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AAVV, IL VENETO CHE AMIAMO

AAVV, IL VENETO CHE AMIAMO – EDIZIONI DELL’ASINO, ROMA 2020 (ebook)

Quattro grandissimi della letteratura italiana del ’900, quattro autori che hanno reso il Veneto migliore, sono i protagonisti di questo originale e interessante ebook pubblicato dalle Edizioni dell’Asino: Andrea Zanzotto, Mario Rigoni Stern, Luigi Meneghello, Fernando Bandini. Intervistati, coinvolti in una serie di riflessioni, pungolati da Goffredo Fofi, Gianfranco Bettin, Marco Paolini, Nicola De Cilia, Leonardo Ruffin, raccontano se stessi e il territorio in cui sono nati e vissuti, e che ha nutrito la loro scrittura. Parlano di ciò che il Veneto è stato, nella storia e nella cultura, e di quello che rappresenta oggi per l’economia, l’arte, la politica, l’ambiente del nostro paese.

Nella prefazione, Fofi, amico in particolare di Zanzotto e Bandini, tratteggia un ritratto del Nordest in bilico tra l’affettuosa ammirazione e un fastidio insofferente: “Il Veneto che ha dato così tanto alla storia e alla cultura dell’Italia e che ha saputo resistere e sa ancora resistere al generale degrado, morale e culturale prima ancora che politico” è la stessa regione che con la Lombardia ha contribuito a diffondere comportamenti di scandaloso malaffare, corruzione, inquinamento. Il docile paese conosciuto da Fofi negli anni ’50-60 era ancora fatto di contadini e proletari che emigravano, di famiglie cattoliche numerose, di soldati e servette che animavano la narrativa e il cinema neorealista, di dialetti cantilenanti che riflettevano la dolcezza del paesaggio. In seguito, le rivolte dei movimenti studenteschi padovani e degli operai di Marghera, la crescente industrializzazione e cementificazione edilizia hanno contribuito a modificare l’immaginario collettivo e gli stereotipi più radicati. Oggi il Veneto si è imbruttito e involgarito, nella corsa allo sviluppo e alla ricchezza individuale che ha trasformato i lineamenti del territorio e il carattere degli abitanti. Troviamo tracce di questo accanimento feroce e autodistruttivo nei romanzi di Carlotto e di Bettin, nelle inchieste di Rumiz.

Andrea Zanzotto (1921-2011) parlando nel giorno del suo 87esimo compleanno, lamenta che la sua Pieve di Soligo sia stata deturpata da un’aggressiva pianificazione urbanistica. “Oggi abbiamo un paesaggio in cui sembra prevalere la fabbrichetta velenosa, la puzzolente discarica, l’orribile intasamento del traffico per strade sempre più insufficienti e pericolose”. La poesia rimane come baluardo, “forma di salute e di resistenza biologica”, che proprio nel salvare un’immagine sana dell’habitat, compie un’operazione ecologica di mantenimento della bellezza. Perché “la poesia dice quello che deve dire sempre da una specie di esilio dentro la realtà…”. Zanzotto racconta degli anni del dopoguerra, della sua emigrazione in Svizzera, dell’insegnamento e dei primi amori giovanili: da poeta, ne tratta con toni affabulatori, sorridenti e nostalgici. Rispetto a un mondo guasto e frenetico, conclude, “meglio stare qui, anca picadi a un spin, ma comunque qui”.

I ricordi privati diventano memoria collettiva e civile nelle testimonianze di tutti gli intervistati.

Mario Rigoni Stern (1921-2008), asciutto cronista e memorialista della seconda guerra mondiale e della campagna di Russia, profondo conoscitore dell’altopiano di Asiago nelle sue tradizioni e in ogni anfratto territoriale, constata come preambolo al suo discorso che quando la neve si scioglie a 2500 metri di altezza è unta. Unta, sporca, come l’aria appestata dal carburante degli aerei e le montagne invase dai rifiuti degli alpinisti della domenica: uomini e donne che per cercare un paesaggio vergine, in realtà contribuiscono a inquinarlo. Rigoni Stern parla di tutto, della televisione che condiziona i pensieri, dell’editoria interessata solo al mercato, degli scrittori giovani esibizionisti e di quelli maturi permalosi ed egocentrici. Concludendo pessimisticamente: “È difficile liberarsi del mondo che avanza. Mi sono detto, salviamo almeno quello che è stato abbandonato. Lo diceva Rilke: andremo a cercare ai margini delle strade quello che abbiamo buttato via”.

Anche Luigi Meneghello (1922-2007), indimenticato autore di Libera nos a Malo, prende spunto dalla propria biografia per meditare sulla storia passata e recente della regione in cui è nato. Partendo dagli anni fascisti della sua infanzia da “balilla”, rievoca gli studi universitari, la guerra combattuta come alpino, la partecipazione attiva alla Resistenza, il matrimonio con la moglie ebrea ungherese scampata ai lager, la passione per le motociclette, e infine l’emigrazione in Inghilterra, con l’impegno accademico a Reading durato tutta la vita lavorativa. Quindi i suoi romanzi, vivacizzati dal “trasporto” in italiano di molti termini dialettali, e il recupero ironico di una koinè linguistica che definiva anche un modo di stare al mondo, con solidale indulgenza: “Volta la carta… la ze finia”.

