Mostra: 371 - 380 of 1.318 RISULTATI
RECENSIONI

DE ALBERTI

ANDREA DE ALBERTI, DALL’INTERNO DELLA SPECIE – EINAUDI, TORINO 2017

Andrea De Alberti (Pavia 1974) ha pubblicato tre libri di versi prima di approdare alla collana bianca di Einaudi, ma è sostanzialmente un nome nuovo per il pubblico della poesia italiana. Lavora in un ristorante della sua città, e probabilmente questo raffrontarsi quotidiano con un mondo che non sia esclusivamente quello letterario e culturale lo ha aiutato in una ricerca formale e contenutistica più originale rispetto alla performance poetica attuale. Già il titolo della raccolta contiene due sostantivi-spie che ci invitano a tracciare un percorso interpretativo del testo: “interno” e “specie”. Infatti, la novità di questa scrittura (che forse mostra qualche debito nei confronti di una produzione più europea che italiana: Grünbein, tanto per azzardare un nome) consiste nel sapere coniugare un mondo affettivo privato al ciclo antropologico dell’evoluzione umana, riuscendo ad assorbire nell’universalità sovrapersonale di questo la particolarità intima di quello.

C’è quindi un padre («dove noi non capivamo tu ad occhi chiusi / come sempre ti orientavi»), una moglie, un figlio e un’infanzia («Non ti hanno mai comprato il motorino / perché facevi i compiti sdraiato per terra»). Ci sono versi che suggeriscono anche un severo autoritratto («Dentro ho una roggia prosciugata; Rimango quel poco iniettato in me stesso, / sfinito processo di una strana evoluzione»). Si citano nomi che appartengono alla cultura e all’immaginario collettivo (Jessica Lange, Salinger, Edgar Morin, Marvel, Ikea). Ma tutto questo viene in qualche modo risucchiato, minimizzato, ridotto quasi a una crudele insignificanza rispetto al trascorrere indifferente del tempo, scandito non più in ore e giorni, ma in secoli, millenni, ere. Messo di fronte allo schermo cosmico (descritto con esatta e asettica terminologia scientifica) l’io privato resta confusamente aggrappato a una sua personale e angosciante Grundfrage: «Alla fine come potremo definirci? / Esseri o prodotti di esistenze / a un minuto dall’abisso? / Qualcosa ci sostiene. / Non so se è il nostro scheletro comune, / o un’idea di essere all’interno di ogni specie»). Dai mammut agli oranghi, da Lucy alle recenti scoperte paleoantropologiche di Malapa, dai flussi migratori alla cementificazione edilizia, dalle volgarità mediatiche alle catastrofi naturali e belliche: ogni esistenza umana, animale e vegetale si ricompone nella poesia di Andrea De Alberti in un catalogo solidale e indulgente di immagini sovrapposte, in una vertigine di stupori e paure che accomunano nell’innocenza e nella colpa ogni specie, qualsiasi corpo di neonato con qualsiasi fossile, tutte le storie pubbliche e private che fluttuano sospese tra terra e cielo.

Le nostre vite non hanno quindi niente di speciale rispetto a quelle di qualsiasi essere vivente, e tuttavia rimangono assolutamente speciali e preziose: basta esserne consapevoli, rispettando “la pagina bianca” che ci è riservata dalla natura, evitando sopraffazioni ed esibizioni, proteggendo le nostre abitazioni, i nostri pensieri, i nostri cari (“Non lasciate i figli a casa” mi sembra la poesia più intensa e commovente del libro). Senza retorica o didascalismo, l’autore ci riporta all’interno della specie in versi pacati, lineari, onestamente concreti.

 

«Poesia» n. 325, aprile 2017

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DE ANGELIS

MILO DE ANGELIS, POESIA E DESTINO – CROCETTI, MILANO 2019

«Perché ristampare queste mie vecchie pagine? Perché da una parte possiedono qualcosa che mi è rimasto dentro ‒ intatto, quasi intoccabile dal tempo ‒ e dall’altra qualcosa che ho perduto per sempre. Molti temi di “Poesia e destino” sono quelli che mi scuotono ancora oggi: la tragedia, l’eroismo, l’adolescenza, il mito, il gesto atletico. Ma il tono è un altro. Il tono è furente, perentorio, imperativo, dà sempre l’impressione di un ultimatum che io pongo a me stesso e a chi mi legge. È come se da lì a poco dovesse scaturire una sentenza senza appello, l’ultimo grado di un processo dove si gioca la condanna o la salvezza. E questo tono guerresco circola nel sangue di una sintassi verticale, scoscesa, rapidissima, piena di strappi e impennate. Ora non potrei nemmeno immaginare quella corsa sulle macchine volanti della parola». Così scrive Milo De Angelis nella nota introduttiva a Poesia e destino, una raccolta di contributi critici, frammenti narrativi, dichiarazioni di poetica, pubblicata da Cappelli nel 1982, e riproposta quest’anno da Crocetti.

Il poeta milanese ammette l’attuale ammorbidimento teorico (e forse anche ideologico), in parallelo con quello stilistico-formale della sua scrittura: più tormentati, oscuri, franti i versi giovanili di Millimetri, più meditati e indulgenti quelli della maturità. Eppure, con la loro rabbiosa focosità queste prose degli anni ’80 (anni ribollenti di inquietudini, eccessi, trasgressioni) continuano a incuriosire e affascinare il lettore di oggi, pur nella loro esibita intemperanza, aggressiva ostentazione.

Il volume si divide in tre sezioni: nella prima sono raccolti articoli di critica letteraria, la seconda riflette sul tema dell’impresa e dell’azione eroica individuale, la terza attraversa l’universo del pensiero indiano, con le sue seduzioni e ansie di assoluto. La parte iniziale (Compleanni, quasi a suggerire rievocazioni da rispettare e celebrare) ci presenta una ventina di interventi che spaziano dagli omaggi ai poeti più amati – Novalis, Hoffman, Rimbaud, Cvetaeva, Campana, Celan, Barbu, ‒ alla rilettura dei miti greci, dalle considerazioni su diverse espressioni dell’esistere alle pieghe/piaghe delle moderne mode culturali: sempre privilegiando ciò che, innalzandosi dalla piattezza del reale, lo divora e lo rigetta. Meglio il silenzio piuttosto che la parola abusata, quindi; meglio gli abissi che la superficie; meglio la tragedia che la farsa, il delirio che il conformismo mentale. Il silenzio non ha un passato da nascondere, né un futuro da attendere; l’astrologia è simulazione fantastica e divinazione; le sostanze psicotrope potenziano il verbo; la poesia non deve svenarsi in elegia ma, assorbita la potenza concettuale del Logos, sfigurarla in immagine. Questa visionarietà fremente dell’autore si traduce in una prosa secca, basata su un lessico inventivo e disorientante, in giudizi trancianti e alteri («gli aloni del dormiveglia» in De Libero e Quasimodo, «l’occhio da guardone» di Penna, la «linea giornalistica» di Vergani-Ravegnani), in sintonia con l’idea principe di una letteratura assoluta, di un’arte che pretende l’inabissamento o il volo, di una poesia che si fa destino, oppure non è.

