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RECENSIONI

EGAN

MOIRA EGAN, AMORE E MORTE – TLON, ROMA 1922

Moira Egan è nata a Baltimora e vive a Roma. Ha pubblicato cinque volumi di poesia negli Stati Uniti, e tre volumi bilingui in Italia. Suoi lavori sono apparsi in molte riviste statunitensi e internazionali, e in diverse antologie; in collaborazione con Damiano Abeni ha tradotto autori come Ashbery, Barth, Bender, Ferlinghetti, Hecht, Strand, Simic. Le edizioni Tlon di Roma pubblicano ora il volume con testo a fronte Amore e Morte, che raccoglie suoi versi editi e inediti, divisi in categorie tematiche, corrispondenti ai vari capitoli: amore, morte, sesso, filosofia, poesia. In ogni pagina aleggia la forza unificante, l’energia vitale dell’eros, che ha fatto dire a Goffredo Fofi “Moira Egan scrive poesie d’amore. E ci conferma che è ancora possibile scrivere poesie d’amore. Che, forse, sono le prime poesie che si ha necessità di scrivere, o di leggere, l’alpha e l’omega d’ogni esperienza”.

“Poesie piene di carne”, le definisce nella sua entusiastica prefazione Melissa Panarello, fornendo della poeta americana un vitalissimo ritratto: “ti sembra di vederla Moira Egan che si aggira ora per Campo de’ Fiori, ora per una spiaggia sarda o un’isola greca, con la sua aria da creatura magica, i lunghi capelli fatati, gli occhiali ad ali di farfalla che risaltano occhi di cielo e una pelle sottile e chiara”. Sensualità che anima i sentimenti e i pensieri, rendendo superflua ogni vaga interpretazione filosofica, grottesca ogni presuntuosa ideologia: solo la poesia è in grado di dare voce alla verità proclamata dal corpo: “La piccola morte / ti artiglia la gola, il tuo urlo è poesia”, “il sesso è l’unica via verso la verità. Filosofia, / religione, fisica – gli altri / percorsi tradizionali – tutto sbagliato. Solo la poesia // ci andava vicino, ma chi riesce a vivere di poesia?”

Nella prima sezione, Love, ci imbattiamo nel fronteggiarsi adorante-ostile di due amanti, nel reciproco darsi e negarsi, in incontri e addi: “l’amante / che ha infilato la porta è tornato da estraneo e / ha cercato di tenersi le mie chiavi”, “ci sdraiamo insieme, tu sul fianco destro, / io sul sinistro – che specchio stupendo”, “Lui insiste, sussurra, / e ci schiacciamo l’uno all’altra”. Si affollano i ricordi: il fico d’India assaggiato per la prima volta a Malta, l’alloro mancante in cucina fortunosamente recuperato in strada: pretesti a excursus storici o mitologici, a commenti etici o politici, a espressioni gergali o battute sarcastiche, a commosse memorie familiari.

In Death, “l’arte bestiale del morire” è descritta nella sofferta agonia del padre e di altre persone care, nel prevalere inesorabile del buio notturno con l’oblio del sonno, nel rintocco delle campane che allude a un paradiso più clemente e ospitale della terra.

Sex è il capitolo in cui più provocatoriamente si esprime l’adesione alla fisicità, la volontà sfacciata di seduzione, la ribellione alle costrizioni maschili e maschiliste, la descrizione audace di fantasie impudiche, insieme alla consapevolezza della proprie arrendevolezze, in forme letterarie controllate come i sonetti (scritti su un tovagliolino di un pub): “Come una sacerdotessa vudù, cerco soltanto / di mostrare i muscoli mistici, per sottomettere / un uomo in ogni porto che mi sappia riconoscere, / sapendo che ci separeremo senza un pianto”, “Sono, purtroppo, / una tipa che quasi si innamora se si sente riconoscente”, “Succo, carne, polpa, inghiotti / avida, le labbra iniziano a formicolare, / la gola si spalanca. Soddisfi / appetiti che ignoravi di avere”, “La notte scorsa, svegliatami, scossa, volevo sesso. / Non sapevo bene dove mi trovavo, né perché // non ero nel mio letto. Lui, perplesso / per la mia confusione, mi ha calmato con il sesso”.

La quarta sezione intitolata Philosophy si apre con alcuni peana alla sessualità quasi imbarazzanti, a ribadire che l’unica, autentica ontologia meritevole di approfondimento è il piacere del corpo perseguito fino allo sfinimento, che trova conferme nella concupiscenza dei fiori e delle costellazioni, nell’esibizione tumultuosa dei fenomeni meteorologici estremi.

In Poetry e in Other, infine, la sensibilità di Moira Egan esibisce una sua divertita e ammiccante opposizione alla poesia togata degli accademici e degli intellettuali, esaltando la spontaneità dell’abbandono al godimento di tutti i cinque sensi: gli ammalianti profumi, il cibo e l’alcol, la visione di begli oggetti d’arte e splendidi panorami, l’ascolto di musica jazz, la tattilità epidermica. Nessuna favola, magia, mito o religione vale quanto la pregnanza compatta offerta dal reale: “Queste sono le mie / poesie, / pistillo, stame, sangue e lividi”.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › Amore-e-morte-Egan             18 marzo 2021

RECENSIONI

EICHENDORFF

JOSEPH von EICHENDORFF, VITA DI UN PERDIGIORNO – BUR RIZZOLI, MILANO 2015

«Tutti noi abbiamo letto da giovani la novella di Joseph von Eichendorff, serbandone in cuore per sempre l’eco di un tenue tocco d’arpa»,scriveva Thomas Mann nel 1918. Gli faceva eco Lukács nel 1956: «I sogni eichendorffiani di una realtà migliore dei sinistri abissi della vita, sono in realtà sogni ad occhi aperti…È una nostalgia soggettivamente autentica e profonda, ma con una certa coscienza di essere soltanto una musica che accompagna la vita reale».

