Mostra: 421 - 430 of 1.318 RISULTATI
RECENSIONI

DIDI-HUBERMAN

GEORGE DIDI-HUBERMAN, SU GIUSEPPE PENONE – MONDADORI ELECTA, MILANO 2008

Partendo dalla definizione di “cranio” come scatola che, al pari del vaso di Pandora “contiene tutte le inquietudini di un pensiero che si volge sul proprio destino, sui propri recessi, sul proprio luogo”, il famoso critico d’arte francese George Didi Huberman propone un excursus filosofico ed estetico, documentato iconograficamente, che indaga i lavori anatomici di Leonardo (la cui “curiosità scava instancabilmente e crea nel corpo umano una rete di pozzi, punti di vista, trincee per lo sguardo”) e le rigorose geometrie di Dürer, intese a rovesciare lo spazio attraverso procedimenti logici e narrativi (con uno splendido ritratto di San Gerolamo, che con una mano si regge la testa e con l’altra sfiora un teschio, metafora di vita e morte, rapporto tra cranio e calvario…). Per arrivare a esplorare i “luoghi” della scultura di Giuseppe Penone, anche attraverso le interessanti e poetiche dichiarazioni dell’artista sul suo lavoro. Un “scultura sculpens”, la sua, che “pone la questione del suo dispiegamento come del proprio stato nascente”: realizzare una scultura è, per Penone, “fare uno scavo. È fare l’anamnesi del materiale in cui si affonda la mano: ciò che la mano toglie dal materiale non è altro che una forma presente dove si sono ammassati, inscritti, tutti i tempi del luogo particolare di cui il materiale è fatto, da cui trae il proprio stato nascente. Per lo scultore, dunque la memoria è una qualità propria del materiale stesso: la materia è memoria”.  Penone secondo Didi Huberman sviluppa sculturalmente le immagini dello scavo, della profondità, dell’interiorità: “tocca il pensiero”. “Scolpire, secondo Penone, è seguire il sentiero perduto, rinunciare alle forme prevedibili, ritrovare un progredire nell’incertezza del materiale informe.” E il critico segue affascinato le tracce dell’artista, pedinandolo, interpretandolo con finezza e entusiasmo.

IBS, 25 aprile 2012

RECENSIONI

DIVRY

DIVRY SOPHIE, LA CUSTODE DI LIBRI – EINAUDI, TORINO 2012

Il monologo che la trentenne scrittrice lionese Sophie Divry mette sulle labbra della protagonista del suo romanzo parte in sordina, un po’ rampognoso un po’ sentimental-confidenziale, per alzare il tono e gli obbiettivi di polemica man mano che si procede nella lettura. La voce che si confessa in queste pagine è quella di una matura signora che da venticinque anni cataloga libri nel reparto destinato ai testi geografici della biblioteca pubblica di una città di provincia, con devozione al suo lavoro ripetitivo, metodico, quasi rassegnato: «catalogare, riordinare, non disturbare, è tutta la mia vita». Lo scantinato in cui lavora diventa un osservatorio privilegiato per commentare sia le abitudini di chi frequenta le sale di lettura, sia i modelli e i limiti culturali del pubblico e dell’editoria, sia i rapporti umani e professionali di chi lavora all’interno dell’edificio. Lettrice onnivora ma scaltrita e dai gusti raffinatissimi, esprime giudizi taglienti e controcorrente sia sulla storia e sulla letteratura francese, sia sul progressivo imbarbarimento di quello che dovrebbe rappresentare per la comunità l’amore per il sapere.

«Mi sento la linea Maginot della lettura pubblica…. Di tutti quei libri che ti saltano addosso a centinaia, il novantanove per cento serve solo ad avvolgerci le sardine. Per le biblioteche sono una calamità. I peggiori sono i libri espresso, quelli d’attualità: ordinati, scritti, stampati, presentati in televisione, comprati, ritirati e mandati al macero in men che non si dica. Di fianco al prezzo, gli editori dovrebbero mettere anche la data di scadenza…».

Un volumetto piacevole, disincantato e amaro, che potrà essere apprezzato soprattutto da chi ama la lettura e i silenzi delle biblioteche pubbliche.

 

«Leggere Donna» n.159, marzo 2013

RECENSIONI

DODA

IRENE DODA, L’UTOPIA DEI MILIARDARI. ANALISI E CRITICA DEL LUNGOTERMISMO

TLON, ROMA 2024

In un’ottantina di pagine, Irene Doda analizza criticamente e con verve polemica la corrente di pensiero del lungotermismo, inaugurando la nuova collana Urano delle edizioni Tlon con il volume L’utopia dei miliardari, saggio che si situa tra l’inchiesta sociologica, l’analisi politica e la filosofia etica. L’autrice, giornalista trentenne, si occupa di tematiche legate al lavoro e alla tecnologia, esplorando le tesi che forniscono giustificazione ideologica alle teorie produttivistiche dei giganti del tech mondiale. Pur affrontando argomenti complessi, la sua prosa si mantiene costantemente e lucidamente accattivante e vivace, soprattutto nelle frequenti digressioni ed esemplificazioni con cui accompagna dati più aridamente impegnativi.