Ultimo ma non ultimo, Fernando Bandini (1931-2013), raffinato poeta in italiano e latino, si sofferma sulla necessità di un impegno fattivo nella politica locale: “Sono totalmente immerso in Vicenza, in un rapporto di odio-amore, cerco di interpretare il mio tempo partendo da questo piccolo spazio”. E ribadisce il dovere che abbiamo di dialogare con i morti, come memoria familiare e storica: “L’interesse per il passato aiuta a riannodare fatti e personaggi, a farti presente che sono esistite una storia nazionale, una storia culturale e sociale estremamente ricche di cui adesso si è voluto dimenticare tutto, sia la sinistra che i cosiddetti ‘laici’ che i cattolici”.

Non solamente laudatores temporis acti, quindi, questi “grandi vecchi” della letteratura italiana, ma anche esempio di uno spessore morale e intellettuale di assoluta rilevanza, propositivo e fiducioso nell’aprire alla speranza di un cambiamento, che a partire dalla campagna, dai monti, dalle cittadine in cui sono nati e vissuti, possa investire tutto il Veneto, e l’intera nazione.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 19 giugno 2020

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AAVV, LE TRENTASEI POETESSE IMMORTALI

AAVV, LE TRENTASEI POETESSE IMMORTALI – GATTOMERLINO, ROMA 2024

La scrittrice e traduttrice Piera Mattei ha curato, per la casa editrice Gattomerlino da lei fondata nel 2010, un prezioso libriccino, Le trentasei poetesse immortali, dalla vivace copertina di raffinata ambientazione orientale. Nel suo approfondito saggio di apertura, L’importanza del numero, Mattei ci accompagna in un excursus illustrativo della poesia giapponese, a partire dalla differenza esistente tra le forme letterarie dei Tanka e degli Haiku, per inoltrarsi poi in un originale confronto con la poesia femminile del nostro ’500.

Il tanka si componeva di cinque versi, in cui la prima parte aveva la struttura ereditata dall’Haiku (5-7-5 sillabe) e la seconda era costruita in due versi di 7 sillabe, per un totale di 31 sillabe il cui schema era rigorosamente rispettato dai poeti della corte imperiale, in omaggio a un’ideale di armonia e ricercatezza espressiva.

Nate in contrapposizione al soverchiante modello cinese, queste brevi composizioni venivano raccolte in antologie imperiali riportanti i contributi dei 36 vincitori di una rituale competizione letteraria a tema fisso. Tra queste antologie divenne molto popolare quella delle Trentasei poetesse immortali, le cui autrici erano state scelte, oltre che per la sensibilità ed eleganza nella scrittura, anche per la perizia nelle arti della calligrafia, della musica, della danza e della pittura.

Gattomerlino propone una scelta di tanka tratti da una celebre raccolta del tredicesimo secolo conservata alla NY Library, basandosi sulla traduzione inglese di Andrew J. Pekarik, arricchita dalle illustrazioni del pittore Eishi (1756-1829).

Delle trentasei poetesse che vissero tutte alla corte di Kyoto tra il X e il XIII secolo, sei erano di altissimo rango (principesse o concubine imperiali), le altre erano dame della media nobiltà in servizio a palazzo per funzioni attinenti ad abbigliamento, nutrizione, etichetta, diplomazia, e per tali motivi ammesse alla vita privata del sovrano e delle sue numerose mogli e concubine.

La poligamia e lo stato di dipendenza totale dalle figure maschili in tutta la società medievale, relegava le donne a un ruolo di sudditanza, solitudine ed esclusione dall’ufficialità, che sia nei diari sia nei tanka veniva espressa in toni di rassegnata malinconia, attraverso un repertorio di immagini e situazioni letterariamente collaudate, ereditate dal canone cinese.

Pur nella rigidità e brevità della formula compositiva in cui erano costretti, gli stati d’animo delle trentasei poetesse (indicate singolarmente per nome ed epoca di riferimento), manifestavano un ventaglio di emozioni differenti, dalla nostalgia al rimpianto, dal risentimento al desiderio sensuale, dalla gelosia all’autocompassione: “Quando potremo scioglierci / insieme, nodo così difficile / da allacciare / così facilmente disfatto / che leghi le mie vesti, la notte?” ; “Pensavo che / infine questa vita sarebbe stata quella /  che avevo desiderato. / Perché dovrei, d’impulso / troncarla, per colpa dell’amore?”; “Uomini, senza pensare / fanno promesse / che sono di fatto bugie. / Ciò che fa male è questa mia vita / dove il cambiamento è abitudine”; “Più che mai / e di nuovo sono inzuppate / queste mie maniche delle lacrime / che ho versato / pensando al lontano passato”; “Questa stretta stuoia, / il letto in cui mi abbandonò / pensando “Solo per una notte” / è rimasta intatta, / oggi è coperta di sporcizia e di polvere!”; “Nessuna visita giunge / con lo spirare di questo / vento d’autunno. / Se tu fossi un germoglio di canna / un suono – almeno – emettesti”.

Numerosi sono i tanka da cui si effonde un sentimento di incantata ammirazione per il paesaggio, con la consolante risonanza della malinconia nell’osservazione della natura. Pioggia e rugiada ricordano le lacrime di cui sono intrise le maniche dei chimoni, la luna rischiara delicatamente la minacciosa oscurità notturna: “Il vento della baia / che violento batte la riva / trascina uccelli di sabbia. / Sollevando onde sta arrivando. / Odo i suoi gridi nella notte”; “Con un velo di nebbia / che ancora sale in questa primavera / ecco la luce della luna / rende visibile la bellezza / della profondissima notte”.

