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RECENSIONI

DE LUCA

ERRI DE LUCA, BIZZARRIE DELLA PROVVIDENZA – EINAUDI, TORINO 2014

In questo smilzo libretto di versi pubblicato da Einaudi, Erri De Luca si mantiene fedele alla sua vocazione di risentito menestrello fustigatore di ingiustizie e costumi corrotti, di violenze fisiche e morali: «il passato è poetico, / il presente una dissenteria». Il passato da decantare è quello dei profeti, degli illuminati, dei folli di Dio, degli imbizzarriti che sanno discostarsi dalla consuetudine:
«Nelle pagine di questa sezione si narrano comportamenti sgangherati ma provvisti di giustifica sacra». Esploratori del diverso, paladini della gratuità, là dove «la deviazione urgente di un singolo diventa apripista del percorso di tutti gli altri». Figure della Provvidenza, che abbracciano «la sovversiva economia del dono / offerto a spargimento, / restituito a scroscio». Sul dono della profezia visionaria, della poesia inutile ma necessaria, si fonda «l’avvento del gratis, della grazia, / lo spariglio infallibile / su cui si regge il mondo». E il non credente De Luca fa di Gesù il protagonista per eccellenza di questa rivoluzione mite e radicale: «È stato il più precoce latitante». Insieme a lui altre figure-faro dell’Antico Testamento: Abramo, Noè, Davide, Sansone, Giona, da sempre frequentate nella passione per l’ebraico e le Scritture. Che di base è comunque un viscerale amore per la parola, per il vocabolario e per la lingua, come possibilità/necessità di comunicazione, di relazione e riscatto: «l’italiano mio sarto, calzolaio, piccione viaggiatore, / farina del mio grano, / clorofilla che fabbrica la linfa con la luce, / mio mandorlo piantato davanti alla finestra». Negli ultimi trent’anni che l’hanno visto tra i maggiori esponenti della nostra letteratura, Erri De Luca ha costruito un’immagine di sé savonaroliana, imbastita di un’ineliminabile esigenza etica, intesa a denunciare i mali del mondo, ferocemente schierata contro il potere, e alleata «con chi sconta». In questo libro, carcerati, migranti, sconfitti, analfabeti. Cantastorie con la missione di correggere tradizioni menzognere («Allora restauro leggende»), contrabbandiere di verità negate, dalla parte dei “troppi” rifiutati dal mondo occidentale del benessere, pur nella consapevolezza della sua situazione di privilegio («Ma noi stasera qui parliamo di prigione / come sazi che parlano di fame»), De Luca ha praticato sempre una convinta scelta di campo, anche nella descrizione dei luoghi che fanno da sfondo alla sua scrittura: Bosnia, Palestina, bassi di Napoli. Quando si concede qualche leggerezza, lo fa quasi vergognandosene, e tentando sterzate di ironia: come nelle due sole poesie d’amore presenti (simpaticamente divertita quella dedicata al naso di lei, «navigante… nocchiero», infallibile nell’individuare odori), o nella tarantella sarcastica  Viva l’Ita’: «Figaro qua / Figaro là / fegato fri- / tt’e baccalà. / Figaro su / Figaro giù / tricccheballa-/ cche putipù»). I toni prevalenti sono tuttavia quelli narrativo-prosastici, con una propensione evidentemente didascalica, e i termini più utilizzati quelli che evidenziano una mai domata rabbia, una propensione alla violenza verbale, ansiosamente anti-lirica (scannare, raffica, sguainato, scompiglio, dismisura, aggrovigliato, scervellati, asfissiato, scatarro, gracchiare, squaglio aggrumato…), che arriva all’invettiva e alla maledizione: «Sia danno e carie in bocca la sua parola / detta e non tenuta». Per cui persino la definizione di amore risulta inflessibile e perentoria: «Amare è un verbo scatenato. / Non risparmia niente di se stessi». E nel non risparmio di sé è anche questa sorta di testamento, di umile lascito che arriva a negare la propria sopravvivenza: «Ricorda che sei polvere: d’accordo. / Se però posso scegliere di cosa: / non dell’oro, non della conchiglia, / ma polvere di gesso / di una parola appena cancellata / dalla superficie di lavagna».

