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RECENSIONI

FALCI – TONDELLI

GIUSEPPE ALBERTO FALCI – JACOPO TONDELLI, DOPO LA DEMOCRAZIA

ZOLFO, MILANO 2022

 

In sei capitoli, un’introduzione e una conclusione, due giornalisti politici – Giuseppe Alberto Falci e Jacopo Tondelli – raccontano “un decennio vissuto pericolosamente, tra populismo e tecnocrazia”, come recita il sottotitolo del loro volume da poco uscito presso l’editore milanese Zolfo: Dopo la democrazia.

Il periodo di storia italiana preso in esame dagli autori va dalla fine dell’ultimo governo Berlusconi (novembre 2011) alla nascita del governo Meloni (ottobre 2022), anni in cui a Palazzo Chigi si sono succeduti Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte e Draghi, tutti arrivati al potere senza una reale investitura popolare. Il decennio in questione è stato contraddistinto da una serie di emergenze economiche, sociali e sanitarie a cui non sono state offerte soluzioni significative, impedendo oltretutto la partecipazione democratica nella scelta dei rappresentanti incaricati di reggere il Paese.

Sebbene accolto con freddezza e pregiudizievole timore dai media e dagli intellettuali progressisti per la sua provenienza post-fascista, il governo di Giorgia Meloni risulta quindi il primo, dopo dieci anni di “avvelenamento della democrazia italiana”, ad aver rispettato il volere degli elettori, che hanno scelto di votare la coalizione dei partiti di destra, a cui non ha saputo opporsi una sinistra allo sbando nelle idee, nei programmi e nelle alleanze.

Il volume si apre dunque sulle pagine dedicate all’attuale maggioranza, presieduta da una leader della destra post-missina e nazionalista, fedele tuttavia all’Europa e al patto atlantico, in consonanza con le scelte del predecessore Mario Draghi, soprattutto in difesa dell’Ucraina contro l’aggressione sovietica. Il libro, soffermandosi sugli esordi politici e sulla vita familiare della prima donna italiana capo di governo, ripercorre puntualmente le giornate frenetiche della sua vittoria alle ultime elezioni del 25 settembre: elenca i collaboratori che ne costituiscono l’entourage più fidato, l’entusiasmo dei conservatori europei, il sarcasmo dell’opposizione, le prime schermaglie con gli alleati della Lega e di Forza Italia. Il governo nascente si è caratterizzato da subito come iper-politico, nella volontà di creare un esecutivo di alto profilo, a netta egemonia del partito vincitore, Fratelli d’Italia, che ha imposto a un Parlamento acquiescente sia i Presidenti di Camera e Senato, sia Ministeri più rilevanti.

Retrocedendo nel tempo al novembre 2011, vengono ricostruite le vicende che hanno portato l’allora Capo di Stato Giorgio Napolitano a incaricare l’economista Mario Monti di guidare un governo tecnico, retto da una vasta maggioranza. Soluzione che era parsa inevitabile, dopo il declino dell’epopea berlusconiana durata 25 anni, e conclusasi tra inchieste giudiziarie e scandali sessuali, nell’aggravarsi di una crisi economica segnata da uno spread insostenibile. Il programma di austerità promosso da Monti, supportato dalle figure carismatiche ma discusse di Elsa Fornero e Corrado Passera, sembrava rappresentare gli interessi di una minoranza stabile e influente, intesa a rassicurare soprattutto i timori dell’alta finanza europea, tenendo contemporaneamente a bada la rabbia sociale incanalata dal Movimento 5 Stelle, che in effetti alle elezioni del febbraio 2013 ottenne il 25,5% dei voti. Davanti al partito creato da Beppe Grillo si apriva però un dilemma gravido di conseguenze: “Tenere duro e negarsi a ogni alleanza e compromesso, costi quel che costi, oppure accettare la fine del proprio mito fondativo e governare, scegliendo l’alleato «migliore»?”

L’imprevedibile ascesa, e il conseguente declino della formazione, merita nelle pagine dei due autori un’analisi attenta e puntuale, esattamente come quella dedicata al loro rappresentante di maggiore rilievo istituzionale, Giuseppe Conte, a capo di due governi (2018-2019 e 2019-2021).

Molta attenzione critica viene riservata anche alla rielezione del Presidente Sergio Mattarella, che con il plebiscito del 29 gennaio 2022, dopo un lungo lavoro diplomatico sotterraneo ha spazzato via tutti gli altri candidabili (Draghi, Casellati, Casini, Belloni, Cartabia, Amato), in nome di un “mero principio di autoconservazione”, per mantenere “l’unico equilibrio possibile”. Mattarella viene definito dagli autori del libro “Moroteo di stile e di contenuto, grisaglia d’inverno e d’estate, silenzioso”, e pari severi giudizi sono riservati anche a un altro vulcanico protagonista di questi anni: Matteo Renzi (il rottamatore, il royal baby), e infine al “mito impossibile di Mario Draghi” (“L’ex direttore del Tesoro è il salvatore della Patria che tutti evocano per qualsiasi ruolo istituzionale”).

