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RECENSIONI

CUCCHI

MAURIZIO CUCCHI, PARADOSSALMENTE E CON AFFANNO – EINAUDI, TORINO 2017

Un doppio ritratto, quello che Maurizio Cucchi tratteggia nelle pagine del volume appena uscito da Einaudi, Paradossalmente e con affanno: e come tale, segnato sia dalle sfumature indulgenti sia dalle severe incisioni di cui si nutre qualsiasi auto-rappresentazione pubblica. Il corpus più esteso del libro condensa quattro sezioni poetiche (e una prosa di turbata atmosfera kafkiana) scritte tra il 1963 e il 1969, e riproposte con lo sguardo affettuosamente complice di chi ricorda il ragazzo che è stato, e desidera recuperarne l’immagine «per incontrarlo ancora». Un Maurizio ventenne, intimidito e a disagio nel mondo, che si rifugia nelle biblioteche per immergersi nelle narrazioni e nei versi degli autori più ammirati, tentando di muovere i primi passi nella scrittura. Inclemente la severità con cui il giovane poeta si ritrae, nel suo «campo arido», «in un groviglio di ombre»: «Cuoci in pentola / giovine dabbene», «A passo felpato / sgattaiola dall’uscio», «E ora / ricomposto il quadro fioco che tu completi / abbottonati la giacca. // … Vedo bene / che hai saputo cancellare / l’ultima impronta di sicurezza / e privo di fascino / levando un poco lo sguardo / capisci», «(La giacca non consente a me un andare disinvolto. / La malinconia / il senso di frustrazione malmenano i miei malcerti / desideri di sorriso)».

Deluso da se stesso (dal proprio «volto assurdo assorto», dal suo «occhio furtivo», dalla sua riconosciuta «ironia fasulla»), il protagonista sembra oscillare tra l’attesa di una rivelatrice palingenesi, di un riscatto sociale o di una definitiva condanna e, al contrario, la volontà di una ribellione violenta, di una reazione esasperata che lo liberi dalla stagnazione in cui teme di affondare: «Finalmente potrò soddisfare il mio bisogno / e munirmi di fucile a due canne. / Partirò alla caccia per le vie della città / brulicanti già di vittime innocenti. // Anch’io potrò dunque perseguire / con la modestia e la prudenza / che sempre mi contraddistinguono / la più faticosa escalation / uccidendo qua e là ma senza prevaricare». Erano anni di guerriglia sociale, di rabbia repressa o esplicita contro le istituzioni più paludate (familiari, culturali e politiche), di provocazioni morali, di inquietudini sessuali. Anni in cui nascevano sperimentazioni artistiche e letterarie di rottura nei confronti della tradizione: ma il giovane Cucchi pare assediato più dal proprio privato che dalla Storia, più introflesso nei suoi nodi irrisolti che proiettato in un futuro di speranza: «Aspetto che un soffio gelido / si trasformi in spiffero / ed entri dalla porta chiusa / che mi vengano a pescare / con l’amo o con la mosca / o con la dinamite».

Giustamente nella quarta di copertina del volume einaudiano si sottolinea questo incrocio di sguardi tra mitezza e impeto, questo strabismo esistenziale e formale tra novità e conservazione, che viene ulteriormente evidenziato dalla seconda parte del libro, nella silloge prosimetra intitolata La sciostra. Qui il poeta, ormai famoso e legittimamente sicuro dei propri mezzi espressivi, è ancora scisso, non tanto caratterialmente, quanto ideologicamente, tra presente e passato, nostalgia e rinuncia, adesione e rifiuto. Richiamandosi a un suo vecchio personaggio di nome Giuseppe (per gli amici “El Pinìn”), alter-ego popolare «con un bisogno crescente di viva frugalità, di ritrovata manualità a contatto diretto con le cose… Forse un solitario», Cucchi confessa la sua necessità di concretezza, di gestualità elementare, e anche di bellezza naturale, in un «mondo quasi arcaico, e quasi senza tempo». Un mondo fatto di materiali contadini: «arnesi di lavoro, bustine di sementi, / il setaccio, qualche cassetta, barattoli incrostati…», e poi sterpaglie, orti, carriole, tetti di lamiera, sedie bianche di metallo scrostato. Cerca quindi nelle sue passeggiate milanesi un approdo innocente, in periferia, lungo il Naviglio, lontano «dai luoghi delle decisioni»; forse una cascina, o meglio: una sciostra, come viene definito in dialetto un magazzino in disuso, dove fermarsi «senza nessuna volontà di senso», a godere la pace campestre, l’odore dell’erba, l’acqua verde cupo del canale. Scoprendosi «minimale e individuo», rifiuta la massificazione economica che ci rende tutti «ottusi, scossi / dalla sacra idiozia della moneta», e in pochi versi piani, classicamente oraziani, rivela un’unica ambizione: «Una sciostra, forse, / fra canne e sterpaglie, antico / magazzino di legna, calce e tegole, / e mia residuale dimora felice».