 

«Poesia» n.284, giugno 2014

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DE LUCA

ERRI DE LUCA,  NON ORA, NON QUI – FELTRINELLI, MILANO 1989

Capita sempre più raramente di imbattersi in bei libri, intensi, che graffiano o comunque lasciano una traccia di sé su chi legge: in genere l’industria editoriale ci propina prodotti ben confezionati e ben digeribili, ma altrettanto facilmente eliminabili dalla memoria e dalla biblioteca. Non è questo il caso di Non ora, non qui, opera prima di Erri De Luca, quarantenne nato a Napoli e residente a Roma. A raccontarne la trama sottile si rischia di scivolare nello scontato, e di darne all’eventuale lettore un’interpretazione non accattivante: è infatti la storia di un’infanzia (e quante ne abbiamo lette?), di un difficile rapporto con la madre (ancora!…) e con l’ambiente. Ma è anche un libro in cui la letteratura supera se stessa, usa tutte le sue metafore e le sue abilità più raffinate per negarsi come tale, e ridursi a grido, a verità dolorosa. E’ una confessione e un atto d’accusa, una preghiera d’amore e una condanna.
Il protagonista ormai adulto rilegge la sua storia attraverso alcune fotografie dell’infanzia, ritrovate, ristampate, osservate con nuova spietata acutezza. Si rivede bambino, «più assorto che quieto»», orgoglioso fino alla testardaggine, di una emotività esasperata: si scopre dietro ai genitori e alla sorella, chiudere sempre in ritardo di alcuni passi il gruppo familiare, durante la temuta passeggiata domenicale; oppure ostinato di fronte alla finestra della cucina, mentre oppone un silenzio dignitoso a una punizione immeritata; o ancora mentre ascolta il profluvio di parole che tutti gli rovesciano addosso, a lui, balbuziente, «l’interlocutore preferito, il muto, l’imbuto». Il rapporto preferenziale è quello con la madre, giocato in un’intesa a volte epidermica e ovvia, a volte profonda e crudele. La mamma (mai descritta, se non nella schiena diritta, nei capelli improvvisamente accorciati per parere più vecchia, in una severità che si intuisce eccessiva perfino nei confronti di se stessa) cerca nel figlio una rispondenza addirittura fisica alle sue sofferenze. Ha l’abitudine di raccontare al bambino «le cose brutte del mondo», provocando in lui un’immedesimazione localizzata nella carne. Lui risponde ai desideri inconsci di lei, diviene l’eco delle sue rinunce, il riflesso delle sue mortificazioni, impara ad annullarsi. Non c’è gioia, non c’è abbandono in quest’infanzia, ma un sorvegliarsi attento, un rigoroso trattenersi, sempre.
Non ora, non qui è il ritornello che la madre oppone a ogni minimo scarto dalla regola; «non ho fatto niente, non l’ho fatto apposta» è invece la risposta automatica del figlio, obbligato a scusarsi di vivere. Unici sprazzi di felicità, di naturalezza fisica, sono la presenza di una domestica selvatica e istintiva, e le nuotate in mare con un amico molto amato e tragicamente perso.
Il vicolo, il porto, la scuola arrivano alla sensibilità del protagonista sempre attutiti, a volte stralunati, attraverso uno specchio deformante perché fissato a distanza ravvicinata, quasi abolita. La madre stessa è bloccata in una serie di istantanee per forza di cose poco realistiche, allucinate: e il rapporto tra i due soffre di una vitrea incomunicabilità, evidenziata nella metafora del reiterato incontro attraverso il finestrino del tram.
Una prosa lirica, in cui l’arte narrativa ha poco agio di mostrarsi, raggrumata com’è in nodi di vita incapaci di sciogliersi in finzione formale. Si esce da questa lettura feriti, turbati come sempre davanti allo spettacolo di una sofferenza gratuita; ma più leggeri, con gli occhi più attenti.

 

«L’Arena», 25 gennaio 1990

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DE LUCA

ERRI DE LUCA, TU NON C’ERI – DANTE & DESCARTES, NAPOLI 2010

Il rapporto con i propri genitori è da sempre, e per sempre, il più vincolante e definitivo: quello da cui non ci si libera mai, che può diventare incubo e recriminazione, alimento e provvidenza, pentimento e rimorso. Erri De Luca in questo volumetto, pubblicato da un piccolo editore napoletano, e arricchito da sei foto delle Dolomiti -aspre e seducenti insieme- affronta in due tempi e in due modi diversi la relazione tormentante tra un figlio e suo padre.

