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RECENSIONI

DE SANTIS

MARIO DE SANTIS, LA POLVERE NELL’ACQUA – CROCETTI, MILANO 2012

Polvere e acqua presenti quasi in ogni poesia di questo volume di Mario De Santis. Polvere intesa come traccia di esistenza, dissolvimento, eredità del tempo che trascorre; acqua come vortice o palude, tsunami o goccia implacabile. La polvere nell’acqua si scioglie e scompare, ma in qualche misteriosa e irreversibile maniera permane e si trasforma, modificando l’elemento che l’accoglie. Così la poesia: effimera e fragile, però permeante e trasfigurante.

Mario De Santis descrive «la ferocia delle cose», «l’irreparabile disastro» della storia, «l’autunno di campagne / vive di presenze e dispersione», il «vuoto d’energia» degli atti, la «parete senza appigli» su cui ognuno cerca di arrampicarsi e tenersi stretto. Il poeta non dialoga col lettore o con chi attraversa la sua esistenza, ma solo con se stesso: e il suo monologo ha un ritmo narrativo volutamente basso e lento, di oggettiva constatazione, mai disperata, mai ironica. Di «caduta senza fine», come recita il suo ultimo implacabile verso.

La casa che abita è vuota, vissuta solo da formiche e insetti («le case si sa sono merce deperibile»), ma gli sopravviverà perché ha più consistenza di lui («la polvere / che adesso finalmente sono», «io sagoma di cenere»); la città è “ottusa” perché esclude e non accetta; l’amore è «un ballo d’api che ha cancellato il sole». De Santis viaggia senza lasciare impronte indelebili, in scenografie continuamente mutanti: Roma, Milano, la Genova del G8. Ma anche Atene, Lisbona, Tel Aviv, Gerusalemme, il manicomio criminale in cui è rinchiusa una madre. Si scontra con immagini di distruzione e morte, terremoti e violenze: «tutto in pasta di fumo e polvere», di «storia senza varco», di bambini improvvisamente resi orfani, di poeti uccisi su una spiaggia: «vere le vittime soltanto, verissimi gli inermi». Trovando solo «ostinazione di folla», solitudine e abbandono. Perché «Ogni persona naviga in sé stessa» e «si respira / la polvere con altra polvere, che arriverà».

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/La-polvere-nell-acqua-De-Santis.html         20 novembre 2016

 

RECENSIONI

DE SANTIS

ALESSANDRO DE SANTIS, METRO C – MANNI 2013

Alessandro De Santis (Roma 1976) racconta una sua personale, visionaria e orrifica discesa agli inferi urbani in queste venticinque poesie scandite dal nome delle fermate della metropolitana romana, ripercorsa da una periferia all’altra della capitale, da un suburbio a un mercato a un parcheggio, da una desolazione a una disperazione: lambendo, e non penetrando, la città eterna dei Fori Imperiali, di Piazza Venezia e San Giovanni. La Roma ufficiale, quindi, del potere e dei turismo, estranea allo sciame umano che qui il poeta rappresenta con tragica lucidità di memoria pasoliniana. Entrano ed escono dalle porte di questa Metro C, risucchiati dal niente che li aveva prodotti, fantasmi di uomini e donne, spesso chiamati per nome: Claudio, Rachid, Ida, Maria, Elio…africani o neri, dai “pensieri cariati”, dalle “spalle ossute”, portando in giro come un fagotto il loro “corpo cavernoso”, la loro “bruttezza però che/ non si lascia compatire”, oppure “una bava luminosa”, “la polo macchiata di sudore”, “le mani unte, impiastricciate…lo zaino in spalla stracolmo”. Un campionario quasi animalesco fatto di zombie, invalidi, matrone equivoche, pazzi stralunati, che De Santis osserva senza esibire particolari emozioni, mescolando Youtube e Ramadan, cercando di misurare “l’esatto diametro del cuore umano” che si nasconde dietro le facce di questi “uomini tristi come/ le loro scarpe piene di acqua”. Una poesia denotativa, che non gioca con sperimentalismi e azzardi linguistici, limitandosi a prosastiche prese d’atto descrittive, al massimo concedendosi metafore appese a incubi e a spaventosi squallori quotidiani: “Scuote le sue ore cattive, Fausto/ come cuocesse un uovo al tegamino”, ” i denti lucidi si fanno avanti come pistoni”. Nella sua viscerale prefazione, Aurelio Picca scrive: “La mole di fango umano, urbano; lo schiattamento delle culture; le scorregge dei nuovi dannati… sono ritratti con la calma di un poeta che conta i secondi che ci separano dal nulla”.