Già nell’introduzione, ironicamente intitolata Apocalisse in SLOW MOTION, la presentazione del mondo contemporaneo in collasso fisico e mentale appare pungente e allarmata, nell’elenco dei disastri accumulatisi durante l’ultimo secolo, e nella presentazione delle finalità del suo libro: “Questo breve testo ha come protagonisti gli autoproclamati creatori del futuro: professori di Oxford, miliardari della Silicon Valley, ideologi e guru degli ultraricchi. Mentre il resto del mondo arranca, tra il clima impazzito e la povertà, le elezioni e i colpi di Stato, le epidemie e le diseguaglianze che crescono, questo piccolo e agguerrito gruppo di potenti sostiene di avere in tasca le soluzioni, addirittura scientifiche, ai dilemmi esistenziali dell’umanità”.

I nuovi insaziabili padroni del mondo, animati da delirio di onnipotenza, propugnano un’ottimistica filosofia che sta conquistando le grandi fondazioni filantropiche, le aziende multinazionali, le istituzioni politiche, con la promessa di un futuro prospero e felice di cui l’umanità godrà tra millenni, in una florida civiltà multiplanetaria per ora solo immaginata. Questa ideologia è stata chiamata “lungotermismo” proprio a causa della sua procrastinazione molto lontana nel tempo, che non mette in discussione le attuali strutture del capitalismo, del consumo, dei cicli di produzione. Nonostante l’approccio si presenti come scientifico, esso ha in realtà una forte impronta fideistica, e presenta molti elementi simil-religiosi vicini al fanatismo, nella sua illimitata fiducia in una salvezza dall’estinzione per la specie umana, che al contrario ne garantisca l’espansione e uno stato di benessere totale, sotto la guida di pochi spiriti eletti.

Il saggio di Irene Doda è strutturato in tre capitoli, il primo dei quali analizza le origini filosofiche del lungotermismo e il profilo dei suoi fondatori e sostenitori, il secondo ne approfondisce le contraddizioni e i rischi di applicazione pratica, e il terzo esamina le possibilità di una politica alternativa alla sua visione millenaristica. Nato e diffusosi in ambienti anglosassoni attraverso l‘opera del giovane accademico scozzese William MacAskill, deriva concettualmente dalla lezione dell’altruismo efficace (a sua volta ispirato alla filosofia settecentesca dell’utilitarismo).

Secondo MacAskill, lo stato attuale della vita dei sette miliardi di abitanti della terra è meno importante della realizzazione del potenziale umano nei millenni che verranno, pertanto è necessario impegnarsi per assicurare alle generazioni future una sopravvivenza il più possibile positiva, anche se si dovessero affrontare rischi minacciosi per il presente. Nell’ipotesi di una colonizzazione futura della nostra e di altre galassie, il numero in potenza degli abitanti potrebbe essere di miliardi e miliardi di “persone”, molto diverse da quelle oggi esistenti, digitali anziché biologiche, programmate per costruire comunità stabili e sagge, capaci di reagire a eventi distruttivi, naturali o politici, massimizzando la quantità totale di “valore” nell’Universo.

Non ci troviamo davanti a ipotesi fantascientifiche ideate su internet da gruppetti di cervellotici nerd, ma a vere proprie organizzazioni come il Future of Humanity Institute, il Global Priorities Institute e il Future of Life Institute creato da Elon Musk, che stanno raccogliendo proseliti tra filosofi, scienziati, informatici, finanzieri, appoggiati da ricercatori della prestigiosa Università di Oxford. Irene Doda elenca dettagliatamente i nomi delle Fondazioni che finanziano gli studi sul lungotermismo (Effective Ventures, Open Philanthropy, GiveWell, Good Venture), dei plutocrati che ne sono a capo e dei teorici che l’appoggiano (William MacAskill, Toby Ord, Hillary Greaves, Dustin Moskovitz…). Si tratta di personalità di rilievo delle università d’élite americane e britanniche, del mondo della Silicon Valley, delle grandi banche, che rivestono ruoli decisivi nelle organizzazioni politiche ed economiche internazionali.

Come il neoliberismo ha trasformato l’economia mondiale negli ultimi decenni, promuovendo le privatizzazioni, smantellando il welfare, e riducendo gli spazi democratici, così il lungotermismo inaugura una nuova, silenziosa rivoluzione ideologica, e un’operazione culturale appoggiata da imponenti flussi di denaro, in grado di infiltrarsi nei gangli del potere internazionale.