I commenti che Falci e Tondelli riservano a big, comprimari e comparse del Parlamento risultano quasi imbarazzanti, nel sottolineare volubilità e volatilità di proposte e idee, nell’elenco vorticoso di manovre oscure, riciclaggi e ripescamenti di figuranti inattendibili, nell’ostentato culto dell’immagine praticato su tutti i media, intrecciandosi prima e svincolandosi subito dopo in caroselli ideologici

Agli attori principali di questa recita nazionale (farsa, commedia o tragedia) sono dedicate esplorazioni e riflessioni che non riguardano solo alleanze, tradimenti espliciti, sgambetti imprevisti, ma anche gli interventi di amici-nemici-fidanzati, di intellettuali-industriali-giornalisti-magistrati,  riportando alla memoria dei lettori episodi e figuranti dimenticati della scena politica più o meno  recente, come evidenzia il lunghissimo elenco dei nomi citati a fine volume, giustamente inghiottiti nelle sabbie mobili dell’oblio.

A conclusione di tale sconfortante e impietoso ritratto, gli autori tentano un bilancio dei problemi strutturali del nostro Paese. Problemi ereditati da un passato certo non edificante, che minacciano di incacrenirsi nel futuro: l’irrilevanza politica sullo scacchiere internazionale, la perdita progressiva di prospettiva industriale e di investimento nel tessuto produttivo, l’incapacità di attrarre capitali economici dall’estero, la criminalità organizzata, il consolidarsi delle diseguaglianze sociali e territoriali, il degrado delle periferie urbane, il costante calo demografico, l’immigrazione clandestina, le scarse risorse destinate alla sanità e all’istruzione…

Sono solo una parte delle questioni irrisolte a cui la classe politica attuale non sembra poter o voler rimediare.

 

© Riproduzione riservata          19 dicembre 2022

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RECENSIONI

FALCO

GIORGIO FALCO, LA COMPAGNIA DEL CORPO – DUE PUNTI, PALERMO 2011

In questo racconto lungo di Giorgio Falco (1967), La compagnia del corpo, due sembrano i sentimenti che affiorano dal narrato: la crudeltà e l’indifferenza. Ambientato in un paese immaginario della periferia milanese, Cortesforza, già scenario di altri racconti e romanzi dell’autore, vede come protagonisti principali due fidanzati ventenni, Alice e Diego, anonimi e banali a prima vista (simili nelle scelte/non scelte esistenziali, nel carattere apatico e nell’esibita ignoranza): in realtà animati da un rancore feroce e inespresso nei confronti dell’ambiente in cui vivono – genitori, amici, realtà urbana – e di sé stessi. Diego, poco presente e individualizzato fino alle pagine conclusive, lavora come dipendente del padre, proprietario di una ditta metalmeccanica. È frustrato, privo di ambizioni e di interessi che esulino dal sesso con la sua ragazza e dai ritrovi serali con un gruppo di sfigati. Alice è scolpita con maggiore rilievo, e non solo a causa della sua imponenza fisica: ossessionata dai suoi cento chili, soffre di bulimia dall’infanzia, famelica divoratrice delle merendine di cui suo padre è venditore per una grande azienda dolciaria. Vive con la madre in una villetta a schiera di un quartiere nuovo, spopolato e malinconico: i suoi rapporti con i genitori, separatisi subito dopo l’acquisto nella casa, sono freddi e formali. Alice passa le sue giornate a letto, a pesarsi sulla bilancia, a confrontarsi con l’amica Fede detta “Mucchietto” perché pelle e ossa, e a portare fuori la cagnolina Lucy, salvata dal canile comunale. Proprio nella descrizione del canile e del processo produttivo delle merendine di cui si nutre la ragazza, la prosa di Falco si fa particolarmente attenta e perspicace, nel sottolineare i due caratteri distintivi del racconto: la crudeltà nel trattamento degli animali e delle persone, l’indifferenza a qualsiasi scrupolo etico, a qualsiasi sfumatura di solidarietà umana.

Sono i presupposti da cui nasce l’episodio, imprevisto e terrificante, che offre una svolta alla storia. Diego e Alice trascorrono un pomeriggio domenicale nel capannone industriale del padre di lui, sorvegliato da un doberman, portandosi dietro Lucy. Dopo un amplesso svogliato, “sussultorio, amatoriale aritmico, dilettantistico”, per scherno o idiozia tentano di far accoppiare la bastardina con il doberman, quindi irritati dal continuo abbaiare di lei, la ammazzano a sprangate, appendendola a una trave dell’officina, filmandosi a vicenda col cellulare nelle sevizie, per poi gettare il corpo ridotto a poltiglia della cagnetta in un fosso. Fin qui il racconto, esposto con frasi secche e concise, prive di partecipazione emotiva, a indicare il distacco quasi disgustato dell’autore dalla vicenda. Ma ecco che nelle ultime pagine, viene riportato un verbale dei carabinieri in cui i due fidanzati sono accusati del reato di maltrattamento e uccisione di animale, sulla base di una denuncia anonima sporta da qualcuno cui era stato mostrato il video come un trofeo.

