezza di lui adolescente sacrifica gioielli di famiglia, per consentirgli la grandiosità di uno spreco borioso. All’università lo segue da lontano, con trepide preghiere, intimidita e orgogliosa che frequenti la facoltà di legge ginevrina, ammirata da tutto ciò che è svizzero. E quando finalmente il figlio diventa adulto e sempre più importante, attende per un anno intero che lui la inviti presso di sé per due settimane, condiscendente e distratto, infastidito dagli impacci di lei, dalla sua inadeguatezza culturale, dai suoi patetici cappellini e dai vestiti rivoltati per l’occasione.
Con la crudele sfrontatezza del più forte, il figlio fa e disfa programmi di vita e di giornata per misurare sull’incondizionata approvazione della madre la sua fedeltà docile ed innamorata. Ingrato e indifferente come tutti i figli, gioisce di sollievo quando lei se ne va, immagonita ma convinta del naturale destino di solitudine che l’aspetta. Solo alla morte di lei diventa consapevole di ciò che ha avuto e di quello che ha perso: allora la malinconia si fa strazio, la memoria struggimento, il bene goduto senso di colpa. Infantilmente, ma con testardaggine, supplica il ritorno di questa madre ignorante, che chiedeva al figlio scrittore di suggerirle un modello per i biglietti di condoglianze («Ma non ci mettere delle parole profonde perché sennò si capisce che non è roba mia»); della madre golosa, convinta che lo zucchero non facesse ingrassare perché «mettilo nell’acqua, vedrai che scompare!»; della madre disordinata, che costretta a sistemare in un raccoglitore impostole dal figlio le carte domestiche, infilava le ricevute dell’affitto sotto la lettera F, perché «ragazzo mio bisognerà metterci pur qualcosa sotto questa benedetta F, e poi in affitto non ci sono forse due F?»

Il figlio cerca un riscatto al suo egoismo giovanile nelle parole, rende eterna nei gesti materni recuperati «Gli inutili e graziosi colpetti artistici col cucchiaio di legno sulle polpette», la sua «Gerusalemme vivente, arrivata da un’antica Canaan», che come tutti «È venuta, non ci ha capito niente, se ne è andata», ed ora è lì, «imbronciata nella sua terra malinconica», morta ma vittoriosa perché mai più trascurata, mai dimenticata.«Nessun figlio sa veramente che sua madre morirà e tutti i figli si arrabbiano e si spazientiscono con le loro madri, quei pazzi così presto puniti».

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Il-libro-di-mia-madre-Albert-Cohen.html       10 dicembre 2015

RECENSIONI

COHEN

LEONARD COHEN, IL  LIBRO DEL DESIDERIO – MONDADORI, MILANO 2008

Le poesie e i disegni di Leonard Cohen (Montreal 1934) raccolti in questo volume mondadoriano Il libro del desiderio (Mondadori, 2008) risalgono soprattutto agli anni ’90, anni in cui il percorso umano del cantautore canadese intraprese nuove strade di esplorazione spirituale. In quel periodo, infatti, Cohen iniziò a frequentare il monastero Zen sul monte Baldy in California, e a passare periodi di meditazione in India, seguendo gli insegnamenti del suo maestro Kyozan Joshu Roshi, e assumendo lui stesso il nuovo nome di Jikan. Pur attratto dalla vita severa, silenziosa e casta dei monaci di quella comunità, e riconoscendo la grandezza morale della sua guida Roshi (ha portato centinaia di monaci / al completo risveglio, / si rivolge alla simultanea / espansione e contrazione / del cosmo), Cohen preferì infine tornare alle sue abitudini metropolitane, alla fisicità, ai viaggi, alla musica, all’alcol e al fumo: «Alla fine ho capito / di non avere il minimo talento / per le Questioni Spirituali. / “Grazie, Mio Amore” / ho sentito un cuore gridare / appena sono entrato nel flusso del traffico / sulla Freeway di Santa Monica, / in direzione ovest verso L.A.».

