Mostra: 421 - 430 of 1.348 RISULTATI
RECENSIONI

DI CESARE

DONATELLA DI CESARE, MARRANI ‒ EINAUDI, TORINO 2018

Il termine “marrano” indica gli ebrei sefarditi che nel Medioevo vennero costretti ad abiurare la loro fede e ad abbracciare la religione cristiana. L’etimologia della parola è incerta: potrebbe derivare dall’arabo, dall’aramaico o dal castigliano, e significare scomunicato, ipocrita, straniero, convertito, o più probabilmente “cosa proibita”. Veniva comunque usata in spagnolo in senso dispregiativo come sinonimo di porco, per schernire e ingiuriare gli infedeli che si astenevano dal mangiare carne di maiale. In seguito definiti conversos, confesos o cristianos novos, i marrani continuarono nei secoli a venire chiamati così ovunque, sebbene con accezioni differenti, che potevano indicare eresia, tradimento o ribalderia.

Donatella Di Cesare, docente di Filosofia Teoretica alla Sapienza di Roma, dedica ai marrani un approfondito e coinvolgente saggio, in cui esamina dal punto di vista storico, ideologico e psicologico le vicende tragiche e tormentate di questa vasta categoria di persone: perseguitate, imprigionate, uccise, costrette a nascondersi e ad emigrare, o – per salvarsi – a rinunciare al proprio credo. Storicamente, la persecuzione antiebraica iniziò il 4 giugno del 1391, quando una folla inferocita fece irruzione nella judería di Siviglia, devastandola e massacrando 4000 appartenenti alla comunità.  Da quel momento eccidi di massa, saccheggi e distruzione di sinagoghe si moltiplicarono in tutta la Spagna, portando alla decimazione degli ebrei residenti, fino alla loro definitiva espulsione dai confini, avvenuta nel 1492. L’autrice ripercorre le varie fasi delle persecuzioni, attraverso le rivolte e le stragi avvenute in diverse città spagnole e portoghesi (Toledo, Cordova, Segovia, Lisbona), le prime leggi razziali sulla limpieza de sangre promulgate nel 1449, il feroce contributo giuridico fornito dal Tribunale dell’Inquisizione istituito nel 1478, le condanne al rogo, l’emigrazione coatta verso altri paesi europei (nelle Fiandre, innanzi tutto, ma anche in  Italia, nelle sedi privilegiate di Ferrara, Venezia e Livorno), verso l’Oriente e il Nuovo Mondo. Ciò che tuttavia risulta più interessante e originale nell’indagine di Donatella Di Cesare è l’approccio alla condizione psicologica dei marrani, al loro destino di doppiezza esistenziale, di scissione del sé, di perdita e recupero delle radici, di ciò insomma che Ludwig Wittgenstein (anche lui cattolico di origini ebraiche) aveva confessato riguardo al proprio perpetuo non riconoscersi: “Ich kenne mich nicht aus”.

Costretti a una conversione forzata, i marrani non facevano più parte della famiglia giudea: venivano sentiti come traditori, transfughi, apostati. Alcuni di loro, accettando il cristianesimo, finirono per goderne i vantaggi, sposandosi con nobildonne cattoliche, intraprendendo carriere di successo, ricoprendo cariche influenti persino all’interno della Chiesa, arricchendosi con guadagni tratti dal commercio, e provocando in tal modo invidie e risentimenti nella popolazione. Altri rimasero in segreto fedeli alla religione degli antenati, aderendo a riti, preghiere e festività negate in pubblico e praticate di nascosto in privato, tramandate con timore e senso di colpa ai discendenti, rese spurie e destinate all’oblio dalla sporadica e incerta frequentazione.

In un capitolo intitolato, con penetrante intuizione, L’altro dell’altro, Donatella Di Cesare sottolinea quanto fosse ibrido lo status dei marrani che gli spagnoli avevano inglobato al loro interno con il fine e la speranza di preservare la propria identità dal corrompimento con una “razza” odiata. Se prima l’altro, l’ebreo, era esterno, “distinto e ben riconoscibile, una volta introdotto a forza nel corpo della cristianità restò altro, ma all’interno. …Il marrano, costretto a un’emigrazione interiore, restò tuttavia differente, inassimilabile, ereditando l’alterità dell’ebreo. Eppure ebreo non era più – anzitutto agli occhi degli ebrei”. Secondo l’autrice, questa condanna alla differenza, a un’immagine ambivalente e discordante, finì per rendere unica e irriducibile a schemi mentali obsoleti la figura del marrano, facendone l’antesignano della modernità. Nel suo tormentato scrutarsi, sorvegliarsi, diffidare degli altri e di sé stesso, alla ricerca continua di una memoria da preservare o di un’origine da rifiutare, fu l’iniziatore di un percorso esplorativo verso l’interiorità, che lo portò ad avventurarsi lungo i sentieri della mistica, come Teresa d’Avila, o quelli della filosofia, come Spinoza: sempre in dissonanza con il pensiero comune, anticipatore di una diversa sensibilità e di teorie innovatrici, in religione come in politica. “L’angoscioso oscillare tra inserimento e marginalità”, tra palese e segreto, dentro e fuori, ha fatto del marrano il paradigma dell’uomo moderno, espressione di un’individualità continuamente ridiscussa, e di una coscienza lacerata che ha saputo insinuare “il seme del dubbio, il fermento dell’opposizione” all’interno delle ideologie contemporanee. Lo stimolante saggio di Donatella Di Cesare, esposto in una prosa limpida e lineare, nel ripercorrere le varie fasi di una tragedia europea e poi universale, ci interroga sull’importanza ancora oggi basilare dei concetti di identità, memoria, riconoscimento, accettazione dell’altro da noi, e dell’altro che è in noi.

 

© Riproduzione riservata         https://www.sololibri.net/Marrani-Di-Cesare.html      14 maggio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DI FRANCESCO

TOMMASO DI FRANCESCO, VIA LATINA. CAMMINAMENTO

MANNI, SAN CESARIO DI LECCE 2012

Camminamento più interiore che esteriore, questo che Tommaso Di Francesco racconta in poesia attraversando la sua Roma, dal centro dell’urbe ai sobborghi periferici, dal cuore di una memoria ferita verso nuovi orizzonti visivi che conducono chi scrive ad uscire da sé, a scontrarsi col mondo reale. In una Via Latina fatta di Storia pubblica e di piccole storie private: quindi ci troviamo affetti personali (genitori e figli, amici e intellettuali) e vicende universali di guerre, rivoluzioni e paesi lontani rivisitati emotivamente (India, Israele, Stati Uniti, Jugoslavia). Ci troviamo grandi poeti del passato (Leopardi, Baudelaire, Eliot) e poeti della Roma novecentesca (Amelia Rosselli e Pasolini): perché il richiamo della poesia è sempre e comunque salvifico: “Ma io che mi salva ho la poesia…”, “il poeta è il punto di rottura della diga, / la prima scossa del terremoto, crepa del tempo”.

