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RECENSIONI

ENZENSBERGER

HANS MAGNUS ENZENSBERGER, MAUSOLEUM – EINAUDI, TORINO 2017

MAUSOLEUM. TRENTASETTE BALLATE TRATTE DALLA STORIA DEL PROGRESSO, pubblicato da Hans Magnus Enzensberger nel 1975, uscito per la prima volta in Italia nel 1979, oggi viene riproposto, sempre da Einaudi e sempre con la traduzione di Vittoria Alliata, ma con la novità del testo tedesco a fronte. Quarant’anni fa il libro fu salutato da pubblico e critica come opera innovativa e stimolante nella produzione poetica occidentale, e mantiene tuttora una sua carica provocatoriamente vitale e ideologicamente corrosiva. Enzensberger è ancora uno degli intellettuali europei più prolifici e lucidamente critici, nella sua vastissima produzione che comprende saggi, pamphlet, romanzi, pièce teatrali, ma che comunque si caratterizza soprattutto per l’originalità della scrittura poetica.

Mausoleum è, come indica il sottotitolo, una raccolta di 37 medaglioni biografici dedicati ad –altrettanti protagonisti (agenti, promotori, fautori, ideatori, e talvolta vittime) del progresso civile ideologico, scientifico, tecnico, medico, artistico, politico – dell’umanità nell’ultimo millennio. Un elenco di scienziati, musicisti, inventori, architetti, filosofi disposto in ordine cronologico: a partire dal padovano Giovanni de’ Dondi, orologiaio del Trecento («Un meccanismo plurimo, di ruote / ellittiche e dentate, / connesse ad ingranaggio / … In codesto medioevo / oggi ancora viviamo») per finire con Ernesto Che Guevara («Un delicato perdente, pane / per i servizi segreti»).

Trentasette uomini (nessuna donna, infatti) che hanno fatto la Storia. Nell’immaginario di Enzensberger non sono le masse che permettono alla civiltà di evolversi, favorendo le “magnifiche sorti e progressive” di quello che i tedeschi chiamano “Die Forschung”: sono gli individui – geniali, coraggiosi, bizzarri, sfortunati, sbeffeggiati, perseguitati, sempre controcorrente. Sei ballate sono dedicate a italiani: il già citato de’ Dondi, e poi Campanella, Machiavelli, Spallanzani, Piranesi e lo psichiatra Ugo Cerletti, inventore dell’elettroshock. Di quest’ultimo e di Spallanzani vengono sottolineate l’asetticità scientifica e una sorta di sadica morbosità nel sottoporre animali e persone a esperimenti dolorosi e disumani, in nome di un opinabile progresso della medicina.

L’esaltazione di un illuminismo utopistico e mendace viene ironicamente inficiata attraverso la rappresentazione delle caratteristiche fisiche e comportamentali dei personaggi raccontati, spesso bruttini, piccoli, malaticci, in preda a ossessioni e tic maniacali, nati e cresciuti in ambienti viziati o corrotti. Un piccolo mausoleo degli orrori, quindi: nessuna malinconica Spoon River, in questa antologia sepolcrale che si vieta qualsiasi partecipazione emotiva, qualsiasi empatica solidarietà con i protagonisti dell’evoluzione e dello sviluppo umano, perseguito a prezzo di sofferenze individuali e collettive troppo spesso minimizzate o addirittura negate. La preferenza intellettuale di Enzensberger sembra indirizzata verso ingegneri, urbanisti, matematici, soprattutto dell’ottocento. Ma troviamo nell’elenco anche un musicista (Chopin: «L’implacabile foga con cui, vita natural durante, / parteggiò per il superfluo, difficilmente si spiega»). E un mago (Houdin: «Indistinguibile / il progresso dell’inganno dall’inganno del progresso. / Il pubblico è in estasi, gli applausi non finiranno / mai»). Dei molti filosofi e rivoluzionari politici si schernisce l’inconsistenza pratica, l’incapacità di comprendere il reale, il crudele destino di venire disattesi, traditi e superati dal trascorrere del tempo e dalla trasformazione delle ideologie: superati e dimenticati Condorcet, Fourier, Malthus, Leibniz, Taylor; Guevara ridotto a gadget nei manifesti e nelle T-shirt degli adolescenti, Bakunin divenuto un forsennato e innocuo fantasma rivoluzionario («E poiché sei sempre / lo stesso, / e poiché non ci puoi comunque aiutare, Bakunin, / rimani laddove sei»).

Enzensberger scrive poesia prosastica, utilizzando diverse tecniche tipografiche: il tondo per la descrizione, il corsivo per gli inserti tratti da citazioni, articoli, memorie, commenti e sottolineature personali. Alcune ballate sono veri e propri brani narrativi, e anche tale tecnica di scrittura contribuì a rendere particolarmente originale il suo Mausoleum: ma fu e rimane soprattutto il caustico messaggio di disincantata polemica nei riguardi dell’illusoria pretesa umana di un inesauribile e vincente avanzare del progresso, a rendere ancora molto attuale il suo messaggio poetico.

 

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www.sololibri.net/Mausoleum-Hans-Magnus-Enzensberger.html;     20 marzo 2017

 

 

 

 

 

RECENSIONI

EPICOCO

LUIGI EPICOCO, PER CUSTODIRE IL FUOCO. VADEMECUM DOPO L’APOCALISSE

EINAUDI, TORINO 2023

 

L’epigrafe tratta dal Vangelo di Luca, 12 49, “Sono venuto ad appiccare un fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse già divampato!”, bene riassume l’appassionata sollecitazione che Luigi Epicoco suggerisce nel suo saggio einaudiano Per custodire il fuoco. Vademecum dopo l’Apocalisse. All’umanità di oggi manca il fuoco, che erroneamente si è sempre accostato all’immagine dell’inferno, mentre l’incandescenza, l’ardore, la luminosità della fiamma sono simboli di vita, di slancio, di passione, laddove invece è il ghiaccio che meglio rappresenta l’isterilimento di qualsiasi desiderio, l’assenza di energia, la mortificazione di ogni aspettativa.