Il ritorno alla vita fu perciò una nuova riscoperta delle sue radici ebraiche mai rinnegate, e l’omaggio a qualsiasi forma di bellezza, in un abbraccio sincretistico a tutte le fedi: cristiana, musulmana, buddista.
Queste poesie, e ancor maggiormente i disegni qui riportati (nudi femminili, chitarre, ma soprattutto decine di autoritratti del suo viso segnato da rughe, mai sorridente, sempre espressivissimo) sembrano voler edificare un orgoglioso monumento a se stesso, agli amori, agli amici, all’arte. Negli schizzi Cohen esprime con fierezza il proprio patrimonio esistenziale (la verità / della linea / vince / qualsiasi altra / considerazione), nei versi – scritti sempre sull’eco di una musica interiore – racconta la sua storia, le paure, gli slanci, le delusioni: «Ho percorso il cammino / Dal caos informe all’arte / La voglia è il cavallo / La depressione il carro;  Ho scritto per amore / Poi ho scritto per soldi. / Per gente come me / è un po’ la stessa cosa; Sono bravo in amore sono bravo nell’odio / E’ tra i due che mi sento gelare / Me la sono cavata ma ora è troppo tardi / Per anni e anni è stato troppo tardi».

 

© Riproduzione riservata 

www.sololibri.net/Il-libro-del-desiderio-Leonard.html       20 gennaio 2016

 

RECENSIONI

COHEN

ALBERT COHEN, DIARIO – RIZZOLI, MILANO 1995

Di Albert Cohen, autore di romanzi intensi e bellissimi, ormai quasi introvabili, in pochi ricordano il nome, sebbene sia stato uno dei migliori scrittori europei del ’900.

Chi era costui, quindi, è da chiedersi. Nato a Corfù nel 1895, morto a Ginevra nel 1981, proveniva da una famiglia ebrea di industriali di origini greche, travolta da difficoltà economiche ed emigrata nel 1900 a Marsiglia. Dopo il diploma, trasferitosi a Ginevra per studiare diritto e letteratura, ottenne la cittadinanza svizzera. Ebbe sempre incarichi in diplomazia, che lo portarono a Parigi (dove diresse la Revue Juive, cui collaborarono Einstein e Freud), Bordeaux, Londra, Bruxelles, dapprima come funzionario della Società delle Nazioni, e nel dopoguerra presso l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati o UNHCR. Convinto sionista, si attivò con altri intellettuali a favore della fondazione dello Stato di Israele, di cui fu poi anche ambasciatore. Si sposò tre volte: la terza moglie Bella Berkowich curò con dedizione le sue opere, fino alla loro pubblicazione definitiva in due volumi presso la Bibliothèque de la Pléiade di Gallimard (1986 e 1993). Cavaliere della Legion d’Onore nel 1970, fu sempre molto critico nei riguardi dell’aristocrazia e dei valori borghesi, della religione ufficiale e dell’ambiente diplomatico, che riteneva vacuo e farisaico, roso da invidie e ambizioni frustrate.

Diario, uscito nel 1978 con il titolo di Carnet, è stato il quarto volume tradotto in Italia, nel 1995, dopo Solal, Il libro di mia madre e Bella del Signore: testamento spirituale e sintesi altissima, rarefatta, del suo pensiero. Sono pagine “stranamente nate a capriccio dei giorni, concepite e continuate al di fuori d’ogni motivo e d’ogni piano”, imposte, quindi, da una necessità extra-letteraria, “scritte lentamente sotto una strana dettatura”, in nove lunghi mesi del ’78, tre anni prima che Cohen (già ottantaduenne ma lucido nelle analisi teoriche, dolorosamente intenerito dai ricordi) morisse. Vi ritroviamo, quasi esasperati da una passione non più dissimulabile, tutti i suoi temi, le sue figure di sempre, ma raccontate con un abbandono lirico più accentuato, con la pena di chi è certo del prossimo, inevitabile, addio da dare a una vita troppo amata.