Chi scrive cammina lungo la Via Latina che ha attraversato millenni, incontrando mercati, tombe e catacombe, tendopoli e hotel di lusso, metropolitane e squallidi recuperi di verde: cammina recitando una sua laica preghiera di perdono e pietà: “Proteggi quest’angolo buio / e quello slargo acciottolato, / nella piega quotidiana stanno / milioni di passi inevasi, / le nostre ombre immigrate”. Stupore davanti alla vita di tutti (“Perché / il mondo è molto di più e di meno”; “Più nulla c’è da conquistare / poco o nulla resta da assaltare / è tempo che la vita ti sia / finalmente a portata di mano”), che si vorrebbe soprattutto fare propria, non fagocitandola, ma rendendola comunitaria e amica: “Vesto panni disadorni altrui / d’una qualche bellezza lontana, / la città nuova subito è svenduta / e l’anima batte i marciapiedi”.

Tommaso Di Francesco, vice-direttore de Il Manifesto, intellettuale impegnato e critico, sembra cercare nei versi una sorta di consolazione musicale, ritmica: nelle sestine ricche di endecasillabi, rime e assonanze , che accompagnano i suoi passi verso un altrove radicato nella quotidianità.

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/Via-Latina-Camminamento-Di-Francesco.html        19 gennaio 2017

 

 

 

RECENSIONI

DI GREGORIO

GIANNI DI GREGORIO, LONTANO LONTANO – SELLERIO, PALERMO 2020

Non mi sono mai persa un film di Gianni Di Gregorio. Li ho sempre trovati ironici ed eleganti, lievi nella narrazione e insieme civilmente, eticamente impegnati: ma senza boria, senza didascalismi. Di Gregorio (Roma, 1949) è sceneggiatore, regista e attore: dal 2008 a oggi ha diretto Pranzo di ferragosto (2008), Gianni e le donne (2011), Buoni a nulla (2014), Lontano lontano (2020), pellicole in cui ha recitato nel ruolo di protagonista o co-protagonista. Con quella faccia un po’ così, come direbbe Paolo Conte, con un’espressione oscillante tra l’ingenuo e il sornione, come di uno che non ha capito niente del mondo intorno, o forse invece ha capito anche troppo. I suoi personaggi sono per lo più dei vinti, strapazzati dalle circostanze, dall’ambiente, dai parenti e dagli amici: senza essere fantozziani, sembrano umilmente consapevoli della loro mediocrità, e di una totale incapacità di farsi strada, di imporsi professionalmente, in famiglia, in amore. Ma alla fine si prendono sempre sonore rivincite su tutto: assennatamente previdenti, sopportano e aspettano che la sorte si riveli benigna, premiando l’indulgenza e la pazienza con cui tollerano difetti e soprusi dei loro simili. Il sesso? Forse non è così importante come si dice. La carriera e il successo? Beh, non vale la pena guastarsi la vita per ottenerli. I viaggi? Divertenti, ma quanto faticosi… Il buonsenso dei vari Gianni che interpretano i suoi film pare il prodotto del carattere romano più paciosamente consolidato dalla sapienza di una cultura millenaria, tra stoicismo e pasquinate.

Così adesso leggere la prima prova letteraria di un autore cinematografico prestato alla pagina scritta, incuriosisce, e non delude. Lontano lontano è il titolo del libro pubblicato da Sellerio (oltre a essere il titolo di una indimenticata canzone di Luigi Tenco e dell’ultimo film di Di Gregorio). Comprende tre racconti, Aiòn, Incantesimo, Lontano lontano.

Il primo, che ricalca il tema del rapporto ossessivo madre-figlio descritto in Pranzo di ferragosto, si riferisce grecamente all’eternità indissolubile di tale legame, e all’atemporalità della città che fa ad esso da sfondo. Roma raccontata nella contemporaneità del traffico, delle invasioni turistiche, dei sobborghi popolari, dei personaggi macchietta, e nel suo magniloquente passato, che partendo dagli Etruschi, attraversando la cristianità fino all’Arcadia e all’occupazione tedesca, rimane nel profondo del suo carattere un pigro suburbio, tenuto insieme da osti e portinai, fruttivendole e mense dei poveri, in cui “la vitarella scorre, senza nome ma anche senza scosse, si sfilaccia piuttosto come zucchero filato”.   Chi narra in prima persona è un cinquantenne, figlio unico di madre vedova, che trascina i suoi giorni accudendo la mamma, “tartarugona in vestaglia”, sciabattante tra poltrona e letto in perpetua pre-agonia catarrosa. Il figlio, assillato dall’idea della pensione di cui non usufruirà mai, e dal vagheggiamento sentimentale di inavvicinabili signore del vicinato, si occupa servizievole delle faccende domestiche, della spesa quotidiana, delle medicine da acquistare in farmacia per la genitrice: umiliato nella sua esistenza, si riconosce fallito, con ironica e rassegnata disperazione, seguendo il flusso delle sue aggrovigliate e inconcludenti ipotesi di riscatto. Tanto, “tutto è iscritto nel cerchio, pappa e gioia e Aiòn, eternità, castagnole e tricche tracche, scoppietti, le scuregge del Negus che non le fanno più”.

Anche in Incantesimo incombe accentratrice una figura materna. “Testa d’aquila su corpo di chioccia pacchiotta, sora Maria portava vesti lunghe fino al pavimento e sembrava scivolare su silenziose e solide rotelle”. I suoi due figli Emilio e Virgilio, adulti scapoloni, professionisti di prestigio, scissi tra desideri concupiscenti e inibita rassegnazione, dormono nella stessa stanzetta, in un incomprensibile prolungamento della dipendenza infantile dalla madre. Intorno, la campagna romana, “Un mondo felice per riflesso, di terra rossa e profumata, scaldato dal sole e carezzato dal ponente la sera quando nelle vigne si accendevano i fuochi fumiganti, fiamme che non significavano distruzione e ruine di guerra ma ardevano per arrostire generazioni di salcicce e carciofi alla matticella e di notte diventavano braci azzurre intorno alle quali scorrevano l’Olevano e il Cannellino”. Il racconto, scritto in uno stile più tradizionalmente coltivato rispetto al precedente, è la rivisitazione della realtà agraria e periferica di un Lazio post-bellico, con relazioni interpersonali e familiari cementate in una cultura atavicamente matriarcale.

Tra lo scavo sarcasticamente introspettivo del primo testo e l’indagine antropologica del secondo, il terzo racconto si situa in una simil-cronaca d’attualità, che vede per protagonisti un terzetto di pensionati romani ciondolanti nei bar di Trastevere, a chiacchierare, a perdere tempo, a farsi una birra o un bicchiere di bianco.