Questa recente edizione (Rizzoli 2015) della famosissima novella di Joseph von Eichendorff  Vita di un perdigiorno è introdotta dall’acuto saggio di Giulio Schiavoni, che ben illustra non solo «le pagine ariose ed agili» del racconto, ma anche l’ideologia sottesa alla formulazione del testo, i motivi del suo prolungato e universale successo, i dati biografici e le tesi politiche del suo autore.
Il barone von Eichendorff era nato nel 1788 in Slesia, da una famiglia di nobili proprietari terrieri presto travolti dal nuovo corso della storia europea (la rivoluzione francese, le guerre napoleoniche e poi il dominio asburgico), dalle rivendicazioni ugualitarie dei contadini e dalla nascente industrializzazione.
Costretto a impiegarsi come funzionario governativo dopo la bancarotta familiare, Eichendorff si rifugiò nell’utopia di un nuovo umanesimo, che restaurasse gli antichi valori cattolici e il trascorso ordine sociale. La sua notevole produzione letteraria conobbe subito grande fama soprattutto con la pubblicazione, nel 1826, del suo capolavoro Vita di un perdigiorno, inno immaginoso e sentimentale alla gioia di vivere, all’ «eterna domenica in cuore» del suo giovane, scanzonato e ingenuo protagonista.
Il perdigiorno (der Taugenichts) è uno svagato ragazzo di campagna che al lavoro nel mulino del padre preferisce l’ozio e il vagabondaggio avventuroso nel “libero e vasto mondo”, con la sola compagnia del suo violino e del suo canto. Mettersi in viaggio, vivere nella natura, godere delle bellezze paesaggistiche, sognare l’amore: lontano dalla schiavitù di un lavoro ripetitivo, dagli interessi economici, dalla pigrizia egoista dei più. Preferire alla realtà della storia l’irrealtà del sogno e della fantasia, la precarietà di lavori saltuari, l’ideale di una passione romantica, la dolcezza della musica.

«Villaggi, giardini e campanili scomparivano dietro di me; nuovi villaggi, castelli e montagne sorgevano davanti, in alto; ai miei piedi sfilavano distese di campi, cespugli e prati, mentre le allodole si alzavano nell’aria limpida e azzurra…
Era talmente bello nel giardino, all’aperto. I fiori, le fontane zampillanti, i rosai, l’erba e le piante scintillavano al primo sole come oro puro e pietre preziose; nei viali sotto gli alti faggi tutto era quieto, fresco e raccolto come in una chiesa…». Contano poco, in questa fiaba ottocentesca in versi e prosa, gli avvenimenti che si succedono, i viaggi e gli incontri del protagonista, il suo idillio con la bella signora creduta nobile e alla fine rivelatasi del suo stesso ceto. Ha più importanza l’atmosfera festosa, indeterminata, fantastica, perpetuamente meravigliata del mondo e del suo splendore in cui il giovane vaga, mentalmente e fisicamente, nel corso della storia: l’insopprimibile gioia interiore di un’anima candida, contenta di esistere.

 

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www.sololibri.net/Vita-di-un-perdigiorno-Joseph-von.html        24 febbraio 2016

RECENSIONI

EINSTEIN

ALBERT EINSTEIN, RELIGIONE COSMICA – MORCELLIANA, BRESCIA 2016

Si è discusso a lungo se Albert Einstein (1879-1955) fosse o meno credente, riportando spesso a sproposito la sua nota affermazione “Dio non gioca a dadi con l’universo”, che ribadiva al collega Max Born la granitica convinzione di un ordine armonico del cosmo strettamente determinato dai principi fisici di causa ed effetto. Già molti filosofi della natura (Galileo, Cartesio, Pascal, Newton, Leibniz…) avevano manifestato uno spirito religioso, e anche Einstein veniva spesso inserito in questa corrente di pensiero, come si evince dal suo saggio del 1931, Cosmic Religion with Other Opinions and Aphorisms, riproposto integralmente per la prima volta in italiano dall’editrice Morcelliana nel 2016, con il titolo Religione cosmica.

Questo volumetto raccoglie non solo i contributi diretti dello scienziato, ma anche un apprezzamento di G. B. Show alle sue teorie scientifiche e un dialogo con il poeta e mistico indiano Rabindranath Tagore (1861-1941) sulla controversa relazione tra scienza e teologia. Einstein non nascose mai la sua avversione nei confronti delle religioni organizzate, e nel dibattito con Tagore contrapponeva alla prospettiva soggettivistica, umanistica e antropocentrica di quest’ultimo un punto di vista oggettivistico della natura, svincolato e non condizionato dalle opinabili credenze degli uomini: “Credo che il teorema di Pitagora affermi qualcosa di approssimativamente vero, indipendentemente dall’esistenza umana”.