La prima evidente falla di una tale impostazione di pensiero è che nessun organismo politico o scientifico potrà mai prevedere il complesso sviluppo di un universo interconnesso, gli eventuali sconvolgimenti cosmici, le difficoltà materiali di una colonizzazione di pianeti extraterrestri, gli imprevedibili scontri con civiltà aliene, né tantomeno le scelte etiche di singoli individui che potrebbero mettere a repentaglio la sicurezza di intere nazioni: un qualunque evento casuale può portare a conseguenze imponderabili e deleterie. Se è già difficile progettare soluzioni in orizzonti di tempo limitati, sembra illusorio proiettarle in ere millenarie come quelle prospettate dal lungotermismo. Oltretutto, esso ha un rapporto ambiguo con la tecnologia, che viene a volte demonizzata (si consideri l’ostilità di Musk verso l’IA) e altre volte esaltata come unica possibilità di salvare il genere umano dalla fine, soprattutto se estremizzata secondo la più recente teoria dell’“accelerazionismo effettivo”, conosciuto anche con la sigla di e/acc, che propone uno sviluppo massiccio e sregolato dell’intelligenza artificiale. La principale ambiguità del lungotermismo riguarda infatti la dipendenza dai magnati dell’industria tecnologica, che ne finanziano generosamente ricerca e propaganda, appellandosi a un fantomatico bene superiore per giustificare qualsiasi misfatto compiuto nel presente attraverso l’inquinamento, il riscaldamento globale, la desertificazione, lo sfruttamento della forza lavoro. La filosofa Alice Crary così commenta: “Il lungotermismo ci chiede di salvaguardare il futuro dell’umanità, facendoci distogliere l’attenzione dalla miseria attuale e tralasciando di esaminare strutture socioeconomiche dannose”. L’impostazione filantropica assunta da molte multinazionali appare allora un alibi per non mettere in discussione le radici delle diseguaglianze. Esiste poi un’altra contraddizione tra l’impronta ecologica di Google, Amazon, Tesla e altri giganti tech, e i loro data center, che hanno un tasso molto elevato di emissioni di gas serra, quasi che la tanto proclamata lotta al cambiamento climatico sia una gigantesca opportunità di espansione del business e di acquisizione di nuovi brevetti tecnologici.

Un’ulteriore debolezza di questa ideologia e dei suoi adepti è la totale e deliberata ignoranza dell’alterità, delle differenze, delle possibilità e dei progetti che possono essere messi in campo per raggiungere molteplici futuri possibili. Nel loro esasperato antropocentrismo, i lungotermisti ignorano tutte le altre forme di vita animale e vegetale, i cui diritti vengono appiattiti sulle esigenze umane.

Secondo Irene Doda, per inventare un itinerario di resistenza agli universalismi che tendono all’assimilazione è essenziale costruire nuove relazioni tra esseri umani, alleanze multi-specie, connessioni con l’ambiente naturale, persino con le macchine. Bisogna accettare di vivere nell’incertezza, partendo anche dal caos attuale, consapevoli della relativa inadeguatezza e insignificanza dell’essere umano, che non è e non sarà mai onnipotente, ma può costruire percorsi alternativi di giustizia sociale, di solidarietà e progresso comune, qui e ora.

 

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 25 gennaio 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DONA’

MASSIMO DONA’, L’ANGELO MUSICANTE – MIMESIS, MILANO 2014

Massimo Donà, professore di filosofia teoretica a Milano, dedica questo suo intenso e non facile saggio a Caravaggio, alla sua “ingovernabilità”, al “fondo abissale, nero e indecifrabile” dei suoi dipinti, e al “furore essenzialmente musicale” che anima il suo atto pittorico. In realtà parla di molto altro, indaga in profondità il pensiero filosofico ed estetico che si è occupato dagli albori del rapporto intercorrente tra arte e natura, tempo e spazio, luce e oscurità, immaginazione e storia. Prendendo spunto da alcuni quadri caravaggeschi (non solo i due più esplicitamente dedicati alla musica, Concerto di giovani e Suonatore di liuto), Donà contesta l’idea di una presenza della spazialità nella pittura dell’artista lombardo, che ama scontornare i suoi modelli da ogni sfondo concreto, “preferendo farli emergere… da un confuso abisso, da un’oscura origine”, salvaguardandone “l’originaria indeterminatezza” che “conduce all’essere il non-essere”. Così facendo “il teatro pittorico caravaggesco sarebbe riuscito a restituire i personaggi di volta in volta rappresentati alla straordinaria potenza evocativa necessariamente caratterizzante qualsiasi brandello d’eternità”. Una potenza evocativa che si esprime quindi non tanto nella descrizione realistica dell’ambientazione, ma nel suggerimento di un ritmo interno, assolutamente musicale, non legato a una significazione positiva: bensì allusivo a una possibilità “altra” dell’essere. E’ inevitabile a questo punto per Donà appellarsi all’autorità di Hegel, al suo affermare “l’essere che, mentre è, non è, e mentre non è, è”. Solo la musica, e l’arte pittorica che sa farsi musicale, è in grado di “liberare la cosa e la sua statica determinatezza”, dispiegando la sua “fondante infondatezza” ed esprimendo “l’immediatezza del tempo”. Se il significato rappresenta la permanenza, il rassicurante, ecco che l’arte di Caravaggio esprime la mancanza, il non essere più e il non essere ancora. L’immediatezza imprevedibile.

