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RECENSIONI

D’HOLBACH

PAUL H.D. d’HOLBACH, SAGGIO SULL’ARTE DI STRISCIARE – IL NUOVO MELANGOLO, GENOVA 2009

 

Dieci paginette circa, suddivise in altrettanti paragrafi, costituiscono questa Facezia filosofica tratta dai manoscritti del defunto barone d’Holbach (come recita il sottotitolo). Il titolo del breve trattato suona invece nella sua interezza così: Saggio sull’arte di strisciare. Ad uso dei Cortigiani.

L’autore è Paul H.D. d’Holbach (1723-1789), sulla cui esistenza ci ragguaglia la nota biografica a conclusione del volumetto, curata da Francesco Chiossone. D’Holbach era nato da una famiglia piccolo borghese nello stato tedesco del Palatinato, aveva ereditato il titolo nobiliare da uno zio, aveva studiato all’università olandese di Leida e si era quindi trasferito a Parigi, naturalizzandosi francese. Amico di Diderot, aveva collaborato alla stesura di alcune voci dell’Enciclopedia. Dopo la morte precoce dell’amatissima prima moglie, si votò a un convinto ateismo, e a un conseguente anticlericalismo, in ossequio alla sua fede illuministica. Nel 1766 scrisse Il Cristianesimo svelato, un radicale attacco alla religione, considerata un ostacolo al pieno e libero dispiegarsi della ragione. Convinto che potere religioso e potere politico costituiscano il fondamento di ogni assolutismo, pubblicò numerosi libelli polemici, affermando che la Chiesa derivava il suo ascendente sul popolo dal sostegno delle varie monarchie (“Senza Costantino, Gesù Cristo sulla terra avrebbe fatto un’assai magra figura”). La sua opera fondamentale fu il Sistema della natura, condannata al rogo perché esprimeva una visione del mondo totalmente materialistica a atea, basata su tesi scientifiche che escludevano qualsiasi ipotesi creazionista e finalistica della vita. In tarda età, gli interessi del barone d’Holbach si rivolsero soprattutto a temi etici e politici, alla promozione di ideologie progressiste di rinnovamento sociale, sempre nella prospettiva di una maggiore libertà dalle superstizioni e laicità di pensiero.

Questa lunga premessa biografica per introdurre il saggio di cui ci occupiamo, uscito postumo, animato soprattutto da un intento satirico nei confronti dei lacchè che popolavano la Corte francese, nutrendo ambizioni economiche e di potere, e macchiandosi di varie colpe, tradimenti, meschinità, sotterfugi, adulazioni e adescamenti puri di ottenere i loro scopi.

“Cortigiani vil razza dannata”, canta Rigoletto, esprimendo così una verità universale ed eterna, che riguarda tutte le anticamere di tutti i palazzi, i parlamenti, le basiliche del mondo. d’Holbach esprime tutto il suo disprezzo verso la cortigianeria in maniera intelligentemente subdola, offrendo ironicamente i suoi consigli su come strisciare al cospetto dei potenti.

Eccone un florilegio, nella traduzione di Emanuela Schiano di Pepe:

“L’uomo di Corte è senz’ombra di dubbio il prodotto più bizzarro di cui dispone la specie umana. Si tratta di un animale anfibio, che spesso assomma in sé ogni sorta di contraddizione… Infatti un cortigiano è a volte insolente e a volte vile; può dar prova della più squallida avarizia e della più insaziabile avidità così come di un’estrema magnanimità, di una grande audacia come di una codardia vergognosa, di un’impertinente arroganza e della correttezza più calcolata… Il cortigiano ben educato deve avere uno stomaco tanto forte da digerire tutti gli affronti che il suo padrone vorrà infliggergli… Per vivere a corte è necessario un dominio assoluto dei muscoli facciali, al fine di ricevere senza batter ciglio le peggiori mortificazioni…  Il cortigiano deve ingegnarsi per essere affabile, affettuoso ed educato con tutti coloro che possono aiutarlo o nuocergli; deve mostrarsi arrogante soltanto con chi non gli serve a niente…  Un buon cortigiano non deve mai avere un’opinione personale, ma solamente quella del padrone o del ministro… Un buon cortigiano non deve mai avere ragione, non è in nessun caso autorizzato ad essere più brillante del suo padrone… deve tenere ben presente che il Sovrano e più in generale l’uomo che sta al comando non ha mai torto. […] La nobile arte del cortigiano, l’oggetto essenziale della sua cura, consiste nel tenersi informato sulle passioni e i vizi del padrone… Gli piacciono le donne? Bisogna procurargliene. È devoto? Bisogna diventarlo o fare l’ipocrita. È di temperamento ombroso? Bisogna instillargli sospetti riguardo a tutti coloro che lo circondano… La vita del cortigiano è un perpetuo impegno”.