La prima parte di Tu non c’eri è definita “scrittura per scene”, quasi un dialogo teatrale, in cui un quarantenne si appresta a una solitaria arrampicata in montagna, confrontandosi col fantasma del padre che l’ha rifiutato. Un padre problematico, asciutto anche nel nome “lo chiamavano il Grisso, perché era appena più in carne di un grissino” con un passato fatto di lotta di classe e di prigionia per motivi politici. Un padre che l’ha volutamente tenuto lontano sia dalla sua vita sia dalla sua morte, dal suo credo rivoluzionario come dalle sue scelte sentimentali e di lavoro.
Il figlio gli rinfaccia la sua mancata paternità, la sua totale assenza: “due pezzi isolati che non sono riusciti a dirsi niente”. E si inventa una scalata con lui, dietro a una sua irraggiungibile traccia, solo alla fine riconciliandosi con il passato di entrambi: nell’annuncio che al bambino che sta per nascergli darà il nome del nonno. Le ultime pagine di “Tu non c’eri” sono invece dedicate a una rivisitazione, non più immaginaria ma reale, che Erri De Luca fa del suo concreto essere stato figlio: “Mio padre non fu assente. Mi ha cresciuto in una stanza ispessita dai libri… Mi parlava in italiano… Tra noi l’assenza fu opera mia”. E di quella sua giovanile ribellione, del suo polemico allontanamento non chiede perdono, non si rammarica. Ma lo constata con malinconica accettazione: “Tra noi è andata come doveva: succede di finire sparse anche alle schegge di una scalpellatura”.

 

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www.sololibri.net/Tu-non-c-eri-Erri-De-Luca.html;      10 agosto 2016

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DE LUCA

ERRI DE LUCA, I PESCI NON CHIUDONO GLI OCCHI – FELTRINELLI, MILANO 2011

La storia del bambino che Erri De Luca è stato, cinquant’anni fa, «un bambino viziato dall’isolamento», in un’estate lontana che improvvisamente lo ha messo a confronto con tutto ciò che è “altro da sé”. Di conseguenza un libro tutto costruito sulle dicotomie e i contrasti: infanzia e età adulta, innocenza e consapevolezza , violenza e mitezza, sensibilità e ottusità, cultura e ignoranza, città e mare, Italia e America, maschio e femmina.

Ovviamente l’autore sta sempre dalla parte di chi deve crescere e scegliere, e sceglie coraggiosamente la cosa giusta: quindi la madre che resta nella sua terra d’origine rispetto al padre che tenta un’emigrazione sospetta di fuga, i pescatori rudi ma buoni di fronte ai borghesi urbani, il mare e il sole limpidi in contrasto con le oscurità imputridite di una città corrotta, studenti-operai-muratori in rivolta contro borghesia e forze dell’ordine alleati nella repressione. Ma soprattutto il ragazzino Erri, taciturno e serissimo, impegnato nella lettura e nelle parole crociate, che si sa opporre a tre bulletti sopraffatori lasciandosi malmenare brutalmente, ma rinunciando a denunciarli. E che si confronta con un’adolescente settentrionale in vacanza sulla stessa spiaggia, come lui impegnata e riflessiva, già consapevole di cosa è etico e cosa no, attenta all’uso delle parole (e i dialoghi tra i due bambini hanno qualcosa di surreale e intellettualmente ricostruito: «L’amore … non è una serenata al balcone, somiglia a una mareggiata di libeccio, strapazza il mare sopra, e sotto lo rimescola»). Un “amore pulcino” tra i due, che li fa crescere e li separa. Con squarci di descrizione lirica decisamente potenti, ma anche, come sempre nei libri di quest’autore, con un autocompiacimento eccessivo sia della propria scrittura sia della propria esistenza, vissuta esclusivamente nei luoghi giusti, con le scelte giuste, con i sentimenti giusti. “Exegi monumentum aere perennius”.

IBS, 16 ottobre 2011

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DE LUCA

ERRI DE LUCA, NOCCIOLO D’OLIVO – EMP, PADOVA 2010

Erri De Luca raccoglie qui «pensieri scompagnati» dedicati alle Sacre Scritture, che da sempre frequenta con accesa, quotidiana dedizione, confrontandosi in un appassionato corpo a corpo con la lingua ebraica. E sembra proprio questa lingua, più che la Parola di Dio in sé, a catalizzare il suo desiderio di interprete, il suo interesse viscerale di lettore: «Posso dire di essere un molestatore di quelle parole, di non lasciarle in pace, di tornare indietro da loro con un pugno di cenere calda». E ancora: «Leggere la scrittura sacra, leggerla piano, sentire il proprio fiato…».