 

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www.sololibri.net/Paradossalmente-affanno-Cucchi.html             31 luglio 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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CUCCHI

MAURIZIO CUCCHI, L’INDIFFERENZA DELL’ASSASSINO – GUANDA, MILANO 2012

Non appartiene alla categoria dei gialli, quest’ultimo romanzo di Maurizio Cucchi, che anzi sul genere poliziesco aveva lungamente polemizzato in una diatriba radiofonica con Carlo Lucarelli. Anche in queste pagine stigmatizza le mode editoriali che allettano lettori sempre più affamati di storie truci e omicidi irrisolti, così come irride a “quegli psicologisti ambulanti che girano per le tivù a pontificare sui fatti di sangue, a gratificare il pubblico di ovvietà, campandoci sopra come dei divetti, come cialtroni subintellettuali alla moda”. Altri sono gli interessi che hanno spinto Cucchi a ricostruire la vicenda criminale di Antonio Boggia, autore di quattro omicidi nella Milano ottocentesca, ultimo condannato a morte nell’aprile del 1862. In primo luogo una comprensibile curiosità nei riguardi della psiche malata dell’assassino, di cui ripercorre l’ambiente familiare e lavorativo, i loschi traffici e le ambigue frequentazioni: seguendolo nelle sue passeggiate senza meta, e le consolatorie sbronze nei “trani” dell’epoca; spostandosi poi da Porta Ticinese a Torino, dal lago di Como alla Brianza, documentandosi negli archivi e nelle librerie antiquarie, leggendo gli atti del processo, visitando i torbidi luoghi in cui si svolsero i fatti. E così facendo approfondisce l’interesse primario della sua narrazione: la rivisitazione della sua amata Milano in “una realtà preautomobilistica”, e l’affettuosa ricostruzione storica del prediletto secolo XIX, con la sua “sobrietà austera”, “l’inquietudine romantica” e una cultura in grado di mostrare “una conoscenza diretta e personale, in proprio, delle cose e del mondo”, meno turbata dalla sovraesposizione mediatica di quella attuale. La prosa di Cucchi è piana e discorsiva, lontana da ambizioni linguistiche innovative, e talvolta indulge a osservazioni moralistiche alquanto scontate e retoriche.

IBS, 27 agosto 2012

RECENSIONI

CUCCHI

MAURIZIO CUCCHI, LA TRAVERSATA DI MILANO – MONDADORI, MILANO 2011

Questa del poeta Maurizio Cucchi è davvero una lunga traversata, compiuta materialmente a piedi, e mentalmente e sentimentalmente attraverso una serie di visioni, ricordi, cognizioni che riemergono alla coscienza dell’autore e alla incuriosita consapevolezza del lettore. Di cui Cucchi sa stimolare sapientemente lo stupore e la partecipe simpatia. Milano,quindi, la più europea e vitale delle città italiane: esplorata nei suoi mille volti e luoghi, in storie ufficiali e memorie personali, in minuziose ricostruzioni storiche e ammirate celebrazioni artistiche. Cucchi se ne fa cantore e paladino, così confessando: “Soffro ogni volta che sento parlare male della mia città. Soffro perché me ne considero un modesto dettaglio, come la panchina di un parco, il bancone di un bar, o il sedile di un tram”. Milano descritta nelle sue basiliche, nei parchi, nelle poche piazze, nei molti musei, negli impianti sportivi: Milano che ha anche un lago e una montagna (l’Idroscalo e il Monte Stella), per quanto artificiali. Una metropoli dalle estese, malinconiche ma a modo loro affascinanti periferie: Bovisa, Barona, Niguarda, Affori. Luoghi – ovunque, luoghi-non luoghi, li definisce il poeta, in cui “deliziarci di squallore”, ma dove lui respira ancora “un’aria di tranvieri e di nonno, di paste della festa e di messe ascoltate sulla porta…”. Soprattutto una Milano della gente, gente umile e sconosciuta come la sartina Ninin o il ladruncolo Carletto; ma anche di tantissimi personaggi illustri, che l’hanno amata e celebrata con la loro arte: da Leonardo a Stendhal, da Parini a Carlo Porta a Manzoni, dagli Scapigliati a Alberto Savinio, da Strehler ai tanti poeti contemporanei. Il più citato, Vittorio Sereni, e accanto a lui Raboni, Giudici, De Angelis, Lamarque: stranamente viene dimenticata Alda Merini, così come sono ridimensionati nella loro pittoresca artificiosità i suoi Navigli. La Milano più amata e raccontata dal poeta Cucchi ha “una bellezza che non aggredisce”, e che è quasi un dovere di tutti saper riscoprire.

IBS, 30 marzo 2011

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CURI

UMBERTO CURI, PARLARE CON DIO. UN’INDAGINE TRA FILOSOFIA E TEOLOGIA

BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2024

 

In un passaggio del Crizia (107 c-d) Platone afferma che poiché non sappiamo nulla di preciso degli argomenti celesti e divini, ci riteniamo soddisfatti che vengano esposti anche con una piccola parte di verosimiglianza, accontentandoci “di un chiaroscuro indistinto e ingannevole”. Più di due mila anni dopo, Heidegger considera teologia e filosofia due scienze opposte, in quanto la prima si basa su una rivelazione indiscussa e indiscutibile, mentre la seconda si costituisce come ricerca e disquisizione delle basi dell’essere. La teologia afferma una verità, la filosofia ne mette in discussione i presupposti. Ma davvero esiste un solo modo di parlare di Dio, aderendo alle indicazioni della teologia, o se ne può trattare in maniera più complessa? Se lo chiede Umberto Curi, Professore emerito di Storia della Filosofia all’Università di Padova, nel suo volume più recente, Parlare con Dio, edito da Bollati Boringhieri.