 

© Riproduzione riservata       3 febbraio 2020

https://www.sololibri.net/Saggio-sull-arte-di-strisciare-Thiry-d-Holbach.html

 

 

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DABISHEVCI

DONIKA DABISHEVCI, LA TUA ROBINJA – ENSEMBLE EDIZIONI, ROMA 2017 (e-book)

Donika Dabishevci è una poetessa kosovara nata nel 1980 a Pristina. Laureata in letteratura albanese, nel 2013 ha conseguito un dottorato all’Università di Tirana. Autrice di tre raccolte poetiche, lavora oggi come docente universitaria nella sua città natale. La tua robinja, a cura di Gëzim Hajdari, raccoglie 47 poesie erotiche scritte nel dialetto gegë dell’Albania del Nord: la casa editrice romana Ensemble ha pubblicato questo suo primo libro in italiano, con testo a fronte.

Nei suoi versi Donika celebra l’amore fisico vissuto con prepotenza e assoluta veridicità, senza scadere mai in una terminologia volgare, ma assorbendo atmosfere classiche e orientali. C’è, ad esempio, tutta l’eredità di Saffo in questo componimento: “Sento il tuo profumo, il mio corpo trema, la mia anima sussulta, non tardare a venire, la mia anima si spezzerà se non mi raggiungerai, più forte della morte è il mio desiderio per te”, e suggestioni arabeggianti affiorano nella vaghezza di questi altri versi: “Voglio essere un frutto maturo del tuo giardino, un frutto radioso che gioisce di cadere nelle tue mani al volo, il tuo morso brezza e coltello nel cuore”.

Il dono di sé all’amato diventa preghiera e insieme imperativo, voce di donna che non conosce esitazioni o pudori nel darsi, celebrazione di vita e vagheggiamento di morte, in una danza folle di Eros e Thanatos, come suggerisce il prefatore: “Non vedi le mie labbra rosse? Appaga la mia sete”, “Ti donerò respiro, ti donerò anima, ti donerò vita, a te, che tacci come un sasso, io, creatura di luce”.

Risuonano evidenti anche echi catulliani, non solo del celeberrimo Odi et amo (“Ti amo e ti odio”), ma anche dell’emozione divorante che impedisce qualsiasi altro appagamento fisico “ho perso il sonno, inseguo nella notte le rosse orme dei sogni”, “L’anima mi duole, nella mia pelle spine, non dormo”. La fisicità esplicita del desiderio ricorda in alcune espressioni la nostra Alda Merini (“Vieni, prendimi, toccami, amami, fammi impazzire, entra dove sai entrare”, “Sei il mio signore senza le briglia, e io fremo di desiderio, non temo nulla in questa vita vuota, toccami, niente parole”, “Voglio che tu sia maschio, senza veli sul corpo, che mi scavi a fondo, giunco incendiato che si scioglie nelle mie acque”, “Il mio fuoco trasformerà in cenere e fiamme ogni tuo desiderio, sono pronta a incendiarti, come una belva feroce e docile ti donerò segni di ferite”).

Solo dagli anni ’90 in Albania i letterati hanno potuto esprimere più liberamente e senza censure la loro sensualità: durante la dittatura di Enver Hoxha erano vietati i temi più schiettamente biografici e individualisti, o altri di ispirazione metafisica e spirituale, ritenuti espressione della morale e dell’estetica borghese dell’Occidente capitalista; gli autori venivano esortati a essere “l’occhio, l’orecchio e la voce della classe proletaria”, secondo un famoso slogan del Partito Comunista.

Donika descrive se stessa come dispensatrice di luce, di vitalità, di gioia, di fronte al suo uomo spesso irrigidito in un inerte timore o nell’egoistica indifferenza che lo rende insensibile e codardo. Entrambi si salveranno solo lasciandosi trasformare nella bellezza eterna degli elementi naturali, foglie-erba-fiori-nuvole-ruscelli, e fondendosi con il tutto: “Luna e sole diverrò”, “Un giorno, tu e io, non ci saremo in questo verde, ci dissolveremo nel vuoto del tempo. Tu diverrai una palude, io una lava vulcanica, tu, un torrente infuriato, io una scia di luce di arcobaleni e pioggia”. Il titolo stesso della raccolta si riferisce alla leggenda che riteneva Robinia una fanciulla-trofeo per i guerrieri vittoriosi in guerra: (“Sono la tua robinja folle di te mio signore”). Di una tale esaltazione amorosa, anche le divinità saranno gelose, secondo la più classica delle tradizioni mitologiche: “che dio possa vedermi crepando di invidia e morire per la disperazione. Oi, oi, oi…”.

 

© Riproduzione riservata     https://www.sololibri.net/La-tua-robinja-Dabishevci.html     11 ottobre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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DABROWSKA

KRYSTYNA DĄBROWSKA, LA FACCIA DEL MIO VICINO  – VALIGIE ROSSE, VECCHIANO (PI), 2017

La poetessa polacca Krystyna Dąbrowska (1979) ha pubblicato diverse raccolte di poesie, tradotte in molte lingue e insignite di prestigiosi riconoscimenti. Con questo volume ha vinto il premio Valigie Rosse 2017, ed è appunto l’omonima casa editrice toscana che l’ha pubblicato, con una approfondita introduzione del curatore Leonardo Masi.