Custodire il fuoco, non permettere che si spenga, alimentarlo, cercando nel buio una luce, nel gelo la scintilla del calore. È Dio la risposta che Epicoco (presbitero, teologo, docente alla Pontificia Università Lateranense) propone a donne e uomini disorientati, avviliti, arresi, per ritrovare entusiasmo e voglia di vivere? Forse la fede e la religione non sono l’unica via d’uscita da uno stato di precarietà e incompletezza. Il “Senso” come altro nome di Dio, l’innamoramento, la trasformazione di sé, uno scopo da raggiungere, un’esperienza capace di esprimersi in parola: tutto ciò potrebbe indurre a un cambiamento positivo. Non la preghiera consolatoria ma la ricerca inquieta, non una metafisica da indagare astrattamente, ma un Padre concreto e paradossale, che abita la terra e non il cielo, “un Dio infinito nel finito della storia. Il tutto che si riversa nel frammento. L’eterno che entra nel tempo”, nella contingenza che stiamo vivendo, qui e ora.

Si tratta essenzialmente di un capovolgimento di prospettiva, quello che l’autore di questo saggio – forse più filosofico che teologico – propone, servendosi come linea guida del romanzo La strada di Cormac McCarthy, commentato con adesione attenta e partecipe, nell’utilizzo di frequenti e illuminanti citazioni. Al testo di McCarthy si alternano pagine evangeliche, in supporto e conferma: il tradimento di Pietro narrato da Matteo, i morti resuscitati in Giovanni, Marco, Luca, e Maria Maddalena davanti al sepolcro vuoto. Ma è La strada il riferimento più importante scelto da Luigi Epicoco per illustrare la sua tesi. Il romanzo racconta il viaggio che un padre e il suo bambino intraprendono per scampare alla fine del mondo, dopo un evento apocalittico di cui non si sa nulla, trascinandosi a piedi attraverso un paesaggio disabitato, impauriti e affamati, testimoni di orrori e crudeltà, vittime del male ed essi stessi costretti a fare il male per difendersi dagli altri pochi superstiti, diventati minacciosi nemici:

“I giorni si trascinavano uno dopo l’altro, innumerevoli e innumerati. Sulla superstrada, in lontananza, lunghe file di macchine carbonizzate e arrugginite. I cerchioni nudi delle ruote su un ammasso grigio di gomma fusa e solidificata dentro anelli anneriti di fil di ferro. I cadaveri inceneriti ridotti alle dimensioni di bambini e appoggiati sulle molle scoperte dei sedili. Diecimila sogni sepolti dentro i loro cuori bruciacchiati. Andarono avanti. Percorrevano quel mondo senza vita come criceti sulla ruota. Le notti immobili come la morte, e più nere ancora. Un freddo. Parlavano poco o niente. L’uomo tossiva in continuazione e il bambino lo guardava sputare sangue. Si trascinavano oltre. Lerci, cenciosi, senza speranza. L’uomo si fermava e si appoggiava al carrello e il bambino proseguiva, poi anche lui si fermava e si girava e l’uomo alzava gli occhi piangenti e lo vedeva lì sulla strada voltato a guardarlo da qualche futuro impensabile, radioso come un tabernacolo in quella desolazione”.

Nel suo grigio abbandono, il futuro impensabile magistralmente narrato da McCarthy diventa per Luigi Episcopo espressione della mancanza di prospettive patita dall’uomo contemporaneo, nel proprio mondo interiore desertificato: può essere riscattata unicamente da un bambino “radioso come un tabernacolo”, che continuerà a vivere proiettandosi nel domani, unica possibilità di salvezza e redenzione.

Le vie di fuga cercate dagli adulti sono modi “per addomesticare la disperazione”: il materialismo, l’individualismo, la famiglia, la carriera, persino la ritualità religiosa si rivelano alibi vuoti, finalità illusorie. Solo l’attraversamento dell’inferno quotidiano e il suo superamento può permettere la riscoperta del desiderio, e condurre alla felicità. “Quando siamo infelici possiamo essere manovrati dagli altri, dal sistema, dalla cultura dominante, dalle ideologie, dalla dittatura delle cose. Le persone felici sono insopportabili perché non sono manovrabili. Sono radicalmente libere, e la radice della loro libertà risiede appunto nel fuoco dei loro desideri… Non si può essere felici mantenendo contenti gli altri. A un certo punto bisogna trovare il coraggio di deludere perché si ha diritto a diventare se stessi, a essere difformi dal resto del mondo… Ecco allora la sequenza del fuoco: desiderare la felicità; a partire da questo desiderio coltivare una passione. La passione può generare conflitto; ma essa va difesa e alimentata perché è lì il fuoco”.

 

© Riproduzione riservata              «La Poesia e lo Spirito», 25 settembre 2023

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ERMAKOVA

IRINA ERMAKOVA, LO SPECCHIO DI BRONZO – EINAUDI, TORINO 2023

Con una approfondita introduzione e un’accurata traduzione di Alessandro Niero, Einaudi pubblica nella Collezione di Poesia un’antologia di versi della poeta russa Irina Ermakova, nata in Crimea nel 1951 e residente a Mosca da molti anni. Ermakova, laureata in ingegneria, esordì trentaseienne presentando alcune poesie su un bollettino di fabbrica, e continuò successivamente a scrivere al di fuori della cerchia letteraria e accademica più accreditata sia nel periodo della perestrojka sia in quello della restaurazione putiniana, scavandosi una nicchia di produzione “spuria” tra avanguardia e tradizione, ma ben presto riconosciuta nella sua originalità sia in patria sia all’estero.