A partire dalla ricostruzione della consegna delle Tavole della Legge da Yhwh a Mosè sul Sinai (un dialogo, e non un monologo!), l’autore commenta l’interpretazione tradizionale delle parole e dei silenzi intercorsi tra Dio e le creature, tenendo conto delle inesattezze delle varie traduzioni, dei fraintendimenti involontari o tendenziosi, dalle tesi manipolatorie determinate dai diversi culti religiosi. Nell’impossibilità di accedere alla definitiva verità del testo, “le dieci parole assomigliano più a coloro che le ricevono, piuttosto che a colui che le avrebbe pronunciate; ricalcano dunque i limiti di chi dovrebbe metterle in pratica, più che l’onnipotenza di chi le avrebbe originariamente formulate”.

Anche del libro di Giobbe si possono dare diverse letture. Il protagonista, “persona perfetta e retta, fedele a Dio e nemico del male” ma tormentato da sofferenze crudeli e immeritate, viene quasi sempre esibito come eroe della fede, simbolo di paziente e umile accettazione, mentre si ridimensiona la ribellione espressa dal suo grido di protesta e di accusa, che chiama in causa il Supremo come dispensatore di ingiustizie e dolori. La replica di Yhwh, che riduce l’uomo alla sua irrilevanza di fronte alla grandiosità del creato e all’incomprensibilità dei disegni divini, sancisce l’assoluta e ingiudicabile superiorità di Dio, mettendo a tacere la vittima, che proprio nell’atto finale di obbedienza si vedrà ricompensata dei mali patiti. Giobbe non parla di Dio, ma parla a Dio, spalancando il rapporto con il totalmente altro dall’essere umano. Nell’innovativa esegesi di Kierkegaard non viene ridotto a simbolo di rassegnazione (“Il Signore ha dato e il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore”), ma va rivalutato proprio per la sua coraggiosa contesa con il Creatore, che preannuncia il messaggio cristiano, opposto alla logica retributiva tra colpa e pena insita nell’ortodossia religiosa giudaica, e invece foriero di un possibile superamento del dolore grazie alla misericordia divina.

Il silenzio con cui Giobbe mette fine alla sua protesta, è altro dal silenzio fedele e adempiente di Abramo, più di lui eroe della fede in quanto nella sua totale obbedienza, nella sua disposizione all’ascolto (“eccomi!”, ripetuto tre volte a un richiamo difficile da accettare), esprime l’accettazione totale di quello che non riesce a comprendere: la fede inizia là dove finisce la ragione, “la fede altro non è che credere nell’assurdo, accettare il paradosso, convivere con l’angoscia, subire la persecuzione”. Fede come timore e tremore, secondo Kierkegaard; secondo San Paolo “prova di cose che non si vedono”. Con i due personaggi veterotestamentarie di Giobbe e di Abramo si entra in una nuova teologia, più prossima a quella evangelica, in cui l’uomo si pone di fronte a Dio, gli parla e gli ubbidisce, pur senza riuscire a comprenderlo. Prefiguratori del Cristo, Giobbe e Abramo si muovono già nella disposizione etica peculiare del Nuovo Testamento.

La parola chiave, davvero rivoluzionaria, del Vangelo, diventa “misericordia”, mai contemplata dalla legge giudaica. Umberto Curi ne introduce il concetto commentando il brano delle Beatitudini riportato in Mt. 5, 3-12 e in Lc 6, 20-26, conosciuto come il “discorso della montagna” (quante montagne, simbolo di ascesi spirituale, nella Bibbia: Sinai, Or, Ermon, Carmelo, Libano, Tabor, Garizim, Sion, Getsemani, Golgota…). Generalmente considerato come l’antitesi neotestamentaria al Decalogo, espressione dell’etica cristiana più elevata rispetto al formalismo legalitario della morale veterotestamentaria, esso indica un rovesciamento di grande portata eversiva della gerarchia dei valori dominanti nella storia umana: mitezza contro violenza, umiltà contro superbia, sobrietà contro ricchezza, misericordia contro intransigenza. Gesù definisce beati coloro che sono agli antipodi di ciò che abitualmente viene stimato essere importante. Soprattutto beati sono i misericordiosi, che vengono ricompensati non con un premio futuro ma con il riconoscimento attuale della misericordia a loro destinata dal Signore: “Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia” (Mt 5,7).

Curi cita in particolare due episodi dei Vangeli in cui la misericordia esprime empatia, pietà e compassione per l’infelicità o gli errori dell’altro: la parabola del buon Samaritano (Lc 10,37) e la difesa dell’adultera (Gv 8, 1-11). Il buon Samaritano è un “fuori casta”, un uomo senza identità, un pagano che soccorre il viandante ferito trovato per strada, mentre prima di lui un sacerdote e un levita gli avevano negato qualsiasi assistenza. Il discorso che Gesù rivolge alla donna adultera (“neppure io ti condanno”) annulla l’ineludibile corrispondenza veterotestamentaria tra colpa e pena, opponendo al castigo la sovrabbondanza della misericordia divina.

Non sarà irrilevante notare come l’autore citi, a suffragare le sue tesi, testimonianze filosofiche e letterarie che spaziano dai presocratici ai classici greci e latini fino a Heidegger, da Sant’Agostino a Derrida, da Kierkegaard a Cacciari, ripercorrendo attraverso un’esegesi approfondita e sapiente tutte le Sacre Scritture, a partire da Genesi per arrivare all’Apocalisse.