Piera Mattei nella prefazione propone un interessante parallelo tra la produzione poetica delle dame giapponesi e la stagione di grande creatività femminile sviluppatasi nel nostro Cinquecento a opera di letterate petrarchiste, ugualmente segnate “dal culto della raffinatezza, dall’ossimoro, di un’originale imitazione in forma chiusa, e inoltre, spesso, dal senso di solitudine (e inversamente dal respiro di libertà) connesso alla condizione di un rapporto amoroso non sempre esclusivo, talvolta precario… Interessa nella loro poesia l’esplicita dichiarazione di desiderio e d’attesa, la disposizione a prendere atto di una disfatta o dello spegnimento di una passione, una libertà mentale e affettiva impensabile per le onorabili donne ita liane d’allora”.

I nomi citati sono quelli famosi di Vittoria Colonna, Veronica Gambara, Gaspara Stampa, Veronica Franco, e di un’ulteriore dozzina di artiste meno note al grande pubblico. Di alcune di loro vengono riportati i versi, in un’interessante comparazione tematica con le trentasei poetesse immortali, creature di un mondo lontano nel tempo e nello spazio, ancora vicino nella sensibilità e nel patimento dell’esclusione sociale.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net           21 maggio 2024

 

 

 

 

 

 

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ABIGNENTE

ELISABETTA ABIGNENTE, QUANDO IL TEMPO SI FA LENTO – CAROCCI, ROMA 2014

Un libro sapiente dedicato all’attesa, questo della studiosa Elisabetta Abignente, che esplora il tempo sospeso, il tempo vuoto e lento, che amiamo definire «tempo morto», di chi aspetta. Di chi si trova nella condizione morale e fisica di sostare in presenza di un’assenza. Posizione inattuale, antiproduttiva, quasi sovversiva, in un’epoca che va di corsa, affannata, efficiente come la nostra. Ma anche posizione in qualche modo poetica, perché privilegia la meditazione, l’attenzione introspettiva, la nostalgia. Soprattutto nella forma particolare indagata da questo volume, che è quella dell’attesa amorosa. Non ci sono solamente Penelope sospirosa nell’attesa fedele di Ulisse, o le spose dei cavalieri medievali che pazienti filano all’arcolaio: anche molta letteratura moderna ha costruito suoi topoi descrittivi del «non-ancora». Abignente si sofferma in particolare sulle pagine di Proust, Thomas Mann e García Márquez, che magistralmente ci hanno raccontato «l’attesa nervosa e claustrofobica di Albertine», «la settennale attesa biblica di Giacobbe e Rachele», «l’attesa iperbolica» di Florentino Ariza : e lo fa rintracciando i tratti che caratterizzano i diversi e sofferti modi di affidarsi a un futuro ignoto, e sfruttando le riflessioni di Roland Barthes sul discorso amoroso. Oltre ai tre capitoli dedicati ai succitati giganti della narrativa mondiale, è molto coinvolgente il saggio finale del volume, che affronta il motivo dell’attesa non solo nel suo habitat più consono e abituale, quello del tempo, ma anche in quello meno scontato dello spazio.

«All’origine di ogni attesa d’amore vi è uno spazio: quello della distanza che separa chi attende da chi è atteso…L’assenza della persona amata dalla scena dell’attesa…provoca sentimenti tipici della lontananza, quali la nostalgia e il ricordo ma anche il sospetto, la gelosia, la rabbia». Sentimenti vissuti in genere in luoghi domestici deputati al desiderio, all’angoscia, alla speranza: la camera da letto e la finestra.

«Leggere Donna» n.167 , aprile 2015

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ACETI

EZIO ACETI, ACCAREZZARE IL CONFLITTO – TAU, TODI 2022

Lo psicologo Ezio Aceti si occupa di educazione infantile-adolescenziale e di supporto alla genitorialità. L’ultimo suo volume, pubblicato presso l’editrice umbra Tau, fa riferimento nel titolo (Accarezzare il conflitto), alla frase pronunciata da Papa Francesco in un discorso del marzo 2014, “Il futuro sarà accarezzare il conflitto”, auspicando una propositiva comunicazione tra i popoli e gli individui, e prospettando una nuova modalità di convivenza pacifica. Non celare o reprimere il conflitto, quindi, ma riconoscerlo nella sua energia dinamica “come coessenziale, come costitutivo della vita”, operando per disarmarlo negli effetti ostili e dannosi per la comunità.

Il libro è suddiviso in quattro capitoli: partendo dall’analisi della complessa e pluralistica società contemporanea nelle sue tendenze disgregatrici e ansiogene, propone risposte di fede, nutrite dall’insegnamento evangelico e dalla lettura dell’enciclica papale “Fratelli tutti”, per offrire poi alcune indicazioni concrete atte a prevenire e risolvere i contrasti personali e sociali, facendo leva su atteggiamenti, esperienze e valori utili a disinnescarli. Senza lasciarsi andare a un malinconico rimpianto del passato e senza catapultarsi verso una modernizzazione esasperata e imprudente.

Oggi le persone sembrano smarrite, prive di orientamenti etici, indifferenti al trascendente, isolate tra di loro, sclerotizzate nei sentimenti e sempre in tormentosa ricerca di significati esistenziali cui aggrapparsi: “una coltre di nebbia e di sconforto ci avvolge”. I due anni di pandemia hanno aggravato lo stato di ansia generalizzato, provocando spesso reazioni scomposte alla crisi economica e sanitaria (determinate dai timori per la salute e dai sospetti verso i provvedimenti presi dalle autorità e dagli scienziati), che hanno messo in crisi i comportamenti nelle dinamiche relazionali. “È un’abitudi ne al buio, al negativo che ha intaccato le nostre relazioni, sia dentro che fuori di noi”.