Nella sua intensa e ammirata postfazione, Lorenzo Chiuchiù scrive: «Per De Angelis la bellezza getta l’esistenza sulla soglia di un pericolo, conduce l’anima dove l’irrevocabile sembra ricapitolare nell’istante il senso o lo scacco delle vite… La poesia è l’espressione di questa legge che incombe e irrompe nelle vite e alla quale, senza esitazioni, si risponde alzandosi in piedi: rifiutando la genuflessione e senza millantare ascensioni».

Feroce nel suo odio per la calligrafia, l’estetismo, l’intrattenimento, la compassione, la commozione, la retorica, Milo De Angelis esprime nel secondo capitolo del libro la sua adesione convinta e spietata a ogni atto di resistenza e di eroismo, gratuito e non corruttibile. Con tonalità apocalittiche e incandescenti, con accenti nietzschiani e wagneriani, chiarisce cosa sia L’Impresa: «… intelligenza che si ghermisce mentre si alza e sa indignarsi con chi le chiede di essere clemente».

Chi invoca comprensione, e verrà invece calpestato? Gli arbitri, gli accattoni, i compagni di villeggiatura, gli abbronzati, gli amanti soddisfatti, gli inermi, i fratelli, i benefattori (“letamaio di aureole”). «L’impresa d’altronde è sempre quella: una pura vittoria che non spartisce il bottino: lo getteremo ai gatti ed essi fuggiranno. Rimangono solo i corpi dei bambini vili, nella polvere, a reclamare la loro parte, come dei gufi che hanno paura della notte». L’eroe si ciba di «mercenari, damigelle, fedifraghi», urlando la sua ira contro il tiepidume: «Nasce una collera, la quale afferma senza addentellati: collera che non può essere appresa e non tenterà mai di giungere alla ferita addizionando le ammaccature. Essa, frontalmente, annienta. Senza ammonimento, senza presentare gli ambasciatori… Questa collera dunque non conosce persecuzioni né angherie: amando se stessa, non risparmia e non si risparmia… Essa, imperterrita, continua a cancellare creature con sereno accanimento: non erano colpevoli e dunque non saranno riconoscenti». È parola di fuoco, quella espressa dalla poesia, non destinata a placare o a sanare. «…una parola monsonica spazzerà via la minutaglia senza mercanteggiare. Nulla sarà più medicabile. Questo è il silenzio. Nulla di morigerato, nessun mozzicone. L’impresa è imminente e gli imputati sono da un’altra parte, nel loro guardaroba o nel loro guazzabuglio».

Nella terra desertica e muta che L’impresa ha creato intorno a sé, si aprono tuttavia percorsi primitivi e vergini, Tre vie indiane che Milo De Angelis esplora nell’ultima sezione del volume, puntellata da letture, voci, episodi di antico sapore orientale. L’approfondita conoscenza dei testi sacri dell’induismo (Bhagavadgītā, Brahmasūtra, Ṛgveda, Yoga Sūtra, Viveka-Cuda-Mani, Mahābhārata…), e la meditazione sugli insegnamenti dei maestri, ha portato l’autore a penetrare i concetti fondamentali della religione induista (trasmigrazione, nirvana, riparazione nella rinascita, risveglio, Karman), che ritrova nella sensibilità di alcune grandi figure della storia e dell’arte mondiale di ogni tempo (da Pia de’ Tolomei a Gaugin, dal Principe Miskin a Pär Lagerkvist),  recuperati anche in vari incontri e scambi meditativi avuti  nel 1980, e trascritti in una sorta di diario dialogato.

Sempre con l’obiettivo di riscoprire ed evidenziare quanto la parola – la parola poetica, dell’inconscio e dello scavo interiore ‒ abbia il potere di modificare il destino di un individuo e di una collettività».

 

 

© Riproduzione riservata                  «Il Pickwick», 5 settembre 2019

RECENSIONI

DE ANGELIS

VANONI-PAOLI-DE ANGELIS, NOI DUE, UNA LUNGA STORIA – MONDADORI, MILANO 2004

Nati entrambi nel settembre del 1934, a distanza di poche ore uno dall’altra, lei a Milano (figlia di un industriale farmaceutico), lui a Monfalcone (in una famiglia della buona borghesia, con un padre ingegnere navale), Ornella Vanoni e Gino Paoli si raccontano in questo bel volume curato dal musicologo Enrico De Angelis. La coppia più glamour della nostra canzone ha segnato con le sue alterne vicende sentimentali un lungo periodo della storia italiana, puntellandola con una produzione musicale di grande rilievo e successo, perseguito sia separatamente sia in comune.

De Angelis, giornalista e storico della canzone, a lungo responsabile artistico del Club Tenco, ha saggiamente suddiviso il volume in una sequenza di decenni, dagli anni ’50 (infanzia e giovinezza dei protagonisti) al nuovo millennio, permettendo così al lettore di seguire parallelamente lo sviluppo delle vicende esistenziali dei due, nei loro incontri, collaborazioni, separazioni e ricongiungimenti affettivi e professionali.

Il primo capitolo ci presenta un’Ornella adolescente inquieta, studentessa di lingue in esclusivi college svizzeri e inglesi, quindi ventenne reclutata da Giorgio Strehler come attrice e cantante al Piccolo Teatro di Milano. Alla tormentata e osteggiata storia d’amore con il Maestro, chiusa per decisione di lei (“sono un’abbandonica”), fece seguito la notorietà raggiunta con le canzoni della “mala”, il matrimonio con l’impresario Lucio Ardenzi, l’unica maternità. Negli stessi anni, Gino trascorreva la giovinezza in Liguria, circondato da amici insofferenti di vincoli e conformismi: si chiamavano Tenco, Lauzi, Bindi, Reverberi, Calabrese, ed erano come lui appassionati di jazz, rock’n’roll, chansonnier francesi. Con loro si trasferì a Milano, poi tornò a Genova, si sposò ed ebbe il primo figlio.