Nei due testi sul Pacifismo e sugli Ebrei, come in alcuni Aforismi che accompagnano il saggio iniziale, le opinioni del geniale scienziato possono apparire utopistiche, ingenue, o addirittura sconvenientemente datate. Se negli anni ’30 Einstein proponeva con innocente candore l’abolizione del servizio militare e degli eserciti per arrivare al disarmo mondiale, esprimendo una ferma condanna della corsa agli armamenti da parte di tutte le nazioni, nello stesso tempo tuttavia caldeggiava, in una prospettiva decisamente sionista, la colonizzazione della Palestina per rafforzare la dignità degli ebrei della Diaspora, e preservarne la tradizione spirituale. Negli Aforismi rivelava inoltre di aver imprudentemente sottovalutato la pericolosità del nazismo: “Hitler vive – o dovrei dire sta seduto? – sullo stomaco vuoto della Germania. Non appena miglioreranno le condizioni economiche, Hitler cadrà nell’oblio”. Pure la sua considerazione delle donne, come reso manifesto da alcuni elementi biografici, rivelava i pregiudizi maschili di un uomo nato nell’ultimo ventennio del XIX secolo: “Nella signora Curie non vedo altro che una brillante eccezione. Anche se ci fossero più scienziate del suo calibro questo non costituirebbe un’argomentazione contro la debolezza fondamentale dell’organizzazione femminile”.

Sempre negli Aforismi troviamo alcune intuizioni sull’esistenza di Dio che ci indirizzano verso la comprensione del saggio più importante: “Il mio sentire religioso è un umile stupore di fronte all’ordine rivelato nel piccolo appezzamento di realtà a cui corrisponde la nostra debole intelligenza”, “Vedo una trama. Ma la mia immaginazione non è in grado di raffigurare l’autore di questa trama. Vedo l’orologio. Ma non riesco a figurarmi l’orologiaio. La mente umana non è in grado di concepire le quattro dimensioni. Come potrebbe concepire un Dio, per il quale mille anni e mille dimensioni sono uno?”

Cosa affermava quindi Albert Einstein nelle cinque paginette di Religione cosmica? Poche, scarne e radicate convinzioni. In primo luogo, che il pensiero religioso è stato determinato agli albori dell’umanità da due sentimenti basilari: la paura (della morte, della malattia, della fame, degli animali selvatici) e il bisogno (di guida, amore, protezione, aiuto). Tali stati emotivi hanno fornito lo stimolo alla crescita della concezione di Dio, successivamente stabilizzata dalla formazione di caste sacerdotali mediatrici tra il popolo e un essere superiore, che ha garantito loro una posizione di potere. Riteneva dunque che il senso religioso nella sua forma più elementare fosse basato su una percezione irrazionale di timore, e solo successivamente si fosse trasformato in religione morale, per giungere nello stadio più elevato a un terzo livello di esperienza, quello della religione cosmica, lontana sia da qualsiasi dogma e superstizione, sia da un’idea di Dio dai caratteri antropomorfi in grado di interferire negli eventi naturali o nelle azioni umane con premi e castighi. “Il comportamento etico dell’uomo trova miglior fondamento nell’empatia, nell’educazione, nelle relazioni sociali, e non richiede alcun supporto della religione. La difficile condizione dell’uomo sarebbe, invero, triste se la paura della punizione e la speranza di ricompense dopo la morte fossero gli unici modi di fargli rispettare l’ordine”.

Il libro qui preso in esame si conclude con un’ampia e interessante postfazione degli stessi curatori del testo inglese, Enrico Giannetto e Audrey Taschini, docenti all’Università di Bergamo, che esplorano le radici spinoziane della teofisica di Einstein, con un ricchissimo apparato di note. Come per Baruch Spinoza (1632-1677), per Einstein Dio e Universo coincidono, e nella loro misteriosa impenetrabile bellezza possono essere intuiti solo da una religione cosmica, vera e disinteressata forza motrice della ricerca scientifica. La scienza, lungi dal minare le fondamenta della morale, si fonda su una visione razionale della struttura regolata e mirabile del cosmo e sulla compassione per tutti gli esseri viventi. Entusiasta lettore dell’Etica spinoziana, Einstein aveva scritto: “Noi seguaci di Spinoza vediamo il nostro Dio nell’ordine meraviglioso e nella pienezza della legge di tutto ciò che esiste, e nella sua anima come si rivela negli esseri umani e animali”.

Giannetto e Taschini, in un denso excursus delle teorie della fisica da Galilei a Hawking, sottolineano quanto la scoperta della relatività generale einsteiniana sia stata influenzata dalla teologia del filosofo olandese, convinto assertore dell’identificazione di Dio e Natura: energia e materia che si auto-costituiscono in uno spazio-tempo diventano attributi dell’unica sostanza divina, attiva e potente nell’Universo, al cui ordine l’uomo deve uniformarsi in un sentimento religioso di ammirazione per il creato e di collaborazione con i suoi simili.

 

© Riproduzione riservata               «La poesia e lo spirito», 6 aprile 2023

 

 

 

RECENSIONI

ELIOT

T.S. ELIOT, QUATTRO QUARTETTI – BOMPIANI, MILANO 2022

Un lavoro eccezionale, quello che la giovane anglista Audrey Taschini, docente all’Università di Bergamo, ha compiuto curando e traducendo i Quattro Quartetti di Thomas Stearns Eliot.  Il volume è diviso in tre parti, l’ultima delle quali riporta l’originale in inglese e la traduzione della curatrice, elegante e puntuale: forse la migliore tra le diverse che ho letto, perché non indugia in ostentazioni ed estrosità personali. Per rendersene conto, basta controllare la resa fedelissima, priva di pedanterie o enfasi, dei famosi primi versi di Burnt Norton: “Il tempo presente e il tempo passato / Sono entrambi forse presenti nel tempo futuro, / E il tempo futuro contenuto nel tempo passato. / Se tutto il tempo è eternamente presente / Tutto il tempo è irredimibile”. Rispettose persino della disposizione grafica del testo, ci appaiono altre strofe successive: “Ma a che scopo // Disturbando la polvere su una ciotola di foglie di rosa / Io non so. // Altri echi / Abitano il giardino. Li seguiremo?” Rimane intatto il ritmo, il suono fermo e insieme gentile del modello.