Quali strumenti suggerisce quindi l’autore del volume per “accarezzare i conflitti” nati all’interno di comunità ristrette come le famiglie e le scuole, e più ampie come gli agglomerati urbani, e addirittura nel panorama politico nazionale e mondiale? Secondo il Professor Ezio Aceti le persone devono riuscire a superare i pregiudizi nei confronti degli altri, siano essi uniti da vincoli di parentela e amicizia, siano invece provenienti da realtà diverse dalle proprie. “Per poterci risollevare e riprendere il cammino verso una umanizzazione del vivere” è fondamentale recuperare il senso di solidarietà ed empatia nei confronti del prossimo, anche sacrificando in parte i privilegi di cui si gode, e cercando un contatto di vicinanza attraverso il dialogo e piccoli gesti di sostegno quotidiano.

Amare, dunque, in maniera concreta, cercando di realizzare un programma di azioni e parole mirato al bene. E, per chi ha la fortuna di credere, lasciandosi illuminare dalla Grazia, secondo l’esempio di due grandi donne che hanno saputo consegnare al mondo un generoso messaggio di solidarietà, coraggio e speranza: Madre Teresa di Calcutta ed Etty Hillesum.

Di quest’ultima, morta ad Auschwitz, vengono riportate alcune frasi tratte dal Diario: “Signore, fammi vivere di un unico grande sentimento – fa’ che io compia amorevolmente le mille piccole azioni di ogni giorno, e insieme riconduci tutte queste piccole azioni ad un unico centro, a un profondo sentimento di disponibilità e di amore. Allora quel che farò, o il luogo in cui mi troverò, non avrà più molta importanza”.

 

© Riproduzione riservata 

SoloLibri.net › Accarezzare-il-conflitto-Ezio-Aceti             17 febbraio 2023

 

 

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ACITELLI

FERNANDO ACITELLI, CANTOS ROMANI – ES, MILANO 2012

Diversamente dai Cantos Pisani di Pound, così tormentati formalmente, e complessi contenutisticamente, i Cantos Romani di Fernando Acitelli (Roma, 1957) si sviluppano in sessantaquattro (LXIV) momenti di pacata e malinconica osservazione del passato storico della città eterna, quasi una celebrazione priva di fasti e retorica: intenerito omaggio – umano, molto umano – a personaggi grandi e minimi che hanno reso l’Urbe, appunto, eterna.

Una Roma esplorata nelle viscere, dall’età imperiale a quella paleocristiana, dal rinascimento all’ottocento, per spingersi fino all’attualità: e raccontata con la fedeltà amorosa che riesce a soprassedere su colpe e tradimenti, per sottolineare invece e decantare virtù e bellezze incontaminabili da qualsivoglia vergogna e volgarità.
L’amico fognarolo, “custode di falde acquifere”, che “tanto sapeva / di strade, cunicoli, vicoli, intoppi / del sottosuolo” introduce l’autore nei sotterranei urbani, alla scoperta di urne, monete antiche, cimeli: non solo testimonianze di vite famose, ma reperti di esistenze anonime, di ossa riaffiorate da ipogei fangosi. Di un Aureliano sconosciuto, magari, le cui tracce fisiche sono rimaste più tangibili di quelle del più celebre edificatore della cinta muraria; di un bambino dell’anno 100 d.C.; di qualche vergine adolescente: Sabina, Plotina, Drusilla…

“Se vago tra i reperti, / la diagnosi è sospesa. / Chiunque, a quest’ora, da Lucio Vero a un bimbo / dell’Impero, è più in salvo / di me”. Storia e cronaca, passato e presente, sacro e profano, vita collettiva e individuale si confondono e compenetrano, in questi versi densi di immagini e di pensiero, vaganti per una Roma concreta dell’oggi, nella sua toponomastica (Via Cairoli, Campo Marzio, il Celio, il Teatro Quirino, Porta Furba, Via Selinunte…), nei suoi bar, nelle basiliche, tra gli sfasciacarrozze e nei negozi eleganti, nei corridoi degli uffici ministeriali o nei cantieri periferici. La città trafficata e pulsante di chi la vive quotidianamente, onorandola o imbrattandola (“Porta Maggiore di notte. / Via Giolitti con le sue mignotte”, “gli operai esibivano fieri il copricapo di giornale”, “un vecchio si distinse per bestemmia”, “L’autista del 409 amava il cambio di marcia”, “i vecchi passeggiano pettinati, rasati / per bene nella penultima finzione”), tra presenze fantasma di attori scomparsi, e gatti, piccioni, levrieri che si muovono tra le rovine.