Masi nel sottolineare la vitalità della poesia novecentesca in Polonia (ricordando i tre celebrati maestri Miłosz, Herbert e Szymborska, e i più recenti Zagajewski e Lipska), evidenzia come la nuova generazione – aprendosi anche a un più coraggioso sperimentalismo e all’assimilazione di influenze soprattutto statunitensi – si stia caratterizzando per un deciso rinnovamento semantico e un’acquisizione di stili più audaci e originali. Tra i giovani poeti, proprio Krystina Dąbrowska si è messa in luce per la semplicità della sua scrittura, vivace e ironica, attenta alle persone, curiosa verso ogni avventura del cuore e del pensiero, estranea alla metafisica e alla profondità meditativa: una scrittura energica, in movimento, immersa nel quotidiano. La sua poesia, così legata alla visualità, è debitrice a una formazione artistica di tutto rispetto: Krystyna, esperta di pittura, viaggiatrice e fotografa, si è laureata all’Accademia delle Belle Arti di Varsavia, e proprio nel ritratto ha trovato il suo particolare accento interpretativo.

«Variazioni sul tema dello sguardo, di uno sguardo declinato in tanti modi diversi», commenta Leonardo Masi: «Da che punto guardare per vederti? / Da vicino o da lontano? E da che tempo? / Se mi allontano per inquadrarti / dalla testa ai piedi, come una tela sul cavalletto, / sento che sei tu a prendermi, / a cambiarmi, aggiungere e togliere colore».

Il guardare della poetessa si misura con il fuori da sé: nella metropolitana («Il lampo di uno specchietto. Come in un piccolo acquario / si presentano occhi, sopracciglia, bocche voraci. / Nella folla che spintona, una ragazza con mano sicura / traccia una linea sulla palpebra, si trucca le ciglia. // Giornata calda. Coppia di anziani, tesi, in silenzio, / con un nipote magrolino, tutto imbacuccato. / Nel vagone quasi vuoto stanno davanti alla porta / come se dovessero scendere tra un attimo. Ma vanno oltre»). A Gerusalemme, davanti al Muro del Pianto, dove i vecchi rabbini pregano su sedie di plastica bianche. Il ballerino di flamenco truccato da donna per ricordare la sorella uccisa durante la guerra. Due persone nel parco e due uccelli sugli alberi, diversi e uguali nell’essere indifferentemente coppie. Una venditrice di scope. O il bellissimo trittico dedicato al vicino di casa, «un professore / a cui è morta la moglie // … un signore impeccabile / che attraversa la sua vita ordinata / come ogni mattina attraversa il cortile».

Tante facce, in questi versi, e dietro le facce tante storie. Anche la storia di una Polonia ferita, divisa, straziata da persecuzioni e dittature, ma raccontata con inquadrature di sbieco, spiazzanti e pudiche, come in improvvisi flash di Polaroid recuperate da un ripostiglio. Allora l’omaggio a Henry Cartier-Bresson, «il tale con la Leica», è doveroso e riconoscente, perché il maestro fotografando «Era loro ed era a lato, girovagava, scrutava, / paziente, veloce, modesto e sfacciato // … Che conosceva la gente / lo si capiva da come ne mostrava l’assenza». Così si propone di fare Krystina, nei suoi versi, fissando facce e gesti, silenzi e urla, solitudini e affollamenti. Con un occhio che è il suo, e avvicinandola agli altri contemporaneamente la allontana, distanziandola anche da chi ama ed è amata: «Non so dire noi, a meno che noi / non sia quel trattino fra l’io e il tu / che conduce la scintilla e a volte / è il prolungamento di una linea».

AD UN INCROCIO

All’incrocio di due strade strette e trafficate / ‒ una ripida come cascata / si rovescia impetuosa nella corrente dell’altra ‒ / stanche e affamati facciamo una sosta. // Nella vetrina luminosa di un bar, il padrone / scuote la saliera come un aspersorio / sul cartoccio con le melanzane / e i fiori di zucca caldi in pastella. // Cornucopia croccante! Ci sediamo davanti al bar / sugli sgabelli come trampoli fra la spazzatura / e guardiamo la gente. Donne sugli scooter / nella folla di pedoni, coi bimbi penzoloni come scimmie, // un branco di ragazzine alla caccia serale, / gli ombelichi all’aria, come mirini all’erta. // Emigranti: africani, slanciati come alberi / (la gente del posto al confronto sono cespugli tozzi) // e donne del Pakistan che con la fiacca negli occhi, / portano il silenzio nel clamore. Ad un incrocio / la gioia che si incontrano i nostri sguardi, / si biforcano e convergono, distanti e intrecciati. // Tu vedi gli strati, le tribù, / io pesco le singole facce, / come se insieme dipingessimo un quadro. / E in questi quadri abbiamo una casa in comune.