Se qualcuno vorrà leggere questo importante omaggio al Premio Nobel anglo-americano, consiglierei di affrontare il libro proprio dalla fine, lasciandosi trasportare dall’equilibrio armonico della versione italiana. Nella Premessa, la curatrice specifica le linee guida del suo lavoro: “La traduzione ambisce a fornire nel testo italiano elementi sufficienti a rappresentare gli echi dell’intertestualità eliotiana e la ricchezza delle valenze semantiche e della suggestività dell’originale”.

Stimolante e nuovo è tutto l’impianto interpretativo della ricerca di Audrey Taschini. Nella prima sezione si prendono in considerazione le molteplici fonti culturali che hanno ispirato l’opera, a partire dalla Bhagavad Gita, attraverso le fondamentali intuizioni scientifiche e filosofiche del Novecento, con riferimenti all’arazzo compositivo della Commedia dantesca, agli assunti teologici nella poesia di John Donne e agli spunti morali del predicatore anglicano Lancelot Andrews. In particolare vengono messi in luce gli interessi che il poeta approfondì durante gli studi ad Harvard: il sanscrito e i Veda, i presocratici con la predilezione per Eraclito, l’attrazione per il pensiero magico in opposizione al razionalismo, la tesi di laurea su Bradley, l’interesse per la nuova fisica soprattutto nella definizione del concetto di tempo, lo studio del simbolismo e dello strutturalismo, l’adesione all’imagismo. La partecipazione a questo movimento letterario portò Eliot a condividere – con Pound, Joyce, Doolittle, Lawrence e altri scrittori –, l’ideale di un linguaggio iconico, secondo cui immagine e parola agiscono sinergicamente evocando direttamente le emozioni, aldilà di ogni concetto o locuzione astratta. Fu proprio Eliot che diede inizio a un nuovo modo di concepire e produrre poesia, pubblicando nel 1920 il saggio The sacred wood, in cui coniava il termine di “correlativo oggettivo”, riferendosi al procedimento poetico che da un fattore esterno (un oggetto, una serie di eventi, una situazione) lascia germinare immediatamente una sensazione e un’esperienza emotiva.

Se lo studio delle fonti rimane senz’altro illuminante e necessario, è tuttavia proprio nel secondo capitolo, dedicato al commento particolareggiato di ogni Quartetto, che maggiormente si dispiega l’intuito critico di Audrey Taschini, con l’attenzione specifica rivolta alla rielaborazione delle teorie imagiste.

Lo scetticismo eliotiano nei confronti del materialismo moderno lo induceva a riscoprire nel complesso linguaggio delle immagini e dei simboli il ruolo cognitivo e spirituale loro attribuito nell’antichità, quando rivestivano la funzione di dialogo e mediazione con l’Essere, mai raggiungibile in maniera puramente logica e razionale. La novità dei Four Quartets, tutta interna alla sfera religiosa, si evince quindi non tanto dai contenuti quanto dall’utilizzo di un linguaggio denso, allusivo e penetrante, capace di ricongiungere il trascendente con la realtà quotidiana, riunendo a un livello simbolico il corpo del mondo al suo spirito universale, nell’unità del tutto, là dove intellect and sensibility are in harmony. Per Eliot la poesia doveva esprimere una perfetta commistione tra senso, emozione e pensiero, trasformandosi in un’esperienza completa del vissuto, e aprendolo contemporaneamente a una verità sovrastante la pura percezione materiale e intellettuale.

Per ogni quartetto Eliot scelse il nome di un luogo dal particolare valore sentimentale o spirituale, con la funzione di correlativo oggettivo, fondamento concreto alle meditazioni filosofiche e teologiche trattate in ciascuno dei poemi: Burnt Norton, East Coker, The Dry Salvages, Litlle Gidding. Il numero quattro nella filosofia pitagorica era il simbolo del cosmo e dell’armonia delle sfere, richiamata anche dalla metafora musicale alla base dei Quartetti. Ma soprattutto il quattro rimanda agli elementi empedoclei – aria acqua terra fuoco –, principi costitutivi dell’universo, trasmutanti uno nell’altro in una trasformazione ciclica, in cui la natura rispecchia l’immobile movimento dell’Eterno (“Still and still moving”), come nel susseguirsi delle stagioni. La resa poetica dei legami tra l’individualità concreta e l’universalità astratta, il contingente e l’Assoluto, il temporale e l’infinito, il visibile e l’invisibile mira a riprodurre la fusione degli opposti in un principio divino unificante. Tale compenetrazione tra umano e sovrumano può essere rappresentato solo attraverso la riflessione sul tempo, inteso come un fluire indiviso di passato, presente e futuro: “Ciò che chiamiamo l’inizio è spesso la fine. / E fare una fine è fare un inizio, / La fine è dove cominciamo”.

Congedando questa sapiente rilettura dei Four Quartets, mi sembra opportuno riportare alcuni tra i tanti versi ricchi di emozione e significato, che nel periodo oscuro in cui furono scritti, e in quello altrettanto minaccioso che stiamo vivendo, offrono uno spiraglio al chiarore di una nuova alba: “Dissi alla mia anima, stai ferma, e attendi senza speranza / Poiché la speranza sarebbe speranza per la cosa sbagliata; attendi senza amore, / Poiché l’amore sarebbe amore per la cosa sbagliata; ancora c’è la fede, / Ma la fede e l’amore e la speranza sono tutte nell’attesa. / Attendi senza pensiero, poiché non sei pronto per il pensiero: / Così il buio sarà la luce, e la quiete la danza”.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 23 gennaio 2023

 

 

 

RECENSIONI

ELITIS

ODISSEAS ELITIS, DIARIO DI UN INVISIBILE APRILE – CROCETTI, MILANO 1990

 

Con 7 disegni di Alekos Fassianòs e la traduzione di Paola Maria Minucci, l’editore Crocetti ha pubblicato nel lontano 1990, e ristampato nel 2007, il volume di versi Diario di un invisibile aprile del poeta Odisseas Elitis.