Tra i temi che le sono più consoni, senz’altro l’interesse per la cultura classica e la mitologia, riambientate nell’attualità, è riscontrabile in alcune poesie dedicate a Pan, ad Afrodite, a Eros e Thanatos. In Ninnananna a Odisseo, compresa nella raccolta omonima, Ulisse navigatore diventa poeta esiliato, Penelope una ragazza invecchiata, Itaca è Mosca, la Crimea l’antica Tauride: “C’è calca sul viale Primorskij, brivido di notizie, / le candele arroventate dei castagni seminano i particolari: / tutti hanno visto Odisseo affrettarsi verso il mare, / abbracciando le spalle olivastre della sua Odissea. //… Pregustando tempesta, fremono i panni nei cortili, / giacché la patria è il cielo – qualunque: Itaca, Odessa…”.

Se la trasposizione dell’antichità nel mondo contemporaneo è evidente e ribadita, lo è altrettanto l’inserimento delle mutazioni climatiche all’interno di episodi autobiografici. Aria e acqua animano i versi di Ermakova in un turbinio di tempeste di neve, bufere ventose, piogge scroscianti, tutte metafore delle indomabili forze naturali che trascinano con sé i destini umani: “Con fragore – senza remore – / squarciato è il sacco delle nubi / la sferza frusta e sibila / l’acquazzone marcia verso la città”, “La neve infuria. Si addensa il mondo, si fa ancora più angusto. // … La città verrà presa”, “Inizia a piovere, inizia a piovere, / le prime gocce dilavano il volto, / la pioggia avvampa, stronfia, si affaccenda, / l’onnipossente ruota fa girare”, “dalla finestra dell’asilo guardi: pioggia e pioggia / ad allagare, pare, tutto, nessuno si trova più”.

È un’antologia caleidoscopica, questa curata con grande passione da Alessandro Niero, in cui troviamo i temi più vari, le tonalità più contrastanti: versi amorosi tranquillamente e impudicamente elegiaci, privi di remore verso il sentimento romantico; gallerie di ritratti ironici o commossi, comunque lontani dal bozzettismo; pseudo-traduzioni dal giapponese classico. Quasi che la poeta, nel proiettarsi in avanti nel tempo come nel recupero della tradizione a ritroso, voglia dare prova della propria eccezionale versatilità stilistica, del grande e variegato repertorio di contenuti cui può attingere.

Così, nella raccolta Alveare del 2007 la quotidianità della vita di un quartiere periferico di Mosca viene raccontata attraverso le vicende degli abitanti dei caseggiati popolari: anziane pettegole, musicisti falliti, gattare, madri alcolizzate, compagni di scuola recuperati nel ricordo, in toni narrativi lontani dall’aneddoto, e invece pietosamente solidali con la realtà impoverita del suburbio: “E c’è anche Goga, nostro vicino d’appartamento, al 102 – / Goga-yoga-sbam. Come lo scherzano i bambini perfidi. / C’aveva un anno e fu lasciato cadere, si sfasciò la zucca / e adesso è Yoga, anche se pare uno yeti, più che altro”.

Con intento quasi ludico ma sempre elegantemente allestito, in Carboncino scarlatto su seta nera (2012) sono riuniti centootto microtesti composti con lo pseudonimo di Yoko Inati e ambientati nel Giappone del XII secolo, di cui Ermakova si finge traduttrice e curatrice, ricalcando le forme tradizionali dei tanka e degli haiku nipponici: “Una gelida luna / gli rischiara la strada / oltre la mia porta. / Getterò il cuore ai suoi piedi – / che inciampi!”

Maestra nell’utilizzare immagini suggestive tratte dall’osservazione della vita quotidiana (oggetti, vegetali, animali, persone, abitudini), la poeta russa veicola attraverso esse, talvolta con un linguaggio volutamente oscuro, riflessioni sulla insondabilità e insieme sull’irriducibile grandezza dell’esistenza umana, sia nel considerare l’infinitezza temporale e spaziale, sia nei rapporti di affetto e amicizia con chi le è più caro : “Così nel vuoto il vuoto gioca allettante / traendo un suono puro dal nulla / l’agile lappola cantilenante saltella / piccolo secco testimone di un Big Bang”, “Come amo i conversari a tarda sera. / I miei più miei tutti attorno a un tavolo”.

Il lavoro attento e partecipe del curatore e traduttore Alessandro Niero, condiviso con l’autrice stessa, viene esplicitato ai lettori attraverso un ricco apparato di note ai testi, con la rammaricata consapevolezza di “quanto va perso nel traghettamento dal russo all’italiano”: ma a tale impegno va reso il plauso di una sensibile penetrazione nel mondo interiore di Irina Ermakova, e della non semplice resa della polisemia lessicale dei suoi versi.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 28 febbraio 2023

 

 

RECENSIONI

ERMENTINI

MARCO ERMENTINI, LA PIUMA BLU – MIMESIS, MILANO 2013

Se Hemingway aveva scritto i suoi 49 racconti, energici e incisivi, l’architetto Marco Ermentini pubblica nella collana dell’Accademia del Silenzio questi delicati, appena sussurrati, 49 raccontini, in un elenco alfabetico che partendo da Abbaino arriva fino a Zattera. Descrizioni di luoghi, per lo più sottovalutati o ignorati o snobbati: perché poco appariscenti, discreti o fuori moda.
L’autore sta conducendo da anni una sua personale e ironica battaglia a favore di un’architettura non prevaricante, rispettosa dell’ambiente, «timida». E in questo libretto rende omaggio agli aspetti gentili della vita quotidiana in cui siamo immersi, da segnalare all’attenzione e alla cura di tutti con una metaforica «piuma blu»; blu come le bandiere che indicano le spiagge pulite, blu come i cieli e i mari limpidi, ma con il tratto distintivo della gentilezza sinuosa di una piuma.
Ci sono in questo libriccino descrizioni di paesi (Anghiari, Bressanoro), di locali domestici o costruzioni varie (cantina, cesso, ufficio, chiostro, tetto, soffitto, fabbrica, pizzeria, palestra), di luoghi naturali (sentiero, grotta, cascata, chiari di bosco), di arredamenti interni ed esterni, di alberi e fiori: osservati con sguardo nuovo e rispettoso. Ma anche spunti riflessivi che invitano il lettore a un complice ascolto, ad una pausa di riflessione; applicandosi per esempio agli esercizi di astinenza raccomandati dagli stoici e dagli epicurei, che insegnavano la limitazione, la rinuncia, l’attesa: «dobbiamo imparare a muoverci leggeri per il mondo… la sperimentazione consiste in parte nel lasciare le cose come stanno». Apprezzando ciò che non si impone, e invece semplicemente propone, nella sua fragilità, un’offerta di solidale adesione alla bellezza dell’esistente: «Siamo sopraffatti dalla quantità, e non ci accorgiamo che sono le piccole e semplici cose le vere perle che possiamo pescare».