IBS, 4 agosto 2013

RECENSIONI

DE SIGNORIBUS

EUGENIO DE SIGNORIBUS, CASE PERDUTE – IL LAVORO EDITORIALE, ANCONA 1989

 

La Bovary c’est moi, diceva Flaubert, e si riferiva naturalmente al personaggio, al suo carattere, al suo destino: ma forse anche alla forma che prendeva la sua scrittura nel momento in cui si faceva voce di Emma, diventando stile personalissimo e inconfondibile, “voce”, appunto, flaubertiana. Mi chiedo se ciò non avvenga a tutti gli autori; questo immedesimarsi e confondersi con le loro creature e le loro storie, un po’ come avviene alle madri con i figli più amati.
E’ accaduto senz’altro al poeta Eugenio De Signoribus, e al suo libro  Case perdute: che gli assomiglia, come giustamente hanno affermato alcuni commentatori, già nella nostalgia evocata dal titolo; le case perdute sono quelle in cui abbiamo abitato e che ci sono state tolte, con la violenza gratuita e ingiustificabile che tenta di distruggere i ricordi: sono l’aria che abbiamo respirato, i movimenti che abbiamo fatto, le foto in bianco e nero finite in fondo a chissà quale cassetto. Foto simili a quella riprodotta sulla copertina del libro, con quattro ragazzini anglosassoni del dopoguerra, coi pantaloni di velluto o di stoffa sopra il ginocchio, la sfumatura dei capelli alta sulla nuca, e un accenno di ricciolo sulla fronte: mani in tasca, confabulano davanti alla vetrina di un negozio (una farmacia? una drogheria?) Che profumo di passato da questa immagine, che malinconia sottile, anche se «le foto mai dicono il vero / quando gli anni non si riconoscono». E la poesia, può dire il vero? Senz’altro quella di De Signoribus non si pone nessuna finalità cognitiva, di interpretazione del reale, e forse nemmeno aspira a proporsi quale strumento di descrizione del reale. Sembra, invece, propensa ad affermare (ma senza polemica o tensione, con la signorile nonchalance di chi non ha dubbi) l’inconsistenza dei dati materiali rispetto al mondo soggettivo, del ricordo o del sogno: «ma sì, che resti questo odore / di buio canforato / denso come cent’anni / di respiri non dispersi // (che anno fu quell’anno che fece tanta neve?)»

In un ipotetico inventario di oggetti e arredi appartenuti a una “casa perduta”, si sottolinea l’importanza del superfluo, mentre il necessario viene snobbato: «Il cesso? non importa / ma c’è la carta igienica?»; «- e la porta?- / muratela! / entrerò dal soffitto». Il poeta proclama allora con un qualche orgoglio la sua indifferenza e la sua superiorità rispetto alle scelte oculate e miopi dei più, rispetto alla ragionevolezza ottusa dei montaliani «uomini che non si voltano»: «qui, non visto, può stare / sopra la folla meccanica / nell’ avantindietro senza sosta / augure dal corpo d’uccello»; o ancora: «poi l’uscire senza fronzoli / il chiudere la porta con decisione / non badando all’indugio del micio / sulla soglia… certo, per te, / per la tua civile concretezza anche lui, il soffice felino evirato, / deve imparare a sveltirsi…»
Neppure alla poesia è tuttavia concesso di svelare il mistero, di spiegare l’ignoto: «ma da che parte da quale segreta / s’arriva al cuore di una cosa…», «nulla emerge dal folto se non qualche / uccello improvviso e invisibile»», «a furia di girarsi intorno / come un cane da fiuto / il cervello s’incagna per minimi casi», «un labirinto di strade e scale tentacolari / vicoli ciechi in stabile penombra… ». I confini si dissolvono e s’intrecciano fino a confondersi, le storie individuali sfumano in una nebbia da brughiera. I paesaggi di De Signoribus sono tutti autunnali e albali, da pianura e stagni e cacce stanziali: la natura non vi è né amica né nemica, esiste indipendentemente da chi la osserva, selvaggia, rigogliosa, acquatica; le presenze umane paiono scorporarsi, e soli si stagliano in una loro magica fissità gli oggetti nudi, o animali immobili e impenetrabili (lucertole, lumache, roditori, ma soprattutto uccelli). I pochi personaggi degni di essere raccontati sono bloccati nel reiterarsi di prove sul palcoscenico o sul set cinematografico, oppure nella rappresentazione finale della morte, come nell’incubo dell’agonia del padre: «lo guardavano più bianco del bianco / ripercorrere all’inverso rapidamente / tutte le tappe ossee della crescita / e in un vagito scomparire…».
Fare i conti con un esistente che non si sa (non si può) definire è la sfida ultima del linguaggio di De Signoribus, che evita lo scontro diretto, il lampo oggettivo del flash, preferendo aggirare l’ostacolo, avvicinarlo per appostamenti progressivi. Il suo discorso sembra tendere alla mortificazione del soggetto, ma anche dell’oggetto e -se possibile- del linguaggio stesso, lasciato sospeso, tra rinuncia e umiliazione, gravido di intenzionalità ma volutamente depistato.
Poeta di un getsemani delle parole, De Signoribus irride alla facili pasque del passato, a quelle impossibili del futuro.

 