Elitis (1911-1996), insignito del premio Nobel per la letteratura nel 1979, è una delle figure più significative della poesia contemporanea greca, che ha rinnovato formalmente mantenendosi tuttavia fedele alla tradizione classica. Vissuto a lungo a Parigi, ebbe modo di conoscere i maggiori esponenti della cultura francese del Novecento: Breton, Eluard, Tzara, Ungaretti, Matisse, Giacometti, Picasso. Ricoprì incarichi prestigiosi (presidente dell’Ente radiofonico greco, membro dell’Unione internazionale dei critici d’arte, membro della Société Européenne de Culture), ottenendo numerosi riconoscimenti internazionali, e molte lauree honoris causa. Nonostante ciò, la sua fama di poeta non è riuscita ad affermarsi quanto meriterebbe.

I temi da lui trattati con più frequenza sono quelli paesaggistici (mare, cielo e vegetazione mediterranea), la donna descritta nella sua seducente sensualità, il sentimento per il divino che dalle radici della grecità classica si espande ai simboli cristiani, e il corteggiamento della morte avvertita come transito verso l’eterno. Secondo la curatrice “Il sentimento della natura di Elitis, asse portante della sua poesia, trova nel profondo della sua anima corrispondenze morali e analogie spirituali: quello che egli vede non è mai, in nessun modo, semplicemente ‘paesaggio’.”

Ne fanno fede questi versi: “ANCORA PIOVE. Sembra piovere eternamente. Ed eternamente andrò in giro con un ombrello cercando una cittadina rosa piena di buone pasticcerie all’aperto”, “PESO DELLA DOLCEZZA del cielo / dopo che tuonò e si muove la lumaca. / Pezzi di casa che galleggiano, balconi con l’asta davanti, / il vento. // Realtà è la morte che sovrasta / carica di vecchie felicità / e di quella ben nota disperazione (che si fece bianca / nelle dure solitudini)”, “GIORNATA LIMPIDA, DIAFANA. Sotto forma di monte immobile appare il vento là verso occidente. E il mare con le ali ripiegate, in basso, sotto la finestra. Ti viene voglia di volare in alto e da lassù distribuire in dono la tua anima. Poi scendere e, intrepido, prendere nella tomba il posto che ti appartiene”.

Luce e buio, cielo e terra, vita e morte, quindi. Il diario che si snoda in queste pagine, datato puntualmente nei giorni della settimana, dura dunque tutto il mese di aprile, è scandito nel tempo ma travalica il tempo, essendo un aprile invisibile, tutto interiore. I versi si alternano a brevi prose, le descrizioni alle meditazioni, il sogno alla realtà più concreta. Ma lo sguardo esterno, pur prendendo spunto da qualche elemento oggettivo, finisce per assolutizzarsi in una riflessione che riguarda l’esistenza personale del poeta, o quella più generale di tutte le creature, nella sua caducità e nel suo indicibile mistero: “TROVAI UNA PICCOLA CHIESA tutta acque correnti e l’appesi al muro. I suoi candelabri sono di ceramica e somigliano alle mie dita quando scrivo. Da come risplendono i vetri capisco se un angelo è passato. E spesso la sera siedo fuori sul muretto e mi abbarbico al maltempo come il geranio”.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Diario-invisibile-aprile-Odisseas-Elitis.html             20 febbraio 2020

 

RECENSIONI

ELKINS

JAMES ELKINS, DIPINTI E LACRIME – BRUNO MONDADORI, MILANO 2009

Cosa fa piangere le persone davanti a un dipinto, si chiede il critico statunitense James Elkins, e soprattutto: succede ancora oggi, in questi nostri tempi aridi e smaliziati, ironici ed eruditi, e nelle nostre gallerie d’arte, affollate e documentate fino all’ipertrofia?
L’autore ha raccolto più di quattrocento testimonianze scritte da individui comuni, accademici, artisti sulla loro partecipazione emotiva alla visione più o meno commovente di un quadro.
Scoprendo che si può lasciare libero sfogo alle lacrime per tanti motivi: perché il dipinto ci può ricordare qualcosa del nostro passato, o un desiderio o una paura rimossa; perché si è delusi nelle aspettative, o perché ci si sente sovrastati dalla magnificenza. “Dipinti e lacrime”, quindi, ovvero “Storie di gente che ha pianto davanti a un quadro”.

Si sa che Stendhal è svenuto dopo aver visitato Santa Croce, mentre Ruskin, sopraffatto dall’emozione davanti a un Tintoretto, è scoppiato a ridere, e Mark Twain si è divertito e annoiato osservando “il lamentevole relitto del più celebre dipinto del mondo, ’L’ultima cena di Leonardo”.