La riflessione sul tempo, dalle accezioni più antiche (aión, chrónos, kairós per i greci) si modifica sostanzialmente con il cristianesimo: non più eternità, divenire, occasione, bensì compimento, irriducibile alle categorie del prima e del dopo. Tempo come ciò che già è, dispiegato e manifesto dinanzi a noi, presente che si fa storia. Per il cristiano, responsabilità del restare in attesa che si manifesti ciò che era nascosto: apocalissi significa appunto rivelazione, svelamento.

Negli ultimi due capitoli del volume, Umberto Curi si misura con le domande fondamentali dell’esistenza, indagando il perché del dolore, dell’ingiustizia, del male, attraverso la figura di Cristo, che ha rivoluzionato non solo il concetto di tempo, dandogli una prospettiva di riscatto, ma anche quella dei singoli destini mortali, aprendo loro la possibilità di spezzare, attraverso il perdono e la misericordia, la condizione fallimentare della colpa e della condanna. Le pagine dedicate alla Passione di Gesù nel Getsemani affrontano la sua sofferenza di creatura, la paura e il dubbio, la delusione dell’abbandono e del tradimento, l’estrema solitudine: aspetti angosciosi di un umanissimo tormento che la parola non riesce completamente a rendere, nella sua univocità e asciuttezza. Più duttili ed espressive risultano le arti: pittura, musica, cinema.

Utilizzando le proprie competenze di studioso non solo di filosofia, ma anche di estetica, Curi compie un interessante excursus sulle varie modalità con cui le arti hanno affrontato il mistero della Croce e della morte del Deus patibilis che soffre, ma nella sofferenza assume su di sé il peccato del mondo e lo espia, salvandolo ed elevandolo nell’infinito celeste. Vengono citati quindi “Il compianto sul Cristo morto” di Giotto, che – al pari degli altri capolavori di Botticelli, Perugino, Signorelli, Mantegna sullo stesso tema – non trova alcuna rispondenza nella narrazione evangelica. Tra i film, l’autore commenta criticamente quelli di Mel Gibson e di Pasolini, entrambi poco fedeli all’austera e composta descrizione degli evangelisti. Solo nella Passione secondo Matteo di Bach, Curi riesce a trovare un intenso afflato religioso che rimanda alla trascendenza dell’evento più irrappresentabile del Nuovo Testamento.

A conclusione dell’indagine filosofica e teologica proposta dal volume, Curi ritorna sul quesito iniziale: “È possibile rappresentare Dio senza rappresentarlo? È possibile far luogo all’eccedenza senza sanare l’eccedenza riportandola a normalità? Si può dire ciò che per definizione è l’indicibile?”

La domanda su quale sia il rapporto fra fede e ragione, tra credenti e non credenti, e se sia possibile un dialogo paritario tra posizioni tanto differenti, trova forse una risposta nell’esigenza di cercare la verità in maniera aperta e problematica, senza illudersi di possederla per sempre. Rimane il silenzio, come possibilità o scelta estrema per avvicinarsi a Dio, disposizione all’ascolto in attesa che Lui parli: “Nella triangolazione fra il silenzio come ascolto, il tempo come cancellazione del divenire e l’ascesi come esercizio, si condensa il monito a ricercare la verità nel ritorno alla propria interiorità”.

 

© Riproduzione riservata                     «Gli Stati Generali», 2 luglio 2024

 

 

 

 

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CUTOLO-GARUFI

CAROLINA CUTOLO-SERGIO GARUFI, LUI SA PERCHÉ – ISBN, 2014

Essere riconoscenti verso chi ci ha aiutato, incoraggiato, favorito in qualche maniera, è cosa buona e giusta. Tuttavia nei ringraziamenti eccessivi e ridondanti si finisce spesso per risultare inopportuni, retorici, talvolta addirittura ipocriti. Due scrittori, Carolina Cutolo e Sergio Garufi, hanno pubblicato qualche anno fa una divertente antologia che presenta una galleria di omaggi resi dagli autori italiani degli ultimi vent’anni agli editori, ai consulenti, agli amici, ai parenti ‒  talvolta anche ai detrattori ‒ in conclusione dei loro libri.

Il volume Lui sa perché è suddiviso in vari capitoli che raggruppano i diversi tipi di scrittori a seconda della metodologia usata nell’esprimere la loro gratitudine: ci sono tra loro nomi noti, dimenticati, semi-sconosciuti e famosissimi (Gazzola, Bajani, Gamberale, Valerio, Baricco, Genovesi, Lucarelli, Gruber, Faletti, Moccia, Giordano, Piperno, Agnello Hornby, Di Stefano, Malvaldi, Veladiano, Siti, Volo, Veronesi…), premi Strega e premi Campiello, che vengono catalogati sotto le categorie di vendicativi, esibizionisti, egocentrici, adulatori, encomiastici, nostalgici, aulici, allusivi, eccetera. Alcuni di loro sentono la necessità di spiegare ai lettori nelle note finali il processo creativo seguito nella composizione dell’opera, dilungandosi sull’architettura della stessa e sulle difficoltà incontrate (Massimo Gramellini, Licia Troisi, Giuseppina Torregrossa…), altri vantano amicizie e protezioni very important (Fausto Brizzi: «A Giorgio Faletti, l’uomo più talentuoso che conosco»; Giuseppe Cattozzella. «Grazie a Roberto Saviano, per avermi detto, in un momento per me delicato: ‘mi raccomando, scrivi’»; Roberto Saviano: «Ringrazio Daria Bignardi, che mi chiede di scrivere, scrivere» …), altri ancora esprimono riconoscenza ai mostri sacri di ogni epoca ed arte, eccelsi ispiratori del loro lavoro.