L’arte antica di Masaccio, Filippino Lippi, Solimena ha lasciato tracce nella pittura novecentesca di De Chirico, Guttuso, Schifano; la politica sporca dei “profittatori di sempre”}» trova un suo riscatto nella solidità pulita degli affetti domestici; le tombe dei martiri cristiani sono velate dalla stessa malinconia che incornicia le sepolture dei parenti più cari. Su tutto aleggia (mai macabro, e piuttosto ineluttabile, fatalistico) lo spirito del dissolvimento, di una fine a cui ogni esistenza, sentimento, gesto, oggetto è inesorabilmente destinata (i corpi di “Tiberio, Giuliano e Decio”, come i mozziconi di sigarette abbandonati sull’orlo dei tombini, o come i peli di barbe e capelli scivolati giù nei lavelli: “Finite dove le rasature degli anni ’30?”). Tuttavia a questo “nulla / da cui veniamo e a cui siamo diretti” Roma, con i suoi millenni di storia, presta uno scenario di fascino particolare, in cui (come suggerisce il postfatore del volume, Raffaele Manica), “non è detto… se siano più morti i vivi o più vivi i morti”. A questa eternità di vita che accoglie presente e passato all’interno delle stesse mura, ai suoi abitanti ignari o colpevolmente disinteressati, Fernando Acitelli rivolge un’accorata e innamorata preghiera: “Accudite quei sarcofaghi isolati / quelli che come conforto possono contare solo / sulla pioggia, o sul muschio che ne indora / l’incavo, l’intimità già scaldata dal sole. / Ponetegli attorno girandole di lumini, portate / il Natale anche al fanciulletto Aulo / Massimo, al bimbo Publius Aelius Felicissimus, che sia / loro narrato, dunque, il miracolo del Natale / che a quell’epoca non accadeva ed è paura / adesso il considerare questo”.

 

© Riproduzione riservata          www.sololibri.net/Cantos-romani-Acitelli.html      31 ottobre 2016

 

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ADORNO-CELAN

ADORNO-CELAN, SOLO, CON ME STESSO E LE MIE POESIE – ARCHINTO, MILANO 2011

Il pregio di questo elegante e curato volume edito da Archinto non sta tanto nella presentazione dell’epistolario, abbastanza rapsodico e scarsamente esemplificativo del rapporto instauratosi tra Theodor Adorno e Paul Celan. Si tratta infatti di poche lettere in cui il poeta rumeno si lamenta del disinteresse e della persecuzione che circonda il suo lavoro (“Vengo depredato… E poi coperto di sputi, calunniato…”), e sembra auspicare una maggiore attenzione critica da parte del filosofo tedesco, forse sperando in una solidarietà più esplicita dovuta alle comuni radici ebraiche. E Adorno, qua e là, tra le righe, si sbilancia: “Il suo testo incomparabilmente bello… il suo testo in prosa estremamente interessante ed enigmatico…”, senza tuttavia decidersi mai a scrivere l’intervento promesso sulla poesia del suo interlocutore. Ma appunto il merito di questa proposta editoriale sembra soprattutto essere nel saggio introduttivo di Joachim Seng, molto appassionato ed esaustivo, che ripercorre la relazione tra i due personaggi, a partire dall’incontro mancato di Sils Maria nel 59 (quasi temuto da Celan, che più volte si sottrasse a ripetute occasioni di conoscere importanti esponenti della cultura dell’epoca: non solo Adorno – poi effettivamene incontrato nel 60, alla Buchmesse di Francoforte- ma anche Beckett). Se il filosofo sembrava accordare alla trepidante attesa del poeta un’attenzione un po’ superficiale (nella sua biblioteca furono trovati solo due libri di Celan), quest’ultimo seguiva ogni pubblicazione di Adorno con un’ammirazione e un coinvolgimento totale, traendone ispirazione anche per i suoi versi. La famosa sentenza adorniana secondo cui dopo Auschwitz non si sarebbe dovuto più scrivere poesia aveva aperto in Celan abissi di inquietudine e di sensi di colpa, cui tuttavia egli seppe rispondere con la tragica disperazione della sua scrittura. Il volume si conclude con due interessanti note biografiche di Roberto Di Vanni.

IBS, 7 marzo 2012
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ADY

ENDRE ADY, IL PERDONO DELLA LUNA – MARSILIO, VENEZIA 2018

Caramore ci introduce, con sapienza e rigore, alla poesia di Endre Ady situandola storicamente e socialmente nel cuore dell’Ungheria di inizio ‘900, paese dilaniato e sottomesso, in perpetua lotta contro gli oppressori austriaci e lacerato da contrasti interni. L’accurata ricostruzione biografica effettuata dalla curatrice (che insieme a Vara Gheno si è occupata anche della traduzione dei testi) viene accompagnata da un commento che ne ricollega gli snodi fondamentali ai nuclei più rilevanti della produzione poetica, a partire dalle origini familiari, e poi attraverso gli studi, i viaggi, gli amori, la malattia: soprattutto esplorando evoluzioni e involuzioni del credo ideologico e spirituale dell’autore.

Endre Ady nacque nel 1877 da una famiglia di piccola nobiltà decaduta e di tradizioni calviniste a Érmindszent, villaggio al confine con la Transilvania, oggi facente parte della Romana: indirizzato verso studi giuridici, si dedicò presto al giornalismo, desideroso di interpretare e influenzare gli avvenimenti politici della sua terra magiara («Mia odiosamata nazione»), con un generoso impegno democratico e liberale, antinazionalista e anticlericale, decisamente ostile alla dominazione degli Asburgo. Trasferitosi presto nella città industriale di Nagyvárad, iniziò a comporre le prime poesie, immergendosi in un’esistenza inquieta di sregolatezze, alcol ed esperienze sessuali promiscue che lo portarono a contrarre la sifilide, malattia che lo tormentò negli anni a seguire, conducendolo alla paralisi e a una morte precoce nel 1919.