«Agorà» (Svizzera), 11 ottobre 1989

«L’Arena», 6 dicembre 1990

RECENSIONI

DE SIGNORIBUS

EUGENIO DE SIGNORIBUS, ISTMI E CHIUSE – MARSILIO, VENEZIA 1996

Eugenio De Signoribus è un poeta appartato, gentile, con un suo ombroso disagio nei riguardi della vita quotidiana e dei minuetti cui essa costringe: segnato da una ferita che si intuisce immedicabile, non rimarginabile, e però anche da una vocazione costante alla dolcezza, alla clemenza verso sé e gli altri. Poeta sommesso, che raramente osa alzare la voce, ironizzare, o esibirsi in dichiarazioni programmatiche: non ama i punti fermi, e non li usa. Preferisce invece i puntini di sospensione, che utilizza quasi come un marchio di riconoscimento, e sembrano voler rimandare a un non detto o non dicibile, a qualcosa che nemmeno la poesia può riuscire a esprimere. La sua è una scrittura dello scorporamento, dello spossessamento: priva di connotazioni ambientali (paesaggistiche o personalizzanti), evita anche i giochi metalinguistici, ogni sperimentalismo verbale. Se tenta un autoritratto, lo fa in negativo, per esclusione: “sono o appaio”, “fermo o infermo”, “un vivo privo di cimiero”, “non c’è nessuno qui! non sono io / quello che ha il nome sulla porta!”. Si tratteggia, insomma, come uno che “ha cambiato pelle per sopportarsi, / s’è ristretto prudente nel fortino // e non apre, smiccia dallo spioncino / la sghemba orrenda faccia del mondo”. Difficile, quindi, il rapporto con l’alterità: sia essa un io che non si sopporta, sia l’oggetto della scrittura o la scrittura stessa. Eppure la poesia rimane l’unico ponte sospeso nel vuoto, l’istmo che collega due lingue di terra altrimenti non comunicanti, la chiusa che cerca di arginare ogni impeto strabordante di violenza.

Istmi e chiuse è il titolo di un suo volume di versi del 1996, scandito in cinque sezioni, omogenee nello stile e nei contenuti, ma che vanno caricandosi, nello scorrere delle pagine, di un simbolismo sempre più alto e deciso. È proprio nell’ultima sezione, infatti, che il poeta trova un suo accento intensamente civile, là dove si fa presenza viva in una “strada di buche e di spinate”, “nel più scostato luogo”, quando “il suono del pensare s’assordisce” e “i tiranti sono tanti / i certi i cischi gli aquilanti / i granitici graticolanti / che non vedono crepe nel loro dire / ma solo, crudo o cotto, lo stare / nel lotto servile…”.

Poesia di un’asprezza che non si maschera e non si stempera, non cela in metafore la sua voglia di farsi proposta etica, e protesta, contro i tanti soloni (“i certi”, “i granitici”), e chiede invece “un varco solidale / un’altra cura della ferita”, “con la mente che vuole / immaginare un agire / e rema con forza”. Altrove, nei primi capitoli del libro, De Signoribus si muove con minore sicurezza esistenziale in una geografia dell’assurdo, fatta di “mutazioni” e “scomposizioni” (terre senza orizzonti, case sparse, fortini senza torre), in una specie di poetico e allucinato deserto dei tartari: “nessuno che ne esca o lieto vi torni, / non un’apparizione o sgranare di passi // non strappi di pelle o lancio di sassi… / chi sono i vivi di questo luogo?”

A volte, temi e toni sembrano mutati da un accigliato Proto-Isaia: “ sempre vengono a te, o dio assediato, / i cupi gladiatori, i fingitori // inginocchiati, i portatori d’orpelli”, “l’ora è notturna, la casa è rasa / al suolo, il dolo non si muove”; oppure ricalcati su litanie medievali, come la felice serie al femminile di dannate, prefiche, sacrificate, con una costante: quella di una voce, sola, che si erge profetica e pura contro la corruzione e la volgarità del tutto, e di tutti. È il destino della poesia, del poeta che osa spingere lo sguardo là dove altri preferiscono non guardare, e parla, il poeta, con l’accento straniero di uno venuto da lontano: “alzandosi sfiatano le voci presenti / solo a se stesse, schiume sonore / del mondo invaghite o insipienti… // un fiume di muri risale le menti / e la rabbia singolare resta al palo / e mostra il silenzio il detto familiare…”.

 

© Riproduzione riservata        https://www.sololibri.net/Istmi-e-chiuse-De-Signoribus.html

23 marzo 2020

RECENSIONI

DE SIMONE

ANNA DE SIMONE, CASE DI POETI – MAURO PAGLIAI EDITORE, FIRENZE 2012

In questo originale, commosso e commovente volume, Anna De Simone offre al lettore il ritratto di sessanta poeti novecenteschi, italiani e stranieri, famosissimi o quasi ignoti al grande pubblico, con i loro omaggi alle case che hanno abitato, confondendosi nelle loro atmosfere, nelle loro ombre e luminosità accecanti, negli sfarzi e negli squallori: case dell’ infanzia e della maturità, di lutti e di nascite, di amori e di abbandoni. L’autrice ci presenta ogni poeta non solo nella curata bio-bibliografia finale, ma soprattutto attraverso una serie di ritratti fotografici di volti e ambienti che bene colgono la loro particolare domesticità, incorniciandoli in versi e prose che sempre rimandano alle stanze vissute: «I luoghi mentali sono diventati luoghi reali e viceversa, capaci di offrire scenari ogni volta inediti su situazioni, vicende interiori e brandelli di storie perdute…nella convinzione che le case dei poeti esercitino un grande fascino sui lettori, e qualche volta diventino, come la poesia, un corrimano, un rifugio o un sogno da sognare quando la quotidianità diventa incomprensibile o insopportabile».