Il suo è un ammirato omaggio a «questa antica lingua destinata a un piccolo popolo separato dagli altri», lingua da far rivivere perché «l’ebraico delle scritture sacre porta un vocabolario magro, poco più di cinquemila vocaboli. Questa scarsità contiene un’intensità di senso che spesso si perde nelle traduzioni,quando un singolo verbo ebraico viene smembrato in diversi sinonimi…». Allora confessa: «Leggere scritture sacre è obbedire a una precedenza dell’ascolto. Inauguro i miei risvegli con un pugno di versi, così che il giro del giorno piglia un filo d’inizio. Posso poi pure sbandare per il resto delle ore dietro alle minuzie del da farsi: intanto ho trattenuto per me una caparra di parole dure, un nocciolo d’olivo da rigirare in bocca».  E non é l’unica confessione che De Luca fa al lettore: nell’ introduzione ammette di non essere credente, di «essere accampato fuori dalle mura». Due sono «gli inciampi» che gli impediscono di aderire alla fede: l’incapacità di pregare e quella di perdonare o essere perdonato.

Ma nei brani che compongono le due sezioni di questo libro, in cui senz’altro vibrano con maggiore intensità quelli dedicati a Genesi, si avverte una sorta di rassegnata nostalgia verso chi sa attendere, sa cercare un rifugio, sa affidarsi, o nutre il «sentimento furioso» di Caino, il suo desiderio di «essere anche lui appassionatamente amato da Dio».

 

IBS, 16 marzo 2011

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DE LUCA

ERRI DE LUCA, E DISSE – FELTRINELLI, MILANO 2011

Dopo quasi vent’anni dalla traduzione di Esodo/Nomi, Erri De Luca torna ad occuparsi del secondo libro della Bibbia, in un volume che rivisita l’ascensione di Mosè sul Sinai, e la manifestazione divina attraverso le tavole della Legge. In realtà, gli excursus in altri testi delle Sacre Scitture sono numerosi: soprattutto sono citati episodi di Genesi, Deuteronomio, Isaia, Salmi e del Vangelo stesso.

Ma senz’altro il protagonista principale del libro rimane Mosè, nel suo corpo a corpo con l’Assoluto. Mosè, scampato da una strage di neonati: in lui si concentra un resto salvato,l’energia dei mancati… una folla di bambini..». Mosè primo scalatore, che «con l’ultimo passo di salita toccava l’estremità dove la terra smette e inizia il cielo. Una cima raggiunta è il bordo di confine tra il finito e l’immenso». Mosè che non riesce a reggere alla visione, torna al campo svuotato, «un nocciolo spolpato», privo di senno e di parola, e viene accudito amorevolmente, pungolato nei ricordi dal fratello Aronne. Ed ecco allora che davanti al suo popolo incredulo, timoroso e spazientito nel deserto riesce a farsi interprete, a leggere le parole infuocate del suo innominabile Dio, incise da un dito scalpellino sulla muraglia rocciosa: «Io sono Adonài (Iod) tuo Elohìm». Dirette a un “tu” maschile, perché agli uomini era destinato il compito terrificante di tramandare, di interpretare. I dieci comandamenti sono resi da De Luca al futuro: «Onorerai,non ammazzerai, non ruberai», e la sua lingua di traduttore è aspra e scolpita come l’ebraico con cui si cimenta. La sua prosa non conosce indulgenze, morbidezze: è severa ed essenziale come le storie che propone al lettore. Innamorato dell’ebraico, ma da esso escluso: «Dell’ebraismo condivido il viaggio, non l’arrivo. Non in terra promessa, la mia residenza è in margine all’accampamento… Non mi accosto all’altare,alle preghiere…».

La nostalgia degli esuli, dei proscritti è pari alla loro sconfinata dedizione.