Ady esibiva provocatoriamente il suo lato di poeta maudit, lussurioso e blasfemo, sfidando il fariseismo benpensante della comunità cui apparteneva: «Siamo in tre sulla grande pianura: / Dio, io e una maledizione contadina. / So bene che tutti moriremo, / ma io lancio un forte grido spietato. // Io da solo non temo, non tremo, / tanto ormai il mio guscio è di Satana», «Né lieto avo né discendente, / né parente né conoscente, / non sono di nessuno, non sono di nessuno», «E quando dovevo comprare un bacio, / chiudevo gli occhi e chiudevo anche il cuore: // …Però le amo tutte, una per una, / Maddalena e la vergine Maria // … Io le amo appena son nate, / infanti, giovani, vecchie e mature; / Io amo ognuna che è donna: / un uomo vero, un uomo triste io sono». Trasferitosi a Parigi, entrò in contatto con le avanguardie artistiche, lasciandosi travolgere dalla loro energia visionaria, e soprattutto da un amore folle per una donna sposata, sensuale e affascinante, cui dedicò versi appassionati: «Sono ferita rovente. Brucio, dolente. / Mi strazia la brina, mi strazia la luce, / te voglio…// Baciami. Bruciami. Baciami», «Questi occhi vecchi, questi occhi tristi / non guarderanno più nessun’altra. // Scacciami pure, Léda: / a questi occhi di vecchio cane fedele / mai potrai davvero fuggire».

Sofferente nel corpo, tormentato nell’anima e nei pensieri, presagiva la morte con una sorta di “cupio dissolvi” che lo avvicinava alla pena di ogni effimera creatura: «Sono malato, molto malato. / Sii giusto, mio Dio, / e benedicimi per quanto ora soffro», «Io sono parente della morte / … Amo le rose malate / donne sfiorenti bramose, / atmosfere d’autunno / amare e radiose. // Amo i delusi, i mutilati, / e quelli che si sono fermati; amo chi non crede e chi si è turbato: / questo è il mondo che amo».

Oltre all’amore per la donna, lo teneva in vita la volontà di combattere per la sua «terra di sconfitte e trionfi», lottando «come un antico sovversivo»: «Se cento volte ti voltassi le spalle, / con o senza una motivazione, / finché mi terrà in piedi la vita, / mai potrò stare con gli infami, / ma ti starò accanto, mia bieca nazione. // … Agire, anche solo scrivendo, / ma agire comunque, irrequieti. / Con orgoglio e in alto la testa, / far sapere che qui nulla accadrà / finché rimarrà anche una sola protesta», «Né cieli né inferni al fiero magiaro / avrebbero potuto mai dare destino più bello / che essere uomo nell’inumano, / essere magiari perseguitati, / di nuovo vivi o morti ostinati». L’Ungheria, trascinata in guerra, smembrata, devastata, non riuscì a sollevarsi dalla desolazione, a cui Ady dovette assistere nei suoi ultimi disperati anni: «Tutto ciò in cui credemmo, / è perduto, perduto, perduto», «Triste e funesto il popolo ungherese, / vissuto sempre nella rivolta, per guarirlo / gli infami dannati gli hanno affibbiato / tutte le guerre e gli orrori fin dentro la tomba».

Appellarsi a Dio, allora, come estrema ancora di salvezza? Gabriella Caramore nella sua prefazione insiste molto sul rapporto che il poeta intratteneva con il divino, nelle liriche espresse con la stessa violenza interrogante e supplicante dei Salmi, ripercorrendo le Scritture (in una ritrovata memoria della severa educazione calvinista), dalla Genesi ai Profeti all’Apocalisse. Del misticismo furente di Ady, Massimo Cacciari scrisse: «È l’ateo che crede, ma il cui credere non può superare l’ateismo». La sua preghiera assume infatti le sembianze della maledizione e della bestemmia, fieramente ostile a ogni clericalismo e devozionismo, estranea all’interesse teologico. Una preghiera che si sa inascoltata nella sua richiesta di giustizia, impossibilitata a comprendere l’abissalità del mistero: «Credo, incredulo, in Dio. / Io voglio credere per davvero. / Mai nessuno ne ha avuto tanto bisogno, / né un vivo né un morto», «Di continuo disputavo col Signore / … dicono che ho offeso molte cose antiche, / dicono, così dicono», «Egli è tutto. Ma non sa benedire. / Egli è tutto. Ma non sa punire. / …Sorride. Ordina. Nient’altro. / Il suo volto è un sole di ghiaccio. // … Anche se i nostri tendini son lacerati, / e siamo in un grande, infernale dolore, / Lui si diverte soltanto: non ci ama //… romba scrosciando, risuona ridendo, / trascina, fracassa, corre incessante, / non lo tiene né diga né torpida sponda. /… Egli è Tutto ed è inconsolabile, / un Dio unico e terrificante».

Endre Ady nel corso della sua breve e turbinosa esistenza, conobbe incomprensioni e ostilità, rifiuti letterari e persecuzioni politiche, ma fu molto amato dal popolo, delle cui angustie e speranze seppe farsi portavoce. Alla sua morte, la partecipazione alle esequie fu enorme, e nel 1990 il suo viso intenso e sofferto fu incorniciato in una banconota della Repubblica Ungherese da 500 fiorini.