Il professore, nel film omonimo Lontano lontano interpretato dallo stesso Gianni Di Gregorio, è un insegnante di lettere in pensione, divorziato e senza figli, che vive una quotidianità priva di assilli e di speranze grazie al suo striminzito sussidio mensile: “Già al tramonto la coscienza si rilassava, aveva fatto quello che poteva, cioè niente, ed era abbastanza”. Gli altri sono suoi amici scalcagnati, un proletario lavativo chiamato il Vichingo, e un rigattiere di nome Attilio che vive in periferia con il suo cane. I tre progettano per una settimana intera di trasferirsi all’estero, per poter vivere i loro ultimi anni con più serenità economica, accarezzando una prospettiva di rinascita esistenziale. Forse in Bulgaria, o nell’Europa del Nord, o in Africa. Magari nelle Azzorre, clima mite, situazione politica tranquilla, discreti servizi sociali.

Il racconto, vivace e ironico, intessuto di dialoghi svelti e avvenimenti spassosi anche nella loro tragicità, si presta ovviamente a una lettura di impianto cinematografico, quasi canovaccio di una prima sceneggiatura. E mantiene, nella rinuncia ai sogni dei tre anziani (“ma dove andiamo? Questo è il nostro mondo, ce semo nati, ce conoscono tutti!”) tutta la sorridente malinconia, l’umanità dello sguardo attento e partecipe del Di Gregorio regista.

 

© Riproduzione riservata               «Gli Stati Generali», 16 luglio 2020

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DI NOLA

ALFONSO M. DI NOLA, LO SPECCHIO E L’OLIO – LATERZA, BARI 2010

L’antropologo Alfonso Di Nola (1926-1997) pubblicò questa fondamentale ricerca nel 1993: da allora Laterza l’ha riproposta in diverse edizioni economiche, che hanno continuato a riscuotere interesse e successo di pubblico. L’argomento si presta infatti a suscitare curiosità e discussioni, toccando vari aspetti della vita e della cultura italiana: religione, scienza, psicologia, astrologia, occultismo.

«Questa raccolta intende analizzare soprattutto le superstizioni italiane, come residui o survivals delle età precedenti, tuttora persistenti in una cultura che sembrerebbe avere i suoi fondamenti nella tecnologia e nelle strutture dell’epoca postindustriale». Anche in un mondo laicizzato e scaltrito come l’attuale, infatti, persistono credenze opinabili e prive di qualsiasi scientificità che risalgono alla notte dei tempi, probabilmente addirittura alla preistoria, a cui molte persone prestano fede, affidandosi a ritualità risibili, forse perché cercano in esse meccanismi di difesa e di rassicurazione dall’ignoto. Insomma, “non è vero, ma ci credo”, come recitava il titolo di un film di Peppino De Filippo. Alfonso Di Nola elenca alcune delle superstizioni più note, che spesso non si limitano al nostro ambito territoriale, ma con sostanziali differenze interessano tutto il territorio europeo: il gatto nero, lo specchio rotto, l’olio versato, il numero tredici… Di ciascuna di esse, lo studioso indaga origine e diffusione, suddividendo le credenze popolari nei loro influssi negativi o positivi. Tra i primi elenca il malocchio, la fattura, i vampiri e le streghe, il diavolo e i fantasmi, alcuni fenomeni atmosferici, le profanazioni sataniche; tra i riti positivi vengono presi in considerazione amuleti e talismani, formule magiche, fenomeni astronomici, miracoli e reliquie, medicamenti erbacei, sogni e presagi. Se alcune di queste mitologie appaiono fantasiose, frutto di ignoranza, ma sostanzialmente risultano innocue, altre rivelano invece tutta la loro pericolosità, arrivando a provocare la persecuzione e l’emarginazione di singole persone o di gruppi sociali, crudeltà nei riguardi degli animali e vandalismi contro oggetti e edifici, violenze fisiche e addirittura omicidi. Ad esempio, in provincia di Chieti, sembra persistere un costume sacrificale di antichissima origine: «…qui si assicura tuttora la fortuna di una casa in costruzione seppellendo un cucciolo vivo sotto la soglia dell’uscio».

Molti altri metodi, dai contorni tribali, vengono usati per assicurare fertilità, guarigioni, fortuna economica o (al contrario) per esercitare influssi distruttivi e maleauguranti, ricorrendo all’utilizzo di sangue mestruale, sperma, capelli, denti, ossa. Alfonso Di Nola usa espressioni molto dure nei confronti di chi (media, chiese, organizzazioni politiche, conventicole esoteriche, sedicenti maghi e indovini) si serve del proprio potere per influenzare o soggiogare mentalmente le persone più suggestionabili e culturalmente impreparate, indifese o nevrotiche, allo scopo evidente di trarne vantaggi economici e popolarità. In particolare stigmatizza «il bisogno indotto come il cappuccino e le brioches» della dipendenza dall’oroscopo quotidiano, che alimenta una fiorente industria di riviste, libri, trasmissioni, turlupinando il prossimo con previsioni ingannevoli, ma gratificanti e rassicuranti, basate sul nulla. Sotto questo profilo, uno dei veicoli più pericolosi di diffusione e legittimazione della credulità è sicuramente rappresentato dalla televisione … e dai molti strapagati ciarlatani che ne dirigono e animano i programmi.

 

www.sololibri.net/Lo-specchio-e-l-olio-Alfonso-M-Di.html     21 settembre 2015

RECENSIONI

DI PALMO

PASQUALE DI PALMO, TRITTICO DEL DISTACCO – PASSIGLI, FIRENZE 2015

Con la prefazione di Giancarlo Pontiggia e un’intensa postfazione di Maurizio Casagrande, Pasquale Di Palmo (Venezia, 1958) ha pubblicato nel 2015 Trittico del distacco, volume di versi che adombra già nel titolo una dichiarazione programmatica. L’esergo iniziale tratto da Sant’Agostino (“Quale uomo farà intendere ciò ad un altro uomo? Quale angelo a un angelo? Quale angelo a un uomo?) esemplifica ulteriormente il messaggio sotteso all’intera raccolta.

Grava su tutte le creature una condanna ingiustificabile, irreparabile, inconsolabile: l’inevitabilità del dolore, il suo misterioso perché, la sua possibile/impossibile redenzione. Soffriamo per una perdita, una malattia, un’immeritata sopraffazione, un’ingiustizia patita, un distacco. Appunto al distacco Di Palmo dedica il suo trittico poetico, mantenendo nella tripartizione del testo un’allusione alla sacralità espressa dall’iconografia cristiana. Nelle tre sezioni della raccolta la separazione definitiva da chi si amava (il padre – assistito in un Centro Alzheimer -; amici, parenti, case e luoghi perduti; l’infanzia e la giovinezza trascorse e non più recuperabili), è tuttavia anche allontanamento dalla pena, che osservata empaticamente negli altri, può venire infine superata e vinta, nella caparbia determinazione di continuare a vivere comunque.