Sollecitati dalle domande di De Angelis, che ne commenta con partecipe simpatia anche i tic verbali e gestuali, i due artisti parlano di sé soffermandosi con ironia sulle proprie paure, vanità e illusioni. Ovviamente chi legge tende a interessarsi soprattutto alle circostanze del loro incontro e innamoramento, avvenuto nel 1960 nelle sale di registrazione della casa discografica Ricordi, a Milano. Allora erano entrambi sposati, ma il reciproco colpo di fulmine produsse immediatamente l’ incantevole frutto creativo di Senza fine, che Gino improvvisò al pianoforte osservando le “mani grandi” di Ornella. Quel primo lampo di seduzione corrisposta sfociò subito in una relazione intensa e impaziente, intessuta di gelosie e di sospetti, ma anche di una profonda intesa artistica, di una sincera stima intellettuale e di una radicata amicizia, destinata a durare negli anni, cementandosi in una fertile collaborazione discografica e teatrale. Nelle interviste intrecciate, De Angelis invita sia Vanoni sia Paoli a illustrare le canzoni più famose, indicandone nascita e diffusione, trionfi e cadute: così il lettore viene a conoscenza di aneddoti riguardanti la realizzazione de La gatta, Il cielo in una stanza, Sapore di sale e Io ti darò di più, L’appuntamento, Tristezza; li esorta a esprimere opinioni sulla politica, sul mondo dello spettacolo, sulle letture preferite, sui grandi amori (Stefania Sandrelli e Paola Penzo per lui, Danilo Sabatini e Oliviero Prunas per lei), i numerosi flirt e la vita sentimentale attuale. I due non si sottraggono ad alcuna provocazione, anzi orgogliosamente sottolineano quanto le loro scelte di vita e ideologiche abbiano sfidato l’ipocrisia dei benpensanti.

Il volume è corredato da una ricca galleria fotografica, che ci offre splendide immagini pubbliche e private di Ornella e Gino, ritratti insieme o individualmente, in varie epoche e atteggiamenti della loro esistenza, circondati da amici e parenti, o in pose artistiche di repertorio: una storia della musica leggera italiana che da cinquant’anni continua a coinvolgerci ed emozionarci.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Noi-due-una-lunga-storia-Vanoni-Paoli-De-Angelis. html    17 settembre 2019

 

 

RECENSIONI

DE ANGELIS

MILO DE ANGELIS, LINEA INTERA, LINEA SPEZZATA – MONDADORI, MILANO 2021

Milo De Angelis (Milano, 1951), uno dei più noti e importanti poeti italiani, saggista, critico letterario e traduttore, conferma in questo ultimo volume mondadoriano le sue qualità di visionario investigatore dell’inconscio e di funambolico inventore di immagini, sapientemente sciolte in una versificazione che negli ultimi anni si è rivelata capace di duttili trasformazioni. La prima produzione di De Angelis (Somiglianze, 1976; Millimetri, 1983; Distante un padre, 1989), che l’aveva giustamente segnalato come dissacrante innovatore, si era infatti contraddistinta per una vena simbolista di difficile interpretazione, assolutamente estranea alla tradizione poetica italiana del dopoguerra, indifferente sia allo sperimentalismo sia all’impegno ideologico: la frammentarietà e la disarticolazione dei versi, la loro oscurità semantica, gli avevano valso l’accusa da parte di alcuni commentatori di elitarismo criptico e oracolare.

Negli anni duemila, la scrittura deangelisiana ha assunto forme più distese e narrative, in cui i temi della sofferenza e della morte, pur illuminati da improvvise epifanie di esaltata adesione alla vita e da sfumature di tenerezza, sono diventati prevalenti e quasi ossessivi, in una perenne ambivalenza tra accettazione e rifiuto, rigore e delirio, incubo e liberazione. In questo nuovo libro, Linea intera, linea spezzata (già dal cantabile novenario del titolo, con l’anafora allusiva a una regolarità drammaticamente infranta) il poeta si concede a una confidente apertura sentimentale, rinunciando sia ad arroccarsi in ermetismi difensivi, sia a trasgressive violazioni formali. Ne sono già avvisaglia i versi dolcissimi (nella loro armoniosa musicalità e nel riverbero di una recuperata e fragile adolescenza) riportati sulla quarta di copertina: “E allora facciamo silenzio, mio piccolo amore, slacciamo / i sandali, togliamo il braccialetto di cuoio: / chiuderemo la porta e scenderemo, scenderemo / con i nostri pochissimi anni nell’occulto che ci chiama, / mentre il pavimento prende il colore della notte, / scenderemo noi due, scenderemo noi soli, perderemo / la vita”.

La Milano dell’infanzia e degli anni giovanili fa da sfondo brumoso alle prime due sezioni del volume, una Milano rivissuta nei suoi tram e negli ambienti frequentati allora (edifici scolastici, sale di biliardo e di bowling, lunapark, campetti sportivi, piscine, cinemini periferici), e oggi contemplata di notte (“la notte che ti scruta e ti attende” è momento privilegiato nella poetica dell’autore), in sguardi che abbracciano dall’alto elementi architettonici di contrasto, o girovagando “con i passi del fuggiasco” tra le risaie della Barona e i grattacieli, bar malfamati e chiese romaniche. Affiora la consapevolezza, in un terrore che spesso sfocia nell’incubo, dell’inessenzialità e trascurabilità delle vite comuni (“dell’infinita moltitudine in cui sei immerso anche tu”), a cui si può sfuggire solo aggrappandosi alla concretezza di un vissuto personale, privato, che sappia illudere della propria unicità.