Lo stesso Elkins racconta di quanto L’estasi di San Francesco di Giovanni Bellini esposta a New York l’abbia turbato dall’adolescenza, costringendolo a tornare a vederla molte volte nel corso della sua vita, finché la mole di informazioni e di studio che aveva accumulato sul quadro finì per soffocare in lui ogni tremito, ogni ansia di assoluto.
Quanto ci possono impressionare, oggi, le tele monocromatiche e disperate di Rohtko nella cappella a lui dedicata a Houston, l’oscurità di un Rembrandt a Amsterdam, i paesaggi solitari e sconfinati di Friedrich, le Madonne medievali nei musei di tutto il mondo? E perché invece non ci commuove più la pittura celebrativa, retorica o edulcorata della Francia settecentesca ?
James Elkins sostiene che tre sono le ragioni che spingono le persone a piangere davanti a un quadro: la consapevolezza dello scorrere del tempo, la nostalgia di Dio, e l’incombere del vuoto e dell’assenza. Se l’arte ci emoziona ancora, il mondo può sperare…

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Dipinti-e-lacrime-James-Elkins.html

26 ottobre 2016

RECENSIONI

ELLROY

JAMES ELLROY, CRONACA NERA – EINAUDI, TORINO 2019

Uno dei più famosi tra gli scrittori di noir statunitensi, James Ellroy (Los Angeles,1948), autore di Dalia nera, American Tabloid, Perfidia, disse di sé stesso in una recente intervista: “Sono un americano religioso, eterosessuale di destra, cristiano nazionalista, militarista e capitalista. Nella mia vita mi sono concentrato su poche cose e da queste sono riuscito a trarre profitto. Sono molto bravo a trasformare la merda in oro”. In effetti, negli ultimi trent’anni, Ellroy ‒ anche traendo ispirazione dalla sua tormentata infanzia e giovinezza (la madre uccisa in un delitto irrisolto nel 1958, esperienze devastanti di droga e carcere) ‒, è riuscito a immergersi nei meandri della corruzione, del malaffare, del sopruso e della carnalità più depravata della sua nazione, per narrarne ai lettori di tutto il mondo gli episodi più misteriosi, feroci e raccapriccianti.

I due racconti pubblicati nel volume einaudiano Cronaca nera, non fanno eccezione per ciò che riguarda le tematiche affrontate (omicidi efferati, violenza gratuita, sesso brutale), ma si distinguono dai romanzi più conosciuti per la forma letteraria adottata. Si tratta infatti di veri e propri reportage su due casi di cronaca, ricostruiti servendosi di ricerche nei casellari giudiziari, negli archivi e nei verbali processuali, arricchiti da dettagli ricavati da articoli giornalistici, incontri, discussioni e testimonianze di detective amici. Le voci narranti sono quelle dei responsabili delle indagini, i quali ammettono, nella loro concitata descrizione dei fatti, le proprie incertezze, gli abusi, i pregiudizi che li condussero a un’interpretazione errata e colpevolmente di parte dei crimini. In entrambe le rivisitazioni narrative, Ellroy riporta, con una scansione fredda e ossessiva, i puntuali comunicati interni della polizia e i rilievi effettuati sulle scene dei delitti, utilizzando il gergo triviale, razzista, omofobo e misogino di chi conduce le inchieste.

La prima storia si intitola Career Girls Murders, e riguarda l’omicidio di due giovani donne avvenuto a Manhattan il 28 agosto 1963, per cui venne ingiustamente accusato un ragazzo di colore. Janice ed Emily (la prima giornalista rampante, rampolla di una famiglia altolocata; la seconda, più banalmente tradizionale, studentessa di lettere e aspirante a una cattedra di liceo) vengono legate, stuprate, sbudellate con una efferatezza bestiale mentre si trovano nell’appartamento che condividono in un quartiere elegante di New York. Ellroy mette in luce l’attività febbrile degli inquirenti, che da subito abbracciano un’ipotesi investigativa sbagliata, perseguendola ostinatamente, per rispondere alle sollecitazioni morbose dei media che bramano la cattura di un colpevole a ogni costo. La ricerca nevrotica di un capro espiatorio avviene proprio nei giorni in cui l’America di Martin Luther King dichiara a gran voce il suo sogno di diritti civili uguali per tutti.

Il secondo racconto è ambientato a Los Angeles nel febbraio del 1976, quando un attore gay trentasettenne, Sal Mineo, che aveva recitato con James Dean in Gioventù bruciata, viene trovato accoltellato per strada, senza che si riesca a individuare il movente e l’autore dell’omicidio. Anche in questo caso, le indagini prendono da subito una piega sbagliata, seguendo pregiudizi sociali e sessuali che cercano morbosamente nell’esistenza borderline e alternativa della vittima la causa scatenante dell’assassinio, commesso in realtà da uno sconosciuto rapinatore in crisi di astinenza.

James Ellroy in questo suo ultimo libro-inchiesta offre un imparziale e documentato resoconto di quanto la pressione dell’opinione pubblica possa portare a distorcere la verità dei fatti, come confessa la voce narrante di un poliziotto: “Mandammo in galera un innocente. Cedemmo a un consenso generale avvelenato. Il crimine ci sconvolse, il contesto ci confuse, allo stesso tempo la nazione impazzì”.

 

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https://www.sololibri.net/Cronaca-nera-James-Ellroy.html         23 aprile 2019

 

 

 

 

RECENSIONI

EMO

ANDREA EMO, AFORISMI PER VIVERE – MIMESIS, MILANO 2007

“Personaggio postumo”, secondo la definizione del postfatore del volume Massimo Donà, Andrea Emo (1901-1983) fu uno spirito filosofico del tutto originale nel panorama culturale del nostro paese.
Nato a Padova da famiglia nobile, allievo di Gentile, amico e corrispondente di intellettuali di rilievo quali Alberto Savinio, Ugo Spirito e Cristina Campo, condusse una vita ritirata, in un ambiente aristocratico, scrivendo indefessamente e quotidianamente riflessioni, aforismi, appunti, saggi su tutto lo scibile umano: riempì 400 quaderni di pensieri “segreti”, che non mostrò mai a nessuno, e “postumi”, in quanto furono pubblicati anni dopo la sua morte.