IBS, 18 ottobre 2014

RECENSIONI

DONINELLI

LUCA DONINELLI, UNA GRATITUDINE SENZA DEBITI – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2018

Cos’ha insegnato Giovanni Testori a Luca Doninelli? «Giovanni Testori mi ha insegnato a difendere, magari in un modo che può apparire talvolta irritante e scandaloso, la dignità di ogni singolo essere umano, sia pure il più turpe e indifendibile. Mi ha insegnato che un uomo comincia a essere “qualcuno” solo se ha avuto il coraggio di sperimentare e affrontare il niente che è. Mi ha insegnato ad amare e cercare sempre, nell’arte come nella vita, il segno della grazia. Infine, mi ha insegnato a fare tutto ciò non a modo suo, ma a modo mio».

Un’educazione morale, prima ancora che culturale, riscoperta attraverso il rapporto, gratuito e reciprocamente gratificante, instauratosi tra discepolo e maestro, come quello che poteva stabilirsi nella “paideia” degli antichi greci.La dichiarazione di intenti di questo libro viene esplicitata già nell’introduzione: «Io credo nei maestri, e credo che un mondo senza maestri sia un mondo assai poco desiderabile, un mondo più prevedibile, più mesto. Se accetta di sostituire la gratuità di un magistero con l’ingegneria sociale, con la biopolitica delle coscienze o con la robotizzazione generale, allora l’umanità merita di estinguersi».

Doninelli rende omaggio, dunque, in Una gratitudine senza debiti, non solo alla figura di Testori, autore teatrale, romanziere, poeta e critico d’arte, suo mentore letterario e maestro di vita e di fede, ma anche all’idea di guida interiore che sappia indicare il percorso da seguire, umilmente e autonomamente, per arrivare a costruirsi come persona e come scrittore. Chi ama e ammira Testori (1923-1993), in queste pagine avrà modo di situarlo negli snodi essenziali della sua esistenza e della sua produzione artistica, oltre che nel suo contributo civile durante gli anni tormentati vissuti dal nostro paese dal dopoguerra in poi.

Doninelli lo conobbe nel 1978, nel corso delle terribili giornate del sequestro di Aldo Moro. Era allora un ventiduenne «presuntuoso, con la testa piena di letteratura e di una passione di cui lui stesso ignorava la forza», affascinato parimenti da Kerouac e Landolfi, da Barthes, Pasolini e Don Giussani. Testori lo invitò nel suo studio di Via Brera («Luca Luca», salutandolo come in un battesimo), lesse i suoi racconti e gli pronosticò un futuro di scrittore e di sofferta inquietudine. Il Giovanni Testori con cui il giovane Doninelli si misurò era un uomo caratterizzato da «uno snobismo senza limiti», che prendeva il taxi per recarsi nell’amatissima Parigi, ma scoppiava a piangere davanti al dolore innocente di sconosciuti. Un cristiano che non rinnegava la propria omosessualità, ed esaltava il corpo e la carne «come luogo di salvezza e perdizione». Uno a cui piacevano i malati, i feriti, i segnati da qualche ombra. Un intellettuale che non si definiva tale, e combatteva il nichilismo di facciata dei salotti dell’intellighenzia italiana. Un maestro, soprattutto, generosissimo nel darsi ai giovani che gli chiedevano indicazioni e suggerimenti su letture, mostre, modalità di scrittura, e che venivano da lui esortati a lavorare severamente sul testo, studiando, confrontandosi con la realtà, ulcerandosi in essa.

Ecco quindi che l’uomo Giovanni confessava al suo «Luca Luca» anche i propri cedimenti e le perdite, lo strazio per la morte della madre, la depressione, la tentazione del suicidio, la conversione a un cattolicesimo che tutto accetta e tutto perdona. Insieme ai lati negativi che riconosceva in sé stesso: l’adesione al potere berlusconiano, la vanità, l’egocentrismo, un’infantile spietatezza. Pregi e difetti che ogni maestro e ogni discepolo sanno di non doversi nascondere, quando i ruoli, intrecciandosi, diventano vicendevolmente arricchenti.

 

© Riproduzione riservata       

https://www.sololibri.net/gratitudine-senza-debiti-Doninelli.html            26 marzo 2018

RECENSIONI

DONINELLI

LUCA DONINELLI, L’IMITAZIONE DI UNA FOGLIA CHE CADE – ABOCA EDIZIONI, SANSEPOLCRO 2020

L’azienda toscana Aboca, fondata nel 1978, si occupa di cura della salute creando e vendendo prodotti alimentari e cosmetici naturali, che rispettano l’organismo e l’ambiente. Promuove anche attività culturali, attraverso l’organizzazione di eventi, convegni, mostre, e la pubblicazione di libri: da poco ha inaugurato una collana di narrativa in cui autori italiani di successo (Abate, Parazzoli, Villalta…) pongono al centro del loro testo il rapporto con la natura e il mondo vegetale.