 

«Accademia del Silenzio», 10 febbraio 2014

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ERNAUX

ANNIE ERNAUX, IL POSTO – L’ORMA, ROMA 2014

Di Annie Ernaux, nata nel 1940 e considerata un classico nella narrativa contemporanea d’oltralpe, la casa editrice romana L’Orma propone nella traduzione di Lorenzo Flabbi questo romanzo pubblicato in Francia nel 1983. Si tratta di una rivisitazione autobiografica della famiglia dell’autrice, e in particolare della figura paterna, tracciata in uno stile composto e oggettivo, privo di qualsiasi compiacimento o ridondanza: un omaggio al padre vissuto e morto occupando con dignità il suo piccolo posto nel mondo. Annie Ernaux per questa sua celebrazione domestica ha scelto con consapevolezza una «scrittura piatta», e ce ne fornisce una giustificazione etica prima che letteraria: «Per riferire di una vita sottomessa alla necessità non ho il diritto di prendere il partito dell’arte, né di provare a far qualcosa di ‘appassionante’ o ‘commovente’. Metterò assieme le parole, i gesti, i gusti di mio padre, i fatti di rilievo della sua vita, tutti i segni possibili di un’esistenza che ho condiviso anch’io».

Ma dall’esistenza modesta del padre – nato contadino, poi diventato operaio e infine gestore di un bar-drogheria in una cittadina della Normandia – la figlia prende presto le distanze, scegliendo un percorso più borghese e intellettuale, laureandosi e insegnando, in qualche modo vergognandosi sempre delle origini e degli atteggiamenti dei genitori (gesti impacciati, linguaggio dialettale, vestiti dozzinali: «Assomigliavano a tutti coloro che non sono abituati a uscire»). Fuori posto loro nella sua vita, lei nella loro: «Sono scivolata in quella metà di mondo per la quale l’altra metà è soltanto un arredo». Felice e forse orgogliosa di essere fuggita dal posto che le era stato predestinato, sentendosi tuttavia in colpa per aver in qualche modo tradito. L’unico riscatto possibile rimane allora quello della testimonianza scritta: «Non per indicare al lettore un doppio senso e offrirgli così il piacere di una complicità, che respingo invece in tutte le forme che può prendere, nostalgia, patetismo o derisione. Semplicemente perché queste parole e frasi dicono i limiti e il colore del mondo in cui visse mio padre, in cui anch’io ho vissuto. E non si usava mai una parola per un’altra».

«Leggendaria» n.107, settembre 2014

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ESIODO

ESIODO, TEOGONIA – MARCO SAYA EDIZIONI, MILANO 2021

Daniele Ventre, poeta, traduttore, insegnante di lettere classiche nei licei, ha curato una recente edizione della Teogonia di Esiodo, pubblicata dall’editore Marco Saya con testo integrale a fronte.
Nella dotta e analitica introduzione, il Professor Ventre si sofferma su alcuni punti nodali del poema e della figura del suo autore, che – primo ad essere storicamente identificabile nella storia della letteratura europea –, si presenta in terza persona al v. 22, dopo la lunga sezione proemiale. Auto-citandosi (con un nome che etimologicamente parrebbe significare “colui che spande la voce”, allusione alle doti affabulatorie delle Muse), Esiodo ha mitizzato sé stesso, “eroicizzando il proprio io empirico”. Nato ad Ascra, in Beozia, intorno al 750 a.C., e morto verosimilmente nel primo decennio del secolo successivo, la sua esistenza si colloca dopo la composizione dei poemi omerici, rispetto ai quali i suoi scritti mostrano di essere posteriori per ragioni tematiche, intertestuali e linguistiche. Compose probabilmente tra il 720 e il 690 a.C. le opere attribuitegli con certezza: Teogonia, Eoie, Le opere e i giorni. L’epoca in cui Esiodo visse era segnata dalla crisi della società aristocratica proto-arcaica, in cui la figura dell’aedo veniva ricondotta a un ruolo marginale e socialmente irrilevante o addirittura ambiguo, contiguo a quello dello sciamano o del mago, operante in una dimensione sacrale. Esiodo aveva sperimentato in prima persona l’iniquità e la doppiezza dell’aristocrazia, essendo stato defraudato della sua eredità dal proprio fratello Perse, grazie all’appoggio di un potere corrotto. Nella sua opera è vitale l’appello alla giustizia come valore assoluto, consacrato dagli dei. Nel Proemio della Teogonia, che si protrae per più di cento versi, sono presenti tutti questi presupposti storici, culturali, sociali e biografici, in particolare nell’Inno alle Muse, con l’investitura attribuita al poeta dalle dee, attraverso il dono dello scettro di lauro, indicante un rapporto preferenziale del cantore con la divinità ispiratrice, che gli conferisce una capacità profetica e illuminante sul passato e sul futuro, e nello stesso tempo sancisce una connessione profonda tra le le figlie di Zeus e il loro padre. L’investitura accordata a Esiodo lo eleva al rango di chi amministra il potere, poiché la formula poetica, attraverso l’uso della parola – strumento di conoscenza e di persuasione -, è contigua alla formula giuridica e a quella rituale. Il rapsodo non è più associabile al pastore dell’età omerica, ma si innalza al rango dei regnanti e dei sacerdoti: “Il re, che sana le discordie e placa la rabbia dell’offeso, e il poeta, che sana i dissidi interni dell’animo e guarisce l’afflitto, sono l’espressione dello stesso potere di guarigione, quello insito nella voce e nel dono delle Muse”. Esse, figlie di Mnemosine (la Memoria), hanno la facoltà di riassestare la mente di chi soffre, somministrando in dosi equilibrate ricordo e oblio. Esiodo nel suo poema esprime la convinzione che gli aedi rivestano una funzione istituzionale assimilabile a quella dei re: il loro canto è canto della Dike (la Giustizia), che addita la norma come principio, nella stessa direzione indicata dagli dei.