 

© Riproduzione riservata        «Il Pickwick», 19 marzo 2018

 

 

 

 

 

RECENSIONI

AFFINATI

ERALDO AFFINATI, ELOGIO DEL RIPETENTE – MONDADORI, MILANO 2013

Eraldo Affinati, stimato e impegnato narratore quanto appassionato insegnante, racconta in questo volume la scuola italiana di oggi, prendendo una decisa e coraggiosa posizione a fianco degli ultimi, dei più deboli: dei bocciati. Cinquant’anni dopo Don Milani, la sua lettera pedagogica non ha più come destinatario una ipotetica professoressa appartenente a una borghesia intellettualmente e moralmente striminzita, bensì uno dei tanti pinocchi (spilungone, annoiato, strafottente, addirittura violento) che occupano sbadigliando gli ultimi banchi delle nostre classi. Il ritratto che fa Affinati di questa dilagante massa di irrecuperabili alunni è impietoso e disperante: maschi e femmine provenienti da famiglie inadeguate, culturalmente ed economicamente povere, spesso straniere. Adolescenti che esibiscono provocatoriamente la loro ignoranza, assistono alle lezioni in stato semi-catatonico oppure opponendo resistenza attiva, esprimendo la loro rabbia verso oggetti e persone, frustrati dall’indifferenza delle istituzioni e disperati nelle loro prospettive future. Affinati, forte della sua decennale esperienza in istituti professionali della periferia romana, solidarizza completamente con questi incolpevoli paria della nostra istruzione, vittime di anacronismi didattici, confinati in scuole fatiscenti, incapaci di qualsiasi dialogo con il mondo degli adulti, privi di curiosità intellettuali e insensibili alla politica. Consapevole dell’importanza del suo ruolo di educatore, e del rilievo affettivo (da vice-padre) della sua figura di docente, convinto anche di esercitare «il mestiere più bello del mondo», Affinati tratteggia i ritratti di questi suoi alunni: li segue nei loro tortuosi percorsi esistenziali e scolastici, li va a cercare a casa, se li porta in giro per Roma o li recupera nelle discoteche, sui campetti da calcio, nelle officine dove lavoricchiano in nero, nei bar, sul litorale quando ci si rifugiano in gruppetti per fumare canne. Ogni risposta esatta nelle interrogazioni è una conquista, ogni promozione una vittoria, la maturità ottenuta un riscatto davanti alle macroscopiche ingiustizie sociali. Lo studente preferito non è tuttavia quello promosso, ma quello che esprime una sua eccellenza umana, fatta di generosità e solidarietà verso i compagni. Perché se è legittimo scagliarsi contro sistemi di valutazione obsoleti e castranti (griglie, voti, note, dettati, prove Invalsi, DSA, programmazioni assillanti), è altrettanto doveroso sottolineare che a questi «ragazzi persi» è stato rubato qualcosa di fondamentale: la fiducia in se stessi e nel domani, la possibilità di un riscontro positivo in chi li giudica solo dai risultati e mai dagli sforzi compiuti, l’autostima, o semplicemente uno sguardo più comprensivo, affettuoso, incoraggiante.