Un personaggio, quindi, fuori dagli schemi, che amava interrogarsi su ogni aspetto della vita quotidiana, sull’arte e sulla storia, sulla teologia e sul costume, scandagliando con implacabile severità e insopprimibile sincerità ogni anfratto della sua anima. In questi Aforismi per vivere. Un breviario per l’esistenza, meditazioni protratte per mezzo secolo vengono espresse in una scrittura divagante, paradossale, spesso ironica e talvolta amaramente polemica: sempre alla ricerca di una profondità del pensare e del sentire che manifestano un consapevole disagio esistenziale, una malinconica incapacità di essere come tutti. Nascita, vita, morte, destino, morale mantengono per Andrea Emo una connotazione ingiustificatamente arbitraria e incomprensibile; il suo rifiuto di ogni convenzione e di qualsiasi fideismo fece di lui un filosofo isolato, incompreso, “postumo”, appunto. «Noi esigiamo dalla vita molto meno di quello che la vita esige da noi; Forse soltanto la mediocrità sa mantenersi nell’umano; Nulla è più pericoloso di un uomo felice: egli sconvolge l’ordine delle cose; Chi è vestito è travestito; La memoria sono gli altri divenuti noi stessi; Nulla è più comune che il desiderio di essere fuori del comune».

Andrea Emo non aspirava ad essere fuori del comune, senz’altro però lo era: e in una dimensione alta.

 

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www.sololibri.net/Aforismi-per-vivere-Andrea-Emo-144314.html    13 giugno 2016

RECENSIONI

ENDO

SHŪSAKU ENDŌ, IL GIAPPONESE DI VARSAVIA –  EDB, MILANO 2018

Al lettore ormai stancamente assuefatto agli artifici retorici e furbastri di molta narrativa contemporanea (il meta-racconto, la citazione colta e cifrata, l’allusione ammiccante allo scandaglio psicanalitico), le tre magistrali storie del giapponese Shūsaku Endō comprese in Il giapponese di Varsavia (con prefazione, traduzione e note di Tiziano Tosolini), sembreranno finalmente un soffio di aria fresca, di scrittura limpida e densa insieme, di riflessione etica sulla problematicità dello stare al mondo, rapportandosi collettivamente e individualmente sia al passato sia al futuro.

Endō è l’autore del voluminoso romanzo Silenzio, che ha ispirato il recente omonimo film di Martin Scorsese sulla persecuzione e il martirio dei cristiani nel Giappone del 1600. Diventato cattolico a 13 anni per volontà della famiglia, lo scrittore nipponico tornò spesso sulla problematicità del suo rapporto con la fede cristiana, sulla difficoltà di aderire ai dogmi e di praticarne i riti, sui dubbi riguardo al valore dei sacramenti. Nel primo (splendido!)  dei tre racconti qui presentati, Un uomo di quarant’anni, ne parla esplicitamente, e in toni che rivelano una sorta di sofferto rancore verso l’imposizione subita, rivalutata nel suo spessore culturale e nell’insegnamento morale solo nella maturità, dopo una vita di sofferenze e privazioni fisiche e materiali: «Io, quando ero un bambino, sono stato battezzato per volere dei miei genitori, non per mia volontà. Proprio per questo ho per molto tempo frequentato la chiesa per formalità e abitudine. Ma da quel giorno in poi sapevo che non avrei ma più potuto sbarazzarmi di quell’abito che non mi calzava e con il quale i miei parenti mi avevano vestito. Con gli anni, quell’abito era diventato parte di me e sapevo che non avrei mai più potuto disfarmene, perché sarei rimasto senza un riparo per il mio corpo e per la mia anima».

L’essere cristiano in Giappone, a confronto con una spiritualità e con cerimonie religiose totalmente diverse dalla propria, e in seguito recependo apporti intellettuali dal cattolicesimo europeo (Endō visse a lungo in Francia), condusse lo scrittore a sviluppare una sensibilità particolare, attenta ai temi del peccato e della grazia, della sofferenza e della redenzione, spesso tormentata dal senso di colpa e dal rovello interiore. Ritroviamo questi motivi nei tre racconti da poco pubblicati da EDB, e in particolare nel primo, che narra la degenza ospedaliera di un quarantenne sottoposto a successive e dolorose operazioni per un cancro all’intestino. L’ambiente asettico della clinica, la reticenza del personale, il costante enigmatico sorriso della moglie, l‘imbarazzo dei parenti in visita avvolgono il malato in un’atmosfera di sospesa finzione («Ognuno sta simulando qualcosa»), e di aspettativa di un esito in qualche modo rivelatore. Suguro è paralizzato non solo dalla malattia e dagli anni di degenza (lo stesso Endō rimase a lungo ricoverato in ospedale per la tubercolosi, e fu a più riprese operato), ma soprattutto per la consapevolezza di una colpa commessa in passato, mai ammessa nemmeno in confessione, da tutti conosciuta e taciuta, che egli sente di poter condividere solo con lo sguardo umano e comprensivo del merlo indiano chiuso in gabbia nella sua stanza di moribondo, più indulgente di qualsiasi prete.

Nel secondo brano del 1965, il protagonista compie un pellegrinaggio turistico alle sorgenti solforose del monte Unzen, dove molti cristiani erano stati torturati e poi bruciati vivi, mentre altri avevano preferito abiurare alla loro fede pur di salvarsi, continuando a vivere però nel rimorso del tradimento e sotto il peso della loro viltà.