Il primo gruppo di poesie, raggruppate sotto il nome di Mirco, cugino morto suicida perché incapace di uniformarsi alle aspettative della società, hanno come protagonisti gli ultimi, i vinti, i disadattati, per cui “l’esistenza ridotta / a una semplice opzione” non ha alternative se non il puro perpetuarsi in una livida elementarità di gesti e parole. Sono i gruppetti di ragazzi down spaesati che “si inebriano per un gelato, / piangono per un nonnulla”, oppure è il senzatetto sdentato e claudicante che importuna i passanti chiedendo “sinque euro per un panin”, o i bambini che giocano a calcio sul cemento in un torrido pomeriggio estivo, o ancora il geniale artista incompreso che regala le sue sculture alla città indifferente. Sullo sfondo, negozi semideserti, un ospedale, un cantiere in disuso, un canale, giardini frequentati da clandestini e tossicomani: la periferia immobile in cui è cresciuto il poeta. Mestre, Marghera, dove “il cielo ha un colore schiacciato, di decomposta aringa”.

La terza sezione della raccolta, I panneggi della pietà, è riservata a una serie di brevi prose liriche modulate ancora sul tema della solidarietà e della compassione verso gli sconfitti, i senza storia cancellati dall’inventario del successo e del profitto economico. Il nonno paterno, da cui Pasquale Di Palmo ha ereditato il nome, morto giovane in guerra e riscoperto solo durante intimorite visite al cimitero; la foto della mamma diciottenne già incinta di lui primogenito; bottegucce artigiane nella cui penombra sopravvivevano pallidi scampoli di umanità; patetici emuli calcistici nei campetti di un oratorio; il compagno di scuola morto precocemente e salutato dagli amici in un malinconico funerale. Da loro, resi eterni nel loro nulla, il poeta impara “la felicità degli ebeti”: “stendersi in un prato, sedersi sulla panchina di un parco suburbano contro un cielo sereno”.

Ma è senz’altro la parte centrale del libro quella in cui vibra maggiormente un sentimento di tenera pietas, quando l’addio al padre ridotto a rudere silenzioso dalla demenza senile, trascina con sé il figlio “verso il fondo / verso il fondo / verso il fondo”. I quindici componimenti dedicati alla figura paterna, dialogo muto e tardivo con chi non può più ascoltare né rispondere, sono incastonati tra due poesie in dialetto veneto, primo codice comunicativo familiare, recuperato nel pudico abbraccio della fine. Il padre divenuto figlio, il figlio diventato padre si ritrovano nelle sale asettiche di un Centro Alzheimer, tra altri malati e infermiere premurose, condividendo impotenti una vita che si dimentica di essere vita: “Adesso ti xe un albero, papà, / un albero grando / sensa nome / dove le seleghete va a ripararse / quando ghe xe vento / e la vita se desmèntega de la vita”.

Il distacco, altre volte preannunciato nelle inevitabili incomprensioni esistenti in ogni rapporto filiale, diventa definitivo: tragico ma forse anche liberatorio, assoluzione da mancanze reciproche, e ritrovato affetto, ritrovata gratitudine.

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › Trittico-distacco-Di-Palmo

1 settembre 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DI PROSSIMO

DORINDA DI PROSSIMO, QUADERNO MILLIMETRATO – INCERTI, LEGNAGO 2012

La carta a millimetri di un quaderno invita chi scrive alla precisione, a non sprecare spazi: ma è anche un richiamo umile e concreto a un’espressione concentrata e pulita. Senza le sbavature e gli eccessi a cui può indurre lo spazio bianco di un foglio immacolato.

La dichiarazione di poetica di Dorinda Di Prossimo è già esplicita in una delle prime poesie di questa intensa plaquette: «m’aggiusto coserelle senza ambiguità… Mi faccio chiara… Pitagorica, / direi». Non c’è approssimazione in questi versi, netti, decisi soprattutto negli incipit. Icastici perché assolutamente visivi, fissati da uno zoom fotografico: anzi, da una inquadratura filmica, che può richiamare, ad esempio, i primi piani di Antonioni. Sbalzati imperiosamente dal buio, e lì presenti, immodificabili, severi: «Ti scrivo come uscita dalla pioggia. Lenta / nell’impiccio delle mani». Oppure: «Restasse così il giorno. Due macchine quasi / per scherzo, tra un lampione e l’altro».

Insieme a questa presenza radicale, scarna, il senso di una certa non appartenenza al mondo, di una sostanziale estraneità, di un non addomesticamento dell’indocile protagonista-autrice, che non sa e non vuole conformarsi alle aspettative altrui (miopi, ingenerose): «– quella donna è troppo / spettinata. Disordina i saluti, inversi orecchini / porta, tosse, acquatiche respirazioni. Legge / copioni in macchina, dimentica la spesa per le / scale. E ha figli grandi come amanti – .O. amanti / rumorosi come figli», e ancora: «Ti è toccata a destino, padre, una figlia dispara / d’occhi, nel fuori quadro, pungolante / e disarmonica. T’è toccato vederla senza / preghiera invecchiare».

La scrittura di Dorinda Di Prossimo è nervosa, a scatti, ricca di una punteggiatura esibita e sottolineante: punti fermi, virgole, frequenti e cadenzati, a indicare decisione, volontà di costringersi al ribadire suoni, immagini, idee. E a volte invece negati, i segni di interpunzione finali, perché si perpetui un’apertura, la possibilità di un collegamento ulteriore, o di un’uscita di sicurezza. È una scrittura assolutamente femminile, intrisa di una femminilità addirittura sensuale, sebbene di sesso non parli mai, e poco anche di amore. Ma il mondo in cui vivono queste poesie è connotato fisicamente, sono poesie di donna, negli ambienti e nell’attenzione vigile ai particolari: «Vive così poco l’erba a casa mia. I petali / restano nel bicchiere, la direzione degli occhi, / sui rovi cade», «Ci provo a danzare. Quando le lenzuola pesano / meno della neve, la vicina non ha ancora tolto / l’elastico dalla busta del caffè e le ginocchia / tengono quella smorfia ridicola d’una tendina / inamidata», «Col chiarore, poi, / le mal educate cose. La tazza nel lavandino, / le foto, la rigida maniglia, il conto senza sconto, / i gesti andati a male». Poesie di donna soprattutto nella descrizione degli affetti. I ritratti dei due genitori, ritratti pieni di bene e di rancore, di ribellione e di perdono, quali solo una figlia femmina poteva scrivere e, appunto, su carta millimetrata, senza retorica o eccedenze. «La figlia che frutta non si fa / sbucciare, il padre che taglia il pane, dice – / Fiori ho comprato per la tomba – invisibile / invenzione d’un sospiro», «Ti dico madre che nell’infermità del ricordo, / a volte, perdo il debito dei tuoi occhi… / … La tua punta / eterna di rondine che non vola. Mi pronunciavi / tintinnosa, m’accentavi d’ago fino. E mi voltavo / indietro, ogni volta ripassavo la giaculatoria che / ti perdonava / … tu m’inchiodi nei vasi, a notte. / Nel cranio dei limoni, nella plastica sopra i / divani».