Giorgio Falco rivela in conclusione di essersi ispirato a un fatto realmente accaduto in provincia di Pordenone nel 2009: riporta i nomi dei protagonisti citati dai media internazionali e le reazioni del mondo, dapprima scandalizzate, poi disorientate, infine sbadatamente noncuranti. Crudeltà e indifferenza, appunto.

 

© Riproduzione riservata     

https://www.sololibri.net/La-compagnia-del-corpo Falco.html     29 maggio 2018

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FANTATO

GABRIELA FANTATO, CODICE TERRESTRE – LA VITA FELICE, MILANO 2008

Un codice per interpretare la realtà, questo Codice terrestre di Gabriela Fantato: e non solo. Per penetrare il tempo, e in qualche modo, rigorosamente, delinearlo, limitarlo (“geometria” è termine ricorrente, in questi versi, insieme a perimetro, a retta…). Ma un codice decisamente terragno, fisico, ancorato alla materia, al suolo (“La terra è tutta solchi – una marcia”, “Potrei stendermi nell’erba, essere un sasso o una radice”), e anche all’acqua, incombente come minaccia, tracimazione, forza della natura (fiume, fango, palude, mare: “c’è l’acqua pronta all’inondazione”, “un’acqua che viene / e slitta, vedi s’avvicina”).
Il colore che domina è in realtà l’assenza del colore: il bianco (“Nella fatica del paesaggio resta / un bianco ostinato”), inteso forse come assenza o cancellazione, e ribadito dalla scelta di sostantivi che indicano un’incisione violenta (nelle cose, nei sentimenti, nei ricordi): “taglio”, innanzi tutto, vocabolo che troviamo più volte nella raccolta, e che la chiude con perentorietà: “Solo nel taglio esatto / a volte riposo”. Ma anche coltello, gancio, falce, chiodo; e poi crepa, solco, spigoli, colpo.
Una poesia che insiste più sul battere che sul levare (il verbo “battere” nelle sue varie coniugazioni torna otto volte!), più sull’ostinazione che sul condono, più sulla ferita che sulla guarigione. Anche l’amore è severo, non si concede leggerezza: “la tenerezza, una stanza mai aperta / insetti e anni corrono, si agitano”, “Dentro lo specchio mi chiami bambina, / mi chiami cagna e piangi”, “Non mi consolare con una minestra, / non fare la fine che ti aspetta”.

Ed è quasi sempre l’addio il momento che prevale all’interno del rapporto amoroso; la mancanza, il rimpianto, l’insufficienza. Un libro “del destino e della maturità”, lo definisce Milo De Angelis nella prefazione: senz’altro un libro scabro e sapiente, che non conosce indulgenze, in primo luogo verso l’autrice stessa, inflessibile scandaglio di se stessa: “ho visto i bordi di me”.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Codice-terrestre-Gabriela-Fantato.html   15 novembre 2016

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FANTE

JOHN FANTE, BRAVO, BURRO! – EINAUDI, TORINO 2016

Bravo, burro! è un’opera minore di John Fante, pensata per l’infanzia e pubblicata in America nel 1970. Scritta insieme al giovane sceneggiatore Rudolph Borchert, e illustrata da Marilyn Hirsch, nelle intenzioni degli autori doveva costituire il canovaccio di un progetto cinematografico mai portato a termine. Dell’iniziale struttura filmica persistono nel racconto il ritmo narrativo veloce, i dialoghi incalzanti, la plasticità delle immagini che rendono visivamente il colorito susseguirsi degli eventi. I temi e i contenuti rimangono poi quelli tipicamente fantiani: l’infanzia, la miseria, la fede religiosa, l’attenzione per la natura e gli animali, il rapporto tormentato con la figura paterna.
La storia è semplice ed edificante. C’è un ragazzino, Manuel, e c’è un asino: il loro incontro voluto dal destino trasformerà in maniera positiva non solo la loro vita, ma anche quella di altre persone e di un intero villaggio messicano. «Era quasi il crepuscolo sull’altopiano del Messico settentrionale… Il ragazzo Manuel arrancava per la strada polverosa. In una mano recava un pollo pigolante e nell’altra stringeva un sacco di farina che s’era buttato sulle spalle. Il luogo era solitario, e Manuel canticchiava, perso nei suoi pensieri».

In quel tramonto arancione, su quelle montagne brulle, Manuel assiste alla feroce lotta scoppiata tra un puma e un asinello, alla coraggiosa resistenza di quest’ultimo, e all’umiliante sconfitta dell’aggressore. Il burro, sanguinante ma fiero, segue il ragazzo nella grande hacienda in cui vive, un rancho in cui si allevano tori da combattimento. Qui John Fante introduce subito i caratteri di altri fondamentali protagonisti della vicenda: il patròn della corte agricola, don Francisco, uomo generoso e giusto, amato dai suoi dipendenti e rispettato anche dai nemici. E soprattutto Juan Cabriz, il padre di Manuel, giovane vedovo alcolizzato e inconcludente, incapace di resistere agli eventi negativi che lo travolgono nella quotidianità. «Il padre di Manuel apparve sull’uscio. Juan Cabriz era un uomo alto e robusto, la barba lunga, vestito coi suoi abiti da manovale. Sul viso s’indovinava un’ombra di disperazione, come se gl’importasse poco che quel giorno fosse quello e non un altro».