Quindi la madre, “santa madre povertà, regina schiava, sovrana china, benefattrice, dispensatrice eterna”, in una litania di attributi che sa di liturgico e di sacro. Madre “un po’ grossina, come devono essere le madri”, umiliata in un lavoro massacrante, costretta a un’esistenza ingiusta “da farmene vergogna per Dio”, e che il bambino Albert promette di riscattare. Per lei, suo primo, insostituibile amore, lui si lava e si veste da solo, riordina la casa, “fiero di servirla, di essere il suo sguattero premuroso e sempre complimentato”. Madre e figlio vivono un rapporto esclusivo, fatto di attenzioni minime, di storie inventate per il piacere reciproco dell’ascolto: insieme scoprono l’Eterno, benedicono il suo santo nome, attenti al rispetto delle norme più severe della tradizione giudaica. Quando invece sono costretti alla separazione, il bambino si riconosce ebreo nello scoprirsi rifiutato dai compagni, condannato a recitare da solo ruoli di diversi attori nelle drammatizzazioni improvvisate, ridotto a scrivere nell’aria col dito messaggi destinati a lui stesso.

Già nello splendido Il libro di mia madre (titolo essenziale ed esclusivo per un amore essenziale ed esclusivo), scritto nel 1954, Cohen aveva reso un infervorato e dolente omaggio alla figura materna, alla fedeltà docile e orgogliosa di lei, insieme deprecando la propria boriosa disattenzione adulta e la condiscendenza infastidita di gesti frettolosi. Solo alla morte della mamma diventa consapevole di ciò che ha avuto e di quello che ha perso: allora la malinconia si fa strazio, la memoria struggimento, il bene goduto senso di colpa: “Nessun figlio sa veramente che sua madre morirà e tutti i figli si arrabbiano e si spazientiscono con le loro madri, quei pazzi così presto puniti”.

Altro tremendo e ricattante groviglio di passioni sarà quello che legherà lo scrittore affermato alle donne della sua vita, alle tre mogli, a ragazze sensuali e bellissime. Diane soprattutto, “Diane volteggiante e assolata, così nobile e alta nel suo abito veliero”, che però lo tradisce perché muore prima di lui, lasciandolo nella disperazione. Nel romanzo più famoso, Bella del Signore, uscito nel 1968, premiato con il Grand Prix du roman de l’Académie Française, Cohen intesse un inno all’amore fagocitante e distruttivo, che nel momento della realizzazione porta inevitabilmente al fallimento del rapporto, alla noia, al tradimento delle promesse: perché solo nella privazione può sopravvivere il desiderio, solo nella lontananza brucia la nostalgia.

Chi se ne va, chi abbandona, è comunque crudele, merita tutta la rabbia e il dolore dell’abbandonato: anche e soprattutto se il suo addio è determinato dalla morte. Così alla scomparsa del suo più caro amico, Marcel Pagnol, compagno di scuola poi diventato accademico di Francia, in Diario scrive parole straziate e violente: “Come perdonare a Dio che lui, che fu così vivace e allegro, non ci sia più? Me lo hanno rinchiuso in una scatola, una scatola orrenda che dei vivi indifferenti hanno sigillato, una scatola terribile, e il mio innocente dentro, una lunga scatola, e manate di terra sulla scatola, e hanno calato giù la scatola con delle corde, senza troppa attenzione l’hanno calata e deposta in fondo a un buco d’argilla, la sua ultima umile dimora. E lui non ha gridato, non ha protestato, li ha lasciati fare, ormai muto, rimbecillito dalla morte e di mutismo triste, il mio intelligente…”.

È una rivolta, la sua, che riguarda la morte di tutti, questa enorme ingiustizia a cui ogni cosa vivente è destinata: il non vivere più, il disfarsi, l’essere votati al niente. La protesta diventa allora imprecazione, bestemmia, o può trasformarsi in furiosa preghiera: “Dio, mio amato assente, mostra la Tua potenza e la Tua bontà, convertimi e fa che io possa credere in una vita dopo la morte. Dio, fa che il mio Marcel sepolto non sia venuto invano sulla terra e dentro a questa trappola. Dimmi che vive e che lo ritroverò. E adesso, basta, ne ho abbastanza di parlare con il vuoto, di rivolgermi a chi non risponde mai. Andrò a dormire, a dimenticare i miei morti o a ritrovarli”.