Dopo aver inquadrato in maniera approfondita la personalità e il ruolo sociale dell’autore, Daniele Ventre passa a esaminare la struttura narrativa della Teogonia. Ricalcando parzialmente le cosmologie presocratiche e mesopotamiche, Esiodo pone all’origine dell’esistente non tanto un atto creativo, bensì la materia informe del Caos primordiale, che si manifesta come disordine e totale discordia. Al Caos si affianca per prima Gaia, la Terra, e tra i due agisce la potenza pulsionale di Eros. Dai vari connubi tra gli dei nascono stirpi di giganti mostruosi, tesi a eliminarsi a vicenda, per imporre con crudele violenza il proprio dominio. Un lungo processo evolutivo procede dal magma indistinto verso una sistemazione ordinata e razionale. L’avvento finale di Zeus, ultimo nato dal dio Crono, agisce sulle forze caotiche come principio divino di catarsi cosmica, aprendo l’universo a orizzonti di giustizia e armonia. Gli dei olimpici, i semidei, gli eroi “definiscono una nuova fase del canto teogonico: quella che illustra la permeazione reciproca fra il divino e l’umano”, in cui lo spazio terrestre è pervaso dalla presenza di un ordine sovrano. Con la Teogonia si apre la strada alla riflessione filosofica sull’arkhé dei presocratici.

Il raffinato volume edito da Marco Saya è arricchito da un ingente apparato di note e da un’altrettanto considerevole bibliografia.

 

© Riproduzione riservata            SoloLibri.net › Teogonia-Esiodo    20 settembre 2021

RECENSIONI

ESPOSITO

EDOARDO ESPOSITO, ELIO VITTORINI. Scrittura e Utopia – DONZELLI, ROMA 2011

Edoardo Esposito, docente universitario a Milano e critico letterario, è oggi il maggior esperto italiano di Elio Vittorini: allo scrittore siciliano ha dedicato negli ultimi trent’anni numerosi saggi e commenti che ora vengono raccolti, insieme ad altri studi inediti, in un importante volume pubblicato da Donzelli. Già nel capitolo introduttivo Esposito difende vigorosamente Vittorini da una serie di accuse che gli sono state mosse in ambito letterario sin dai suoi esordi di narratore: tra queste, quella di aver voluto «essere troppe altre cose che scrittore» (s’intende traduttore, critico, polemista, giornalista, politico…), senza volergli riconoscere «l’ampiezza dell’orizzonte con cui ha cercato di misurarsi, e la generosità con cui ha saputo spendersi». Altra riserva che molti letterati hanno espresso riguardo alla prosa di questo tanto discusso e frainteso autore, è stata quella sul suo stile, «apparso via via… povero, ripetitivo, scialbo e monotono, oppure innaturale, artificioso, manieristico». Esposito riporta numerosi esempi di altissima prosa vittoriniana, riconoscendole «una sicurezza e un’agilità espressiva indiscutibile», ma soprattutto la capacità «di comunicare al lettore la propria carica emotiva». Una prosa, quindi, che seppe far tesoro sia degli insegnamenti del realismo psicologico di tradizione ottocentesca (specificamente verghiana), sia del classicismo rondesco, sia dell’atmosfera della poesia ermetica e, prima ancora, simbolista. Da subito la narrativa di Vittorini si caratterizzò per una sua consapevole opzione per la letteratura europea del 900, in una direzione assolutamente contraria al carattere “nazional-popolare” verso cui spingeva la cultura fascista dell’epoca. Quindi i tedeschi e i russi, ma soprattutto i francesi con Proust e gli inglesi con Joyce e Lawrence. Solo in seguito la lettura entusiastica e la traduzione degli americani divenne per lui fonte primaria di ispirazione e invito a «riscuotere il romanzo dall’intellettualismo e ricondurlo a sottovento della poesia». Gli autori che diventarono ben presto suoi maestri furono ovviamente Hemingway, Faulkner, Steinbeck, Saroyan, Caldwell, che lo spinsero ad adottare uno stile e una sintassi completamente diverse da quello assunte fino ad allora: «oggetto di una decostruzione i cui materiali verranno collegati attraverso un principio di tutt’altro tipo: il ritmo». Esposito segue minutamente non solo l’evolversi della narrativa vittoriniana, ma anche i suoi conseguenti nuovi approdi lavorativi, con la collaborazione professionale che passò da Mondadori a Bompiani, e poi, nel dopoguerra, a Einaudi, e con l’attività pubblicistica che si specializzò appunto sugli autori americani. Il romanzo che gli dette la fama, decretandone successo di pubblico e di critica, anche in ambito internazionale, fu ovviamente Conversazione in Sicilia, pubblicato nel 1941, di cui Esposito ricostruisce sapientemente genesi e composizione, sottolineandone l’originalità stilistica («un nuovo narrare») e la portata politica, con la coraggiosa denuncia contro «un regime sempre più illiberalmente offensivo». Altrettanta partecipe attenzione il critico destina a un altro capolavoro vittoriniano, Uomini e no, del 1945, alla «dimensione ritmica del suo discorso», nel suo «procedere paratattico tributario della tecnica cinematografica», e soprattutto alla sua componente sentimentale, con la commossa rivisitazione della storia d’amore tra Berta e Enne 2. Un romanzo, quest’ultimo, «non sulla Resistenza ma della Resistenza», a cui lo scrittore siciliano partecipò «non come combattente, ma collaborando essenzialmente alla stampa clandestina», in nome di un’utopia mai rinnegata. Altro capitolo importante nella biografia di Vittorini fu il suo ruolo di operatore culturale, di traduttore e scopritore di talenti letterari, di instancabile organizzatore e polemista, come è testimoniato dal suo ricchissimo epistolario, dalla produzione di numerosissimi articoli e saggi, e dalla pubblicazione della più importante antologia di narratori statunitensi mai apparsa in precedenza: Americana. Questo fondamentale volume, di più di mille pagine, introdusse per la prima volta in Italia 33 autori d’oltre oceano, più che tradotti letteralmente “riscritti” dalle penne più importanti dell’epoca (Montale, Moravia, Piovene tra gli altri). Esposito segue le vicissitudini anche politiche (dovute a fraintendimenti e censure, a polemiche e ripicche) di tali iniziative, che sempre mostrarono il carattere indipendente e coraggioso dell’autore: «La vera scienza di Vittorini non si affidava a un’analitica realtà di studi; erano letture onnivore e appassionate a fondare la visione prospettica nella quale trovavano giustificazione le sue scelte, e il valore della sua critica, per quanto riguarda in particolare la letteratura americana, resta nell’innovatività della proposta e nella suggestione delle metafore con cui egli seppe sostenerla».