 

IBS, 22 marzo 2011

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DE LUCA

ERRI DE LUCA, NOCCIOLO D’OLIVA – EMP, PADOVA 2010

Erri De Luca raccoglie qui “pensieri scompagnati” dedicati alle Sacre Scritture, che da sempre frequenta con accesa, quotidiana dedizione, confrontandosi in un appassionato corpo a corpo con la lingua ebraica. E sembra proprio questa lingua, più che la Parola di Dio in sé, a catalizzare il suo desiderio di interprete, il suo interesse viscerale di lettore: “Posso dire di essere un molestatore di quelle parole, di non lasciarle in pace, di tornare indietro da loro con un pugno di cenere calda”. E ancora: “Leggere la scrittura sacra, leggerla piano, sentire il proprio fiato…”. Il suo è un ammirato omaggio a “questa antica lingua destinata a un piccolo popolo separato dagli altri”, lingua da far rivivere perché “l’ebraico delle scritture sacre porta un vocabolario magro, poco più di cinquemila vocaboli. Questa scarsità contiene un’intensità di senso che spesso si perde nelle traduzioni, quando un singolo verbo ebraico viene smembrato in diversi sinonimi…”. Allora confessa: “Leggere scritture sacre è obbedire a una precedenza dell’ascolto. Inauguro i miei risvegli con un pugno di versi, così che il giro del giorno piglia un filo d’inizio. Posso poi pure sbandare per il resto delle ore dietro alle minuzie del da farsi: intanto ho trattenuto per me una caparra di parole dure, un nocciolo d’olivo da rigirare in bocca”. E non é l’unica confessione che De Luca fa al lettore: nell’ introduzione ammette di non essere credente, di “essere accampato fuori dalle mura”. Due sono “gli inciampi” che gli impediscono di aderire alla fede: l’incapacità di pregare e quella di perdonare o essere perdonato. Ma nei brani che compongono le due sezioni di questo libro, in cui senz’altro vibrano con maggiore intensità quelli dedicati a Genesi, si avverte una sorta di rassegnata nostalgia verso chi sa attendere, sa cercare un rifugio, sa affidarsi, o nutre il “sentimento furioso” di Caino, il suo desiderio di “essere anche lui appassionatamente amato da Dio”.

IBS, 16 marzo 2011

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DE LUCA

ERRI DE LUCA, ANNI DI RAME – FELTRINELLI, MILANO 2019

Il volume da poco edito da Feltrinelli, Anni di rame, raccoglie quattro saggi politici di Erri De Luca: due inediti (A processo in corso e Sentimenti politici di un cittadino), e due pubblicati nel 2008 e nel 2015 (Senza sapere invece e La parola contraria). Il titolo si contrappone alla definizione negativa comunemente attribuita agli anni ’70, bollati come “anni di piombo” perché contraddistinti dalla lotta armata e dalle violenze di piazza che si protrassero in Italia per un ventennio. L’espressione derivava da un film di Margarethe von Trotta uscito nel 1981, indagante l’estremismo politico tedesco sfociato in attività terroristiche. L’autore conferisce a quel periodo storico una valutazione positiva e dinamica, rivendicandone la capacità di mobilitare energie collettive, di risvegliare coscienze, di costruire opposizione attiva.

Anni di rame, quindi, e non di piombo, poiché il rame è un metallo duttile e malleabile, resistente, protettivo e riciclabile, capace di condurre elettricità e calore: un materiale rosso. Rossi sono anche i quattro interventi di De Luca, a tutti gli effetti qualificabili come un’apologia e una celebrazione, non solo degli anni ’70-’80, ma della sua intera esistenza, vissuta all’insegna della ribellione a un sistema sociale e a una cultura ritenuti antidemocratici, oppressivi, polizieschi, asserviti al capitale. “Ho fatto parte dell’ultima generazione rivoluzionaria in Europa”, afferma fieramente, omaggiando coloro che credevano nel comunismo come “forza di uguaglianza e smentita di ogni privilegio”, “negazione dell’autorità” quando è maschera di truffa e prepotenza. Erano giovani desiderosi di inventare un nuovo modo di stare al mondo, senza sopraffazione, amando, studiando e lavorando in maniera solidale e non competitiva; concependo la politica come impegno e servizio, e non come “schieramenti di concorrenti che vendono la stessa merce e si accapigliano su sfumature”.