Il rapporto di vicendevole affetto e solidarietà nato tra il ragazzo e l’asino, da lui appropriatamente battezzato «Il Valiente», riuscirà a scuotere – dopo una serie di avvincenti vicissitudini – la rassegnata infelicità degli abitanti del villaggio, garantendone non solo una bastevole sussistenza economica, ma anche una ritrovata fiducia nella bontà del prossimo e nella clemente protezione divina. Soprattutto il giovane padre riuscirà a riscattare i suoi fallimenti attraverso l’esempio illuminante del figlio, riconquistando una sua dignità agli occhi dei compaesani e dello stesso Manuel.
Una storia esemplare, educativa, che sa unire aspetti umoristici e commoventi, retorici e avventurosi, sullo sfondo di un antico Messico fiabesco e crudele.

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/Bravo-burro-John-Fante.html              20 giugno 2016

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FATICA

OTTAVIO FATICA, VICINO ALLA DIMORA DEL SERPENTE – EINAUDI, TORINO 2019

Ottavio Fatica, nato a Perugia e tornato a vivere in Umbria dopo lunghi anni trascorsi a Roma, è considerato tra i maggiori traduttori italiani dall’inglese e dal francese. Collabora con molte case editrici, e ha curato testi classici e contemporanei (Melville, Poe, James, Kipling, London, Fitzgerald, Joyce, Tolkien, Auden, Cassian, Céline, Girard…), vincendo importanti premi nazionali. Oggi, consulente editoriale per Adelphi, insegna pratica del tradurre letteratura. Nella collana bianca di Einaudi aveva pubblicato nel 2009 un primo volume di versi, Omissioni, e ora propone questo funambolico Vicino alla dimora del serpente. Funambolico non solo perché la figura dell’acrobata e la metafora dell’equilibrismo siano ricorrenti nelle poesie, ma perché stile e temi si susseguono compositi e frammentati, poliedrici e provocatori, sempre sul fil di lama – per dirla in termini montaliani – di una soluzione prima perseguita e poi raggirata. L’illusione di una ricomposizione contenutistica e formale viene irrisa continuamente: a ragione nella quarta di copertina si fa riferimento alla poesia di Ripellino come antesignano di questa inventività ironica e spiazzante. Soprattutto sembra venir presa di mira la coerenza stilistica, poiché le sei sezioni di cui si compone il volume utilizzano timbri poetici diversi e persino discordanti.

In alcune pagine iniziali la finalità che si propone il poeta appare principalmente etica: una riflessione sconfortata sul destino dell’uomo, in bilico tra bene e male, volontà di purificazione e di espiazione da un lato, attrazione verso la colpa e la dannazione dall’altro. Il lettore si trova davanti a un continuo moto ascendente e discendente, a un innalzarsi e a un precipitare nell’abisso: la metafora dell’affondamento, del diluvio, dell’alluvione rovinosa che si abbatte e non lascia scampo, travolgendo tutto, fa da pendant al volo in un empireo sconfinato e indifferente, per nulla protettivo, in «cieli senza rete»: «l’arduo / gioco che dalla base terra / avrà l’ardire e l’ardenza / del cielo come meta», «Poi in un baleno / viene giù il Diluvio e poi / il lutulento / lento decorso, la / conta dei danni e / dei condannati», «l’universo / favo ronza e bulica / sulfureo in un via vai di fuchi / e di operai spersi / per i buchi sporchi di morchia / di materia oscura / di materia losca / del bugno».

I sostantivi utilizzati esprimono perlopiù minaccia e aggressione (squarcio, schianto, sbrago, torchio, graticola, rovi, lama, forbici, crepaccio, gabbia), inganno e sporcizia (morchia, mucillagini, catrame, crosta, ragnatela). Chi scrive avverte «tutto il peso del mondo», e come suggerisce il titolo, si riconosce Vicino alla dimora del serpente. Frequenti sono i rimandi alla Sacre Scritture, mai con intenzioni consolatorie, poiché prevale invece l’immagine demoniaca di un Lucifero spaesato, quasi vittima di se stesso più che di una divinità indecifrabile: «e io da scuro / a scuro scorribanderò / anima scalza / di balza in balza», «come / faremmo senza fuoco o morte?», «pure una sera / insieme al gregge reduce / allo speco / non mancherò al raduno / ad uno ad uno in tempo / per soffriggere».