Notte, paura, ricordo, silenzio, morte/morti sono i termini più ricorrenti nei versi di Linea intera, linea spezzata, e assediano il poeta in un delirio di visioni allucinatorie, di spettri o minacciose figure fiabesche (“senti ardere le sinapsi, entri nel dedalo / delle piccole convulsioni”), a cui nemmeno la dolcezza della memoria sembra offrire salvezza. Anche gli incontri con persone amate e perdute si risolvono spesso in rivisitazioni dolorose, angustiate da rimorsi, sensi di colpa, nostalgie feroci. Nella terza sezione, Dialoghi con le ore contate, il sentimento pressante della precarietà dell’esistenza, e il rimpianto di un passato irrecuperabile, spinge il poeta a un’angosciosa discesa nell’Ade dei trapassati (“e allora scendo, scendo di più, / scendo fino in fondo, scendo ancora”), per abbracciare tra tante altre ombre il fratello Puia, il primo allenatore di calcio, un riflessivo amico piemontese, il critico Alberico Sala, un compagno sessantottino della Statale, un’invincibile nuotatrice, spinto dal doveroso compito di ricordarli, questi fantasmi di un mitico passato, non solo mentalmente, ma scolpendoli sulla pagina, ripagati così di colpevoli disattenzioni lontane.

La morte citata così spesso in varie declinazioni, incombe allegorica anche nelle clausole finali di molte composizioni, imponendo un tombale e disperato mutismo: “per l’ultima volta”, “iniziò la lunga notte silenziosa”, “tutto è silenzioso per sempre”, “sembrava un saluto ma è un addio”, “alla fine divampò la solitudine”. In modo rassicurante e carezzevole, o all’opposto di fissazione ossessiva, imitando la ripetizione di formule e ritornelli infantili, l’uso della reiterazione di vocaboli o di intere frasi all’interno di una composizione – in anafore legate o distanziate –, è la figura retorica più ricorrente in De Angelis (non è di questa terra… non è di questa terra; devi restare, devi restare; scorderai, / scorderai; lui non è tornato, lui non è tornato; si aggirano… si aggirano; non c’è nessuno, non c’è nessuno non c’è nessuno; vergogna vergogna vergogna; ecc.). Altrettanto frequente è il discorso diretto, a cercare interlocutori immediati, e coinvolti con un “tu” vocativo in un colloquio che in realtà cela la malinconica consapevolezza dell’inesorabile monologo.

L’ultimo capitolo della raccolta, Aurora con rasoio, si carica in maniera inattesa di una consistenza ideologica ed esistenziale assolutamente e finalmente consapevole, nel confessare la dipendenza dalla droga, la disarmonia con il mondo esterno vissuta con strazio e frustrazione, la ricorrente tentazione del suicidio, in chi si scopre “clown e martire di un dolore ereditato”, imputato al tribunale dei “giudici antichi” perché, incapace di adeguarsi, vedeva troppo, sentiva troppo, soffriva troppo. Di tutti gli esclusi dall’innocenza e dalla felicità, di tutti i rasoiati nelle loro aurore, si chiamino Milo Daniele Peppino Gianni, la poesia raccoglie la ribellione, la paura e l’affanno, reclamando il dovuto risarcimento.

© Riproduzione riservata   «Gli Stati Generali», 28 gennaio 2021

 

 

RECENSIONI

DE BENEDETTI

PAOLO DE BENEDETTI, IL FILO D’ERBA – MORCELLIANA, BRESCIA 2012

Paolo De Benedetti, protagonista del dialogo ebraico-cristiano, è morto l’11 dicembre ad Asti, la città in cui era nato e viveva, a 89 anni. È stato docente di Giudaismo e di Antico Testamento in diverse facoltà teologiche, e divenne noto al grande pubblico soprattutto per la sua opera La teologia degli animali, dove uomo e animali sono posti sullo stesso piano rispetto alla possibilità di salvezza eterna.
In un libriccino pubblicato nel 2012, Il filo d’erba, Paolo De Benedetti, citando testi rabbinici (e Karl Barth, Giovanni Calvino, Martin Buber, Abraham Heschel, Dostoevskij) commentava, incalzato dalle domande di Gabriella Caramore, una novella scritta da Luigi Pirandello nel 1911.
Il protagonista di quel racconto, Tommasino Unzio, un giovane uomo vinto dalla vita e dalla cattiveria altrui, dopo aver abbandonato gli studi in seminario per “sete d’anima” e quindi di autenticità, viene preso «d’una tenerissima pietà per tutte le cose che nascono alla vita e vi durano alcun poco, senza sapere perché, in attesa del deperimento e della morte». «E cosa c’è di più indifeso, caduco, tenero d’un filo d’erba? “Il filo d’erba nasceva, cresceva, fioriva, appassiva; e via per sempre; mai più, quello; mai più!».

Per proteggere l’esistenza fragile di un filo d’erba Tommasino muore. E Paolo De Benedetti proclamava la nobiltà assoluta, e la necessità, di questa consapevole sintonia con tutto ciò che è vivo, quindi non solo con il mondo umano e animale, ma anche con quello vegetale. «Per lui il filo d’erba è ’prossimo’. E ha ragione, perché tutto ciò che esiste, che vediamo, che tocchiamo, è un ’tu’ per noi… le vie dell’incontro con il divino sono molteplici e in gran parte non coincidono con la fede… Il filo d’erba, nella sublime invenzione di Pirandello, è anch’esso un tu, in cui è presente Dio. È stato detto che Dio sta nel dettaglio… Quel filo d’erba è ’conosciuto’ da dio, altrimenti non esisterebbe…».

Tutto ciò che vive ’risponde’ alle domande dell’uomo e di Dio stesso; qualsiasi esistenza – anche la più deperibile – ha diritto alla resurrezione e all’immortalità.
Facendo eco alle tesi di Emanuele Severino, Paolo De Benedetti esprimeva questa aspirazione derisa da ogni paradigma scientifico: “pretendere da Dio – dico proprio pretendere – una restituzione di tutta la vita… su nuovi cieli e nuova terra… restituzione di tutto ciò che era vivo, come era vivo”.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/Il-filo-d-erba-De-Benedetti.html   13 dicembre 2016

 