Allora, di un poeta del focolare come Pascoli, accanto alle foto del giardino, dello studio e della casa natale, la didascalia propone, tra gli altri, questi versi: «io, la mia patria or è dove si vive: / gli altri son poco lungi, in cimitero». E della bellissima e malinconica Achmatova: «Sotto l’icona un liso tappetino, / dentro la fresca stanza è sceso il buio». Di Wislawa Szymborska: «A destra c’è la mia casa, che conosco da ogni lato, / insieme ai suoi scalini e all’entrata, / e dentro accadono storie non dipinte»». Dello sperimentalismo di un poeta ancorato alle sue campagne come Zanzotto godiamo questo incipit: «Del mio ritorno scintillano i vetri / ed i pomi di casa mia, / le colline sono per prime  / al traguardo madido dei cieli», e di Montale la notissima chiusa: «Tu non ricordi la casa di questa/ mia sera. Ed io non so chi va e chi resta»

 

«Leggendaria» n. 103, gennaio 2014

RECENSIONI

DE SIMONE

ANNA DE SIMONE, LEOPARDI A TRIESTE CON VIRGILIO GIOTTI – INTERLINEA, NOVARA 2015

Far rivivere Giacomo Leopardi a Trieste? C’è riuscito Virgilio Giotti (1885-1957), poeta di “sommessa, ritrosa e assoluta grandezza”, secondo Claudio Magris; “vittima silenziosa, non mai arreso, non mai piegato”, secondo Pier Paolo Pasolini. In un prezioso e attento volume, quasi devotamente ammirato nei riguardi della voce pacata, sobria, ma consapevole dei propri mezzi di questo schivo e trascurato autore, Anna De Simone ci accompagna alla riscoperta di una città raccontata in dialetto, con uno stile che sembra cullarsi nell’eco dei canti leopardiani. Lo fa commentando temi e toni dei versi di Giotti, e confrontandoli con i temi e i toni dell’illustre recanatese: non imitato, ma assimilato nel profondo e fatto proprio, forse perché (come scrisse Biagio Marin) lo sentiva a lui “consustanziale”. La finezza della curatrice del volume è consistita, oltreché nel commento puntuale e sensibile di ogni composizione, nel proporre al lettore fotocopia di molte pagine del volume dei Canti leopardiani di proprietà di Giotti, da lui postillate con grafia minuta, sottolineate a matita, evidentemente studiate con passione.

Per inquadrare l’uomo, prima ancora del poeta, è necessario rendere conto a sommi capi della sua dolorosa e difficile esistenza, trascorsa tra lutti, persecuzioni politiche e una dignitosa ma ostinata povertà. Nato a Trieste nel 1885 da famiglia di origini austriache (il suo vero cognome era Schönbeck), da ragazzo studiò pittura, e per tutta la vita frequentò ambienti artistici. Fuggito in Toscana per sottrarsi alla leva militare, sposò qui una studentessa moscovita, da cui ebbe tre figli. Negli anni ’20 tornò a Trieste, trovando un modesto impiego comunale. Pubblicò le prime poesie su riviste e in plaquette, ottenendo giudizi lusinghieri da Montale, Pasolini e altri importanti critici. I tre figli conobbero a vario titolo la persecuzione fascista, e furono obbligati al confino al sud; i due maschi morirono in Russia, durante la guerra. Altre gravi perdite familiari, e tristi vicissitudini economiche, rattristarono gli ultimi anni della sua vita, fino alla malattia cardiaca che lo uccise settantaduenne.

Il triestino di Virgilio Giotti è un dialetto particolare, che come hanno messo in luce importanti studiosi quali Gianfranco Contini e Franco Brevini, non ha nulla di “veramente vernacolare”, non fa concessioni “al colore locale o all’agiografia municipale”, mantenendo invece un certo rigore letterario, di cultura classicheggiante e confronto assiduo con la tradizione poetica italiana (Leopardi, appunto, ma anche Pascoli e Di Giacomo) e straniera (dai lirici greci, ai cinesi, fino a Rilke). Bisogna infatti considerare che Trieste è città friulana, di una regione ai confini, che ha assorbito nei secoli influenze culturali e linguistiche austriache e slave, modellando il suo dialetto secondo un ritmo più scabro rispetto alla melodiosità cantilenante del Veneto. Quest’ultimo zona di pianure, fiumi placidi e lagune, mentre la terra giuliana è mare, bora, alture, secchezza carsica. Virgilio Giotti nella sua scrittura si è misurato con pochi, assidui, temi: la casa, la natura, l’amore, la famiglia, la morte e il dolore. Sono i temi universali della poesia, ma da lui mai affrontati di petto, semmai sfiorati con un pudore che cercava di evitare la retorica, soprattutto nelle chiusure improvvise e smorzate. Il mito della casa, per chi ne aveva perdute tante (distrutte dalla guerra, da frane, o abbandonate per trasferimenti obbligati e sfratti), condensava in sé il senso degli affetti, del tepore familiare, della confidenza e del raccoglimento, simboleggiato essenzialmente dalla solidità della tavola da pranzo («la tola con la tovàia bianca»), intorno a cui riunire i propri cari: «Su la tola / la tovàia la splendi, che la iera / zénere diventada; e el vin bevudo / con ti insieme ga el bon savor de prima», «Mi gavevo ‘na casa; / ‘desso no’ la go più; / ‘desso vivo per strada, / in sto paese qua», «E tornarà la casa ciara, come / prima: saremo indrio felizi; sì, / sì, no’ se vero? O per sempre infelizi / diventeremo, pòvari fra i pòvari», «Davero mi me sento / solo con ti, mia casa. Co te torno, ogni volta / i mii oci i te basa, // Te torno come el sposo / che torna de la sposa, / che nel su’ sol, via i cruzzi, / beato el se riposa. // Rivo suso, mia casa, / e ‘pena che son drento / stanchezza e mal de gambe / i sparissi. Me sento / de colpo calai i ani / e san».