Infine, la ricostruzione di momenti magici dell’infanzia, nella loro memoria asciutta e riconoscente, svela una sensibilità avveduta, scalfita dalla puntura di dolori lontani, di nostalgie inevitabili, di profumi mai dimenticati. Allora può essere il padre giovane che prepara il presepe di notte per i suoi bambini, con una tenerezza concentrata, e lo preserva nel tempo e attraverso i numerosi traslochi della famiglia. O la tata Anna che provvede alla colazione per i tre fratelli, l’uovo sbattuto a neve, i primi turbamenti del corpo «E l’odore del gioco al piano di sopra. / Solitario. Colpevole. Una ciliegina per il mio / confessore». O le zie che assistono al parto difficile della sorella, snocciolando preghiere, programmando il corredino futuro per la nipotina che stenta a nascere. C’è quindi, in tutte queste poesie, una constatazione orgogliosa e fidente della propria concretezza, una fiera adesione alla pienezza del proprio sentire, che è il sentire consapevole di un poeta, capace di vibrare all’unisono con un sogno, un odore, un colore: «Insonne / come un collegio di debuttanti, come a bordo / d’una possibile nave. Danzare è viaggiare, mi / dico, il pugno appena serrato, le unghie / conficcate fra le cosce. È ricordarsi dell’aria, del / lusso lucido della foglia».

Ecco, in ogni verso di Dorinda Di Prossimo, anche l’aria ha una sua fisicità, una sua imprescindibile bellezza e assolutezza.

 

Prefazione al volume, settembre 2011

 

RECENSIONI

DI RUSCIO

LUIGI DI RUSCIO, POESIE OPERAIE – EDIESSE,  ROMA 2007

Luigi Di Ruscio è stato uno dei pochissimi scrittori italiani di poesia operaia: con lui ha raggiunto la notorietà il solo Ferruccio Brugnaro, mentre altri esperimenti di poesia di fabbrica (come la rivista Abiti-Lavoro) sono finiti nel disinteresse generale anni fa. Forse perché i poeti italiani sono al 90% intellettuali e lavorano nei media, o forse perché gli operai oggi hanno tutt’altri miraggi da inseguire piuttosto che lo scrivere in versi. Di Ruscio era nato a Fermo nel 1930, ed è morto nel febbraio 2011 a Oslo, città in cui si era trasferito cinquant’anni fa, e dove aveva lavorato per tutta la vita in un’industria metalmeccanica, sposando una norvegese che gli aveva dato quattro figli.

L’editrice Ediesse della CGIL ha pubblicato una raccolta di sue Poesie operaie, con contributi critici di Ferracuti e Raffaeli. Sono poesie «di avvilimento e rivolta», come le definì Fortini, che sembrano avere come fondamentale obiettivo una rabbiosa comunicazione, l’esigenza di denunciare con forza la condizione di sfruttamento degli operai, espropriati del loro tempo e della loro vitalità. Poesie lunghe, flussi di pensiero ostinatamente lontane dagli strumenti tipici della lirica contemporanea (metrica, rime, allitterazioni, etc.), prive di qualsiasi punteggiatura, a ribadire una torrenzialità del discorso poetico che non va sospeso, limitato, interrotto. Poesie arrabbiate ma anche ironiche, non prive di un’amara ilarità: «Chiudere un porco vero nel reparto… / vediamo come reagisce a questa estrema crudeltà il maiale / schianta strozza impazzisce si indemonia / …metti un uomo nel reparto / chiudilo dentro per otto ore consecutive / vedi come reagisce /… (può diventare pericoloso / …apri il suo cervello vedi cosa medita / misura la sua rabbia / aspettati che scoppi). Poesie dure e appassionate, quelle di Di Ruscio, la cui voce ribadiva l’ingiustizia sociale come colpa collettiva:  «chi è veramente oppresso può esprimere solo l’oppressione».Voce che mancherà alla nostra letteratura.

IBS, 6 aprile 2011

RECENSIONI

DIANA

MASSIMO DIANA, UNDE MALUM? – MIMESIS, MILANO-UDINE 2022

Massimo Diana, filosofo e psicanalista, nelle sue numerose pubblicazioni si è interessato della relazione reciproca tra religioni, pedagogia, psicologie del profondo e filosofie. Il suo ultimo lavoro, Unde malum?, indaga l’enigma della distruttività umana, come suggerisce il sottotitolo del volume da poco uscito presso le edizioni Mimesis.

Prendendo spunto dall’interrogativo metafisico di S. Agostino, Diana esplora, alla luce dei più efferati episodi di violenza succedutisi nella storia dell’umanità, e in particolare nell’arco dell’ultimo secolo, origini-motivazioni-conseguenze delle scelte consapevoli di distruzione messe in atto da individui, popoli e nazioni nei confronti di altri individui, gruppi etnici o religiosi, definiti nemici. Basandosi su documenti e statistiche aggiornate, l’autore evidenzia come dall’inizio del ’900 fino ai giorni nostri gli abissi del Male abbiano sfiorato la catastrofe, avvicinandosi alla soglia del baratro.

Il raffronto tra il numero delle vittime di guerra nell’800 e nei cento anni successivi è sconvolgente: circa 7 milioni nel XIX secolo, 180 milioni nel XX, conteggiando i caduti militari e civili delle due guerre mondiali, i genocidi, le rivoluzioni, le carestie ed epidemie conseguenti ai vari conflitti. Il coinvolgimento popolare nelle vicende belliche novecentesche è derivato non solo da un contagioso entusiasmo paranoico, da una forte mobilitazione propagandistica e dalla diffusione capillare dei mezzi di mobilitazione di massa, ma anche dall’abilità persuasoria di feroci capi di stato, militari, dittatori, in grado di utilizzare – attraverso il terrore e le minacce – abili tattiche manipolatorie, istigatrici di fanatismi ideologici producenti l’isterico accecamento dei singoli e la loro ottusa ubbidienza.

Diana analizza le personalità di Hitler, Stalin e altri criminali attraverso la ricostruzione delle loro infanzie, che mostrano caratteristiche simili, con madri formalmente protettive ma poco affettive, padri violenti e soverchiatori che li resero inidonei a creare relazioni solidali ed empatiche, spingendoli in spirali di insicurezza, timore e desiderio di rivalsa e sopraffazione. Ovviamente, nessun evento storico può essere spiegato esclusivamente in termini psicologici: “non è sufficiente uno psicopatico paranoico per scatenare l’inferno e provocare una catastrofe”. L’inasprirsi di qualsiasi crisi sociale ed economica diventa terreno fertile alla trasmissione nella mente collettiva di concetti e comportamenti prevaricatori, producendo una regressione della condotta individuale e la tendenza all’aggregazione, in una sorta di infezione psichica dilagante.

Il male, l’istinto devastatore, la ferocia hanno contraddistinto le azioni degli uomini dal sorgere della civiltà: ce lo racconta la Bibbia, con il fratricidio di Caino, i soprusi narrati in Genesi, la strage degli innocenti compiuta da Erode. Ce lo raccontano tutti i miti e le saghe nordiche e orientali, a dimostrazione di quanto la brutalità, le prepotenze, le angherie immotivate abbiano da sempre trovato spazio nella psiche degli esseri umani.