Il Dio di Albert Cohen si nasconde, come quello di Isaia, rifiutandosi al suo desiderio e alla sua ricerca, e poi improvvisamente gli appare, innegabile, incontestabile: “L’Eterno! Ho proclamato loro dietro la tenda della mia finestra. Voi non lo sapete, diletti, l’Eterno è! ho gridato, con gioia esasperata. Egli è, cretini miei, cari atei, Egli è! Avrete un bel dire, Egli è! E ho tenuto la mia verità come un bimbo si stringe al petto un agnellino e ho gridato che egli è, e che tutto ciò che dicono gli atei è falso, infatti Egli è! E con un tremito, un tremore io ho saputo Dio, l’Inesprimibile, l’Esistente, lo Sconosciuto, il Creatore del cielo e della terra e di mia madre. Non è come lo dicono i religiosi, ho esclamato, ma è, terribilmente, e proprio sui suoi altari i miei avi hanno bruciato l’incenso! E all’improvviso ho avuto paura della mia gioia. Dio è, lo so, ho ridetto in quella santa notte. Ma lo saprò ancora, domani?”

Il Dio di Cohen è, come quello di Pascal, “Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe”, Dio ebreo, creato dal popolo di Israele, Dio dei profeti dei patriarchi e degli eserciti, della Legge e della Sinagoga. Un Dio che si è fatto destino e storia di un popolo, sua cultura: Israele è infatti popolo d’anti-natura, agli antipodi dalla naturalità animalesca, dalla potenza fisica e pagana tanto esaltata dai nazisti. Cohen è permeato di ebraicità, intesa come estrema radicalità del sentimento (si legga, ad esempio, quando afferma che, per essere grandi scrittori, è necessario farsi “pazzi del cuore”, cioè “incessantemente pronti al dolore assoluto per ogni cosa, alla gioia assoluta per ogni cosa”; o ancora quando esorta alla “tenerezza di pietà” verso gli altri, a identificarsi con loro, a essere consapevoli “dell’irresponsabilità universale, tutti comandati e determinati come siamo…”: tenerezza e pietà che, forse sulle tracce di Abraham Heschel, Albert Cohen prova anche verso il Creatore. Ma tutto ebraico è anche il severo giudizio critico, di una moralità totalmente cerebrale, che l’autore dà su vari aspetti della vita contemporanea: i buoni sentimenti borghesi, lo spiritualismo religioso, il culto esteriore per i defunti, il falso amore per il prossimo, il corteggiamento tra i due sessi.

Pagine risentite che si alternano ad altre, abbandonate e trepide: che dovrebbe assolutamente leggere chi volesse avvicinarsi a questo grande narratore lirico, composto e raffinato nella scrittura quanto dilaniato e pungente nello spirito.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 26 marzo 2020