Il “The Way We Were” appassionato e nostalgico di De Luca odora senz’altro di rimpianto e di rabbia contro l’arrendevolezza attuale, ma rivela anche una convinta e totale adesione ideologica a chi allora seppe sfidare il fariseismo delle istituzioni, il falso buonismo di una moralità di facciata, il vecchiume accademico, rischiando in prima persona nell’occupare fabbriche e università, nel manifestare in massa, nel difendere i diritti di carcerati e minoranze, e pagando spesso le proprie scelte con processi, intimidazioni ed esclusione sociale. Anche oggi, quasi settantenne, lo scrittore napoletano è animato dalla stessa indignazione civile, che lo ha portato a schierarsi in difesa dei migranti, dei disoccupati, degli attivisti della Val di Susa contrari alla linea di alta velocità. Proprio a causa di quest’ultima sua presa di posizione è stato processato nel 2015 dal Tribunale di Torino, con l’accusa di aver istigato al sabotaggio del cantiere TAV-LTF. Sostenuto dall’appoggio di molti lettori, di artisti e della stampa estera più progressista, De Luca si è difeso legalmente attraverso la tutela di avvocati, ma soprattutto mediaticamente con l’uso sapiente dei social, di interviste e di orgogliose dichiarazioni spontanee in sede processuale: “Svolgo l’attività di scrittore e mi ritengo parte lesa di ogni volontà di censura… La mia parola contraria sussiste e aspetto di sapere se costituisce reato”.

È stato infine assolto, e con lui ha vinto il diritto a esprimere “parole contrarie”. Parole che possano suscitare nelle persone il desiderio di resistenza, di disobbedienza civile, come successe a lui adolescente leggendo Omaggio alla Catalogna di Orwell: “Vorrei essere lo scrittore incontrato per caso, che ha mischiato le sue pagine ai nascenti sentimenti di giustizia che formano il carattere di un giovane cittadino”. L’ultimo capitolo del libro commenta il significato della parola “istigazione”, intesa come dovere di un intellettuale a farsi stimolo di coscienza, instillando domande e dubbi, pungolando i pensieri assopiti, contestando ogni acquiescenza: capace, come fece Pasolini, di “stare solo nella terra di nessuno” pur di testimoniare, e di sostenere diritti illecitamente negati. In particolare, il diritto di parlare quando si deve, e di tacere quando non ci si vuole adeguare.

 

© Riproduzione riservata           «Il Pickwick», 30 gennaio 2019

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DE PALCHI

ALFREDO de PALCHI, NIHIL – STAMPA2009, AZZATE 2016

Maurizio Cucchi, nella prefazione a questo volume di Alfredo de Palchi, parla di «originalità forte e sdegnosa… energia violenta…lineamenti netti, e aspri, e ruvidi… forza tematica estrema». Subito quindi conviene chiosare queste affermazioni con l’orgoglioso autoritratto che l’autore offre di sé in versi e in prosa: «se mi vuoi in piedi / eccomi – ma scruta dentro l’occhio / orbo dal vedere troppo; essere il condottiero senza piumaggio ingigantito di conquiste e tempo, testa splendente di occhi veggenti e alle spalle ali di falco; vecchio leone, cacciato, braccato, ferito più volte eppure indenne, fiero, coraggioso, dignità che mi veste sartorialmente».

La vicenda biografica di Alfredo de Palchi autorizza in pieno la descrizione che lui dà del proprio indomito carattere, e del destino che si è costruito, con rabbiosa determinazione e polemica recalcitranza. Nato a Verona nel 1926, giovanissimo fu costretto dal tradimento di alcune persone – mai perdonate! (io, ricco pasto per voi insetti, / oltre l’ispida luce / vi crollo addosso il pugno) – a subire processi, una prigionia e quindi l’esilio. Rifugiatosi negli Stati Uniti, dove vive tutt’ora, ha qui svolto un’intensa attività editoriale, pubblicando diversi libri, traducendo e diffondendo molta poesia italiana contemporanea.
Il volume di cui ci occupiamo, Nihil, dal titolo di tranquilla, accettata negatività, raccoglie composizioni che abbracciano quindici anni di esistenza, dal 1998 al 2013, in un inquieto trascorrere tra passato e presente, memorie recuperate e “intime variazioni nostalgiche”, considerazioni politiche e rabbie ideologiche, amori sbranati e fisicità esibite.
Nessuna retorica nel ricordo dell’infanzia veronese, di cui salva solo la vitalità innocente del fiume Adige, con la sua “acqua erbosa”, gli argini ricoperti da biancospini e canneti, e in lontananza campi di tabacco e angurie: qui si tuffavano nudi i ragazzi, spingendosi su imbarcazioni improvvisate, tra nugoli di moscerini e zanzare. Senza cedere a rimpianti di bassa lega, Alfredo de Palchi riconosce anche la violenza naturale e sociale di quegli anni lontani: «E’ il paese incolto di preti e pretori, cloaca magna dei territori, con la frusta chiesastica per farsi valere sui bifolchi che frustano l’asino per farsi valere sugli animali; dovunque terrore e il mio annuncio».