L’ultimo racconto, che dà il titolo al volume, allude con intenerita ammirazione alla figura del frate polacco Massimiliano Kolbe, martire ad Aushwitz e canonizzato da Wojtyla, recuperato inaspettatamente nella memoria di alcuni turisti giapponesi in viaggio di piacere a Varsavia. Kolbe era stato missionario a Nagasaki negli anni ’30, vi aveva fondato un convento e creato una rivista; il suo nobile profilo spirituale si impone come un severo e allo stesso tempo paterno monito morale a uno dei viaggiatori durante un incontro notturno con una giovane prostituta polacca: quasi un’epifania, a fondere insieme peccato e assoluzione, corpo e anima, sacro e profano.

 

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https://www.sololibri.net/Il-giapponese-di-Varsavia-Shusaku-Endo.html        13 aprile 2018

 

 

 

RECENSIONI

ENDRIGO

CLAUDIA ENDRIGO, SERGIO ENDRIGO, MIO PADRE – FELTRINELLI, MILANO 2017

Dai quattordici ai diciassette anni sono stata innamorata di Sergio Endrigo. Innamorata veramente. Con mani e gambe che mi tremavano se appariva in televisione, con sue fotografie incollate sul diario di scuola e sulla scrivania, con gli articoli che lo riguardavano conservati in una scatola, e tutti i dischi collezionati, tutte le canzoni imparate a memoria. Una volta gli ho inviato un ritratto e lui mi ha ringraziato in diretta, durante una trasmissione condotta da Renzo Arbore, e io che stavo registrando con il microfono appoggiato alla radio, sono quasi svenuta sentendo le parole che lui, SERGIO ENDRIGO!, rivolgeva a me, proprio a me: “Ringrazio lo sconosciuto o la sconosciuta che mi ha mandato un ritratto fatto a mano, fatto a penna, molto bello…”. Ho ancora la cassetta da qualche parte, con il nastro usurato e cigolante per il reiteratissimo ascolto. Anni dopo ho assistito anche a un suo concerto, al Castello Sforzesco di Milano, ma senza troppa emozione, perché ero in compagnia di mio marito, e insomma non ero più così affascinata dal mito. Tuttora, però, lo riascolto con nostalgia, rivedo i filmati su Youtube, ho persino letto il suo romanzo (Cosa mi dai se mi sparo?), amaro, sarcastico, dolente, e scritto bene.

Per tutti questi motivi sono molto grata a Claudia Endrigo che ha reso omaggio a suo padre con un volume pubblicato da Feltrinelli, e introdotto da un’affettuosa prefazione di Claudio Baglioni. L’esistenza del cantante istriano è ricostruita dalla figlia con passione e malinconia, a partire dalla nascita (avvenuta a Pola il 15 giugno 1933, da una famiglia operaia con doti artistiche e musicali), e poi attraverso i tragici avvenimenti privati e storici che segnarono la sua problematica infanzia: la morte prematura del padre, il difficile rapporto mai ricomposto con il fratello maggiore, la precarietà economica vissuta con umiliazione e sacrificio, l’esodo imposto nel 1947 dopo la cessione dell’Istria alla Jugoslavia di Tito, la separazione dalla mamma adorata, il collegio per profughi a Brindisi. Quindi il doloroso abbandono degli studi, per quanto compensato da letture intense ed eclettiche, l’apprendimento entusiastico della musica, il ritorno al nord, i diversi lavori mal retribuiti, l’ostinato impegno nel migliorarsi culturalmente ed economicamente.

Claudia Endrigo elenca minuziosamente ogni tappa percorsa dal suo papà nel chimerico e implacabile mondo discografico: le prime incisioni, i contratti, le collaborazioni, incontri e amicizie (Bruno Lauzi lo definì “il nostro Brel”), successi e insuccessi, delusioni e tradimenti, tournée in giro per il mondo, partecipazioni a San Remo e in varie trasmissioni televisive e radiofoniche. Si sofferma in particolare a illustrare l’origine e la grande popolarità delle sue canzoni più note, Io che amo solo te e Canzone per te, tuttora famosissime e riproposte da numerosi e celebri interpreti, e le molte altre dedicate all’infanzia, con i testi di Rodari e di Vinicius de Moraes, o musicate su versi di poeti famosi. Ovviamente, l’autrice racconta con particolare tenerezza la vita privata di Sergio: l’incontro e il matrimonio con la moglie Lula, durato trent’anni tra burrasche e riavvicinamenti, la malattia e la morte precoce di lei; il periodo felice della villa costruita a Mentana, accanto a quelle di amici carissimi (Bardotti, Morricone, Bacalov), e della casa a Lampedusa, con le gite in barca e le immersioni subacquee. Vizi e virtù dell’uomo: i frequentissimi innamoramenti; la passione per il whisky, il vino e le carte; la timidezza e la generosità; l’abilità nel bricolage e nella cucina; l’attenzione all’ambiente e gli interessi politici; l’impaccio mai superato nel presentarsi sul palcoscenico e un’attrazione smodata per tutto ciò che proveniva dal Brasile. Infine, gli anni tristi del declino, assilli legali e finanziari, una penosa sordità che gli impediva di cantare dal vivo, l’ischemia del 2002 e l’allontanamento di amici e colleghi, fino al tumore che se lo portò via nel 2005.

Il volume Sergio Endrigo, mio padre, corredato da una ricchissima discografia, è quindi il regalo e la testimonianza della tenace e orgogliosa fedeltà filiale di Claudia, che ha molto amato il suo papà, che lo rimpiange e si rammarica ancora delle reciproche, inevitabili, incomprensioni: e che soprattutto continua a lottare e a impegnarsi perché non venga dimenticato, perché si rivaluti anche l’eccezionale produzione rimasta ingiustamente nell’ombra.

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2 novembre 2017