Gli ultimi capitoli del saggio di Edoardo Esposito sono dedicati ad almeno tre avvenimenti importanti dell’ultimo ventennio di vita di Vittorini: l’avventura de  Il Politecnico, mensile di cui fu direttore e animatore dal 45 al 47, la cui pubblicazione venne sospesa in seguito alla dura polemica con i vertici del Partito Comunista. Quindi, la pubblicazione de Il garofano rosso, dopo una revisione durata molti anni: con una importante prefazione che si presentava come «la sua dichiarazione di poetica più articolata e argomentata», in cui «il linguaggio poetico cui aspira lo scrittore appare caratterizzato da due dimensioni, quella ritmica (l’esigenza della “musica”) e quella simbolica (“dire senza dichiarare”)». Infine, l’amaro episodio che vide Vittorini bocciare , con evidente miopia editoriale, la pubblicazione de Il gattopardo di Tomasi di Lampedusa. Ma la grandezza dello scrittore e dell’intellettuale non ne viene scalfita, e il bel libro di Esposito la sottolinea con evidente ammirazione, riportando le parole inequivocabili di chi orgogliosamente si definiva “militante comunista”: «… ho un vecchio parere da dire: riguardo ad arte e cultura, compiti sociali di chi scrive, suo dovere di prender parte alla rigenerazione della società italiana…». Parole che, tanto più oggi, commuovono nella loro ingenua e feroce utopia.

«criticaletteraria», 8 ottobre 2013

RECENSIONI

ESPOSITO

EDOARDO ESPOSITO, LETTURA DELLA POESIA DI VITTORIO SERENI – MIMESIS, MILANO 2015

Una lunga fedeltà, quella che Edoardo Esposito (professore di Letterature comparate all’Università degli Studi di Milano) ha mantenuto nei riguardi della poesia di Vittorio Sereni (1913-1983). Argomento della sua tesi di laurea – poi ripreso in articoli, saggi, corsi accademici, convegni -, lo studio attento ed empatico della produzione sereniana ha infatti accompagnato tutta l’attività critica di Esposito, e oggi trova un necessario e puntuale compimento in : Lettura della poesia di Vittorio Sereni (Mimesis, 2015). «Sereni non è un poeta facile; anche se molti suoi versi si offrono limpidi alla lettura, qualcosa resta, nel fondo, di non detto, qualcosa di cui i versi hanno alzato il velame ma che non vuole scoprirsi per intero, qualcosa che costituisce il rovello segreto dell’occasione e dell’uomo».

All’ “uomo Sereni” Esposito dedica espressioni di ammirato e solidale affetto, ribadendone continuamente discrezione, gentilezza e coerenza, velate tuttavia da alcuni tratti di insicurezza e mite rassegnazione, che gli impedivano di schierarsi in maniera programmaticamente impegnata sia in sede ideologica sia nelle scelte stilistiche. Una rinuncia a prendere posizione derivata forse da un immutabile tratto caratteriale, ma anche da dolorose vicende biografiche e dalla difficile interpretabilità del periodo storico vissuto. Tale fluttuante disposizione psicologica si rifletteva nelle sue poesie, nelle esitazioni formali caratterizzate spesso da iterazioni, inversioni, sentenziosità, allusioni, reticenze e nell’impronta sempre composta, trattenuta, le cui parole d’ordine paiono essere misura, decoro, pudore, autocontrollo.

Esposito ripercorre tutta la vicenda umana e letteraria del poeta lombardo, dalla nascita e infanzia a Luino (il cui paesaggio lacustre tanto segnò l’ambientazione dei suoi versi), alla giovinezza trascorsa a Brescia, fino al trasferimento a Milano, dove si svolse quasi tutta la sua esistenza familiare e professionale. Fondamentale cesura, e ferita mai rimarginata nella sua vita, fu l’esperienza della guerra e della lunga prigionia in Africa, che pur privandolo non solo della spensieratezza degli anni giovanili, ma anche della possibilità di aderire attivamente alla Resistenza, offrirono materia di ispirazione a tutta la sua produzione poetica, dal Diario di Algeria del 1947 a Stella variabile del 1981. Ma la guerra e la storia non sembrano mai essere le vere protagoniste della scrittura di Sereni, in cui «l’avvenimento esterno è ricondotto all’interiorità dell’uomo, e la realtà stessa viene subordinata alle verità inquiete e perplesse della propria coscienza»: «Questa è la musica ora; / delle tende che sbattono sui pali. / Non è musica d’ angeli, è la mia / sola musica e mi basta».