Ma la tesi veementemente sostenuta da Massimo Diana, attraverso un’approfondita analisi delle fonti scientifiche e letterarie, è che violenza e distruttività (verso se stessi e gli altri) siano reattive e non innate, dovute in massima parte a carenze o anomalie di cure adeguate ricevute nella primissima infanzia. Alla base dei comportamenti aggressivi si trova in genere il disturbo paranoico, definito come psicosi caratterizzata da deliri sistematici, manifestanti sospettosità, diffidenza, isolamento, sindrome di accerchiamento. Tale affezione agisce anche a livello sociale, in quanto contagiosa, inconsapevole di sé, incapace di autocritica e di assunzione di responsabilità. L’intera storia umana, contraddistinta da un’interminabile sequenza di vessazioni e crudeltà, può essere interpretata attraverso la chiave di lettura della paranoia, che nel suo esternarsi utilizza i meccanismi della pseudospeciazione (la difesa irrazionale e accanita della propria specie, o razza, o nazione, ritenuta superiore alle altre), dell’individuazione e del conseguente annientamento di un capro espiatorio.

Scaricando le proprie colpe e implicazioni illegittime all’esterno e su altri soggetti, il potere paranoico riesce abilmente a far regredire la collettività nella lucida follia del branco.

Nel terzo, vibrante e appassionato capitolo del libro, Massimo Diana individua le radici del Male nel diniego dell’infanzia: “La distruttività e la violenza gratuita e intraspecifica non sono qualcosa di innato, di tristemente caratteristico della specie umana, perché sono reattive: sono infatti la reazione della psiche all’infanzia negata, non riconosciuta, abusata, violentata, perseguitata, sacrificata. Sono la reazione della psiche a un trauma, inteso in una duplice accezione: come evento particolare nella storia biografica di alcuni individui (molti, più di quanti possiamo immaginare), e come parte integrante dell’esperienza umana, momento di passaggio ineludibile nel divenire umano… Le persone non nascono cattive ma lo diventano perché qualcun altro ha fatto loro del male… I bambini maltrattati diventeranno adulti maltrattanti… Quanto accade nell’infanzia finisce per congelare (fissazione) il vissuto traumatico e costringe a ripeterlo (coazione a ripetere) nel disperato tentativo di incontrare uno sguardo capace di comprendere e di medicare l’antica ferita”.

Nella contemporaneità si è diffusa in modo preoccupante la figura dell’“uomo senza inconscio, che non sa mettersi in relazione con i propri paesaggi interiori… che non ha avuto la possibilità di riconoscere e integrare i propri vissuti emotivi” e di conseguenza non sa sintonizzarsi sul mondo emotivo degli altri. L’uomo senza inconscio, poco accolto e non accudito amorevolmente nei primissimi anni di vita, “è estremamente vulnerabile al contagio psichico provocato da leader paranoici, e predisposto a scivolare nella logica folle del branco, nella psicologia arcaica della massa”.

Diana rivolge parole molto severe alla “pedagogia nera” in auge fino a pochi decenni fa, che induceva i genitori a usare metodi coercitivi per “addestrare” i figli, inibendo il loro naturale istinto vitale in nome di una pretesa correttezza comportamentale.

Come guarire dal malessere interiore, come rimediare alla ferita sofferta da piccoli, non riconosciuta e infine rimossa? Le due strade suggerite dall’autore sono la terapia e l’educazione. Gli adulti devono riparare il danno ricevuto nell’infanzia in modo da non trasmettere sofferenza alle generazioni future, e possono farlo solo attraverso il recupero di una relazione terapeutica che li aiuti a superare la tendenza schizo-paranoide alla proiezione/evacuazione all’esterno dei propri nodi interni irrisolti: “Solo adulti liberati e liberi saranno in grado di liberare”. Gli ultimi capitoli di questo libro “difficile” (come viene definito dallo stesso Diana nell’introduzione) sono dedicati appunto alle risposte da opporre al Male, per medicarlo, trasfigurarlo e trasformarlo in senso generativo, con l’aiuto di terapeuti e di educatori capaci di azioni non direttive, non violente, non traumatiche.

Riuscire a fare di noi stessi qualcosa di quello che Altri ci hanno reso: da essere semplici oggetti del desiderio di Altri, dobbiamo imparare a diventare soggetti autonomi, artefici del nostro destino, partendo da un processo di riscrittura della nostra infanzia (se è stata problematica o sofferta), guidati da una figura che sia “in grado di intercettare empaticamente e di curare efficacemente le ferite altrui”, ma diffidando di facili e illusorie scorciatoie proposte da sedicenti maestri spirituali.

E in quanto genitori, il primo necessario compito da porsi è quello di accogliere, ospitare, sostenere e contenere con affettuosa premura e disponibilità totale il bambino, difendendolo nella sua estrema fragilità e vulnerabilità, soprattutto nei primi due anni di vita. Trascorsi i quali si può iniziare il percorso formativo e dell’attenta correzione, che sempre devono fondarsi su sentimenti di fiducia e positività, in modo da garantire ai piccoli uno sviluppo sereno. “Se i bambini crescono in un ambiente felice, se vengono educati alla libertà, nella libertà, non covano dentro di loro alcun motivo per agire odio e violenza, non sono costretti a divenire distruttivi verso se stessi, verso gli altri o verso entrambi… Questa è la rivoluzione che ci attende se vogliamo un futuro migliore o, più semplicemente, un futuro”.

© Riproduzione riservata        «Il Pickwick», 2 giugno 2022

 

 

 

 

RECENSIONI

DIANESE, BETTIN

MAURIZIO DIANESE, GIANFRANCO BETTIN – LA TIGRE E I GELIDI MOSTRI

FELTRINELLI, MILANO

 

“Strategia della tensione” fu la definizione coniata dal quotidiano inglese The Guardian subito dopo la strage di Piazza Fontana, per indicare il processo destabilizzante in atto in Italia negli anni tra il ’60 e l’80, anni contraddistinti da lotte sociali particolarmente combattive, e contrastate con forza dai governi dell’epoca, appoggiati da apparati chiave della nazione (magistratura, forze armate, forze dell’ordine, intelligence). Lo scorso 9 maggio, nella Giornata della Memoria delle vittime del terrorismo, il Presidente Sergio Mattarella ha affermato che le stragi di quel periodo sono state effettuate “con la complicità di uomini da cui lo Stato e i cittadini avrebbero dovuto ricevere difesa”, attraverso “gravi deviazioni compiute da elementi dello Stato, e per le quali avvertiamo ancora l’esigenza, pressante, di conoscere la piena verità”.

Il 20 giugno del 1980, pochi giorni prima di essere assassinato dai Nar a Roma mentre indagava sull’eversione nera, il sostituto procuratore Mario Amato aveva dichiarato di stare per giungere “alla visione di una verità d’insieme, coinvolgente responsabilità ben più gravi di quelle stesse degli esecutori materiali degli attacchi criminali”. Il volume di Maurizio Dianese e Gianfranco Bettin, La tigre e i gelidi mostri, appena pubblicato da Feltrinelli, si propone di mettere in luce quale fosse la “verità d’insieme”, l’oscuro ordito alla base di tale disegno sovvertitore, presentando materiali originali, nomi inediti di stragisti, e riflessioni sulle sentenze giuridiche emesse in interminabili, macchinosi e discutibili processi.