In questo spazio a indirizzo “ecologico” è da poco uscito L’imitazione di una foglia che cade, di Luca Doninelli, racconto di un centinaio di pagine, il cui protagonista è un maturo e affermato scrittore lombardo, Ugo, impegnato in una rivisitazione della propria vita, che lentamente si trasforma in un severo inventario di cedimenti intellettuali e ammorbidimenti morali.

Tornato single dopo la separazione dalla moglie e dai due figli, dedica il suo tempo non solo alla lettura e alla scrittura, ma anche a un’attenta e approfondita disamina di ogni accadimento, materiale o spirituale, si affacci a scalfire la sua quotidianità: dalle difficoltà di un trasloco, alla casuale caduta di un tomo dallo scaffale, a un qualsiasi incontro fortuito. Ogni oggetto gli parla, ogni azione lo interroga: “Mi piace decifrare. Per me il fruscio di un ramo è un discorso, come lo sono il rumore di un aereo che passa sulla mia testa o il battito di un martello pneumatico in un cantiere lungo una via cittadina. Un tram è una lingua, come lo sono i volti di chi lo occupa, i loro abiti e le loro scarpe. Lingua è un ciuffo d’erba che spunta tra una carreggiata e un marciapiede, la cornice di una finestra, la velocità delle automobili su un viale di scorrimento”.

A un personaggio tanto introspettivo, può senz’altro apparire miracoloso e rivelatore l’arrivo inatteso di un pacchetto contenente un libro che gli era appartenuto, l’Historia Francorum di Gregorio di Tours. Sulla busta si legge solo un indirizzo, “Piazzale Martini, Milano”, privo di mittente. Sfogliando le pagine ingiallite del volume, scopre che all’interno della rilegatura è nascosto un quaderno su cui, ancora ragazzo, aveva scritto con grafia minuta e ordinata il suo primo romanzo, mai pubblicato: Gli incurabili. Inoltre, dal quaderno spunta una vecchia foglia d’acero, scura e indurita. Nel riconoscere in entrambi gli oggetti testimonianze del suo passato, Ugo è colto da un sentimento di disagio, sospeso tra gioia e timore. “La lettura di quelle mie pagine ingenue mi ricondusse non soltanto a un mondo che avevo perduto ma anche a un certo modo – non meno perduto – di stare al mondo. Avrei potuto passare ore e giorni a segnare tutti gli errori del manoscritto, ma sapevo che questo non avrebbe dissipato l’impressione di avere lasciato, proprio lì, la parte migliore di me”.

Ovviamente, la parte migliore della sua esistenza viene individuata negli slanci, nelle utopie, e nell’ingenuità della giovinezza. Ugo si rivede studente universitario, innamorato della letteratura, circondato da amici come lui impegnati a rifondare la società, immersi nella lettura di Barthes, Foucault, Derrida. La prima fidanzata, l’incontro con la moglie Valentina, gli anni economicamente precari e professionalmente problematici del matrimonio, l’ambizione di agire e scrivere in modo radicalmente intenso e incisivo. Come, dove, quando tutto ciò era andato perduto? Perché l’intransigente purezza di allora era scesa a compromessi? “Voglio solo dire che la letteratura fu responsabile, in qualche modo, del mio disastro. Una volta diventato scrittore per tutti, una volta raggiunto questo status, le mie parole cominciarono infatti a viaggiare alla velocità del mondo – senza tuttavia appartenergli – e io viaggiavo alla velocità delle mie parole, e quindi del mondo”.

All’epoca frequentava una bancarella di libri in Piazzale Martini, il cui proprietario era un anziano signore francese, Monsieur Pineau, saggio dispensatore di consigli di lettura e di vita. Al vecchio libraio, Ugo aveva venduto uno scatolone dei suoi volumi, tra i quali appunto quello di Gregorio di Tours che ora gli veniva misteriosamente restituito, con le tracce di un’esistenza ormai lontana, macchie di caffè e una foglia di acero come segnalibro. Torna quindi a cercare Pineau, ormai ultraottantenne, ma sempre seduto sulla sua poltrona, davanti alla bancarella: “un vero e proprio salotto letterario all’aperto, con uno stuolo di frequentatori perlopiù giovani e poveri”: ascolta umilmente i rimproveri di lui, e ne accoglie con discrezione le confidenze. Principalmente, quella di un incontro con un profetico, amaro e visionario Roland Barthes, capace di leggere le parole sospese nel vuoto mentre vengono pronunciate. La morte del filosofo francese si intreccia con quella di Pineau, il funerale di quest’ultimo, a cui partecipano molti intellettuali milanesi, svela nell’animo turbato di Ugo che a ogni vuoto, a ogni precipizio, a ogni fine, corrisponde un pieno di vita e di amore.