In molti si dicono grati ai genitori, ai partner, ai figli, ai datori di lavoro e agli animali domestici che li hanno accompagnati, sopportati, supportati, consolati nelle lunghe e faticose ore di applicazione alla scrivania. Oppure ricordano con rimpianto e nostalgia maestri, professori, padri spirituali, e persino chi li ha rifocillati e viziati con impagabili preziosità culinarie. Ci sono poi i minacciosi e i vendicativi (Alessandro D’Avenia: «Ringrazio anche chi ha criticato il mio primo libro»; Melissa P.: «E poi ringrazio tutti coloro che mi odiano, perché è grazie a loro che io mi amo di più»; Francesco Marocco: «A chi mi ha detto di smetterla di scrivere e di trovarmi un lavoro vero»). Si aggiungono gli ispirati e i poetici, gli incazzati, i cauti e riservati, gli indecisi, i dubbiosi, i rancorosi, i grati a tutti e specialmente ai lettori. Infine, i misteriosi: quelli che ringraziano ma senza specificare il motivo, che deve rimanere segretissimo: ‘Ringrazio Tizio, lui sa perché’, ‘Chiedo venia a Caia, lei sa perché’, ‘Sono grato a Tizio e Caia, loro sanno la ragione per cui’. E noi lettori rimaniamo con questa inesaudibile curiosità di conoscere a quanto ammonti il debito contratto dall’autore in questione.

Il curatore dell’antologia, Sergio Garufi, si dice convinto che «la lunghezza delle liste di ringraziamento è sempre inversamente proporzionale al valore dell’opera», mentre Stefano Bartezzaghi, nella sua spiritosa e intelligente prefazione, afferma che il ringraziamento finale serve all’autore in primo luogo per aggiungere ancora qualcosa su di sé, in una sorta di falsamente modesta autopromozione: «Il ringraziamento diventa così la passerella, stretta, precaria e un po’ patetica, fra chi parla nel libro e chi parlerà del libro, e fuori dal libro: l’autore restituito al suo corpo, ai suoi abiti e alla sua pettinatura¸ la persona in carne e ossa  che, pubblicato il libro, dovrà inseguire e conseguire la propria ‘visibilità’. Non quella del libro, quella della persona che l’ha scritto». In effetti, leggendo tutte queste esagerate manifestazioni di riconoscenza, impariamo qualcosa in più sullo scrittore che ringrazia, e quasi niente sul ringraziato.

 

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ittps://www.sololibri.net/Lui-sa-perche-Cutolo-Garufi.html              19 ottobre 2018

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CVETAEVA

MARINA CVETAEVA, A RAINER MARIA RILKE NELLE SUE MANI – PASSIGLI, FIRENZE 2012

Chi ama la poesia non dovrebbe lasciarsi sfuggire questo libro, che raccoglie testimonianze del rapporto che ha unito due tra i maggiori scrittori della prima metà del 900: Marina Cvetaeva e Rainer Maria Rilke. Che non si sono mai conosciuti personalmente, ma che – come succede alle grandi anime- hanno saputo incontrarsi e arricchirsi spiritualmente sia nel rapporto epistolare sia nella lettura reciproca e ammirata della loro produzione poetica. Boris Pasternak, amico di entrambi, favorì la loro conoscenza, invitando Rilke a spedire alla Cvataeva i suoi libri nel maggio del 26: i due si scambiarono in pochi mesi quindici lettere in tedesco («vertigini liriche, dove c’è spazio per l’intesa totale», scrive la curatrice del volume Marilena Rea), fino alla morte di lui, avvenuta per leucemia in un sanatorio svizzero il 29 dicembre dello stesso anno. Il baratro che questo lutto provocò nei cuori e nei pensieri della poetessa russa, il suo sentirsi improvvisamente orfana e vedova di un’amicizia straordinaria ed esaltante, trovò una sua consolante espressione in una «potente ondata creativa», concretizzatasi nella realizzazione di due poemi (Lettera per l’anno nuovo e Poema dell’aria) e nella prosa di La tua morte, tutti composti nei primi mesi del 1927.
Come trovare riparo al dolore, come recuperare memoria e speranza, se non nella composta bellezza dei versi? «Bisognerà pure avere altro: altalena, ramo, / cavallo, fune – salto // più in alto!» , e ancora: «All’estremo scadere del tempo / ci sarò io- occhio di chiarore», scriveva Marina in una profetica e preveggente illuminazione poetica, appena iniziata la corrispondenza con Rilke. E poi, dopo averlo perso: «Se lo sguardo tuo s’è fatto notte / allora la vita non è vita, la morte non è morte», «Buon luogo nuovo, Rainer, azzurro, Rainer!», «Gloria a te che la breccia / hai aperto: più non peso».
Marina Cvetaeva si uccise nel 1941.