 

© Riproduzione riservata           «Il Pickwick», 18 gennaio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DAGERMAN

STIG DAGERMAN, L’UOMO CHE NON VOLEVA PIANGERE – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2014

Dello scrittore Stig Dagerman, definito dai critici “il Camus svedese”, morto suicida a trentun anni nel 1954, le edizioni pistoiesi Via del Vento hanno pubblicato già due racconti. Quest’ultimo, inedito in Italia, è stato tradotto e curato da Marco Alessandrini, che nell’acuta postfazione, analizza “l’irredimibile faglia di una geologia assolutamente interiore”, “il conflitto tra fame di amore e incapacità di assimilarlo” dello sfortunato autore, il suo perenne e angoscioso vacillare tra aggressività e delusione, fuga e impegno, vulnerabilità e ribellione. Il racconto qui presentato, dall’incalzante ritmo narrativo quasi cinematografico, vive di un’atmosfera claustrofobica di tipo kafkiana: e dal maestro praghese sembra aver assorbito sia il persecutorio e ingiustificato senso di colpa che lo anima, sia il feroce sarcasmo. In un’ambientazione che continuamente oscilla tra incubo e soffocante, delirante realtà, il protagonista ci appare sia vittima innocente di un’ottusa persecuzione, sia ironico vendicatore sul conformismo sociale. Il signor Storm è un innocuo e puntuale contabile in una stimata ditta i cui contorni lavorativi rimangono nel vago: viene chiamato a rispondere, in una sorta di severo processo aziendale, della gravissima colpa di non aver versato nemmeno una lacrima in occasione della morte della più famosa e amata attrice nazionale. In effetti, mentre colleghi e superiori si lasciavano andare a moti di disperazione, singhiozzando e abbracciandosi a vicenda, Storm non era riuscito a piangere. Segnato a dito come persona gelida e indifferente, viene chiamato a rispondere di questa sua riprovevole aridità di cuore. Resiste ad accuse ed interrogatori, a pressioni incalzanti, addirittura accennando un involontario e disdicevole sorriso. Cede solo alla fine di un’estenuante requisitoria, finalmente sciogliendosi in un pianto liberatore: i cui reali e più banali motivi vengono travisati dalla stupidità zelante di chi lo circonda.

IBS, 11 settembre 2014

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DALL’AGLIO

FABRIZIO DALL’AGLIO, COLORI – PASSIGLI, FIRENZE 2014

Nell’affettuosa e approfondita postfazione al volume di versi Colori e altri colori di Fabrizio Dall’Aglio, Paolo Lagazzi ripercorre tutta la parabola del poeta reggiano, a partire dalla prima raccolta, uscita nel 1984, fino a quest’ultima: e riscontra in essa una coerenza di fondo, pur nella diversità di temi e toni, derivante dal temperamento dell’autore, da una sua «strana leggerezza…svagata nonchalance: …una refrattarietà radicale, primaria a ogni retorica, a tutte le trappole dell’ideologia, della rigidezza o del pensiero unico»».

Un’uguale «sotterranea, irriducibile dolcezza» ritroviamo in quest’ultimo volume di Dall’Aglio, tutto giocato sulle note della nostalgia, di una tenerezza che si abbandona allo sguardo indulgente su cose, persone, ricordi, natura. La prima sezione, intitolata “Colori”, ricorda certo le sfumature di alcuni versi di Bertolucci (come suggerisce Lagazzi), ma forse ancora di più la delicata serenità di Carlo Betocchi, dei suoi cieli azzurri, dei tetti rossi, delle estati gialle, nelle pennellate impressionistiche e ariose di alcuni versi: «Ma forse ci fu un giorno / che il cortile / gridò di bianco / come un filare steso di lenzuola».

L’infanzia del poeta si riaffaccia vivida nelle poesie dedicate al piccolo borgo di Macigno, poco lontano da Canossa, di cui ricorda la vecchia casa nel verde («Sono arrivati gli alberi. Li ho visti / abbracciarsi sotto il campo di casa / stringersi tra le balle di fieno»), e nell’unica struggente prosa (Il fiume), animata dalle acque del torrente Crostolo, dal greto attraversato coi sandali di gomma, in cerca di pesci, tra i mulinelli della corrente, le alghe e i rovi dei cigli. Acqua che diventa metafora del cambiamento, e del tempo che scorre implacabile, allontanandoci dal nucleo primigenio della nostra storia personale.

E proprio il tempo è protagonista dell’ultima sezione del libro, forse la più riuscita, di Dediche ad amici presenti o lontani, alla moglie, a poeti noti o emergenti, sempre alla ricerca di una memoria comune o accomunante, di un momento prezioso e condiviso a cui aggrapparsi, da non lasciar sfuggire: «Gente. Persone. Qualcuna si è affrettata / nel tempo in cui / il passato continuava / a passare. Qualcuna è già sparita», «Il tempo non ha fretta, oggi. / Veste un pigro mantello a ruota / da cui sporge un giorno già lontano, / la sua carcassa vuota», «Ti ricordi il secolo? / Mi pare che vestisse in uniforme / con rosse spalline». «È morto il tempo, te ne sei accorto? / Agonizzava già da qualche giorno, / forse da mesi o anni».

Quali colori hanno quindi i ricordi, nella poesia di Fabrizio Dall’Aglio? Non certo bigi o funerei, piuttosto luminosi di una qualche nuova speranza da cui attingere gioia, gratitudine, forza, come in questi bei versi: «Indietro, indietro, là, era la forza, / nel culmine di me che cancellavo / per nascere di nuovo – la mia svolta, / il termine del tempo dell’attesa».