Ne sono testimoni i nostri guardiani alleati, le creature inoffensive e verdi che ci circondano e sanno tutto di noi. Gli alberi del cortile di fronte, delle pianure, dei boschi; le foglie che cadono, e quella di acero ora incorniciata in una teca di plexiglas, suscitatrice di memorie, ancoraggio a un passato che non va rimosso, ma custodito con gratitudine.

 

© Riproduzione riservata            «SoloLibri», 2 febbraio 2020

https://www.sololibri.net/L-imitazione-di-una-foglia-che-cade-doninelli.html

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

DONNE

JOHN DONNE, GLI ANNIVERSARI – DONZELLI, ROMA 2013

Dieci anni fa l’editore Donzelli ha pubblicato la prima traduzione completa apparsa in Italia de Gli anniversari di John Donne, curata dalla studiosa Audrey Taschini, che ha stilato anche l’accurata prefazione. Taschini, ricercatrice all’Università di Bergamo, recentemente si è cimentata con la versione e il commento dei Four Quartets di T.S. Eliot, dando prova di un encomiabile intuito critico e di una profonda conoscenza delle fonti letterarie e filosofiche dell’opera. Così come in questo lavoro più recente, in quello che l’aveva preceduto la traduzione dei testi era caratterizzata da un’attenta e sobria fedeltà all’originale, particolarmente apprezzabile nella difficile resa dell’inglese seicentesco di Donne.

John Donne (Londra 1572-1631), considerato il massimo rappresentante della poesia metafisica inglese del seicento, fu anche saggista e chierico della Chiesa Anglicana. Vissuto in un’età di transizione, tra il tramonto della fiorente epoca elisabettiana (in cui l’idea di un cosmo armonico rispecchiava l’ordine trascendentale), e l’inizio della modernità, portatrice di rivoluzioni ideologiche, scientifiche e sociali (la nuova astronomia di CopernicoBraheGalileoKeplero, la medicina di Paracelso, l’ascesa delle classi borghesi, il protestantesimo, un diverso indirizzo monarchico), il poeta londinese pativa drammaticamente il senso rovinoso della corruzione etica e spirituale del mondo circostante. “Proprio in questo periodo si assistette… a un vero culto della meditazione sulla morte, del lutto, e soprattutto… della melancolia, che venne eletta a oggetto di numerosi trattati e opere”.

Gli Anniversari (composti tra il 1611 e il 1612) sono costituiti da due poemetti, Un’anatomia del mondo e Del viaggio dell’anima, tra cui è inserita una breve Elegia funebre, in onore e ricordo dell’aristocratica giovinetta Elizabeth Drury, morta quindicenne: essi sono permeati appunto da un profondo sentimento malinconico, luttuoso, di meditazione sulla malattia, non solo di singole creature, ma dell’intero universo. Il primo Anniversario, Un’anatomia del mondo, descrive in toni tragici la dissoluzione cui sono destinati sia l’uomo sia la natura, avviati a un’apocalissi fisica e alla perdita di senso, con la fine “di un Logos immortale, portatore di ordine, unità, armonia, bellezza, verità, ma soprattutto di significato profondo”. La figura di Elizabeth, che Donne non aveva mai conosciuta, è centrale nel poemetto, idealizzazione della purezza sacrificata alla morte, ed emblema della fragilità e della decadenza della contemporaneità. In una ripresa dello stilnovismo, la giovane incarna la figura della donna angelicata, e insieme della poesia e dell’Anima universale. Il lamento funebre, nella commossa ripetizione del verso “Shee is dead, shee’s dead” collega la morte della giovane bellissima, dolce e buona, alla dissoluzione di un mondo malato, colpevole, addirittura putrefatto (“Sicke world”): “Lei, lei è morta: quando sai questo, / Sai che cosa povera e insignificante è l’uomo”.

La figura di Elizabeth diventa l’ente generatore di ogni cosa positiva, poiché dal suo nome ed esempio può nascere il riscatto, una rinascita dalle tenebre alla luce, che troverà espressione soprattutto nel secondo Anniversario, Del viaggio dell’anima. Solo la poesia è in grado di rispecchiare in parole umane la visione del trascendente, rivestendo un ruolo mediatore tra morte e vita, temporalità ed eterno. Se quindi il primo Anniversario si muove in una direzione discendente, nella disperata contemplazione della decadenza cosmica e umana, il Viaggio dell’anima ascende invece verso una prospettiva di salvezza da perseguire con il soccorso della Grazia, per arrivare infine alla visione di Dio. Ancora il ricordo luminoso della giovane Elizabeth e la riscoperta del linguaggio evocativo della poesia possono aiutare il genere umano a riconoscere la vanità dell’erudizione e delle esperienze umane tanto decantate dalle nuove conquiste scientifiche, dando un nuovo significato alla morte, intesa come evento positivo che libera dal fardello del corpo corrotto e dalle miserie dell’esistenza  terrena. L’anima, libera dalle scorie della materialità, nella visione di John Donne ha accesso a un’autentica comprensione della Verità e a una comunione con lo Spirito universale, “nella onnipervasiva intelligenza del Logos divino”.