Versi e prosa si intersecano e commentano vicendevolmente, nelle tre sezioni del libro, definite da Ombre e da Niente, in un ribadito ed esasperato nichilismo, con una scrittura fieramente petrosa e carnale, e con angosciose immagini catastrofiche di brucianti apocalissi, che non risparmiano la civiltà europea attuale (dissanguata, inerte, spossata), la falsa religione dei farisei devoti, la crudeltà verso il mondo animale, l’indifferenza divina e l’inevitabile spegnersi dei mondi interplanetari. Nemmeno il corpo merita uno sguardo clemente, condannato com’è da vecchiezza e consunzione; tanto più il corpo della donna – più Circe che Penelope, più minacciosa sfinge che tenera beatrice: «ti avvicini luttuosa, con labbra secche, di prete da estrema unzione…; ti riconosco a gambe arcuate e vulva volpina; non ti amo benché tu sia l’ultima sposa derelitta; non mi fido della tua intoccabile bruttura con ossessiva sensualità vulcanica… mi spranghi fra il nulla delle tue cosce secche di mantide; ti pensi intelligente? furba? non illuderti, con il tuo aspetto di megera ogni attimo è cenere di atomo».

Tanta dissacrante virulenza trova una sua coerente espressione nella forza quasi arrogante dello stile, rotto, inquieto, e nell’ indomabile consapevolezza della caducità di ogni cosa: nel declamato “nihil” che finirà per assorbire e neutralizzare sentimenti e pensieri, amori e rancori, insieme a qualsiasi presenza di vita: «come si esce dal nulla, cosa annunciare: che nel nulla c’è motivazione del nulla».

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/NIhil-Alfredo-De-Palchi.html;        25 maggio 2016

 

 

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DE PISIS

FILIPPO DE PISIS, ADAMO O DELL’ELEGANZA – ABSCONDITA, MILANO 2019

In questo “libretto innocuo e gentile” Filippo De Pisis chiarisce cosa si debba intendere per eleganza, soffermandosi in particolare su quella maschile. Per una estetica nel vestire, recita il sottotitolo: quindi eleganza non solo nella gestualità, nella conversazione, nella maniera di rapportarsi agli altri, ma soprattutto nell’abbigliamento. L’autore non teme la facile critica di chi volesse accusarlo di futilità o frivolezza, e nella premessa difende con forza la propria convinzione che qualunque argomento “sia egualmente leggero e profondo a seconda del modo in cui viene trattato”. L’abito fa il monaco, e “l’esteriore influisce più di quanto qualcuno potrebbe credere sull’interiore”. D’altra parte, già Omero nel VI libro dell’Odissea scriveva che in conseguenza dei bei vestiti “eccellente fama si sparge tra gli uomini”.

“L’eleganza vera (come ogni opera fine dello spirito!) è una cosa profonda e capziosa e perciò non può essere apprezzata che dai giudici competenti, i quali non possono essere che pochi. Il senso del colore (che à gran parte in essa!) non è cosa certo degli spiriti piatti o superficiali e che si acquisti così da un giorno all’altro. Ma non basta: l’eleganza deriva da un complesso di cose, è fatta di sapienza e di grazia, di armonia e di squisitezza, di distinzione e di semplicità, ed è cosa che sopra tutto deriva dalla razza. Difficilmente si regge la raffinatezza esteriore senza quella interiore. Anche dall’esteriore lustrato, con un certo garbo o con una certa astuzia, trapela subito la rozzezza e l’impaccio”. Affermazioni che indicano un’evidente propensione all’elitarismo, all’esclusività del privilegio orgogliosamente rivendicato come diritto degli happy few.