Il titolo scelto dagli autori per il loro libro esige una spiegazione. Nietzsche nello Zarathustra chiamava lo Stato “il più gelido dei mostri”, nella sua funzione autoritaria e repressiva di contenimento del dissenso. “La tigre” è una metafora riferita al grande cambiamento democratico che ha investito l’Italia nei decenni presi in considerazione, in cui una profonda trasformazione socioeconomica e culturale incoraggiava l’affermazione di atteggiamenti, ideologie e sensibilità radicalmente innovative e capaci di autodeterminazione, indipendenti dai modelli tradizionali. Tale evoluzione era stata prodotta da diverse cause: lo sviluppo industriale, la mobilità interna, la scolarizzazione di massa, i nuovi media, la crescita del reddito e dei consumi, i ruoli inediti interpretati dalle donne e dagli studenti, il diffondersi di teorie e prassi filosofiche e scientifiche come la psicanalisi e il femminismo. La minaccia rappresentata da questo movimento rinnovatore (the silent revolution) spaventava l’establishment politico, culturale, economico e industriale: secondo un detto sapienziale dell’Estremo Oriente, bisogna cavalcare la tigre per domarla, dirigerla e possibilmente renderla innocua.

Un piano di restaurazione era già in atto dalla fine del secondo conflitto mondiale, durante la Guerra fredda (1947-1991), programmato da settori cruciali dell’amministrazione degli Stati Uniti, presenti sul territorio italiano con basi militari proprie e della Nato, appoggiati da servizi e strutture militari e da gangli di potere occulti (come la Loggia massonica P2), da diversi settori dell’economia e dell’impresa, da aree della criminalità organizzata, di gruppi neofascisti (soprattutto Ordine nuovo, Avanguardia nazionale, Fronte nazionale e Nuclei armati rivoluzionari)    e di agenzie terroristiche internazionali come l’Aginter Presse. Tali settori pianificarono di  usare la tensione e i traumi provocati dagli attentati per condizionare in senso moderato e “centrista” una situazione che avrebbe potuto sfociare verso la proclamazione dello stato d’emergenza, con la sospensione della Costituzione o l’attuazione di un colpo di Stato, come in Grecia nel 1967 e in Cile nel 1973, mentre erano ancora in piedi le storiche dittature franchista in Spagna e salazariana in Portogallo, e si moltiplicavano i regimi militari in America Latina e altrove.

Carlo Feltrinelli afferma nell’introduzione al libro: “In Italia hanno agito, con il supporto di settori cruciali dello Stato, militanti e organizzazioni neofasciste che non solo praticavano azioni criminali e violente, ma concepivano la strage indiscriminata come forma di lotta politica e di condizionamento emotivo del paese”.

Infatti, agivano ancora in Italia molte figure compromesse col regime fascista e con la Repubblica di Salò, con l’intento di “destabilizzare l’ordine pubblico per stabilizzare l’ordine politico”.  II I maggio 1947 in Sicilia l’eccidio politico-mafioso di Portella della Ginestra, attuato dalla banda di Salvatore Giuliano al servizio dei proprietari terrieri, aveva provocato 11 morti e 47 feriti.

Su questo sfondo complesso e ambiguo si muovevano gli attori delle vicende raccontate da Dianese e Bettin, in una narrazione che pur utilizzando gli strumenti dell’analisi storica e dell’inchiesta sul campo, presenta anche la struttura e la vivacità del romanzo d’azione.

I tre episodi drammatici dello stragismo in Italia (Piazza Fontana a Milano nel 1969, Piazza della Loggia a Brescia nel 1974, Stazione di Bologna nel 1980) vengono riscostruiti puntualmente indagando nel retroterra ideologico degli attentatori, nell’ideazione e nella programmazione dei crimini terroristici, nell’individuazione di protagonisti e comprimari, nel rifornimento di armi ed esplosivi, attraverso un minuzioso resoconto di date, orari, incontri clandestini, testimonianze, registrazioni di verbali e interrogatori, e lo studio circostanziato di prove processuali e finanziarie , oltre a una “montagna di documenti, contributi storiografici, analisi storico-politiche”. Soprattutto ci si sofferma sullo scandaloso susseguirsi di depistaggi, insabbiamenti, occultamento di prove, suicidi e trasferimenti di appartenenti alle forze dell’ordine, citando nomi e ruoli dei responsabili e delle vittime delle falsificazioni e delle censure che hanno accompagnato vent’anni di attività sovversiva in Italia. Gran parte di questa documentazione è stata resa nota nella serie infinita di processi, inchieste giornalistiche, indagini della magistratura, cui si sono accompagnate spesso congetture velleitarie e interpretazioni pregiudiziali, nell’immaginario collettivo stimolato da un’incontrollata emotività e da suggestioni artistiche.

Il merito di questo nuovo volume di Dianese e Bettin, che già nel 1999 e nel 2019 avevano firmato insieme due pubblicazioni su Piazza Fontana, è quello di aver individuato e pubblicato i nomi degli esecutori materiali degli eccidi di Milano e Brescia, cresciuti fisicamente e ideologicamente negli ambienti fascisti veneti e lombardi. Di Verona, città con comprovate tradizioni reazionarie sia in campo politico sia in quello religioso, era Claudio Bizzari, militante di Ordine Nuovo, figlio di un funzionario di banca ex-repubblichino. Più volte indagato e denunciato per atti dinamitardi e diffusione di stampa sovversiva, con una formazione militare tra i paracadutisti del corpo degli alpini,

Bizzari avrebbe posizionato la bomba nella Banca Nazionale dell’Agricoltura, che provocò 17 morti e 88 feriti.

A Brescia invece l’indagine ruota intorno alla figura del ventunenne Silvio Ferrari, attivo militante neofascista nella sua città, saltato in aria dieci giorni prima dell’attentato del 28 maggio 1974 in Piazza della Loggia, mentre trasportava di notte sullo scooter un ordigno ad accensione programmata composto da un chilo di tritolo e nitrato di ammonio, destinato a esplodere contro l’agenzia pubblicitaria del “Corriere della Sera”. Se in un primo momento si era pensato a un incidente provocato dall’imperizia del ragazzo, nel corso degli anni si fece strada l’ipotesi (suffragata da numerose testimonianze e fotografie, in particolare della sua fidanzata Ombretta Giacomazzi) che la sua morte fosse stata stabilita dai suoi stessi camerati di Ordine nuovo, insieme a due ufficiali dell’esercito italiano con delicati incarichi istituzionali e a due ufficiali americani, come punizione per aver visto e parlato troppo. Il volume di Dianese e Bettin riporta nomi e cognomi di tutte le persone coinvolte sia nelle riunioni complottiste sia nelle indagini, spesso lacunose o fuorvianti. Quegli anni foschi restituiscono figure di ragazzi “che non si sottraevano all’idea di commettere una strage per odio politico e fanatismo ideologico e per venale interesse, di soldi e ruoli da acquisire nella struttura di potere occulta che li aveva ingaggiati. Ancor più…  sbalzano di fronte a noi l’infedeltà alla Repubblica e alle sue leggi, a cominciare dalla Costituzione, di uomini dello Stato disposti a tutto, anch’essi per tramare e interpretare il potere come arbitrio, per preparare una piena e palese assunzione di dominio”.