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

COMOLLI

GIAMPIERO COMOLLI, UNA LUMINOSA QUIETE – MIMESIS, MILANO 2012

I quattro brevi saggi compresi in questo piccolo libro di Giampiero Comolli, pubblicato da Mimesis nella collana che raccoglie i testi dell’Accademia del Silenzio, sembrano volersi superare l’un l’altro in un crescendo di profondità testimoniale e di intensità emotiva: con l’intenzione dichiarata, comunque, di offrire al lettore le riflessioni più coinvolgenti sulla natura e i vari significati del tacere, e sui percorsi che nei millenni la filosofia, la religione, la mistica hanno proposto all’umanità per conquistare la pace interiore, e un contatto diretto con l’alterità (sia essa indicata come Dio, come Assoluto o come Vuoto). Nel primo saggio Comolli indaga i modi in cui la cultura contemporanea si rappresenta il silenzio: «metafora di marginalità sociale, solitudine, incomprensione, depressione», laddove solo la chiacchiera e il rumore diventano sintomi di vitalità e successo. Proprio al silenzio invece dovremmo attribuire la missione e l’obiettivo di una rifondazione sociale e di rinascita individuale. Tacere acquista allora «una dimensione propositiva», rigeneratrice, offrendosi nella sua inerme nudità e nella sua capacità di ascolto, di non sopraffazione, di pacificazione.  Via del silenzio come pratica di pace è infatti il titolo del secondo intervento; mentre il terzo approfondisce la differenza tra silenzio cristiano e silenzio buddhista, tra Gesù che tace nel deserto per permettere al Dio cristiano di far sentire forte la sua voce, e Buddha che arriva all’illuminazione nella foresta, tra le mille voci assordanti della natura, acquietate però nell’intimo della coscienza e della mente silenziosa. La preghiera da una parte, il Nirvana dall’altra. Nell’ultimo saggio Comolli suggerisce una pratica laica di meditazione, di concentrazione psicofisica, che aiuti, attraverso un’attenta presenza mentale, a raggiungere la «luminosa quiete» cui tutti aspiriamo.

 

«Accademia del Silenzio», 16 dicembre 2013

RECENSIONI

CONSONNI

GIANCARLO CONSONNI, FILOVIA – EINAUDI, TORINO 2016

La poesia come sguardo «di sbieco», a osservare il mondo intorno cogliendone qualche particolare trascurato dai più: come fosse dal finestrino di un tram, senza alcuna insistenza, protervia, volontà di giudizio. Poesia q.b., quanto basta, «come il sale / nell’acqua della pasta», è quella che Giancarlo Consonni ci offre nel suo ultimo, delicato, volumetto di versi, Filovia.
Brianzolo, nato nel 1943, professore emerito di Urbanistica al Politecnico di Milano, sembra aver assorbito dalla sua professione la capacità tecnica di inquadrare all’interno di un disegno ampio il dettaglio o la sfumatura che lo rende unico, insostituibile, e proprio per questo “poetico”:«Sulla spiaggia riservata / le suorine / mostrano biancori / stupefatti. // Tocca al maestrale / togliere d’imbarazzo / il mare».

Ereditando da una tradizione tutta italiana (Saba, Penna, Betocchi, e più vicine a noi Lamarque e Candiani) il gusto per la pennellata impressionistica, la cadenza epigrammatica, il lindore lieve di immagini addomesticate – sempre innocenti, in uno spirito di francescana clemenza assolutoria, sia che appartengano alla realtà urbana o alla natura – Giancarlo Consonni rende omaggio all’esistenza dei vivi e dei morti, di piante e animali, con un’empatia che lo rivela interprete indulgente del respiro universale. La comprensione verso l’altro non deve escludere nessuno: «Se mi fermo da uno / mi sembra / di fare torto agli altri. // Per questo / non vado al cimitero», «Fosse per me / santi ne farei tanti. / Che siano costretti / ad allargare il paradiso», «Se sbaglio tram / non fa niente / vado fino al capolinea / tengo compagnia al conducente», «La 90 abbraccia la città, / leggo in pace. / Non c’è il mare? / Ci sono tutte le lingue del mondo», «Slittano tutti / di un posto, / è salita una nonna col nipotino. // In silenzio ognuno / si prende / il caldo del vicino».

Il viaggio quotidiano in filovia è un modo gentile e mite di appropriarsi di ciò che ci circonda, senza prevaricazione, ma con una solidarietà quasi evangelica: la stessa che il poeta esercita nell’osservazione della natura e dei suoi ospiti: «Di tutte le visite / la più gradita / è il pettirosso, / fulvo tra gl’iris». Questi versi brevi si imparentano alla grazia degli haiku orientali, alla sapienza antica degli aforismi dei mistici: «Un amico / è una strada / silenziosa». Con un gusto ribadito per l’elementarità, in cui il minimalismo diventa una dichiarazione di poetica: «Lasciare che le parole / vengano a galla / stupirsi d’un tratto / come il gatto / che scompagina il volo / d’una farfalla».

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Filovia-Giancarlo-Consonni.html      21 aprile 2016