RECENSIONI

DE BENEDETTI

PAOLO DE BENEDETTI, LA MEMORIA DI DIO – LA COMPAGNIA DELLA STAMPA, BRESCIA 2012

Paolo De Benedetti, teologo e biblista, è uno dei massimi esperti contemporanei di ebraismo. Protagonista del dialogo interreligioso, “uomo di frontiera, di grande apertura intellettuale e di profonda spiritualità”, ha sempre caratterizzato la propria identità confessionale nei termini di “una presenza simultanea di categorie mentali e fedeltà ebraiche e alcune convinzioni cristiane, in combinazione instabile ma irrinunciabile”. In questo libriccino porge un discreto e devoto omaggio alla memoria di Dio, “ove il genitivo è oggettivo e insieme soggettivo: è la memoria di Dio nei confronti dell’uomo e dell’uomo nei confronti di Dio”. Il suo Signore viene umanizzato al punto da essere pensato con “tre organi fondamentali: l’orecchio per ascoltare, la bocca per istruirci e il naso per sentire i profumi che si levano dai sacrifici”. Memoria di Dio, quindi , ma anche memoria della storia ebraica, che a differenza di quella cristiana (il concetto greco-latino di historia viene da indagare) significa trasmissione attraverso le generazioni, recupero e riproduzione dei ricordi. Di qui l’importanza, per la cultura ebraica, delle ricostruzioni genealogiche, della preservazione dei nomi: “Noi dobbiamo sperare che Dio si ricordi dei nostri nomi, cioè accolga positivamente quello che siamo stati, che accolga il racconto”.  La memoria di Dio, se a volte si assopisce, deve essere risvegliata, in un dialogo continuo tra creatura e Creatore. E l’uomo deve ricordarsi di Dio, aiutandosi anche con l’osservazione attenta dei precetti, che sono un promemoria indispensabile per la fede, “per far diventare presente ciò che è già successo”. “Ricordarsi di Dio nel quotidiano, nelle cose modeste e umili ha un’importanza unica poiché, in un certo senso, significa aiutare Dio a stare accanto a noi”.

IBS, 5 luglio 2012

RECENSIONI

DE BENEDETTI

CARLO DE BENEDETTI, RADICALITÀ – SOLFERINO, MILANO 2023

L’Ingegner Carlo De Benedetti ha ricoperto ruoli di grande rilievo nel settore industriale, finanziario, culturale del nostro Paese. Nato a Torino nel 1934, a quarant’anni ha costituito il gruppo C.I.R, è stato amministratore delegato della Fiat e dell’Olivetti, Presidente del Gruppo Editoriale L’Espresso e nel 2020 ha fondato il quotidiano Domani. Già autore in passato di due saggi politici per Mondadori ed Einaudi, ha da poco pubblicato con Solferino un agile e interessante volume, “Radicalità. Il cambiamento che serve all’Italia”, sostenendo la necessità di una decisa trasformazione dell’assetto politico e sociale della nostra nazione.

La prima parte del libro offre un’analisi spietata delle condizioni in cui versa l’Italia, stretta tra la crisi energetica e quella climatica, economicamente sull’orlo della recessione, guidata da una classe politica inadeguata, con vasti strati della popolazione in povertà. La stagnazione, aggravata dalla corruzione dilagante e dalle infiltrazioni mafiose negli apparati dello stato, esige quindi che si operi un cambiamento radicale, ben al di là dei timidi aggiustamenti tattici dell’esistente che vengono proposti dalla prudenza di tutti i partiti. Il giudizio dell’autore sia sul ventennio berlusconiano, sia sui pasticciati governi che l’hanno seguito è severissimo. Implacabile la sua valutazione della condotta del PD: “una compagine dominata da baroni stanchi, generali rimasti senza esercito dopo aver conquistato la borghesia e perduto il popolo… Un partito irriformabile, dilaniato e avvitato nei propri psicodrammi interni anziché proiettato nella soluzione di problemi reali: l’equivalente di una seduta psicoanalitica sul ponte della nave che affonda, senza neanche l’orchestrina”. Ritiene pertanto indispensabile sia la formazione di una classe dirigente che abbia la competenza necessaria a guidare il paese in una contingenza difficile come l’attuale, sia l’irrobustimento di un’opposizione che sappia contrastare il declino democratico cui siamo avviati.

La debacle del socialismo europeo, fatta eccezione per la Spagna, è una realtà incontestabile, sotto gli occhi di tutti. Si impone quindi la nascita di un nuovo socialismo, solidamente ambientalista e orientato in primo luogo a difendere la dignità del lavoro. Salvezza del pianeta e occupazione sono i temi su cui si gioca la partita del futuro. Per ciò che riguarda la nostra nazione, le condizioni da rispettare perché il paese ritrovi le coordinate su cui muoversi sono una nuova legge elettorale per recuperare il concetto di rappresentanza e il ripristino del finanziamento pubblico, onde evitare l’instaurarsi di una pericolosa plutocrazia che garantisca la gestione del potere solo a chi ha i mezzi finanziari per farlo.

Le proposte caldeggiate da De Benedetti per la salvaguardia dell’ambiente sono dettate dal buon senso: fermare il consumo del suolo e l’edificazione selvaggia attraverso la rigenerazione e la riutilizzazione delle costruzioni esistenti, incentivare le energie pulite e l’economia circolare, riqualificare abitazioni e mezzi di trasporto con il risparmio energetico, prendendo esempio dalle leggi e dai controlli più rigidi applicati in Svizzera e nell’Europa del nord.

Dove recuperare le risorse per attuare le riforme? Indirizzando il Pnrr verso progetti mirati di interesse comune, senza vagheggiare inutili e pionieristiche “grandi opere”. A tal fine bisogna ripensare il sistema di tassazione con l’introduzione di una patrimoniale che colpisca i grossi capitali, alzare la tassa di successione e combattere l’evasione fiscale anche attraverso un drastico abbassamento della soglia dei pagamenti in contante, accrescere gli introiti nelle casse comunali commisurando al reddito le multe e le sanzioni stradali. È indispensabile ridistribuire ricchezze e risorse per salvaguardare il potere d’acquisto delle classi più povere, introdurre il salario minimo e adeguare gli stipendi esistenti al costo effettivo della vita, garantendo parità di retribuzione tra donne e uomini.