Tra le pareti della casa-rifugio continuano a vivere, nel ricordo, i vecchi genitori (“i veci che ‘speta la morte” sono un’altra costante nella narrazione poetica di Giotti), le tre sorelle precocemente scomparse; e la moglie, i figli piccoli (“i fioi, i pici, i putei”), poi cresciuti e allontanati dalla guerra e in guerra uccisi, la figlia con i nipotini adorati. «E stemo insieme, e tuti / insieme spassegiemo; / e se metemo in tola / e magnemo e bevemo // pulito, e se vardemo / un co’ l’altro nel viso; / e in pase se parlemo: e semo in paradiso».

Il paradiso giottiano è colorato, per lo più azzurro e verde, avendo per sfondo il mare o la campagna intorno a Trieste, osservati con meraviglia e gratitudine, quasi fossero un miracolo quotidiano offerto a chi guarda, e descritti con limpidi tratti impressionistici: «Mar e campagna che se ga incontrà! / Diese minuti de felizità / par mi!», «Dismontà del tranvai / son ’rivà in paradiso. / Ma cossa, cossa mai / xe nato ogi, diseme, / in ‘sto canton de mondo? // Ziel, muri, àlbori, monte, / tuto ‘na maravea! / Se go due oci in fronte / son contento de viver, / d’esser ancor al mondo…», «se vedi, come un zigo / picio e alegro, tre o quatro // maciete de colori: bianco, rosa, zaleto, zelestin. Un careto / de gelati se vedi!”; “me go sintì, dormindo, / ‘torno la primavera. / Me la insognavo, e iera / quel sogno come un senso // del zeleste, del rosa / d’un sol de primavera, / che ne spècia per tera / ne l’àqua de la piova, // un senso de ombre ciare / che se movi col vento. / Me sintivo contento / senza saver de cossa».

La filosofia che sta alla base della scrittura di Virgilio Giotti è quasi oraziana, domestica, di una tranquilla semplicità: rimpianto per la giovinezza, speranza di un futuro migliore, rassegnazione per quello che non si è riusciti a ottenere. Nessuna recriminazione, rabbia, volontà di rivalsa, invidia: accontentarsi del poco che può offrire «una bela giornada», «el bel tempo», un’amicizia, il vino bevuto in compagnia, essendo consapevoli della propria transitorietà nel mondo: «E el pensier me vien su, davanti i oci, / che co’ ‘sti stessi cruzzi, / co’ ‘sti stessi tormenti moriremo, / senza ‘ver fato gnente. / E el nostro viver sarà stado come / una cativa note, / che no’ se pol dormir, né far qualcossa / remenarse in t’-el leto, / o andar in qua e in là. / E podaremo disperarse alora, / sigar de voler ‘ver un’altra vita: / nissun ne la darà».

Terribile pensare come quest’uomo mite, che alla sorte aveva chiesto davvero poco, abbia pagato così tanto in termini di dolore e sofferenza, senza nemmeno trovare consolazione in un doveroso riconoscimento letterario: infatti Colori, il volume complessivo delle sue poesie, venne pubblicato da Ricciardi nel 1957, qualche settimana dopo la sua morte. Ristampato da Einaudi nel 1997, oggi non risulta più disponibile.

 

© Riproduzione riservata          «Il Pickwick», 13 febbraio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DEDOLA

ROSSANA DEDOLA, LA VIA DEI SIMBOLI – FRANCO ANGELI, MILANO 1992

Rossana Dedola, ricercatrice a Pisa e studiosa del primo Novecento italiano, ha pubblicato presso Franco Angeli un volume di critica letteraria ispirato alla psicologia junghiana.