 

© Riproduzione riservata    

SoloLibri.net › Recensioni di libri › Gli anniversari di John Donne          3 marzo 2023

 

 

RECENSIONI

DORIGO

ERMES DORIGO, LE CENERI DI PASOLINI – CAMPANOTTO, UDINE 1994

Ermes Dorigo è una voce nuova e diversa nella cultura friulana di questi ultimi anni: appassionato organizzatore di convegni in Carnia, divulgatore e tenace mentore di tradizioni alpine, polemico pubblicista e critico. Oltre a ciò, Dorigo è narratore e poeta in proprio, e in quest’ultima veste ha recentemente pubblicato un volume di versi, Le ceneri di Pasolini, che, a quasi quarant’anni dal libro pasoliniano dedicato a Gramsci, tende a recuperare la tensione ideologica e la forza d’urto di quel testo. Intendiamoci, Dorigo è abissalmente lontano dalle scelte formali di Pasolini: non troviamo in lui la terzina classica, né lo stile retorico-celebrativo dell’altro. Il suo discorso è più franto e tormentato ideologicamente, e si riflette in una forma molto accanita, più giocata e “astuta”, nel senso che conosce e sa sfruttare tutti gli apporti poetici di questi nostri ultimi decenni (da Sanguineti ai neodannunziani). Eppure c’è anche qui indignazione morale: «Secolo agonizzante, ora che tremi / la tua fine e con livido sguardo / delirante brami la fine / dell’altro, ringhiando la vittoria / sul tu solidale, dal seme di morte / che ti ha generato educhi / il male e una velenosa bava / spargi di follia e di lutto: / morto tu, dio, morto tutto?)», con l’aggravante di una disperazione – cioè, proprio, di una non-speranza, di una consapevolezza della vanità di ogni resistenza politica – che Pasolini, alla fine degli anni ’50, non conosceva. Pasolini padre, quindi, e Pasolini patrigno, amato e contestato («come / una collazione di urla / mute, inespansa virtute / vedevi la verità: / ma era vera?»), insieme ad altri riferimenti mitici, paterni, della nostra tradizione letteraria, quali Paolo Volponi, cui Dorigo attribuisce un secondo, affettuoso omaggio in versi.

C’è, in questo volume di Dorigo, un intenso, straziato richiamo all’eros, molto diverso rispetto a quello che Pasolini ci lasciava intuire ne Le ceneri di Gramsci: là timore e tremore, adorazione religiosa del corpo, qui dissacrazione del sesso, svelamento impudico, genitalità espressa come in un basso continuo e ossessivo. La sezione Raphaela, la più violenta e febbricitante del libro, presenta, accanto a versi di indubbia valenza erotica («Ma come guizzerebbe la mia trota / nella tua mano ignota con perle di latte arcano»), in qualche modo sciolti e appagati nel desiderio soddisfatto, presenta dunque un angosciante turbinio di riferimenti espliciti, assillanti ed esagitati nella loro consapevole oscenità. Al punto che lo stesso Dorigo sembra averne paura, e tenta esorcismi che riducano la carica sensuale dei suoi versi, smorzandone l’ebbrezza attraverso giochetti linguistici, scioglilingua, che in realtà finiscono per risultare elementi di distrazione piuttosto datati: «che porco / questo mio corpo / che copro d’un poco di croco!» . Lucido com’è ideologicamente, indubbiamente abile nella costruzione formale, quando non permette alla sua vitale tensione poetica di annacquarsi, e la mantiene vibrante e tesa, Dorigo ci regala versi importanti, importanti turbamenti.

 

«Zeta News», n.31/32, gennaio-febbraio 1995

RECENSIONI

DOYLE

ARTHUR CONAN DOYLE, ROMANZO FANTASMA – IL SAGGIATORE, MILANO 2016

A ventitré anni, fresco di una laurea di medicina e desideroso di affermarsi come scrittore, il futuro autore delle avventure di Sherlock Holmes, Arthur Conan Doyle, si cimentò nella sua prima prova letteraria di ampio respiro: The narrative of John Smith. Si trattava di un romanzo con intenzioni didascaliche, il cui protagonista – un libero pensatore cinquantenne, confinato nella stanza di una pensione da un attacco di gotta reumatoide – intratteneva il lettore su una serie di considerazioni (religiose, letterarie, scientifiche, politiche: espresse con entusiasmo da neofita ma anche con una certa pedanteria) ritenute di fondamentale interesse educativo.
Il giovane Conan Doyle, sperando in un radioso avvenire da narratore, spedì il manoscritto a diverse case editrici, nessuna delle quali tuttavia lo ricevette: il libro andò perduto, costringendo l’autore a una rapida e improvvisata riscrittura, abbandonata prima della conclusione forse per stanchezza o per consapevole insoddisfazione. Anzi, pare che molti anni dopo Doyle abbia manifestato in un articolo il suo imbarazzo rispetto al risultato fallimentare del volume, confessando il proprio sollievo riguardo alla sua mancata pubblicazione.