La politica deve soprattutto accelerare il rinnovamento nel modo di pensare il lavoro e le strutture produttive del nostro paese. Tante sono le proposte suggerite a tale fine: incentivare le persone a specializzarsi e a formarsi, anche introducendo una forma di servizio civile per i giovani; aumentare la competitività nei mercati, sostenere il welfare per appoggiare l’impiego femminile liberandolo dalle cure domestiche, dinamizzare il marketing, promuovere la digitalizzazione e l’innovazione informatica, valorizzare la ricerca universitaria, gestire correttamente lo smart working, motivare la creatività, riscoprire un ruolo più combattivo dei sindacati (l’autore rivolge un commosso ricordo a Luciano Lama e Bruno Trentin),

Il capitalismo non è all’altezza del nuovo mondo che si sta configurando: la svalutazione del dollaro rispetto all’euro, la ridotta competitività nelle esportazioni, l’aumento del costo del debito, l’inflazione, l’aumento dei tassi d’interesse sono fattori che produrranno meno consumi, meno produzione, meno occupazione, e quindi un’inevitabile recessione. In Italia questo stato di cose finirà per aggravare la frattura esistente tra nord e sud, che la proposta dell’autonomia differenziata presentata dall’attuale governo renderà inevitabile. A un quadro economico e finanziario molto critico, si aggiungono le minacce del cambiamento climatico, con la siccità che mette in pericolo la produzione agricola, la guerra in Ucraina e il pericolo di nuove epidemie, al punto che il mondo sembra vacillare sull’orlo di un burrone.

Sulla base di un’attenta analisi dell’attuale situazione geopolitica, De Benedetti azzarda una tragica profezia: l’ineludibile conflitto militare che opporrà Cina e Stati Uniti, probabilmente innescato dalla crisi di Taiwan e poi combattuto per il dominio del Pacifico. “Le mosse americane in Estremo Oriente sono del tutto analoghe a quelle già fatte in Ucraina: addestramento per le truppe locali, mappatura del territorio per capire dove e come offrire sostegno, fornitura di materiali per anticipare le necessità. Si chiama setting the theatre, preparare il terreno”.

C’è spazio ancora per qualche ottimismo? De Benedetti ritiene di sì. L’Italia, che gode di una straordinaria concentrazione di bellezza, cultura e intelligenza, può dare un contributo reale al mondo e alla democrazia, giocando al proprio interno una partita di civiltà per ricostruire uno spazio sociale equo e coeso, rieducando i propri cittadini alla partecipazione politica, valorizzando le virtù e i talenti che possiede e diventando così la testa di ponte del Rinascimento europeo.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 9 marzo 2023

 

RECENSIONI

DE GIOVANNI

LUCIANO DE GIOVANNI, TENTATIVO DI CANTARE UNA NUVOLA

ALL’INSEGNA DEL PESCE D’ORO, MILANO 1993

 

Capita a tutti noi di provare un po’ di commozione ascoltando una musica particolare, o rileggendo una poesia imparata al liceo. A me succede di emozionarmi ogni volta che ridico tra me e me questi semplicissimi sette versi: «Un’ape morta / nell’acqua della grondaia. / Ehi, sorellina! // Sole di gennaio / e cielo azzurro / per l’ape morta / nell’acqua della grondaia». Forse mi intenerisce l’immagine di questo poeta-idraulico-spazzacamino, che ripara le tegole del tetto di una casa sulla riviera ligure, e svuotando la grondaia colma d’acqua trova un’ape annegata. “Ehi, sorellina!”. Quasi stupito, appena addolorato, la sgrida come a dirle “Cosa stai facendo? Svegliati! È inverno, fa freddo, ma c’è il sole e il cielo è limpido. Perché sei morta, allora?”

Un minimo e preziosissimo Cantico delle creature, di francescana umiltà e letizia: come tutte le poesie che ci ha lasciato Luciano De Giovanni, nato a Sanremo nel 1922 e morto a Montichiari nel 2001. De Giovanni per tutta la vita ha svolto lavori umili, portalettere dapprima, poi idraulico; abitava con la moglie e due figli in un piccolo appartamento sulle colline della Pigna, nella Sanremo vecchia, vicino al Santuario dell’Assunta. Amando in modo ingenuo e appassionato la poesia, appena poteva si ritagliava uno scampolo di tempo per studiare Lao Tzu, Bashô, Emily Dickinson, Rilke, Eliot, i Vangeli, i grandi del nostro ‘900. Tra di loro, anche Carlo Betocchi (altro maestro dimenticato…), che fu il primo ad accorgersi di lui, presentando alcuni suoi versi sulla rivista Letteratura nel 1956. Così lo descriveva ai lettori: “un poeta che io stimo religioso, che ha diritto alla grazia del suo patire…”, mettendone in luce sensibilità, misura, precisione, in qualche modo derivategli dal suo mestiere di “azzurro stagnino”, riflessivo e solitario nel lavoro, attento alle cose e ai gesti, a contatto sempre con l’acqua: in piedi sui tetti, vicino al cielo, dimentico di se stesso.

«Gli uccelli / possono volare / perché sono / innocenti / non è questione / d’ali», «Due bambini / con due cagnolini / a giocare nel cortile / della grande casa. / A me ch’ero sul tetto / a riparare una gronda / sembravano quattro sassi / caduti in fondo al pozzo», «Non sanno le cicale / perché all’improvviso smettono il loro canto // perché all’improvviso / lo ricominciano», «Ho aiutato una foglia a cadere, / l’ho sfiorata con una carezza / e s’è fatta coraggio, è andata. // Fingeva, poverina, / d’essersi dimenticata / che si deve anche morire».

A Luciano De Giovanni (molto riservato nei rapporti con gli altri, quasi intimidito e forse timoroso di dover rivelare sia le sue ristrettezze economiche sia gli scarsi studi che aveva portato a termine) piaceva camminare nei boschi, lungo le stradine di campagna, fiancheggiando i torrenti, in silenzio, mostrando una coscienza anticipatamente ecologica. Un suo critico e mentore fedele, Stefano Verdino, così scriveva di lui: “Stupisce la frontalità della sua poesia, vale a dire il suo essere costantemente canto e voce della natura, nelle sue misure più lineari ed elementari”. Il mare, il bosco, la montagna, le foglie sono elementi presenti soprattutto nelle prime esili raccolte, e già preludono a un rapporto intenso con la spiritualità e il divino, non chiesastico ‒ ovviamente ‒, ma vivo nell’attesa stupita di una epifania prodigiosa: «Il miracolo consueto della foglia / al quale non prestiamo attenzione / e non ci meraviglia / in cerca come siamo / del miracolo», «Il sentiero che rasenta i castagni / e trattiene gli odori / degli arbusti che attraversa / tu non sai dove va dove porta / potresti non imboccarlo mai più / potresti non averlo trovato / eppure proprio te ha cercato», «Lamentandosi / il mare / cerca rifugio / tra gli scogli // non c’è pace / per chi è / immenso», «Mammelle gonfie di pioggia / è diventato il cielo, / desolate onde / rovinano sulla scogliera, / delle verdi colline / avviluppate di nebbia / niente si sa: // ‒ Soffri, / terra madre?».