La via dei simboli è quella scelta dall’autrice per rileggere in modo senz’altro innovativo e coraggioso alcuni nostri classici contemporanei, da Svevo a Pirandello, da Tozzi a Calvino, e per sottolineare aspetti trascurati di due poeti diversissimi ma accomunati da un forte interesse per la psicanalisi: Andrea Zanzotto e Vivian Lamarque.
Il percorso indicato dall’autrice per approssimarsi al nucleo pulsante (per quanto represso, sgradevole o frainteso possa essere) della produzione degli scrittori presi in considerazione, fa sua l’ottica e la metodologia junghiana – pur non trascurando alcuni fondamentali contributi della scuola freudiana, quali quelli di Winnicot e di Kohut- tanto spesso snobbate, se non addirittura osteggiate in Italia. Da noi, infatti, a differenza di quanto succede ad esempio in Francia, l’approccio junghiano al testo letterario sembra produrre una circospetta diffidenza negli addetti ai lavori, per la fama di misticismo e irrazionalismo che da sempre aleggia intorno al nome dell’analista svizzero.
Il lavoro della Dedola prende le mosse da una doverosa e puntuale rivisitazione della polemica che ha visto fronteggiarsi Freud e Jung riguardo alla definizione stessa di opera d’arte, intesa dal primo come “sintomo” e dal secondo come “simbolo”. Dedola fa suo il giudizio di un grande critico, Debenedetti, che definiva Jung «alleato degli artisti, magari il loro complice… con una lucidità presaga e ignara», e rivalutando il parallelismo junghiano fra arte e inconscio, la giovane studiosa (recentemente diplomatasi all’Istituto Jung di Zurigo) attribuisce alla simbologia letteraria la sconvolgente funzione di «imprimere una spinta virtuale, un flusso di energia nella vita non solo personale, ma di un’intera epoca storica».
Ecco quindi analizzati alcuni simboli nei tre grandi del romanzo novecentesco, Svevo, Pirandello e Tozzi, che per primi e attraverso percorsi diversi, «mettono in crisi la centralità della dimensione cosciente, svelandone la fragilità». Le bestie di Tozzi vengono allora reinterpretate come simboli oscuri e istintuali di una soggettività sempre più frantumata, di una realtà deformata e indecifrabile. Tarchetti invece si misura tragicamente con il tema letterario del “puer” prigioniero della sua condizione infantile, incapace di crescere, di amare e di morire. Anche la curiosità culturale e l’algida ariosità intellettuale di Calvino vengono indagate e ricomposte, attraverso la rivelazione di censure insospettate e insospettabili nella rielaborazione delle  Fiabe italiane. Zanzotto e Lamarque infine giocano coscientemente e sapientemente con la psicanalisi, entrambi alla ricerca di una madre: per il primo simbolicamente celata nel paesaggio, per l’altra recuperabile solo nel reiterarsi di una pratica analitica.
Un volume audace e vivace, questo di Rossana Dedola, rigoroso nell’apparato critico e appassionato nelle tesi proposte, che interessa anche il lettore non specialista, catturandone l’attenzione con lo stile brillante e il sapiente dosaggio di filologia e vis polemica.

 

«L’Arena», 11 febbraio 1993

RECENSIONI

DEEN

MATHIJS DEEN, LA NAVE FARO – IPERBOREA, MILANO 2022

Lammert fa il cuoco di bordo, e di lui si sa poco: che aveva trascorso l’infanzia in Indonesia, dove poi era stato fatto prigioniero dai giapponesi, e che da allora, a cicli ricorrenti, torna ad ammalarsi di malaria. È imbarcato sulla Texel, una nave faro ancorata al largo delle coste olandesi “come una fortezza in mezzo al mare”, destinata a indicare la rotta alle imbarcazioni in transito, dirette soprattutto verso il Mar Baltico, illuminandone il tragitto.  “La nave su cui lavorava non arrivava mai da nessuna parte, né salpava mai”, e la vita del cuoco resta confinata tra cucina, cabina, cambusa e ponte.

I suoi dieci compagni mal tollerano la noia e l’inerzia cui sono costretti, afflitti da un complesso d’inferiorità rispetto ai marinai di lungo corso: “Una nave era fatta per salpare, per navigare e, dopo un lungo viaggio, entrare in un porto carico di promesse. Un uomo di mare girava il mondo, sostenevano, conosceva tanti porti, sapeva come andavano le cose oltreoceano e per questo ne taceva. E aveva una mente aperta”. Invece, “Una nave faro non ha un’elica, non ha un motore, sul ponte di comando non c’è un timone; non può far altro che ondeggiare, un po’ sconsolata, un animale che tira invano una catena”.

Ogni quattro settimane l’equipaggio si dà il cambio con i turni di terra, e appunto in quel giugno afoso e umido, Lammert sbarca, ritirandosi nella vecchia casa dove aveva vissuto con la madre fino alla morte di lei. Proprio ritrovando un ingiallito ricettario materno, si imbatte nella descrizione di un piatto indonesiano, il gule kambing, e ne assapora mentalmente gusto e profumi. Da una contadina del paese si procura un capretto, con l’intenzione di farne uno stufato da preparare ai colleghi una volta tornato a bordo.

L’introduzione clandestina dell’animale sulla nave lo prova emotivamente, ma l’accoglienza incuriosita e affettuosa dei marinai verso il piccolo ospite lo rincuora. In particolare Gerrit Snoek, “trentenne alto e abbronzato che attraversava la vita a capo un po’ chino, come sotto uno stipite troppo basso”, incaricato di fare rilevazioni per il Servizio Meteorologico Nazionale, fa subito del capretto il suo confidente, tenendoselo in braccio a osservare il mare, il porto di Den Helder in lontananza, le luci delle navi che fiancheggiano la Texel. Tonnie Vonk, il mozzo, riceve dal cuoco l’incarico di allattare la bestiola: “Due volte al giorno, un biberon quasi intero, bello caldo, quasi bollente”. Il primo ufficiale Jan de Ruyter, il marinaio più anziano Henk Kaag, la vedetta Niek Boon, il motorista Klaas Boon e persino il Capitano osservano con indulgenza l’intraprendente vivacità dell’animale dalle pupille verticali e dalle corna appena accennate, che scorrazza dal ponte alla sala macchine saltellando e belando infantilmente.

La narrazione procede tranquilla e puntuale fino alla metà del libro, per poi animarsi improvvisamente in un crescendo ansioso e turbato, in cui l’atmosfera nebbiosa e sospesa attorno alla nave acuisce la tensione psicologica che invade i protagonisti del racconto.