Ma aldilà della pregnanza metafisica dei versi, si avverte in Ottavio Fatica la lusinga dell’esibizione linguistica, la giocosità della sorpresa nell’uso ossessivo delle rime e delle allitterazioni, negli enjambement imprevedibili, nella vistosa negazione della punteggiatura, nel flusso di associazioni visive e sonore, nei sapienti arcaismi e neologismi. Il gusto del grottesco lo avvicina a una poetessa da lui tradotta recentemente, Nina Cassian, che si era addirittura inventata una lingua tutta sua (lo “spargano”), con l’evidente volontà di stupire il lettore, in uno pseudo-surrealismo basato sulla fascinazione della parola recitata, canzonatoria e sarcastica: «come il roggio / in ruggine si strugge / la ragione / la vita che rifugge», «per questo quello / invoca invano invidia / inventa Tazio / o no?», «quand’è tutt’un / mondo che duole / che vuole far male / e che può (si salvi / chi può) non va più / non va proprio giù», «per entro uno sghembo pertugio / ridotto o rifugio / per tutti e anzitutto / per me sotterfugio / perché quest’assolo spergiuro / perento / che indugia al centro».

Proprio riguardo al suo apprezzatissimo “mestiere” di traduttore, paventando di non possedere parole proprie, e temendosi esiliato dalla sua stessa esistenza e lingua, scrive: «come una spia un ipocrita / un transfuga un liberto / come tutti il traduttore / lotta per avere ragione / della ragione / della ragione e lascia / il certo per l’incerto e torna / schiavo e come tutti più / di tutti muore irrassegnato». L’idea di esclusione e autoesclusione dal mondo è spesso ribadita, e riconosciuta come colpa personale e collettiva, che chiude il genere umano in un’autoreferenzialità autistica («A bordo dello scafo / non si scorge nessuno / che ami nessun altro / più di sé», «Risucchiato / ti avviti su te stesso», «c’è mondo e non / c’è modo di smentirlo / con la vita»). Tuttavia la salvezza può insperabilmente arrivare dall’istintività ingenua del mondo animale, da un abbandono più disarmato e fidente alla vivezza del sentimento amoroso, o al ricordo dell’infanzia e di luoghi cari. Così nelle ultime sezioni del libro prevalgono temi più docilmente affettivi (l’immagine di una «gattina smarrita», un «bestiario onirico» aggirantesi in boschi fiabeschi, una gara ciclistica, la memoria di Natali trascorsi, una «musichetta stenta», i fiocchi di neve, il primo amore degli undici anni), e toni che corteggiano la filastrocca, la cantilena, lo stornello, l’aforisma moraleggiante o perfino l’elegia: «Qui sotto la mia cupola / di cielo i panni stesi / indorano al tramonto / sanno d’aria / di luminosità».

Se l’esperienza della scrittura appare spesso incomunicabile («Il cieco scrive / e dovrà farsi leggere / quello che ha scritto / se altri capirà / o capiranno / le zampe d’uccelletto / sulla neve»), resta salda la vocazione all’innamoramento fugace, alla comprensione della bellezza nell’altro da sé («noi / nostalgici ostaggi / un mondo d’ansie e primule / fatto per struggerci», «Vita diletta, anima / finitima alla mia / cuore pulsante / d’intima estraneità / mi duole di tristezza / tutto il corpo»). E rimane il dovere di esprimersi comunque: «io lancio sassi / contro i vetri del cielo / così imparo / a fare sempre meglio / quello che / non si può fare e che / pure va fatto». Ottavio Fatica in questo suo libro così pieno di immagini, voci, echi letterari, sapienza meditativa, ci ricorda continuamente la nostra caducità e la nostra immortalità, corpi animaleschi e angelici come siamo: «la vita è un piede a terra / e uno al piano nobile».

 

© Riproduzione riservata                             «SoloLibri», 18 giugno 2019

 

 

 

 

 

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FATICA

OTTAVIO FATICA, LOST IN TRANSLATION – ADELPHI, MILANO 2023

Nel tradurre un testo ci si perde, e si perde qualcosa (del testo stesso, e di sé nell’immersione di parole altrui). Altro si recupera, si ricrea, si offre a chi parla una lingua differente. Lost in translation, titolo ripreso dal famoso film di Sofia Coppola, è un libriccino pubblicato da Adelphi nella collana Microgrammi. L’autore è Ottavio Fatica, poeta (ha pubblicato da Einaudi Le omissioni e Vicino alla dimora del serpente) e leggendario traduttore di capolavori: Il Signore degli Anelli e Moby Dick, tra i più citati. Inoltre, traghettatore in italiano e acuto interprete di romanzieri come Kipling, London, Celine, Joyce Nabokov e poeti come Byron, Yeats, Edward Lear, Auden, Frost, Nina Cassian.

In sei brevi capitoli, “sei appuntamenti al buio con lo straniero”, Fatica ci illustra l’improba ed esaltante arte del tradurre, e il ruolo (la vocazione!) di chi la esercita. Kipling, il primo narratore a essere da lui omaggiato, è stato anche il primo a iniziarlo ai misteri della giungla e al gusto di imboscarsi nella selva intricata dei significati, dei suoni, delle allusioni, delle metafore. E di sagaci metafore si serve l’autore per introdurci alla propria competenza tecnica: come i piccoli protagonisti di Kipling (Mowgli, diviso e conteso tra due mamme, e Kim, protetto da due diverse figure paterne) anche il traduttore soffre di inquietudine e di un timoroso senso di inappartenenza, sapendosi “creatura di confine, frontaliero per indole e mestiere”, “san Cristoforo in sedicesimo” che trasporta da una sponda all’altra il carico di una parola.