 

«Leggere Donna» n.157, dicembre 2012

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CVETAEVA

MARINA CVETAEVA, SETTE POEMI – EINAUDI, TORINO 2019

Introdotti da un accurato e appassionato saggio della curatrice Paola Ferretti, sono da poco usciti per Einaudi Sette Poemi di Marina Cvetaeva, che la poetessa compose durante i primi anni del suo esilio dalla Russia. La scelta di oltrepassare la misura ristretta della lirica breve, fu determinata dall’esigenza di arricchire la materia del suo canto attraverso l’esplorazione temporale del passato (con apporti di temi folkloristici e fiabeschi), del presente (traendo spunto dalla cronaca caotica, febbrile e violenta di quegli anni), e di un futuro proiettato in una visione più utopica e spirituale. Il filo collante che aggrega i vari motivi presenti nelle sette composizioni è comunque quello della ossessione amorosa, talvolta più pensata che vissuta, più desiderata che osata, come nel rapporto intenso con Boris Pasternak e Rainer Maria Rilke, o con altri giovani letterati, entusiasticamente idealizzati. Sullo sfondo di questo sentimento dominante risalta la presenza fisica degli ambienti, quelli naturali (la montagna, il mare, l’aria, il cosmo) e quelli urbani e domestici (le scale, le stanze).

«Con dirupi e tornanti si avventava / di sotto ai piedi, la Montagna. // Con fiere grinfie di titano / ‒ con le conifere, gli arbusti ‒ / l’orlo arpionava, la Montagna», «Coralli di granchi, leggi: gusci. / Gioca il mare, chi gioca – è grullo. // … Giochiamo, allora / a conchiglie», «Dalle imposte verrà l’indizio? / Stanza allestita a precipizio, / sul fondo grigio – bianco sporco, / stanza minuta, stanza brogliaccio», «Scaffale? Caso. Stampella? Caso. / Caso pure quello spauracchio / di poltrona. Sterpume e seccume ‒ / bosco d’ottobre bello e buono!».

Come si evince dai versi riportati, il tono di questi poemi è concitato, esaltato, oracolare e insieme frantumato in un respiro ansioso, sottolineato dai continui punti interrogativi ed esclamativi, quasi la poetessa cercasse in sé e in chi legge o ascolta conferme e risposte a domande lanciate nel vuoto, con la speranza di una realizzazione del desiderio o con l’angoscia di una sofferenza inutilmente repressa. Esponente di spicco del simbolismo russo, in un primo momento vicina all’energica oratoria di Majakovskij, poi rivolta a una riflessione più controllata ma sempre audacemente innovativa, Marina Cvetaeva utilizzò nei Poemi un linguaggio di grande forza espressiva, basato sull’uso della metafora, della ripetizione e della negazione, con un’originale e accorta attenzione agli effetti fonici e all’ordito sonoro dei versi, all’impiego di rime provocatoriamente facili e di costruzioni sintattiche disorientanti.

Nata a Mosca nel 1892, figlia di un filologo e di una musicista, crebbe in un ambiente colto e raffinato, iniziando prestissimo a scrivere versi. Nel 1911 sposò uno studente di filosofia, Sergej Efron, che arruolatosi allo scoppio della rivoluzione nella Guardia Bianca, fu in seguito coinvolto in atti di terrorismo, per venire infine imprigionato e fucilato come traditore nel 1941. Con il marito e i figli era emigrata dapprima a Praga, quindi a Berlino e a Parigi, per poi tornare in Unione Sovietica nel 1939. Qui visse per altri due anni tormentata da problemi economici, dalla censura stalinista e dall’ostilità degli intellettuali di regime: difficoltà dolorose che la indussero a togliersi la vita, impiccandosi il 31 agosto 1941 all’ingresso dell’izba che aveva affittato nel villaggio di Elabuga. Nel suo Poema della fine si avvertiva già il presentimento della morte ineluttabile e liberatoria: «Casa, ovvero; da casa via, / dentro la notte. / (A chi dirò / la mia mestizia, la sventura, / l’orrore, più che gelo verde? … )  // … Non si deve, dunque. / Non si deve, allora. / Piangere non si deve. // … Con cocente sangue / si paga – non si piange. // … Il corpo c’era, vivere voleva. / Non vuole vivere, ora. // … E via, dentro i flutti cavi / di tenebra – cadenzato, ricurvo ‒ / senza far motto, senza scia – / come affonda un vascello».

Così scrive Paola Ferretti nell’importante introduzione a questo volume di Marina Cvetaeva, «I Poemi degli anni Venti traboccano di reciproche risonanze, vibrano degli stessi, elettrici impulsi, dominati come sono dalla volontà di oltrepassare le barriere della finzione per generare accadimenti e incontri palpabili, porre riparo a eventi già occorsi, istituire orizzonti inediti».

 

© Riproduzione riservata       https://www.sololibri.net/Sette-poemi-Cvetaeva.html       3 maggio 2019

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D’ARZO

SILVIO D’ARZO, CASA D’ALTRI – GARZANTI, MILANO 2023

In questi primi quattro mesi del 2023, sei case editrici italiane hanno ripubblicato Casa d’altri di Silvio D’Arzo: Feltrinelli, Rea, StreetLab, Garzanti, Alter Ego, Gilgamesh. Come mai tanto interesse per un testo di settant’anni fa? Perché si tratta di uno dei racconti più belli del nostro Novecento, definito da Montale “perfetto”, sospeso tra liricità e costruzione romanzesca, e ancora oggi apprezzato dai critici per lo stile sobrio e curato, e perché pur nell’esilità della trama riesce a tratteggiare con maestria lo sfondo naturale in cui si muovono sia i due protagonisti sia la comunità circostante.