Con palese dispregio vengono bollate le eccentricità e le ostentazioni, la mancanza di gusto negli accostamenti dei colori, la scarsa cura nella scelta degli accessori, la pacchianeria di una ricercatezza esibita. Dallo studio discreto dei particolari si riconosce il vero signore: l’eleganza richiede personalità e dedizione continua, preparazione e non dilettantismo. Eppure, l’amore gratuito per la bellezza lo si può trovare anche nello straccione che infila una rosa appassita all’occhiello della giacca, nella suora di clausura che stira meticolosamente la sua tunica per far sparire le odiose spiegazzature, nell’innamorato indeciso sulla camicia da indossare per conquistare una ragazza… In una trentina di capitoletti, De Pisis, perfetto arbiter elegantiarum (come veniva chiamato Petronio alla corte di Nerone), indica quali siano i capi di vestiario cui gli uomini debbano prestare più attenzione, e la maniera più opportuna di indossarli: dalle cravatte ai cappelli, dalle scarpe ai foulard, dalle spille alle tute da lavoro. E la galleria fotografica offerta al lettore (come in ogni volume intelligentemente curato dalle edizioni Abscondita) ci mostra un De Pisis  “in posa”, dagli anni giovanili alla maturità, in atteggiamento da squisito dandy, oppure con travestimenti seriamente giocosi (da umanista, da gondoliere, da carrettiere romano: a Parigi, a Venezia, a Ferrara, a Cortina, nella capitale): sempre concentrato sull’esposizione all’occhio fotografico, in un’ideale sfilata di moda con sé stesso come unico protagonista. Risulta evidente e mai rinnegata l’aristocraticità della persona, il proprio amor sui, l’impegno costante nella costruzione del personaggio pubblico: “candido reazionario”, come lo definì Paolo Milano, non faceva mistero di ispirarsi a Oscar Wilde, suo modello di vita e di pensiero.

Filippo De Pisis, pittore tra i più noti del nostro Novecento, nacque a Ferrara nel 1896, e morì in provincia di Milano a sessant’anni. Laureatosi in lettere a Bologna, fu scrittore e poeta, critico d’arte e saggista, anche se la sua fama maggiore gli derivò ovviamente dalla pittura, inizialmente di impianto metafisico sulle orme di De Chirico, quindi più originalmente orientata verso una poetica di sottile sensualità, accentuata da un’acuta sensibilità descrittiva: l’amicizia parigina con Julius Evola lo portò ad approfondire interessi esoterici che trasferì nel suo tratto artistico, con un uso più gestuale e spezzato del colore, evidente nella scelta di tutti i soggetti: nature morte e fiori, paesaggi urbani, nudi maschili e figure di ermafroditi.

In Adamo o dell’eleganza (composto frammentariamente a partire dagli anni ’20, uscito postumo e pubblicato per la prima volta nel 1980 con introduzione di Alberto Arbasino, riproposto nell’attuale edizione con il commento conclusivo di Sandro Zanotto), Filippo De Pisis si diffonde generosamente in consigli sulle necessarie “combinaisons” dell’abbigliamento, quali oggi siamo abituati ad ascoltare da diversi pulpiti televisivi attraverso la voce di fashion adviser, consulenti d’immagine, influencer d’opinione, maestri di bon ton: evitare i contrasti stridenti, utilizzare poche tonalità di tinte, scegliere tessuti pregiati e fatture curate, sottrarsi a qualsiasi appariscente preziosismo. E poi badare al taglio dei capelli e della barba, maneggiare ombrelli e bastoni da passeggio con studiata nonchalance, scegliere spille-gemelli-bottoni-ciondoli poco vistosi ma ricercati.

A scanso di accuse da parte di seriosi moralisti, il pittore-esteta ammette candidamente: “Potrà non fare bella impressione a molti dei miei lettori, ma io potrei confessare che in generale i miei simili mi interessano molto di più per l’esteriore che per l’interiore, vale a dire le doti dell’animo e del cuore, della mente, dello spirito, etc… le immagini nella vita sono quelle che infine ànno il maggior valore perché ne ànno uno più pretto e immediato… Per l’eleganza si arriva fino al punto di non andare con l’amico perché à una cravatta che stona con la tua”. In questo, Filippo De Pisis fu eccezionale precorritore dei nostri più celebri blogger e testimonial di marketing, e più di loro in grado di offrire una base teorica alle proprie opinioni estetiche.

 

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 15 marzo 2019