Metafore diverse ma altrettanto incalzanti sono quelle utilizzate nel capitolo dedicato al Signore degli Anelli, in cui lo hobbit Sam, caricatosi Frodo sulla schiena, lo sostiene lungo l’ardua e scoscesa salita verso il monte Fato: così fa il traduttore, novello sherpa che si mette al servizio di un altro scrittore, sottoponendosi con abnegazione a ogni difficoltà interpretativa, e infine, giunto “all’agognata meta, ecco – si ferma un passo prima, un passo indietro, e lascia allo straniero il dubbio privilegio di piantare la bandiera sulla vetta”. Illuminato di riflesso, esattamente come la parrucchiera delle dive, che si entusiasma del premio loro attribuito se solo per un attimo viene inquadrata dalle telecamere la sua acconciatura.

Quella di chi traduce è quindi un’arte umile, misconosciuta, vicaria, suppletoria? Ottavio Fatica rivendica con risolutezza e orgoglio straordinarie conquiste personali. Animato dallo stupore del fanciullino di fronte al mistero racchiuso nello scrigno del “verbo”, incalzato dall’interesse dello psicanalista che penetra nei sogni del suo paziente, infervorato nella comprensione della poesia più criptica, si riconosce parimenti ermeneuta e creatore. Soprattutto per ciò che riguarda la poesia che, intraducibile per definizione – poiché prigioniera di ritmi, misure metriche, rime –, richiede una resa rigorosa e circostanziata. Poeta egli stesso nella decodificazione e nella restituzione dei poeti, “poeta del poeta”, sa che “la traduzione di una poesia è una poesia che ha in un’altra poesia la sua ragione d’essere”. “Se tradurre è masochistico, tradurre poesia in poesia è disciplina da fachiri e da contorsionisti, da aspiranti suicidi”, in quanto si deve non solo ottenere una versione il più possibile fedele, ma anche “ridestare l’eco dell’originale, la tonalità affettiva, la sostanza sonora”.

Altri interessanti argomenti sono trattati nel volumetto adelphiano: quanta empatia occorra per sintonizzarsi realmente con la produzione letteraria di uno scrittore straniero, quando un romanzo o una poesia si possano definitivamente considerare conclusi e non più modificabili o migliorabili, per quale motivo veniamo sorpresi negativamente leggendo un testo italiano tradotto in una lingua non nostra, in che misura la conoscenza e l’uso di un unico codice linguistico contribuisca a rinchiudere gli esseri umani in confini angusti e soffocanti, aumentando gli attriti e i conflitti con chi si esprime diversamente.

Ma è soprattutto l’ultimo saggio che indica quale sia il trasporto di Ottavio Fatica verso gli autori di cui si occupa. In particolare, l’amatissimo Louis Ferdinand Céline. Solo con lui, e con Artaud, ha visceralmente desiderato di immedesimarsi: “Ricordo bene, ricordo come fosse ieri che, non appena mi mettevo a leggerlo, qualcuno ecco attaccava a parlare dentro me, parlava a me, direttamente: ai nervi, ai precordi – parlava attraverso me. Sensazione esaltante, perturbante, quasi di dolore fisico e, ho il sospetto, assai pericolosa da inseguire o sobillare”. Lasciandosi trasportare dal parlottio celiniano, “sbracato, virulento, garrulo, sublime, grondante amaritudine, venato di lirismo, sotteso di pietà”, Ottavio Fatica ha rischiato spesso uno “stato di fuga irreversibile, cogente”, quello che teme o spera di raggiungere ogni traduttore appassionato: “la perdita del possesso, della disponibilità della lingua, di se stessi in fondo, lo smarrimento ultimo”.

Lost in translation, appunto.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 25 marzo 2023

 

RECENSIONI

FAULKNER

WILLIAM FAULKNER, UNA ROSA PER EMILY – ADELPHI, MILANO 1997

Tre straordinari racconti di uno dei più grandi scrittori del ‘900. Asciutti e implacabili, nella loro durezza spietata, nella severa risoluzione dell’autore di non commentare le vicende narrate, né di esprimere qualsiasi giudizio di condanna o solidarietà nei confronti dei loro protagonisti. Una scrittura ossuta, quella di William Faulkner, e insieme paradigmatica: acuta nelle metafore, prive di qualsiasi compiaciuta sbavatura; originalissima nell’aggettivazione (“parola infrequente… scontrosa demenza… decadenza ostinata e civettuola… cimitero assorto): mai scontata. E con questi incipit memorabili, fatti di una sola frase scolpita: “Jim Grant faceva il mercante di bestiame”; “Non era originaria di questa zona”. E di altrettanto micidiali conclusioni: “Poi, quasi subito, svanì”; “Quella notte Mrs. Grant morì sulla sua sedia, eretta e tutta vestita”. Ma sono soprattutto i suoi personaggi, in particolare se donne, a rimanere inchiodati nella memoria del lettore. Come se le figure femminili raccontate da Faulkner avessero l’arduo e non ricompensabile compito di mandare avanti il mondo, e questo cadesse tutto, con le sue ingiustizie e la sua violenza, sulle loro spalle. Spalle forti, tuttavia, anche se piegate e piagate da sofferenze e abusi: spalle di donne che rendono triplicato il male ricevuto. E quindi la Mrs. Grant del primo racconto (“Miss Zilphia Grant”) affronta il suo destino di donna tradita e abbandonata vendicandosi sul marito e sulla figlia incolpevole, la quale perpetuerà a sua volta la stessa feroce follia materna. In Una rosa per Emily  l’anziana protagonista, volontariamente reclusa in casa per risentito orgoglio, si fa beffe dell’intera comunità cittadina, e il suo segreto viene svelato solo dopo la sua morte. Infine in Adolescenza si narra “il periodo felice” della selvatica Juliet, “con dei compiti da assolvere e l’orgoglio per il suo corpo piatto”, e il suo amore acerbo per un romeo disorientato e innocente.