Silvio D’Arzo (Reggio Emilia 1920-1952), pseudonimo di Ezio Comparoni, pubblicò in vita un romanzo e molti racconti su riviste, ma non fece in tempo a vedere stampato questo suo capolavoro, il cui primo nucleo compositivo risale al 1948. Rifiutato da Bompiani, Einaudi, Vallecchi, fu infine accettato da Sansoni nel 1953, grazie all’interessamento di Giorgio Bassani.

Ambientato nel paesino di Montelice sull’Appennino emiliano (poche case sparse sulle pendici della montagna, collegate da un’unica strada impervia che si arrampica tra i boschi e un torrente), il racconto si svolge in un periodo indeterminato del secondo dopoguerra, mantenendo però tracce di usanze molto più arcaiche. D’Arzo è attento a rendere l’atmosfera cupa che domina gli scarsi eventi narrati, utilizzando i fenomeni atmosferici e i colori di cui si riveste la natura: “Tutto il giorno era piovuto e piovuto come capita solo da noi… I fossi erano già grigi di acqua, il canale era in piena, dalle gronde rotte l’acqua cadeva a gomitoli, e non una gallina od un cane o una talpa dalla piazzetta fino in fondo alla valle…  L’aria cominciava a farsi color neve sporca e le case all’intorno erano più livide e fredde del sasso. Per le strade non c’era nessuno… Adesso era uscita la luna: ma c’era così freddo all’intorno che pareva rabbrividire anche lei… L’aria intorno era viola, e viola i sentieri e le erbe dei pascoli e i calanchi e le creste dei monti…anche i sassi a quell’ora eran tristi, e l’erba, ormai di un color quasi viola, era ancora più triste… I calanchi ed i boschi e i sentieri ed i prati dei pascoli si fanno color ruggine vecchia, e poi viola, e poi blu…”. Le connotazioni paesaggistiche sono sparse simmetricamente e ripetute nelle pagine, così come succede con alcune cadenze dei dialoghi e dei soliloqui, e come le due scene di funerali che aprono e chiudono il testo.

Pioggia, neve, aria e acque torbide. In questo panorama avvilito e deprimente si muove la figura massiccia del protagonista, un parroco sessantenne ormai del tutto assimilato al territorio, che trascina le sue giornate e i suoi uffici tra riti stanchi e una fede vacillante.

In tale modo ne parla a un giovane sacerdote venuto a fargli visita, predicendogli a ragione un futuro di rassegnazione simile al suo: “«E che cosa succede?» mi chiese unicamente per educazione. «Niente, v’ho detto. Non succede niente di niente», cercai di rifarmi. «Solo che nevica e piove. Nevica e piove e niente altro… E la gente – conclusi – se ne sta giù nelle stalle a guardare la pioggia e la neve. Come i muli e le capre»”.

Muli, capre, cani, mucche. Uomini che portano le bestie al pascolo la mattina e rientrano tardi la sera, donne rinsecchite che lavorano nelle stalle o vanno a raccogliere la legna, ragazzini che si divertono facendo i dispetti fuori dalla chiesa. Ecco che però qualcosa accade, improvvisamente. Il parroco aveva osservato in più occasioni una vecchia lavare i panni nel canale: “E lei sempre laggiù, china sopra i lastroni di pietra. Affondava nell’acqua gli stracci, li torceva, sbatteva e via ancora. E senza fretta o lentezza. Così: e senza mai alzare la testa”. Una sera l’anziana lavandaia si presenta in canonica, e gli pone timidamente, quasi vergognandosi, una domanda sulla possibilità che la Chiesa ammetta e perdoni, in casi eccezionali, una grave colpa, un peccato mortale, come ad esempio la rottura del matrimonio. Il prete intuisce che la richiesta della donna nasconde una diversa verità, forse una innominabile sofferenza, ma non riesce a scalfire ulteriormente il riserbo di lei.

Per mesi l’incontro tra i due non si ripete. Il sacerdote continua a vedere l’anziana lavare i panni nell’acqua gelida, sempre più affaticata e scontrosa, e cerca di informarsi su chi sia. Scopre che si chiama Zelinda Icci e, arrivata da poco in paese, vive con la sua capra in una baracca fuori dall’abitato, come “un uccello sbrancato”. Tenta ancora di avvicinarla, confessando però a sé stesso la propria inadeguatezza davanti al dolore altrui: “Ormai io ero un prete da sagre: ero un prete da sagre e nient’altro… Sagre, olii santi, un matrimonio alla buona, ecco il mio pane oramai… E pensai a quel che invece ero a vent’anni, quando leggevo di tutto, e nel Seminario per giunta mi chiamavano il Doctor Ironicus”.

La vecchia si fa viva una seconda volta, portando in parrocchia una lettera che subito dopo torna a ritirare, pentita. A questo punto una spiegazione diventa più urgente e necessaria, e il suo antagonista, reso inquieto dallo strano comportamento di lei, la affronta, esigendo un chiarimento.