Dopo la morte di Silvio Ferrari, il 28 maggio in Piazza della Loggia venne fatta deflagrare una bomba durante una manifestazione sindacale indetta “contro l’aggressività criminale del neofascismo”: gli otto morti e un centinaio di feriti attendono ancora giustizia, dopo sei processi, di cui uno tuttora in corso.

Il clima politico italiano era all’epoca incandescente, non solo per l’avanzata elettorale del Movimento Sociale a cui si contrapponeva l’esito positivo del referendum sul divorzio, ma anche per l’intensificarsi di attentati, a cui l’Italia democratica tentava di rispondere sia in Parlamento (il Presidente della DC Arnaldo Forlani in un discorso del 72 a La Spezia aveva denunciato la pericolosità dell’offensiva reazionaria), sia per la coraggiosa attività di alcuni magistrati, come Vittorio Occorsio che aveva messo fuori legge Ordine Nuovo, e dopo di lui Mario Amato, entrambi uccisi dai neofascisti.

Sei anni dopo i tragici eventi di Brescia, fu Bologna ad assurgere a teatro di un’altra strage, la più efferata nella storia del nostro Paese, ancora una volta realizzata “non solo con l’attiva complicità e la copertura, ma con la condivisa pianificazione da parte di organi e apparati vitali dello Stato”.

85 morti, 200 feriti e una serie di processi da cui ancora non è scaturita la verità definitiva: sono stati condannati gli esecutori dell’attentato (Fioravanti, Mambro, Cavallini, Ciavardini, Bellini), tutti gravitanti nell’area di estrema destra, che dopo lo scioglimento di Ordine nuovo e di Avanguardia nazionale (nel 1973 e nel 1976), si era riorganizzata a livello nazionale, trovando sempre nel Veneto un ricettacolo operativo e ideologico di rilievo. Dianese e Bettin ipotizzano una collaborazione attiva da parte del veneziano Gianpietro Montavoci, esperto di esplosivi, reclutato come informatore dai servizi segreti con il nome in codice di Mambo, uomo di fiducia del leader triveneto Maggi (condannato in via definitiva per la strage di Brescia e dentro tutte le trame dell’epoca). Varie sentenze processuali avevano poi indicato in Licio Gelli, l’ex Gran maestro della Loggia massonica P2, il mandante della strage con la collaborazione di Federico Umberto D’Amato, ex capo dell’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, e di Mario Tedeschi, ex senatore del Msi ed ex direttore del settimanale “Il Borghese”. Precedentemente erano stati condannati per depistaggio delle indagini lo stesso Licio Gelli, il collaboratore del Sismi Francesco Pazienza, gli ufficiali del Sismi Pietro Musumeci e Giuseppe Belmonte. La Procura generale ha poi ricostruito i flussi di denaro utilizzati per finanziare la strage, distratti da Gelli da conti del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi (circa dieci milioni di dollari).

L’ attività criminosa della P2, insieme alla penetrazione gelliana nella finanza, nelle banche e nell’editoria, con l’asservimento del gruppo Rizzoli-Corriere della Sera, è riconducibile ai piani atlantici di prevenzione dell’espansione del comunismo in Europa, con l’impiego della controguerriglia psicologica che prevedeva anche il ricorso a stragi e pro vocazioni nelle varie forme delineate dall’operazione Chaos. Tale operazione era stata programmata dalla Cia e sviluppata nel 1967 su impulso del presidente Johnson per disorientare i movimenti degli anni 60 e 70 e le sinistre in tutto il mondo.

Malgrado queste cospirazioni internazionali e tutto il sangue innocente sparso, “il riformismo italiano ha prodotto frutti importanti: lo Statuto dei lavoratori, il Servizio sanitario nazionale, la riforma del diritto di famiglia, il divorzio, l’aborto, la riforma psichiatrica, l’obiezione di coscienza e il superamento del servizio militare obbligatorio, l’allargamento generale della sfera dei diritti e della partecipazione politica”. Di fronte all’avanzare delle destre e del sovranismo in Italia e nel mondo, “bisogna, di nuovo, cavalcare insieme alla tigre”, opponendosi al ritorno delle ombre oscure e feroci che hanno dilaniato la storia del secolo scorso e minacciano il progresso civile di quello attuale.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 10 dicembre 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

nato,

RECENSIONI

DICKINSON

EMILY DICKINSON, UN VULCANO SILENZIOSO, LA VITA – L’ORMA, ROMA 2013

In una raffinata e originale veste tipografica, l’editore romano L’Orma propone a un prezzo assai conveniente dei libriccini di autori classici, contenuti in una sovraccoperta trasformabile in busta pronta ad essere affrancata e spedita. Idee regalo, quindi, preziose e molto curate. Come questa scelta di lettere di Emily Dickinson, tradotte e commentate con intelligente e delicata empatia da Marco Federici Solari. L’antologia è divisa in tre parti: la prima raccoglie brani epistolari degli anni giovanili della poetessa – vissuti con un’intensità quasi viscerale di affetti per l’amica del cuore Susan, per i fratelli e i cugini, per il mondo vegetale e animale -, che smentiscono decisamente il clichè tramandatoci da tanta critica di una Emily solitaria e scontrosa, sottolineando invece il suo ironico anticonformismo e la sua indipendenza dalle tradizioni borghesi e puritane dell’ ambiente in cui visse. La seconda sezione riporta tre coinvolgenti missive rivolte a un misterioso Maestro, sulla cui identità mai si è riusciti a fare definitiva chiarezza: scritte dalla poetessa trentenne, evidenziano toni appassionati e talvolta addirittura deliranti, in una sorta di estasi misticheggiante dai tratti quasi masochistici: «Maestro – spalancami la tua vita, e accoglimi per sempre, non ne sarò mai stanca – non farò rumore quando tu vorrai il silenzio. Sarò la tua brava bambina…», raggiungendo la stessa altezza evocativa delle sue poesie migliori. Nella terza sezione sono raccolte testimonianze della ‘improbabile’ ma lacerante passione che colse Emily quasi cinquantenne per il giudice Otis Phillips Lord («Austero come il Profilo di un Albero contro un cielo invernale»): lettere animate sia da timide strategie seduttive sia da un erotismo più esplicito e confidenziale. «L’esultanza mi inonda. Non trovo più argine – il ruscello diviene Mare – al pensiero di te», fino alla sconsolata e misteriosa frase conclusiva: «Ti perdono».

«Leggere Donna» n. 163, aprile 2014