IBS, 1 marzo 2014

RECENSIONI

FAZIO

RAFFAELA FAZIO, MIDBAR – RAFFAELLI EDITORE, RIMINI 2019

Dopo aver indagato nelle sue ultime pubblicazioni il mito classico attraverso le figure femminili, e il tempo nelle sue scansioni materiali e inconsce, Raffaela Fazio (Arezzo, 1971) affronta nei versi di Midbar l’universo veterotestamentario, con competenza scientifica e lievità di stile, riuscendo a rendere coinvolgente un argomento di non facile assimilazione.

Già il titolo della raccolta rivela la consuetudine dell’autrice con l’ebraico: midbar significa deserto, termine che richiama le estese solitudini abitate dai profeti, i silenzi umani e divini tanto difficili da interpretare. Con un minimo scambio consonantico, può riallacciarsi al sostantivo dabar, indicante sia la parola sia l’evento. Ecco quindi che nel vuoto dell’assenza si iscrive l’incontro, il suono verbale emesso dall’altro da sé, l’esperienza di un avvenimento che sconvolge e trasforma, come suggerisce l’epigrafe di Heidegger posta in esergo a questo volume.

I protagonisti biblici narrati sono appunto tra coloro la cui vita è stata segnata da una sconvolgente epifania, a cui hanno risposto con un’affermazione o una negazione, con un’obbedienza o una ribellione. Prevalentemente si muovono all’interno della Genesi: Eva, Abramo, Isacco, Agar, Giacobbe, Rachele, Giuseppe. Mosè ci parla dall’Esodo, Rachab dal libro di Giosuè; altri personaggi hanno la voce dei profeti, Giobbe alza il suo grido di dolore e protesta in chiusura del volume: “Cos’è che crolla in me? / Cosa rimane / se stendi uguali i giorni / sul boia e l’innocente? / Chi mente / non vacilla. / Prospera il più forte / e il gregge dell’iniquo / non ha aborti. / Perché taci? / Dove il mio sbaglio?” Sono uomini e donne vissuti migliaia di anni fa, che si pongono le stesse nostre domande sulla vita e sulla morte, vivono la stessa nostra ansia nei riguardi del futuro, un uguale rancore contro l’ingiustizia e la sofferenza immeritata, attendendo una risposta, un’illuminazione e una guida da Dio.

“Ogni parola è un passo. / Cambia nel dirsi e nell’ascolto”: così, con questi due versi intensamente asseverativi si apre la prima poesia, a indicare che proprio nel doppio binario della comunicazione l’essere umano si propone come alterità all’assoluto, relazionandosi con gli altri e con la storia, facendosi lingua e orecchio che esprime e attende la parola, la quale “Nasce dal deserto e non lo lascia: / mentre lo attraversa / ne spinge il confine più lontano”. Gli elementi naturali (luce e vento, sabbia e pietra, terra e cielo, acqua e fuoco), eterno sfondo a ogni presenza animata, partecipano al miracolo dell’esistente: ma è solamente il parlare che li vivifica, è con la presenza della creatura che diventano eco, domanda e risposta. Eva nell’Eden parla con l’albero della conoscenza, l’una attribuendo all’altro la responsabilità della scelta del male e del peccato che gravano sull’umanità: “Da me si passa / per morire. / La donna lo sapeva: per generare / barattò l’eterno con la storia / s’iscrisse nella fine / e offrì un inizio”.

Nella dotta ed esauriente prefazione, Massimo Morasso dà atto a chi scrive di aver saputo rendere nella semplice linearità del suo poetare la risonanza solenne del testo sacro, osando “la sfida del confronto fra teologia e letteratura”. L’autrice ha intessuto un dialogo tra umano e divino privo di ambizioni spiritualistiche, lontano da ogni aspirazione alla trascendenza, ma decisamente terreno, impastato di un epos che supera la soggettività, e si fa invece portavoce di una vicenda storica diventata simbolica e universale. Calandosi e insieme celandosi negli eventi che racconta, Raffaela Fazio partecipa a una ricerca condivisa, incardinata nel tempo eppure fuori dal tempo, e l’accompagna con la presenza discreta, sensibile e indulgente della testimonianza poetica.