Mathijs Deen (1962) è uno scrittore e giornalista olandese, autore di reportage, documentari e programmi radiofonici. Ha pubblicato saggi narrativi e racconti che gli sono valsi importanti riconoscimenti di pubblico e critica. Iperborea ha già pubblicato nel 2020 il suo corposo romanzo Per antiche strade, che combina ricerca storica, diario di viaggio e invenzione.

Molto abilmente Deen accompagna il lettore in un climax angoscioso, che vede il cuoco cadere in preda al delirio della malaria proprio quando si appresta a macellare il capretto, l’equipaggio prendere le parti dell’animale cercando di sottrarlo all’uccisione, il mare mugghiare minaccioso mentre le luci del faro solcano sinistramente le onde, le boe di segnalazione accecate dalla foschia e la sirena (“quell’animale lamentoso, quel toro malato”) annunciare lugubre gli incombenti pericoli di collisione con i mercantili, i cargo e le navi da crociera che sfiorano la Texel nel buio.

L’inquietante presagio di un evento drammatico è suggerito dall’autore nella descrizione degli incubi di Lammert, sudato e febbricitante nella sua cabina, confusi tra la prigionia e le torture subite a Giava e l’eco della turbinosa tempesta avvertita oltre l’oblò, mentre Snoek ossessionato dalle allucinazioni teme di riconoscere nell’impaurito capretto uno spirito demoniaco che si è impossessato delle menti dell’equipaggio. Senza svelare la conclusione del racconto, si può forse anticipare che la vittima predestinata al sacrificio sarà l’unica a salvarsi dal male che dilaga sulla nave faro.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali»     29 settembre 2022

RECENSIONI

DEL COLLE

PAOLO DEL COLLE, STATO DI INSOLVENZA – AMOS, VENEZIA 2022

Le tre sezioni in cui si suddivide Stato di insolvenza, il più recente lavoro di Paolo Del Colle (a cura di Arnaldo Colasanti, con illustrazioni di Giuseppe Salvatori), non rivelano nella loro scansione una reale frattura di forme e contenuti. Lo stile, in Al termine, Irene e Nomi propri, si mantiene infatti costantemente ansioso, affannato, incalzante – pur nella pronuncia sommessa –, nel suo procedere privo di punteggiatura, a versi brevi e caratterizzati da costrutti perlopiù ripetitivi.

L’argomento principale è quello dell’esplorazione dell’io, senza indulgere tuttavia allo scandaglio psicanalitico, e invece con una ossessiva esposizione del proprio male di vivere, perlopiù rassegnato e amareggiato, talvolta quasi risentito nei confronti di sé e del mondo intorno. Il “tu” femminile che appare e scompare, si mimetizza e sdoppia nella sua evanescenza fisica, risulta una presenza-alibi con cui la prima persona singolare mette in scena un incontro-scontro da cui sa di non potersi attendere risposte, pur illudendosi di un ascolto solidale e confortante. Una presenza quasi scorporata, quella della donna, a cui si attribuiscono caratteri fluttuanti e indefiniti, mentre più assoluto e incombente è il profilo dell’anima dell’autore, sola e silenziosa interlocutrice con cui confrontarsi (“mi attendi, anima ansiosa, / nel provvisorio inganno / di non fare in tempo / ad essere ciò che sono / per così rimanere / con me in ascolto / di quel che si dirà di te”).

Soliloquio più che dialogo, testimoniato dalla ricorrenza di termini che indicano labilità, oscurità, inconsistenza, sconfitta: ombra e penombra, vano e svanire, simile e somiglianza, sfuggire e perdere. Se “un livido momento di incertezza” segna “il breve orizzonte” delle giornate uguali, inutili, mute, qualsiasi alterità umana o metafisica non può offrire scampo alla pena, nessuna voce regala sollievo “in questo parziale aldilà che cerca un compimento”. La sofferenza è indubbiamente anche fisica, testimoniata dal racconto di dolenti esperienze ospedaliere, medicazioni, ricette, cure a cui il corpo non ha voglia di rispondere. Ma è principalmente patimento mentale, afflizione dello spirito, “melancholia”. La ricerca di un passato comune da ricostruire con la sorella, il ricordo di un’infanzia terrorizzata dalle “voci alterate” dei genitori (“guardandoci vedevamo / due adolescenti impauriti / le mani sulle orecchie / chiusi nella propria stanza”), l’inventario dei vestiti della madre morta verso cui non si riesce a provare né affetto né gratitudine, la rassegnazione a un destino ingiusto, privo di prospettive future di cambiamento (“e allora tutto resterà / come ieri come un mese fa / come all’inizio”), la scoperta dell’inevitabile incomunicabilità con chi ci è vicino, condannato a rimanere uno sconosciuto (“quando nessuno di noi è ciò che pensa l’altro”): tutto ciò dà alla raccolta di Paolo Del Colle l’impronta amara di un’infelicità priva di desideri e di possibilità di riscatto.

Il titolo stesso sembra indicare una disposizione negativa nei confronti della propria vita e indole, poco accettata, misurata con severo rigore. Giuridicamente, infatti, per stato di insolvenza si intende l’incapacità non solo passata ma anche e soprattutto futura di pagare i debiti, l’impossibilità di soddisfare le obbligazioni: una effettiva dichiarazione di fallimento imprenditoriale, che Del Colle ha voluto dilatare a livello letterario e di analisi introspettiva, sottolineando il disagio esistenziale che ne deriva.