Non rivelerò il segreto che l’anziana lavandaia confida all’uomo di Dio, ma invito chi mi legge a trovarlo nelle pagine di Silvio D’Arzo, il quale merita almeno il nostro ricordo, perché se non avesse avuto la sfortuna (tra tante altre) di morire a trentadue anni di leucemia, sarebbe probabilmente diventato uno dei nostri maggiori scrittori novecenteschi. Dirò solo che il titolo Casa d’altri, adombra l’inappartenenza, l’estraneità di entrambi i protagonisti alla vita e alla Chiesa, precari inquilini di un’esistenza appena tollerata, come ribadisce la frase conclusiva pronunciata dal parroco: “Allora mi vien sempre di più da pensare ch’è ormai ora di preparare le valige per me e senza chiasso partir verso casa. Credo d’avere anche il biglietto. Tutto questo è piuttosto monotono, no?”

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 19 aprile 2023

RECENSIONI

D’ELIA

GIANNI D’ELIA, FIORI DEL MARE – EINAUDI, TORINO 2015

Tredici “sale” in cui il pesarese Gianni D’Elia racconta in Fiori del mare: «Nature morte e schizzi / Ritratti e paesaggi / La Riviera dei vizi / E dei mille miraggi»; la sua terra, quindi, com’era nella sua infanzia e com’è adesso, «Tra l’ultimo ventennio / Del fosco Novecento / E il gran fuoco d’incendio / Del Terzo Millennio».

Sempre obbedendo al severo richiamo etico e politico che ha contraddistinto la sua poesia dagli esordi, ma ora forse maggiormente attento a sfumature più elegiache e descrittive: «qui, dove il mare steso un panno azzurro / sbatte a un filo”; “alla finestra tetti imbiancati, / un plumbeo cielo tacito sui viali…». Amici, amori, spiagge, prati; ma anche capannoni dismessi, inquinamento, droga, migranti e barboni, comunismo dimenticato e fascismo strisciante: «La circonvallazione industriale, / le rotatorie al posto dei semafori; quelli che senza affitto e senza paga / s’accucciano in cartoni, stracci storti…; Le ragazzine rom urtano i pasti, / le sieste delle belle e riunte spose, / gli yacht alla fonda e i grandiosi fasti / degli ebbri ricchi e delle troie in pose…; Bisca, bordello, pappatoia, alcova / la gente della notte va all’assedio».

Risentita coscienza civile che sembra cercare una sponda rigorosa nelle scelte formali, reiterate ossessivamente, quasi manieristicamente, per tutto il volume: quartine in metrica varia, dagli endecasillabi ai senari, con rime musicalmente ridondanti, e l’uso retorico dei tre puntini di sospensione finali (molto utilizzato da un altro poeta marchigiano, De Signoribus : entrambi memori forse della lezione di Holan). In uno stile che ricorda – più dei maestri citati in quarta di copertina, Leopardi e Saba – molti versi di Giudici («Ventre lucente / d’amata spuma, / cresta ridente, / mia marea bruna…» non ci riporta forse a «Pancia -sulla quale / poso la guancia //…Letto di piume / al mio fiume»?
Così numerose immagini di mare e adolescenza paiono inserite nel solco tracciato da Caproni, da Penna: poeti della tenerezza.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Fiori-del-mare-Gianni-D-Elia.html           7 gennaio 2016

 

RECENSIONI

D’ELIA

GIANNI D’ELIA, 1977 – SIGISMUNDUS, ASCOLI PICENO 2011

Ha senso ripubblicare oggi un testo uscito nel 1986, e ripubblicarlo esattamente com’è stato scritto allora, con l’uguale prefazione di Roberto Roversi? Non pare aver avuto dubbi in proposito Gianni D’Elia, uno dei nostri poeti più noti, che ripropone questo “1977“, “non una prosa… ma un poema. Poema a diario o epistolare, che sembra non finire mai e procedere più per grida che per sussulti…”: con un prefatore che si interroga sul valore letterario dell’opera (“un poco appare… perfino tedioso… Perché la vicenda è monocorde…  produce senz’altro un senso di oppressione affatto liberatoria…”). Sono lettere, sfoghi, appunti, meditazioni, dichiarazioni d’amore che il protagonista invia a una lei forse amata e desiderata, forse solo complice di letture e passioni intellettuali: mai interrotte da alcun segno di punteggiatura, a seguire un flusso di pensiero ossessivo, allucinato, morboso, che pedina ogni involuzione e sobbalzo della mente, scruta e palpeggia tutti i sintomi di eventuali malattie mortali, commenta libri e film più con disappunto che con passione, viaggia inseguito da una perenne ansia tra Roma, Bologna, Parigi e la provincia natale. Il lui narrante è un trentenne che fa il praticante in uno studio legale, ma vorrebbe cambiare lavoro, sogna di scrivere e trascorre i giorni in osmosi con suoi personaggi mentali di un mai concluso romanzo e film, vive in una petulante e mal sopportata famiglia piccolo borghese, medita con fastidio sulla banalità della politica nazionale, sognando improbabili rivoluzioni popolari. “1977” è il diario di quattro mesi autunnali di quell’anno fatidico, con i protagonisti della cultura e del sociale di allora, un libro che narra “un corpo né troppo sesso né troppa violenza un po’ di morte tanta in divenire la crisi esistenziale di un io politico che si ammala di poesia se questa è davvero una trappola…”. Anni-trappole di paura e di disperazione, quelli: e un eroe malato di incubi e disillusione, da non rimpiangere.

IBS, 14 giugno 2011