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Coloriealtricolori-Fabrizio.html     26 marzo 2016

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DAMIANI

CLAUDIO DAMIANI, POESIE – FAZI, ROMA 2010

Presso l’editore Fazi è uscito un volume antologico del poeta romano Claudio Damiani, che raccoglie testi pubblicati dal 1987 ad oggi. Nella sua ammirata ed affettuosa prefazione, Marco Lodoli afferma che in questi versi, classici e cristiani insieme, l’autore «sogna un’eternità che comprenda il prima e il poi, l’ora in cui ancora non eravamo e quella in cui forse ci ritroveremo senza più dolore…» E in effetti, la poesia di Damiani ben si può definire classica, nutrita di «distesa purezza», come suggerisce il prefatore. Soprattutto nella prima parte del volume, scandita in  elegie ed  odi, e tanto immersa nella stupefatta contemplazione di una natura innocente ed eterna, i nomi di riferimento che più vengono in mente sono quelli di Virgilio (Le Bucoliche e Le Georgiche), con i suoi pastori, le stalle, i vitellini, i fiumi e i giardini. Ma anche Catullo e Ovidio non sono lontani dalla sensibilità del poeta. E poi si riconosce in lui una voce limpida e gentile che si rifà a una collaudata tradizione novecentesca: dai crepuscolari a Saba, a un Penna innamorato dei colori («il cielo è azzurro azzurro»). Molti vocaboli desueti evidenziano una ricercatezza e ed eleganza quasi ottocentesca, che tuttavia non disturba, ma bene si accompagna al tono pacato e intenerito dei versi (opre, guata, mira, fere, verno, lene..), alla loro esibita antimodernità: «non vorrei sentire il suono del calesse / del lattaio che viene dalla lontana strada». Il dialogo con la natura è ininterrotto e riconoscente: essa mai appare minacciosa, ma sempre innocua, pulita, rasserenante. La vegetazione viene narrata con attenta precisione: i nomi che tornano sono quelli degli eucalipti, del noce, della gramigna, della lonicera, e del mirto che nella sua crescita imprevista e sovrabbondante ricopre con generosità una tomba abbandonata. Anche gli affetti umani sono indagati con tenerezza e gratitudine: quelli per la moglie, per i figli piccoli e da proteggere con amore, per gli alunni con «la loro libera gioia / come una cascata luminosa», o per gli amici precocemente scomparsi. E la morte è presente ovunque, ma priva di drammaticità o angoscia: quasi come una continuazione della vita in un’eternità che tutto abbraccia e consola, senza una reale distinzione tra l’esserci e il non esserci più. Una visione cristiana, forse, perché il poeta prega, e crede nella bontà del tutto; ma se nel cristianesimo esiste anche il peccato, la colpa, la condanna, Damiani non se ne fa interprete: la sua è una visione irenica, riappacificata, dell’esistente, più vicina -come giustamente suggerisce Lodoli – alla serenità del taoismo che alla drammaticità della croce cattolica. C’è in ogni poesia un invito all’attesa, alla sospensione, al fiducioso abbandono in una forza cosmica positiva e riparatrice. L’uomo appartiene alla natura, come le foglie, come le formiche, e vive la caducità del suo passaggio mortale con tranquilla accettazione e religiosa obbedienza alle leggi del creato: «restiamo ancora un po’ in quieta attesa / mantenendo l’animo vigile, e quieto, / ringraziando il cielo per ogni più piccolo dono, / per ogni istante di vita ancora uno davanti all’altro»» , «che bello che non siamo eterni, / che non siamo diversi / da nessun altro che è vissuto e che è morto, / che è entrato nella morte calmo / come su un sentiero che prima sembrava difficile, erto / e poi, invece, era piano», «e quando moriremo questo paradiso / che noi abbiamo trovato, che era per strada / sotto gli occhi di tutti, / lo porteremo con noi sotto terra / e anche sotto terra continuerà a brillare», «Morire è come nascere / qualcosa che non è che dobbiamo fare noi».

Essere felici di tutto, e del poco; sentire la solidarietà e l’uguaglianza con ciò che ci circonda, sia esso vivente o inanimato come le montagne; non fermarsi a osservare le brutture: «vorrei montare sulla mia biciclettina / n.14 e pedalare tra le case, / e se le case crollano / non le vorrei vedere / vorrei voltarmi dall’altra parte / e non vedere». Salvare la dolcezza: «capisce che solo la gentilezza c’è data / e che la vita vale viverla / per essere gentili». E il compito del poeta sembra essere lo stesso di quello di un pittore, magari di una paesaggista cinese del 1700, che nei suoi acquerelli delicati riproduce la bellezza tranquilla che lo circonda: «Vorrei semplicemente descrivere / quello che vedo, non altro / non mi interessa inventare / mi piace camminare / e mi piace guardare». Ecco, Damiani è un poeta di immagini: un antico, mite, indulgente, validissimo poeta contemporaneo.