Anche l’atmosfera domestica (la casa, la moglie, i bambini) rientrava a pieno diritto nell’universo poetico di De Giovanni, raccontata con un lessico scarno e volutamente impoverito, privo di ricercatezze e neologismi, quasi che l’arredamento linguistico e mentale dovesse per onestà riflettere quello modesto dell’abitazione, teneramente intiepidito degli affetti familiari: «Venitela a vedere la mia bambina / in questo mattino di miracoli / saltellare tra le zolle dell’orto: / i raggi del sole la seguono. // Si china e muta ogni cosa / in preziosissime gemme / fa un lieve cenno alla terra / e subito nasce una rosa», «Il mio, lì nella culla, / dorme gonfio di latte, / il destino e gli eventi / ancora non l’hanno destato. // Un giorno si metterà la cravatta / frettoloso, / dirà ‒ al diavolo tutti ‒ sbattendo la porta», «Presto non sarà più anonimo / questo pezzo di terra, / ci farò una casa / e un pergolato di vigna. // … In un momento di dolcezza / diventerà del tutto diverso / e la sedia a sdraio / vicino alla finestra / si gonfierà di vento», «Ho fatto un sogno strano: / ero un albero in un prato / e tu un nido sopra il mio ramo».

Questa sua propensione alla solitudine e alla meditazione lo avvicinava a una versificazione leggera, a descrizioni delicatamente tratteggiate, che sembrano ereditare la levità elegante della poesia orientale, il desiderio di fondersi con l’innocenza del tutto: «Dolci sono le more / i rovi sono spinosi // per bere alla sorgente / si deve prima raggiungerla / ma anche la sorgente / ha faticato / e anche il rovo», «Penso / che il paradiso / sia ciascuno di noi / quando dimentica / il suo nome», «Ero andato / al torrente / per leggere / Ciuangzè // ma non ci fu / niente da leggere / il torrente era / Ciangzuè».

I rapporti sociali lo lasciavano indifferente, quando non lo infastidivano: anche questo motivo contribuì al suo isolamento letterario, per quanto ci siano stati intellettuali e critici che apprezzarono e incoraggiarono la sua produzione (i già citati Betocchi e Verdino, ma poi Baldacci, Caproni, Lagorio, Chiappelli), che ottenne premi e riconoscimenti editoriali, con pubblicazioni in plaquette e finalmente, nel 1993, nell’antologia milanese di Scheiwiller Tentativo di cantare una nuvola. La sua rude scorza ligure sapeva a volte manifestarsi in toni più risentiti e scabri: «Diranno che fui pessimo operaio / e un pessimo padre di famiglia, / un pessimo uomo d’affari / e un pessimo poeta / Io me ne starò vergognoso / nella mia fossa sicura / e penserò che dopotutto / ero in un pessimo mondo”, “Io poi / quando sarete andati / e avrò sparecchiato / e lavato i piatti / e tolte le cicche / dai portaceneri // mi sdraierò per terra / e guarderò dal basso / questo mondo inutile / ancora sporco di chiasso”.

Era comunque sempre la vena meditativa e malinconica a prevalere, soprattutto negli ultimi anni di vita, in cui più stringente divenne il rapporto con la fede cattolica, vissuta con devozione popolare, ma assolutamente non bigotta: «Benedetto sia il tuo nome / anche se non lo conosciamo, / noi che nulla possiamo / oltre il limite della parola. // Benedetto per le umili cose / armoniose che hai creato. / Benedetto per i colori // che instancabile tracci nell’aria / per il profumo che varia / nella rosa, nella viola», «Ho osato chiamare il divino / con la parola Signore, / il nome dolcissimo / di quando ero bambino // ho osato dividere / il suo pane e il suo vino, / abbandonarmi leggero / a un dolcissimo sogno / quasi dimenticato: // Signore, mio bisogno».

Se si cercano gli scritti di Luciano De Giovanni, non si trova in pratica più nulla nelle librerie online: probabilmente solo l’ultima pubblicazione, un romanzo autobiografico composto di brevi capitoli rievocanti situazioni, persone, abitudini e paesaggi del passato, in un confronto impietoso con la più arida contemporaneità. Oltre a ciò, del “poeta stagnino” di Sanremo rimane in pochi lettori una vaga eco dei versi, forse troppo tenue e gentile per farsi strada nel frastuono indifferenziato che ci circonda.

 

© Riproduzione riservata                  «La poesia e lo spirito», 29 gennaio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DE GREGORIO