«Incroci» n.29,  giugno 2014

RECENSIONI

AGAMBEN

GIORGIO AGAMBEN, IL MISTERO DEL MALE – LATERZA, BARI 2013

In questo volume pubblicato da Laterza, Giorgio Agamben – forse il più noto filosofo italiano in ambito internazionale- riunisce due suoi brevi e recenti saggi, impegnativi ma affrontabili anche da un pubblico non specialistico, che riflettono su argomenti di profonda rilevanza teologica.
Il mistero del male  indaga il problema filosoficamente più dibattuto già dai primi albori del pensiero religioso (unde malum? cur malum?), coniugandolo con un’empatica meditazione sulle ragioni che hanno indotto Benedetto XVI alle dimissioni. Il primo intervento (Il mistero della Chiesa) si sofferma inizialmente sulla crisi della società contemporanea, dovuta non solo alla diffusa illegalità delle istituzioni, ma soprattutto al fatto che esse hanno perso la loro legittimità, che dovrebbe fondare e autorizzare il loro potere. Non è quindi solamente la corruzione che disaffeziona il cittadino dalle istituzioni democratiche, ma l’interrogativo sulla effettiva necessità e legittimità dell’esercizio del potere. In questo senso Agamben legge il “gran rifiuto” di Ratzinger come un gesto coraggioso e rivoluzionario, perché la sua abdicazione è stata una rinuncia al potere temporale in nome di un richiamo forte e lungamente meditato alla superiorità del potere spirituale, «rispetto a una curia che, del tutto dimentica della propria legittimità, insegue ostinatamente le ragioni dell’economia».
Con questa prospettiva il filosofo ripercorre tutta la parabola teologica di Benedetto XVI, a partire dai suoi studi ecclesiologici degli anni ’50, su Ticonio e Agostino, sulla coesistenza di bene e male all’interno della stessa Chiesa («Gerusalemme è nello stesso tempo Babilonia, la include in sé»), per arrivare alla lettera paolina ai Tessalonicesi, che profetizza la fine dei tempi. Il brano di  2 Tess 2,1-11  è stato commentato, contestato, chiosato dalla Patristica fino alle interpretazioni di Dostevskij, Carl Schmitt, Ivan Illich, Quinzio e Cacciari: chi sia l’Anticristo qui adombrato (se l’Impero Romano o la Chiesa stessa nei suoi membri più ipocriti e corrotti), e in che modo la parusia venga ritardata dalla sua opera malvagia, è ciò su cui da sempre gli studiosi si sono interrogati.
Benedetto XVI ha costantemente riflettuto sia sul corpo bipartito della Chiesa, scissa tra bene e male, sia sulla “discessio” , la separazione finale tra malvagi e fedeli che avverrà alla fine dei tempi. Con la sua rinuncia, ha invitato i credenti a tornare a pensare al tema escatologico così spesso trascurato dalla teologia contemporanea, e al senso delle cose ultime che devono «guidare e orientare l’azione nelle cose penultime» nella storia, nella politica, nell’agire sociale e comunitario, «nell’intervallo fra la prima e la seconda venuta, cioè nel tempo storico che noi stiamo ancora vivendo»: la sua abdicazione afferma che «non è possibile che la Chiesa sopravviva, se rimanda passivamente alla fine dei tempi la soluzione del conflitto che ne dilania il ‘corpo bipartito’», se non riesce a scegliere tra l’economia e l’escatologia, tra l’elemento mondano-temporale e quello spirituale. Lo stesso parallelo vale per la società politica, scissa tra mercato e legge, crimine e onestà, incapace oggi di scelte coraggiosamente e radicalmente etiche.
Sempre prendendo spunto dalla Seconda lettera di Paolo ai Tessalonicesi, Agamben nel secondo saggio del volume indaga il  Mysterium iniquitatis, ambiguamente riletto dalla filosofia contemporanea in una sorta di ontologia del male. Il filosofo romano dà invece del testo paolino un’ interpretazione più radicata nella concezione cristiana della storia, che conferisce al tempo, lineare e irreversibile, un significato soteriologico. Quindi, rivalutando la traduzione del termine greco «mysterion» non più come «segreto» ma piuttosto come azione drammatica realizzata nel “qui e ora” per la salvezza di chi vi partecipa, nella concretezza del dramma storico della passione di Cristo, e nella prassi in cui si rivela «la presenza divina nel mondo delle creature», Agamben colloca il mistero paolino nello spazio teatrale della storia, dove si gioca la salvezza e la dannazione degli uomini, al di là e oltre ogni potere costituito, violento e delegittimato. Compito di una Chiesa che assicuri salvezza è quindi di reinserire il mistero del male nel suo contesto escatologico, senza trasformarlo in una struttura intemporale, ma concretizzandolo in ogni azione storica in cui «il conflitto decisivo è sempre in corso», e in cui «ciascuno è chiamato a fare senza riserve e senza ambiguità la sua parte». E’ forse quindi il caso di ricordare un versetto di Matteo, troppo poco citato, (Mt.12, 6): «Qui c’è qualcosa di più importante del tempio». Qui, adesso, in questo luogo in cui viviamo.
E viene spontaneo allora interrogarsi sui motivi che hanno spinto Agamben, e pochi mesi fa Cacciari, a dedicare le loro ultime pubblicazioni a un tema teologico così spinoso e dibattuto, ma insieme tanto avulso dalle questioni che più tormentano la contemporaneità, e così lontano dall’ inconcludenza che ci sta affondando in un pantano morale e politico: se i filosofi laici si occupano oggi con tanta acribia delle Scritture, forse dobbiamo sperare più coraggiose indicazioni di comportamento etico e di resistenza civile dai gesuiti?

«incroci on line»,  26 agosto 2013

RECENSIONI

AGAMBEN

GIORGIO AGAMBEN, PILATO E GESU’ – NOTTETEMPO, ROMA 2013

Giorgio Agamben continua la sua acuta disamina delle Scritture e della tradizione cristiana (iniziata nel 2000 con il commento alla Lettera ai romani di Paolo di Tarso) in questo prezioso piccolo libro, Pilato e Gesù, dedicato al più famoso dei processi, quello che portò alla condanna di Gesù: «uno dei momenti chiave della storia dell’umanità, in cui l’eternità ha incrociato in un punto decisivo la storia».

Lo fa mettendo a confronto i Vangeli canonici (e soprattutto quello giovanneo) con quelli apocrifi, ma anche indagando le fonti extrabibliche e patristiche. Ne deriva una ricostruzione accurata di tutte le fasi del processo, dal punto di vista delle formalità procedurali previste dal diritto romano; ma anche un’analisi filologica approfondita di alcuni termini fondamentali nella narrazione: per esempio, quali diversi significati assumesse nella narrazione evangelica il vocabolo “paradosis-consegna”, o quale ruolo rivestisse il “bema”, il seggio del giudice.
La figura di Pilato, «personaggio storico e persona teologica», viene ricostruita nelle sue incoerenze e nelle sue durezze, nelle leggende che lo condannarono o che tentarono di farne «un segreto campione del cristianesimo contro gli Ebrei e i pagani» nelle sue celebri e lapidarie frasi, a partire da quella che Nietzsche definì «la battuta più sottile di tutti in tempi»: “Che cos’è la verità?”.

Raccontato da santi, filosofi e letterati (sarebbe da citare anche Anatole France, che ne Il procuratore di Giudea lo immagina anziano e dimentico di un tale Nazareno), Pilato fu inserito nel Credo del Concilio di Costantinopoli solo nel 381, evidentemente per fissare «cronologicamente il carattere storico della passione».

Ma come conciliare storia ed eternità, potere temporale e spirituale, giustizia e salvezza?
Testimoni di realtà irriducibili, Pilato e Gesù si fronteggiano in un processo-farsa, e nelle loro due verità che inchiodano entrambi a una croce diversa.

 

© Riproduzione riservata    www.sololibri.net/Pilato-e-Gesu-Giorgio-Agamben.html    26 maggio 2016