 

«Farapoesia», 8 febbraio 2011

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DAPUNT

ROBERTA DAPUNT, LE BEATITUDINI DELLA MALATTIA – EINAUDI, TORINO 2013

La seconda raccolta di versi che Roberta Dapunt (Badia, BZ, 1970) pubblica da Einaudi ha un destinatario-protagonista privilegiato, incarnato nella persona malata di Alzheimer di nome Uma: la mamma, forse, o la suocera della poetessa. Un’anziana, molto amata e rispettata, che ha perso i contatti con la realtà esterna, e con il suo stesso corpo («da un giorno all’altro / non hai più detto, non hai proferito, non risposto, non / hai capito»; «Mi sorridi e d’intorno sei sospensione del tempo, / un filo d’erba che ignora il suo prato»»; «Mi hai portato nella tua mancanza di suono»; «sempre è il lungo corso che passo vicino alla tua assenza, / ospite ininterrotta della tua demenza»). Ma questa madre antica che osserva il mondo senza vedere («dal tuo dove lontano»), in piedi immobile accanto alla finestra, o seduta in attesa del niente («io vedo il tuo viso, ascetico osservare, / è nudo accadere, poiché nient’altro ti circonda»), era stata un’ infaticabile lavoratrice dei campi, una forte donna di montagna, mater familias che radunava intorno a sé la sua gente per il rito quotidiano del pranzo («tra un segnarsi di croce e un altro»), o per il rosario serale, e per la Messa alla domenica.
Persona dalla fede rocciosa e semplice («tu che insegui l’Eterno in ogni preghiera //… Mai ti ho vista nel dubbio»; «fossi io la fede sceglierei te come fortezza»), viveva in assoluta e devota armonia con il suo ambiente («Ma qui, amabile luogo, qui niente accade, / tranne che ininterrotta un’umile esistenza»): monti innevati, prati, stalle, larici, abeti, e tranquillo silenzio. Un mondo scandito dai riti religiosi – Vespri, Quaresime, Pasque – che ora si ripropone in un’inedita beatitudine, ad aggiungersi a quelle evangeliche: la beatitudine della malattia. Roberta Dapunt, che vive e lavora nel maso di Ciaminades, racconta con la stessa fede dei suoi avi, ma con qualche interrogativo in più (soprattutto riguardo all’inadeguatezza della scrittura quando deve affrontare il dolore), la sua accettazione del servizio, inteso cristianamente come accompagnamento, vicinanza, fedeltà a chi soffre: e i suoi versi, indifferenti a stilemi letterari di metrica e ricerca linguistica, testimoniano la dedizione umile di chi ancora sa affaccendarsi come Marta, profumare il corpo come Maddalena, dissetare come la Samaritana («Chiamami quando avrai finito di lavarti. / Ti vestirò le calze, ho posto le pantofole ad aspettare / i tuoi piedi dalle dita intrecciate»; «Sono nella tua demenza il potere e la direzione, / l’autorità e la volontà egemonica»). Nella consapevolezza che «non ci è dato risolvere la fede», e che, come recitano gli Atti degli Apostoli, «c’è più gioia nel dare che nel ricevere».

 

© Riproduzione riservata             «Poesia» n.285, luglio 2014

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DARWISH

MAHMUD DARWISH, NON SCUSARTI PER QUEL CHE HAI FATTO – CROCETTI, MILANO 2024

Con testo arabo a fronte, l’editore Crocetti pubblica Non scusarti per quel che hai fatto, raccolta di versi del poeta palestinese Mahmud Darwish (1941-2008). Darwish, nato in un villaggio dell’alta Galilea, alla costituzione dello stato di Israele dovette rifugiarsi con la famiglia in Libano, tornando successivamente nella sua terra nella condizione di profugo e clandestino. Per il suo attivismo politico fu più volte incarcerato e condannato agli arresti domiciliari, quindi esiliato in vari stati europei e in Egitto, in Libano e a Tunisi. Fece parte del consiglio esecutivo dell’OLP dal 1987 al 1993. Rientrato in Palestina dopo gli accordi di Oslo (1993), visse tra Ramallah, in Cisgiordania, e Amman, in Giordania. I suoi versi, conosciuti e amati in tutto il mondo e tradotti in più di venti lingue, sono stati musicati da alcuni tra i maggiori compositori arabi. Considerato il poeta nazionale della Palestina, alla sua morte, avvenuta a Houston (Texas) dopo un’operazione al cuore, l’Autorità Palestinese proclamò tre giorni di lutto nazionale, e ai funerali di stato, a Ramallah, parteciparono decine di migliaia di persone.

La raccolta da poco edita da Crocetti risale al 2004, e rappresenta una summa dei temi e dei toni di tutta la precedente produzione di Darwish. Nonostante il nome “Palestina” sia citato una sola volta, l’amore per il suo paese viene manifestato costantemente, non solo nell’allusione (più malinconica che indignata) alla sopraffazione politica subita, ma soprattutto nell’accorata nostalgia per le persone e le cose perdute nei lunghi anni di esilio, e nella descrizione dei paesaggi. L’attenzione è rivolta ai colori e ai profumi della vegetazione (ulivi, anemoni, rose, sambuchi), a ciò che si muove nell’aria (uccelli e nuvole, che rievocano immagini impalpabili di sogni, di angeli e cherubini), agli animali sempre simbolo di naturale innocenza (cavalli, colombi, gazzelle, farfalle), agli oggetti che hanno segnato l’attività quotidiana della sua famiglia (“l’eco delle cose parla attraverso la mia bocca”).