Il volume di Edoardo Esposito non si limita a interpretare analiticamente il percorso letterario di Sereni (scandito sia dai libri di versi, sia dalle prose che li hanno accompagnati), ma scruta i differenti motivi della sua «mancanza di accordo con il mondo che lo attornia e con cui si confronta», una disarmonia indagata dai molti, validissimi critici che si sono occupati di lui: tra gli altri, Fortini, Mengaldo, Scarpati, Caretti, Seroni, Luzi, Forti, Cecchi, Anceschi, Antonielli, Ferretti, Siciliano, Macrì, Portinari, i cui pareri vengono riportati con puntuale accuratezza.
Il giudizio complessivo che Esposito dà di Sereni-poeta lo descrive come «fondamentalmente un lirico, la cui capacità, a qualunque materia si applichi, non è già logica, ma evocativa e trasfigurativa». Quello espresso su Sereni-uomo arriva a identificarsi con un rispettoso e intenerito omaggio: «Un elemento che va sottolineato per comprendere fino in fondo il pensiero di Sereni…è quello della “dolcezza”, che senza enumerare i torti, senza rinfacciare il passato richiama tuttavia a dei valori antichi… Dolcezza è capacità di affrontare la vita con il rispetto che le è dovuto, con l’umiltà di chi accetta di conoscerla solo in parte e non vuole sostituirle comodi schemi; è risoluzione ma non durezza, è fermezza ma non violenza, è la capacità di operare con “abnegazione e innocenza”, capacità che risulta da una più profonda comprensione e accettazione della vita, che sottolinea la necessità di lottare per le proprie convinzioni senza diventare chiusi e cinici».

 

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26 aprile 2016

RECENSIONI

ESPOSITO

CECILIA MARIA ESPOSITO, MELPOMENE RACCONTA – MANNI, SAN CESARIO DI LECCE 2017

Nella mitologia greca, Melpomene era la musa della tragedia, figlia di Zeus e di Mnemosine: assumendo il ruolo affabulatore di lei, Cecilia Maria Esposito (Milano, 1992, studentessa di medicina e filosofia) ci narra le vicende tormentate, quando non decisamente tragiche, di undici donne del mito e della letteratura greca. Nelle loro passioni, nella loro sofferenza, negli interrogativi che rivolgono al destino e agli dei, l’autrice riflette le stesse inquietudini delle donne contemporanee, dopo più di duemila anni ancora vittime di società misogine, di amori sbagliati, di pregiudizi collettivi, o dei loro stessi errori.

Utilizzando una prosa elegante, che nelle scelte lessicali desuete e nel ritmo stesso della narrazione ricalca lo stile raffinato e composto dei classici, Cecilia racconta – sempre in prima persona – l’amore coniugale della vecchia Bauci, quello materno di Ecuba, di Giocasta e di Persefone, quello folle di passione e gelosia di Fedra, Clitemnestra, Eco, Medea, l’affetto sororale di Antigone e Arianna, e l’invasamento profetico di Cassandra. Sempre di amore, comunque, si tratta. Quasi le donne scegliessero con consapevolezza di volersi immolare sull’unico altare della dedizione all’altro: sia esso un dio, il compagno, un parente, la propria città. Ecco quindi le giovanissime Arianna ed Eco, che scelgono la morte quando comprendono di avere sprecato i loro giorni per chi le ha trattate con indifferenza ed egoismo («Hai risucchiato tutto il resto»; «Passava i giorni a fissare se stesso – io passavo le notti a sognarlo»). Ecco le più anziane, Giocasta, Ecuba e Bauci: le prime due unite dalla stessa disperazione materna, straziata da incubi; la terza vissuta per più di sessant’anni in simbiosi col marito («c’era dell’ingiustizia, fin dall’inizio, nell’avere due corpi, per due esseri così completamente compenetrati l’uno nell’altro»). E poi le folli di passione: Fedra innamorata del figliastro Ippolito («Ho conosciuto il tradimento prima di conoscere l’amore, il brivido del peccato prima del candore della colpa»), Medea assassina dei figli per punire l’infedeltà di Giasone, Clitemnestra complice-uxoricida per essere stata troppo umiliata da Agamennone. Infine, le sacrificate a causa della loro stessa fragile femminilità: Persefone scissa tra il mondo degli Inferi e la luminosità delle messi agresti, Cassandra condannata per la sua visionarietà anticipatrice degli eventi, Antigone generosa e ribelle («Ci vuole ostinazione per distruggersi… La mia vita scorre nel solco dell’inevitabile»). Un lungo elenco di dolore e ingiustizie, concretizzatosi in suicidi, assassinii, tradimenti, immolazioni e sacrifici, egoismi ed altruismi eroici, generosità e meschinità, ricatti e terrori, gelosia e sottomissione: gli stessi sentimenti esasperati, cupi, irrazionali che animano le tragedie sentimentali e familiari di oggi.

Cecilia Maria Esposito mette sulle labbra delle sue protagoniste affermazioni che ribadiscono spesso il loro senso di inferiorità rispetto al mondo maschile, l’estraneità al vissuto degli uomini, una rassegnazione che talvolta sfiora il masochismo: «Ti ho amato per il male che mi hai fatto», «Sono una donna, la mia conoscenza del mondo è informe come un castello di sabbia», «Gli uomini non sono fatti per donarsi a un amore solo», «L’uomo ha sempre l’illusione di poter dominare il proprio destino, la donna crede sempre di non esserne la schiava». Ci capita ancora di trasalire, increduli, quando sentiamo ripetere le stesse frasi da vittime della violenza altrui o propria, quasi il nascere donna sia rimasta nei millenni una condanna all’inferiorità, alla sudditanza, all’infelicità: e non il miracolo di bellezza e forza che in realtà è.