Oggi, tuttavia, le edizioni Il Saggiatore ripropongono il testo, con il titolo di Romanzo fantasma, con il giustificato proposito di documentare gli inizi della carriera di uno degli scrittori più letti al mondo, e il suo periodo di apprendistato, l’incessante rielaborazione di concetti e teorie, le pagine stralciate e le modifiche apportate. Quindi il volume riappare, con 132 anni di ritardo, ma arricchito da un ricco apparato di note, da una prefazione dell’anglista Masolino D’Amico, e da una documentata postfazione dei tre studiosi inglesi a cui dobbiamo l’attuale proposta editoriale.
Protagonista del racconto, il signor John Smith, è un risentito esemplare della middle-class vittoriana, individualista e conservatore, pervicacemente convinto della superiorità delle proprie idee rispetto alle credenze comuni. Materialista ma interessato all’extrasensorialità, sostenitore delle più recenti scoperte scientifiche ma ancora legato a tradizioni culturali, irrisore cinico di filosofia-letteratura-religione, è consapevole tuttavia della sua misera condizione esistenziale, e si definisce ironicamente “un vecchio vagabondo abbandonato senza amici e senza donne”. Le sue rare frequentazioni col mondo si limitano a conversazioni (ridotte spesso a tediosi monologhi) con la padrona di casa, col medico, con un coinquilino militare in pensione, con una leggiadra e timida vicina dedita alla pittura.

Le elucubrazioni in cui Smith si perde riflettono le convinzioni, ancora non del tutto definite ideologicamente e teoricamente, del giovane Arthur Conan Doyle sulla natura umana (imperfetta ma perfettibile), e sulla società (ingiusta e corrotta ma correggibile), rivelando la passione didattica del medico e dello scrittore in un riscatto futuro dell’umanità.
Seppure la tecnica narrativa di questo primo Romanzo fantasma di Doyle appaia zoppicante e poco efficace, le tesi espresse dal personaggio principale rivelano una partecipazione entusiastica alle sorti “magnifiche e progressive” del libero pensiero nascente verso fine ’800.

 

© Riproduzione riservata    www.sololibri.net/Romanzo-fantasma-Conan-Doyle.html     13 luglio 2013

RECENSIONI

DRIEU LA ROCHELLE

PIERRE DRIEU LA ROCHELLE, LA COMMEDIA DI CHARLEROI – FAZI, ROMA 2014

Di Pierre Drieu La Rochelle avevo letto con ammirazione, anni fa, Racconto Segreto, una sorta di diario tragico e lucidissimo in cui registrava le sue riflessioni sul suicidio, e sulla sua irrevocabile e meditata decisione di darsi la morte (cosa che puntualmente avvenne nel 1945). Ora l’editore Fazi ristampa questi sei racconti pubblicati per la prima volta in Francia nel 1934: un percorso insieme ebbro e rabbioso tra le trincee, il sangue e le disillusioni provocate nella popolazione europea dalla ferocia della prima guerra mondiale. Racconti forse non eccezionali, ma scritti con lo stile asciutto ed elegante proprio dell’autore francese, e rivelativi della sua ideologia, assolutamente e quasi orgogliosamente reazionaria, elitaria, di chi si sente superiore non solo alle masse, ma addirittura alla Storia, quando questa non riesce ad essere all’altezza delle aspettative che ha creato, quando abdica a ogni onore e decenza. Drieu La Rochelle, collaborazionista e simpatizzante per il nazismo, misogino e fanatico, sembra prendere a pretesto in questi racconti l’epopea di un disastro umano, per gridare violentemente tutta la sua indignazione contro ufficiali vigliacchi e impreparati, truppe codarde, bellimbusti che si fanno esonerare dal combattimento, reduci vanagloriosi e disertori senza pudore: “l’umiliazione di tutta quella mediocrità fu per me il peggior supplizio della guerra”. Orrore e disprezzo per i vinti e gli sconfitti (“la massa che ama la propria miseria è sempre pronta ad accogliere nuove miserie?”, “Ipocriti, tranquilli, assaporavano la loro piccola vita”) e, più in generale, per “la bruttezza, questa malattia dei nostri giorni”. Pena, tuttavia, per i corpi giovani portati al macello, per lo squallore di agonie vissute nel fango: ma soprattutto per l’eroismo che gli veniva negato: “Mi ero levato, levato tra i morti, tra le larve… Ero dunque io, quel forte, quel libero, quell’eroe. Era dunque la mia vita, quell’ebbrezza che non si sarebbe mai fermata…”.

IBS, 27 giugno 2014