Ma anche le città arabe in cui il poeta è arrivato “come un gabbiano” sono presenti con i loro rumori, le musiche e la vivacità dei traffici urbani, le amicizie e gli amori incontrati: Tunisi, Beirut, Baghdad, Damasco, Il Cairo, Gerusalemme: “A Gerusalemme, intendo dentro le antiche mura, / cammino da un tempo all’altro // … Tutta questa luce mi appartiene. / Cammino. Divento più leggero. / Volo e mi trasfiguro”.

Memoria e oblio sono i due poli entro cui ruota la riflessione del poeta: volontà doverosa di ricordare e testimoniare, consapevolezza della caducità del tempo che tutto dissolve. Nella poesia che dà il titolo al libro, il lungo elenco dei ricordi viene riproposto dal soggetto recitante nel presente al mutato “io” che li aveva vissuti nel passato: “Non scusarti per quel che hai fatto, mi dico in segreto. / Al mio altro ‘io’ dico: // eccoli, i tuoi ricordi, tutti visibili: / la noia di mezzogiorno nella sonnolenza di un gatto / la cresta del gallo / la fragranza di salvia / il caffè della madre / la stuoia e i cuscini”.

Persistente è la memoria di altri celebri poeti – come Neruda e Ritsos, l’iracheno al-Sayyāb, il curdo Salīm Barakāt o il siriano Abū Tammām –, ma altrettanto costante è la consapevolezza della fugacità dell’esistenza, dell’impossibilità di rimanere vivi nella storia privata e collettiva del proprio paese: “Tutto quel che hai intorno è dimenticanza”, “Sarai dimenticato, come se non fossi mai stato. / Sarai dimenticato come la morte violenta di un uccello, / come una chiesa abbandonata, / come un amore passeggero / e come una rosa nella notte… sarai dimenticato”. Lo spaesamento individuale, la dissoluzione dell’io, la stanchezza dell’età che avanza (“Ho la saggezza del condannato a morte”, “voglio una morte in giardino / niente di più e niente di meno!”) sono senz’altro fattori di inquietudine personale, ma riflettono anche i timori e le incertezze di un intero popolo. Il sopruso patito dalla Palestina ha per il poeta valenza universale, diventa il male sofferto da ogni vittima a causa della ferocia del potere, in tutti gli ambiti in cui viene esercitato. Nell’ode Al nostro paese (definito “vicino alla parola di Dio, minuscolo come un seme di sesamo, povero come le ali di un gallo cedrone, bottino di guerra”), si avverte la tragica profezia dello sterminio che oggi sta vivendo Gaza: “Il nostro paese, nella sua notte insanguinata, / è un gioiello che brilla per le distanze più lontane / e illumina ciò che è al di fuori di lui… / Quanto a noi, dentro, / soffochiamo ogni giorno di più!”

Nonostante la sofferenza dell’esiliato, del prigioniero, del testimone di una guerra che insanguina e distrugge da decenni la Palestina, Mahmud Darwish pronuncia ancora parole di speranza, ancora incoraggia la sua gente alla resistenza, e si dice fiducioso in un futuro di pace: “Un altro giorno verrà, un giorno femmineo, / alla metafora trasparente, compiuto, / diamantino, di visita nuziale, soleggiato, / fluido, allegro. Nessuno sentirà / alcun bisogno di suicidio o di migrazione… // Nessuna polvere, nessuna siccità, e nessuna sconfitta”.

La sua poesia, così limpida e corale, rivela i caratteri di molte composizioni mediorientali: la descrittività attenta e partecipe, il tono colloquiale, la modulazione musicale percepibile anche attraverso la traduzione grazie alle formule ripetute come in una litania religiosa, la totale assenza di sperimentalismi linguistici, la non equivocabilità del messaggio, che – a differenza della contemporanea poesia occidentale – non lascia spazio a interpretazioni fuorvianti del lettore. La pacatezza formale delle composizioni di Darwish offre uno spiraglio all’utopia di una conciliazione tra le popolazioni di una terra tormentata.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», I marzo 2024

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DAZAI

OSAMU DAZAI, IL SOLE SI SPEGNE – FELTRINELLI, MILANO 2009

Questo intenso e tragico romanzo fu scritto da Osamu Dazai nel 1947, un anno prima del suo suicidio avvenuto per annegamento, a Tokyo, dopo tre tentativi falliti in anni precedenti. Dazai aveva allora trentanove anni, trascorsi per lo più nella dissolutezza di un vita sconvolta da alcol e droghe, ma soprattutto da insopprimibili sensi di colpa, frustrazioni, fallimenti professionali e sentimentali. Rampollo di una ricca e potente famiglia giapponese, fu testimone del decadimento sociale e culturale del suo paese durante la seconda guerra mondiale, patito con il sentimento umiliante della sconfitta disonorevole e dell’inarrestabile declino della classe aristocratica.
Il sole si spegne (Feltrinelli, 2009) narra proprio questo disperato perdersi di una famiglia benestante, dei suoi valori, della sua nobiltà interiore: attraverso la povertà, la malattia e l’abbrutimento dei suoi membri. Tutti e tre i protagonisti riflettono in parte la biografia tormentata dell’autore. La madre, dolcissima e raffinata, costretta a vendere la casa e a indebitarsi dopo la morte del marito, ma capace di mantenere intatto l’amore per i due deludenti figli. La giovane e ingenua Kazuko, che vive in adorazione di madre e fratello al punto da degradarsi e consumarsi fisicamente e moralmente per loro (tenerissimo e commovente l’addio ad entrambi), consegnandosi a un amore impuro per un vecchio e depravato artista, da cui però decide di avere un bambino nel nome di una sua personale ribellione etica in favore della vita. Il disperato fratello Naoji, incapace di crescere sia nel suo ceto aristocratico sia tra la gente del popolo, che finirà per uccidersi dopo aver dilapidato in droga ed eccessi il patrimonio familiare. Pagine, queste di Dazai, che mantengono l’incanto della migliore letteratura nipponica del dopoguerra: l’attenzione per la natura, il rispetto per la purezza dei sentimenti, l’adesione quasi ossessiva alla fedeltà nei rapporti familiari.
E l’accettazione malinconica della propria fragilità.