ANNA ELISA DE GREGORIO, DOPO TANTO ESILIO – RAFFAELLI, RIMINI 2012

Con questo titolo suggestivo (come non ricordare la candida supplica del  Salve Regina, che impetra consolazione dopo le sofferenze «della nostra malandata vita»?), Anna Elisa De Gregorio pubblica un elegante volume di versi, scandito in tre sezioni composte da un centinaio di poesie, tutte individuate da un titolo, spesso allusivo, a volte esplicativo, sempre acutamente incalzante.
Nella sua appassionata introduzione, Davide Rondoni parla, a proposito di questi versi, di «finissima auscultazione» e di «poesia obbediente… poesia udienza». Da subito infatti balza agli occhi del lettore questa disponibilità attenta e umile, partecipe ed empatica dell’autrice all’osservazione della vita in tutti i suoi aspetti: dalla descrizione vigile della natura, alla condivisione solidale con la sofferenza di chi vive ai margini della società, alla meditazione più filosofica sul senso dell’esistenza (il «paradosso dell’eternità»). La sensibilità della poetessa è orientata soprattutto verso la rappresentazione di due età particolari degli esseri umani, due età entrambe estranee al processo produttivo, al calcolo interessato dei vantaggi economici o carrieristici: l’adolescenza e la vecchiaia. Gli anni in cui ci si affaccia alla vita, in cui si è ancora capaci di perdersi dietro a un sogno («Belle le ragazze che canticchiano / al mare con le gambe lucidate / dalla crema, gli occhiali a camuffare / pensieri»), e gli anni ultimi, malinconici, in cui invece cade qualsiasi illusione. E’ il mondo e la quotidianità degli anziani che Anna Elisa De Gregorio esplora con maggiore e percettiva adesione: «Un corpo sperduto nell’alzheimer», «i vecchi vanno a pulire i ricordi dall’inverno», «Educati a non chiedere una cipolla al vicino, / ci riconosciamo dalle piante alla finestra», «Nelle case ingrigite dei soliti / anziani dove la noia è rotta / dalle pale di un ventilatore». La poetessa si commuove nel seguire il pensionato che va alla posta, si fa compagnia con un gatto o un cane, progetta il pranzo in solitudine e «fa il conto di chi non ha incontrato»: oppure il vecchio signore che raccoglie i sassi, o l’ex boxeur che si butta sotto il treno. Compito del poeta è prestare attenzione ai sentimenti, ai gesti, agli oggetti cui gli altri non badano: «nel mio esercizio di osservazione / assegnato come compito a scuola», l’autrice ubbidisce a un imperativo di «necessaria accoglienza» del tutto, a partire dalle cose minime («Nel migliore dei modi possibili / cureremo la ciotola del cane») per arrivare all’impegno culturale più elevato. Quindi, lo studio e il confronto con altre voci poetiche (da Bashō a Mark Strand, da Michele Sovente a Borges alla Szimborska), con l’arte (la Pietà Rondanini), con il cinema (Tarkovskij, Olmi, e Casablanca). Ma anche lo sguardo affettuoso alla sua città di mare («Città di mattina città d’estate»), con i suoi treni, il cimitero, le spiagge, le periferie desolate; o ad altre città (Venezia, Roma), e ad altre sofferte, scandalose, realtà di miseria e immigrazione. La natura, raccontata soprattutto nell’ultima sezione del volume, è assolutamente consolante nel tripudio della sua ricca vegetazione (salici, viburni, olivi, cachi, pini, gelsomini, ciliegi, crisantemi, trifogli, ginestre, violaciocche: «Fiori stretti ai rami, insetti viola / lucidi di pioggia, alberi di Giuda: / ci accompagnano in fila sui viottoli,  / intorno a loro aureole di nebbia»), con la constatazione che la patria di un poeta è sempre l’ovunque del mondo: «E allora l’unica mia terra è ovunque / trovi parole e lingua per dirle, / mio basso continuo e precaria tenda». In questo suo stile piano, narrativo, colloquiale, eppure aperto a diverse sperimentazioni compositive (gli haiku e i tanka manifestano una loro lieve eleganza), Anna Elisa De Gregorio offre al lettore una ricca varietà di temi e atmosfere, consapevole che le parole di un poeta sempre «rimandano luce».

 

«Leggendaria» n. 101, settembre 2013

RECENSIONI

de KERCKHOVE

DERRICK DE KERCKHOVE, LA RETE CI RENDERA’ STUPIDI? – CASTELVECCHI, ROMA 2016

Due parole sull’autore di La rete ci renderà stupidi?, un piccolo e intrigante saggio, dal titolo provocatorio: Derrick de Kerckhove (1944) è un sociologo belga naturalizzato canadese che oggi, dopo una lunga carriera scientifica a Toronto, insegna anche all’Università Federico II di Napoli. Autore di numerose pubblicazioni specialistiche, è stato tra i primi ad analizzare il rapporto tra media digitali e neuroscienze.
Strenuo difensore e fan della “mente futura”, è convinto che la rete arriverà a modificare radicalmente il modo di pensare degli esseri umani, e che questo succederà in tempi brevi, su scala planetaria, con effetti più positivi che negativi. Analizzando questi ultimi, Derrick de Kerckhove ammette che l’utilizzo di Internet, Facebook e Twitter potranno provocare un depotenziamento della memoria a breve termine, della capacità di concentrazione, del desiderio di riflessione profonda, e soprattutto della volontà di coltivare i rapporti interpersonali dal vivo. «La vita virtuale è più sviluppata di quella reale».

Ma ritiene che questi aspetti sfavorevoli, indotti dall’uso dei nuovi media, saranno ampiamente compensati dallo sviluppo della flessibilità neurale dei nostri cervelli, da una maggiore disponibilità verso il cambiamento e lo scambio collaborativo, dall’aumento dell’autonomia personale e dell’autostima, da una più generalizzata e democratica creatività, da una riduzione dei costi di accesso all’informazione. E in particolare dalla realizzazione di un’infinita memoria universale di dati, informazioni, contatti che potranno favorire il sorgere di nuove forme di democrazia diretta e un maggiore controllo sulla gestione del potere.
Insomma, ci aspetta «un rovesciamento epocale», un nuovo Rinascimento destinato a cambiare in meglio e in modo inevitabile la cultura mondiale, la struttura delle società, il pensiero di ogni individuo.
Non avendo più necessità di ricordare, perché qualsiasi dato sarà a portata di computer, ecco che la memoria si posizionerà fuori dalla mente, creando uno spazio maggiore per inventare e usare la nostra intelligenza. La quale diventerà più connettiva, più sintetica e veloce.

Il presente diventa assoluto, con Twitter, condivisibile in tempo reale a ogni distanza, con tutti: e l’intelligenza si fa globale, collettiva, massificata. L’individualità, la meditazione personale, il silenzio si riveleranno dei lussi elitari e superati. L’intimità diverrà pubblica, e se ciò comporterà il rischio di un controllo totale del mercato sui consumatori e della creazione di un consenso politico generale – in grado di azzittire qualsiasi spirito critico – sarà un male minore rispetto al possesso comune del sapere digitale.
Il libro, con la sua trasmissione lineare delle informazioni (dall’inizio alla fine) si rivelerà obsoleto, nei confronti della linkabilità (termine orrendo!) e dell’agilità dei percorsi visuali (un’immagine vale mille parole): la lettura rallenta il tempo, esige pazienza e speculazione, «è lo strumento in cui la parola si ferma, mentre tutto il resto è parola che vola». Destinata al declino, come tutto ciò che è privato, statico, identitario rispetto al pubblico, dinamico, esportabile ovunque e comunque. Peccato!

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/rete-stupidi-De-Kerckhove.html       1 giugno 2016