 

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RECENSIONI

ESPOSITO

ROBERTO ESPOSITO, I VOLTI DELL’AVVERSARIO – EINAUDI, TORINO 2024

Roberto Esposito, Professore emerito di Filosofia teoretica all’Università Normale di Pisa, con il suo ultimo, complesso e interessantissimo volume I volti dell’Avversario, traccia una cesura, uno scarto tematico rispetto alla sua produzione più nota, indirizzata negli ultimi anni verso la biopolitica e i rapporti tra movimenti e istituzione: allo stesso modo i dieci versetti della Genesi (32, 23-33) di cui si occupa in questo libro costituiscono una netta rottura all’interno del ciclo narrativo che riguarda il personaggio biblico di Giacobbe. Il brano indagato dall’analisi di Esposito racconta l’episodio della lotta del patriarca (figlio di Isacco e Rebecca, fratello di Esaù, sposo di Lia e di Rachele, padre di dodici figli), che fuggendo dall’inseguimento vendicativo del fratello a cui aveva sottratto la primogenitura con l’inganno, si accampa sulla riva del torrente Jabbòk, dopo aver messo in salvo sull’altra sponda l’intera sua famiglia, nella speranza di condurla alla terra promessagli dal Signore.

Giacobbe quindi rimane solo, di notte, e improvvisamente gli appare dinanzi un uomo dal profilo fisico e morale indefinito, con cui inizia a lottare “fino allo spuntare dell’aurora”, in un alternarsi di duri colpi inferti e restituiti vicendevolmente, finché questo oscuro Avversario (Esposito usa l’iniziale maiuscola) lo colpisce all’anca, provocandogli una slogatura che lo renderà zoppo per sempre, e ne segnerà la trasformazione spirituale. Infatti, al sorgere del sole la sfida tra i due contendenti si conclude, e Giacobbe chiede al nemico di benedirlo; questi, senza rivelargli la propria identità, così gli risponde: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”.  Giacobbe stesso riconosce orgogliosamente la propria superiorità nel conflitto, quando afferma: “Ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva”.

Il nome Israele, attribuitogli da un’entità sconosciuta, significa “colui che lotta con il Signore”, e sta a indicare non solo il suo destino, ma anche quello della popolazione di cui sarà capostipite, segnata nei millenni da un’immedicabile “ferita che si è fatta storia”.

Chi è l’Avversario? Chi è colui che lotta con Giacobbe “fino allo spuntare dell’aurora”? Un uomo, come lo definisce il brano genesiaco, oppure Dio, un Angelo, il Male, un nemico nazionale o religioso, una divinità protettiva del fiume Jabbòk, un incubo, l’inconscio rimosso? E cosa simboleggia la lotta tra i due? Si tratta veramente di uno scontro, di un corpo a corpo feroce, o non piuttosto di un abbraccio furioso e annichilente, o di una danza inebriata, secondo le varie raffigurazioni tramandateci dall’arte?

L’indagine di Roberto Esposito si articola in dieci capitoli e in un corposo repertorio di glosse e di note, che non si accentrano solo sull’episodio biblico preso in considerazione, ma ne valutano la “straordinaria irradiazione nella tradizione culturale degli ultimi due secoli in ambito filosofico, letterario, artistico, politico, psicoanalitico”.

I filosofi, gli storici, gli psicanalisti passati in rassegna dall’autore indicano ipotesi diverse e a volte contrastanti nel delineare la figura del nemico: vengono citati Heidegger, Barthes, Girard, Rank, Freud, Jung, Schmitt, Stirner, Peterson, Lacan, Recalcati, Agamben, tutti concordi nel sottolineare la potenza metamorfica che consente all’Avversario di assumere infiniti volti.

Scrittori e poeti come Baudelaire, Malraux, Mann, Bernanos, Sachs, Celan, Corbin, Carrère, Capote,

si sono confrontati con i nuclei tematici che emergono dal ciclo di Giacobbe (Potere, violenza, inganno, dualità, fratellanza, vendetta, paura, rimorso, narcisismo, enigma), tentando di darne una chiarificazione. La stessa cosa hanno fatto i pittori presi in esame da Esposito, in primo luogo Eugène Delacroix, il cui dipinto – collocato su una parete della chiesa di Saint-Sulpice a Parigi -, ha attirato l’attenzione dell’autore in ogni visita alla capitale francese reiterata per trent’anni. Se Delacroix raffigura il movimento dei corpi che lottano in un epico contrasto tra l’impeto furioso di Giacobbe e la forza trattenuta ed elegante dell’Angelo, Rembrandt lega i due contendenti in un abbraccio inclusivo, mentre Odilon Redon addirittura nasconde il patriarca tra le ali del Messaggero, e Moreau mantiene i duellanti discosti;  Gaugin invece oggettivizza la scena attraverso lo sguardo di alcune spettatrici in primo piano, Chagall e Bonnat utilizzano intensi contrasti coloristici, e Marte Sonnet raffigura l’Avversario come una nera forza informe e minacciosa.

Un ulteriore e forse definitivo conflitto è quello che coinvolge il lettore di Genesi 32 con l’interpretazione del testo, a cui Roberto Esposito tende a dare infine una soluzione assolutamente condivisibile: “Non si lotta – da parte di Giacobbe come da parte di ognuno di noi – per impadronirsi di una verità inattingibile, ma per accertarne l’inafferrabilità… Quale ne sia la motivazione contingente, in ultima analisi lottiamo sempre per la nostra verità, per cercare, almeno per una volta di vederla ‘faccia a faccia’, come Giacobbe fa con l’Avversario, prima che si dilegui di nuovo…”. Lottiamo tutti con il nostro inconscio, il daimon interno che tendiamo a espellere fuori di noi: “dal momento che non si darà mai un tempo umano riconciliato, esteriore o posteriore al conflitto con l’altro e con se stesso”. Per dirlo con le magiche parole della poetessa Nelly Sachs, che tanto ha combattuto con i mulini a vento della mente e con le concretissime persecuzioni della Storia: “nessuno torna illeso dal suo dio”.

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 22 giugno 2024