 

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www.sololibri.net/Il-sole-si-spegne-Osamu-Daza.html    10 gennaio 2016

RECENSIONI

DAZAI

OSAMU DAZAI, LO SQUALIFICATO – FELTRINELLI, MILANO 2017

Di Osamu Dazai SoloLibri ha già ospitato una mia recensione al romanzo Il sole si spegne, che l’autore nipponico aveva scritto nel 1947, un anno prima di suicidarsi, a trentanove anni. La vita del giovane e fragile scrittore era stata tormentata dai difficili rapporti con la famiglia, (soprattutto con lo stimato e influente padre, proprietario terriero benestante e impegnato uomo politico), dalla tubercolosi, dall’abuso di droghe e alcol, da fallimenti professionali e delusioni sentimentali che ne incisero profondamente la psiche, provocandogli frustrazioni e sensi di colpa tali da indurlo più volte a tentare di uccidersi. Questo secondo romanzo, ripubblicato recentemente da Feltrinelli, uscì nel 1948, pochi mesi prima del suo suicidio compiuto per annegamento con l’ultima delle numerose amanti: la stessa modalità di morte era stata messa in atto, precedentemente, con una giovane cameriera che non era riuscita a salvarsi.

Molti dei tragici episodi che costellarono l’esistenza di Osamu sono raccontati in questo volume, Lo squalificato, suddiviso in tre sezioni relative all’infanzia, alla giovinezza e alla maturità del protagonista, un alter ego dell’autore chiamato Yozo. Dazai-Yozo bambino (cresciuto tra molti fratelli – tutti studiosi, educati, promettenti – in una casa elegante del Giappone settentrionale, curato da una zelante servitù, sotto l’occhio austero e incapace di tenerezza dei genitori), per attirare attenzione e simpatia si ingegna in “pagliacciate” in grado di divertire familiari, insegnanti e compagni di scuola: imitazioni, travestimenti, battute salaci, buffonerie di ogni genere. «Fintanto che potrò farli ridere, non importa in qual modo, tutto andrà liscio. Purché ne sia capace, è probabile che gli esseri umani non badino troppo se rimango estraneo alle loro vite».

Gli anni del liceo e dell’università, trascorsi in vari collegi, presso lontani parenti o in squallide stanzette in subaffitto, non fanno che rinsaldarlo nella convinzione di essere un fallito, inadatto alla vita sociale, disorientato emotivamente e ideologicamente: una delusione per se stesso e per il mondo intero. «Tutto ciò che io sento, sono gli attacchi d’apprensione e terrore all’idea di essere l’unico individuo assolutamente diverso dagli altri. Mi è quasi impossibile conversare col prossimo». Trova scampo alla disperazione nell’alcol, nella droga, negli psicofarmaci e nella frequentazione di prostitute. Si abbrutisce in compagnia di amici viziosi e inconcludenti, che lo inducono ad abbandonare gli studi universitari per dedicarsi dapprima alla politica con un gruppo di esagitati marxisti, poi al disegno, senza tuttavia trovare soddisfazione e successo in alcuna delle attività intraprese. Conteso dalle donne a causa del suo fascino da “bello e dannato”, non riesce mai a innamorarsi; si sposa, diventa padre, viene ingaggiato come vignettista da riviste di quart’ordine. Poi, scoprendosi tradito anche dalla moglie, fugge di casa, diventa morfinomane ed è internato in una clinica per malattie mentali. L’epilogo della vicenda è riassunto in poche, sconfortate, parole: «Tutto passa. Questa è la sola e l’unica cosa che a pare mio s’avvicini alla verità, nella società degli esseri umani, dove ho dimorato sin oggi come in un inferno rovente».

Lo squalificato conobbe un notevole successo in Giappone e in Europa, essendo partecipe sia della composta tradizione letteraria nipponica sia delle influenze della cultura occidentale novecentesca più innovativa. In questa edizione, è introdotto da un saggio alquanto insulso del critico americano Donald Keene, che divaga con supponenza sulla questione dell’originalità della scrittura giapponese, chiedendosi se essa debba mantenersi fedele al passato o adeguarsi alle mode contemporanee.

 

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www.sololibri.net/Lo-squalificato-Osamu-Dazai.html         25 settembre 2017