Poeta, romanziere e critico, nato nel 1957, l’autore vive a Roma e ha vinto quattro anni fa il Premio Nazionale Frascati con il volume Nuda proprietà, in cui alternava versi e prose indaganti i temi della mancanza, del lutto e delle diverse modalità dell’essere, inanimato e animale.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 9 ottobre 2022

 

 

Alida Airaghi

RECENSIONI

DEL SOLDA’

PIETRO DEL SOLDÀ, NON SOLO DI COSE D’AMORE – MARSILIO, VENEZIA 2018

Nel suo interessante volume Non solo di cose d’amore, recentemente pubblicato da Marsilio, Piero Del Soldà (Venezia, 1973), autore e conduttore del programma di Rai Radio 3 Tutta la città ne parla, si interroga su come si possa imparare a essere felici, seguendo le indicazioni e le tracce disseminate dalla filosofia antica, e di colui che ne è stato il più conosciuto dei maestri: Socrate. Proprio Socrate, con il suo tenace interrogare i discepoli riguardo a ogni questione etica, politica e logica, nel suo paziente e ironico scavo nelle coscienze degli oppositori, nel ribadito sottolineare le contraddizioni del pensiero e del linguaggio, può forse oggi aiutarci a recuperare l’antico e necessario artificio di ogni indagine filosofica: il porsi domande, il proporre risposte, il continuo dialogare in un confronto stimolante con l’altro da noi.

Del Soldà, forte dei suoi studi classici e del dibattito radiofonico con gli ascoltatori sui diversi argomenti suggeriti dalla cronaca quotidiana, indaga le contraddizioni dell’attualità utilizzando gli strumenti offerti dalla dialettica socratica: e lo fa scandendo il testo in tre sezioni, concernenti i problemi dell’io, la vita collettiva, e l’idea di felicità. Tutt’e tre queste fasi della sua ricerca hanno come perno la consapevolezza che ogni obiettivo, individuale o sociale, che ci proponiamo di raggiungere è ottenibile sulla spinta di una tensione erotica. Socrate nel Simposio affermava di intendersi «solo di cose d’amore», volendo tuttavia indicare con questo termine non tanto il sentimento privato e romantico che noi gli attribuiamo oggi, bensì l’attenzione consapevole e generosa verso ogni aspetto dell’esistenza, dalla politica all’economia, dalla giustizia all’arte, dalla virtù alla verità come fine.

Nel primo capitolo, l’autore esplora le cause che rendono l’individuo contemporaneo infelice, insoddisfatto e insicuro: oltre a motivazioni concrete e cogenti, quali la precarietà lavorativa, la mancanza di prospettive future, il deteriorarsi dei rapporti familiari, l’emergenza abitativa, ne esistono altre più soggettive e indotte culturalmente: la competitività, il conformismo, la diffidenza verso il prossimo, il timore del fallimento sociale, il culto del successo, l’ossessione dell’apparenza, la solitudine. Ostentazione, ipertrofia dell’io, volontà smodata di affermarsi, utilizzo di artifici retorici per sbaragliare l’avversario sono tecniche di sopraffazione che non riguardano solo l’oggi. Ai tempi di Socrate se ne servivano i sofisti, che avevano in Protagora il massimo esponente. Nella descrizione infastidita che ne dà l’autore, confrontandolo con la severa moralità di Socrate, intuiamo il giudizio negativo riservato a tanti figuranti dei nostri giorni che sfruttano la loro vacua e aggressiva eloquenza con l’unico scopo di ottenere popolarità.

Nella parte centrale del volume, Piero Del Soldà analizza i rapporti che il singolo cittadino di un paese democratico instaura con l’ambiente civile in cui è inserito, «il senso e il valore della vita associata e i problemi che affliggono la politica contemporanea». Questioni numerose e difficilmente risolvibili: populismo, disaffezione verso le istituzioni, astensionismo, disuguaglianze economiche, crisi delle identità nazionali, controllo invasivo del potere, abuso o negazione delle libertà personali. In una società ridotta a “teatro indifferente”, per molti «il palco di oggi è composto dallo schermo televisivo, dai social network e dagli algoritmi che rendono ogni giorno più spessa e coriacea la bolla nella quale si trovano riuniti tutti coloro che la pensano allo stesso modo». La felicità personale dei cittadini può concorrere a migliorare l’esistenza collettiva, si può abbattere il muro interiore che deresponsabilizza l’individuo e lo separa dagli altri? Socrate asseriva che «ogni decisione pubblica va ricondotta al reciproco rispecchiarsi di chi conosce se stesso». È ancora l’insegnamento socratico a illuminare le pagine conclusive, forse le più coinvolgenti, del volume. In esse Del Soldà esprime la speranza che una liberazione dalle angosce dell’uomo moderno possa arrivare da un ritorno al pensiero filosofico, da una riscoperta dell’interiorità che anziché chiudere apra agli altri, riconosciuti simili e non solo antagonisti. Sull’esempio di Socrate, dobbiamo riscoprire un sapere che sappia unire «conoscenza e impegno, libertà e cura degli altri, domanda e risposta», in un dialogo intessuto tra intimità e socialità, riflessione e azione concreta, eros e poiesis, che abbia come fine il raggiungimento della verità e della giustizia.

 

https://www.sololibri.net/Non-solo-di-cose-d-amore-Del Solda.html                 31 maggio 2018

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