 

© Riproduzione riservata    https://www.sololibri.net/Midbar-Fazio.html      17 dicembre 2019

 

 

 

RECENSIONI

FEBBRARO


PAOLO FEBBRARO, I GRANDI FATTI – PENDRAGON, BOLOGNA 2016

I brevi racconti, gli aforismi, i ritratti che Paolo Febbraro (Roma, 1965), poeta e critico letterario, ha scritto tra il 1994 e il 2015, spesso appuntandoli su taccuini e fogli volanti come fossero improvvise illuminazioni, sono stati raccolti nel volume I grandi fatti per l’editrice bolognese Pendragon.

Il titolo, recuperato dal ricordo adolescenziale di una pubblicazione divulgativa in fascicoli sulla storia del ’900, allude all’intreccio dei contenuti oscillanti tra il commento – spesso ironico o amareggiato – dei grandi avvenimenti pubblici e il loro riflesso, tutto intimo ed emotivo, nella sensibilità dell’autore. Ci ritroviamo quindi testimoni, come lettori, di un continuo e vibrante movimento tra realtà e finzione, dentro e fuori, privato e pubblico, alle prese con miti biblici (Eva, Caino e Abele, Abramo), letterari (Dante, Kafka, Proust), storici (scoperta dell’America, rivoluzione francese e nazismo) ma anche con tutta una costellazione di mitologie personali: l’affettuoso ritratto del padre, gli amori piccoli e il grande amore, incidenti e tragiche malattie di amici, irridenti autobiografie.
Nella consapevolezza che «Una comunicazione vera si basa sull’interruzione e sull’intermittenza» e che«l’emozione produce rumore e crea distorsioni, cavità, corpi solidi e sondabili».

Paolo Febbraro rivendica una sua lettura molto umbratile e ricettiva della realtà, sia di quella immanente e incarnata nei giorni, sia di quella interiore e fantastica. I rapporti sentimentali si situano sempre in una zona fluttuante tra vicinanza e lontananza, adesione ed estraneità, quasi timorosi di esprimersi se non attraverso sguardi sfuggenti, gesti trattenuti, parole misurate. Nessun giudizio presuntuoso o prevaricante sugli altri, né tanto meno sui destini dell’umanità: «darsi ragione della Storia è impossibile. Chiamiamo stranezza del caso solo ciò di cui più difficilmente sappiamo ricostruire l’origine apparente. Il tempo ha così un prima e un dopo, ma non ha una direzione… Da sempre costruiamo castelli e non sappiamo il vento, il sasso, il topo».

Perciò, se la prima sezione del libro ne condivide il titolo – I grandi fatti – quella conclusiva recupera ciò che si intravede nelle pieghe della storia: Le cose dietro. Perché il vero si annida e si mimetizza anche o soprattutto nella cronaca quotidiana (il lavoro a scuola, la famiglia, l’ambiente urbano e naturale), ma si può intuire persino nelle invenzioni stralunate del fantastico e dell’assurdo, in una scrittura in bilico tra Pirandello, Buzzati, Borges, Kafka e Asimov, nel passato reinventato o in un futuribile angoscioso e sghignazzante.
Nel mezzo, i Lampi di cinque paginette aforistiche che riflettono con disincanto e amarezza sulla caducità dell’esistenza, sul contrasto tra essere e apparire, sull’irrecuperabilità dell’innocenza: «Era così grande che fu osannato dai suoi contemporanei e ignorato dai posteri; La amava a tal punto che spesso se ne dimenticava; Ci sono le persone oneste, e le persone normali».

Paolo Febbraro osserva e commenta, rivelando un suo sguardo di clemente ed empatico “compagno di strada” dei fatti grandi e minuti che ci riguardano tutti, ben sapendo che «la verità è una somma, ed è impossibile escluderne qualcosa».

 

© Riproduzione riservata   www.sololibri.net/I-grandi-fatti-Febbraro.html      17 maggio 2016

 

RECENSIONI

FEBBRARO

PAOLO FEBBRARO, PRIMO LEVI E I TOTEM DELLA POESIA –  ZONA FRANCA, ROMA 2013

Il critico letterario e poeta Paolo Febbraro dedica questo approfondito a appassionato saggio a Primo Levi, e in particolare alla sua produzione in versi, limitata a un unico volume di 93 liriche, composte tra il 1943 e il suo suicidio avvenuto nel 1987 (e pubblicate in Ad ora incerta nel 1998 da Garzanti). Con la poesia Primo Levi ha avuto un rapporto “non sistematico e tutt’altro che pacifico”, ma sempre improntato a un severa fedeltà verso la sua “speciale trasparenza e condensazione”, che lo portava a diffidare – pur ammirandoli – di poeti oscuri come Pound, Trakl e Celan, convinto che ” è poco redditizio, e poco utile, scrivere e non comunicare… l’importante per essere compreso da coloro a cui si dirige la pagina scritta è di essere chiari”. Chiarezza come “radicale onestà” verso il pubblico dei lettori, ma addirittura come rigorosa promessa fatta a se stesso di una “solennità anche violenta, inaggirabile”, che alcuni notissimi critici ( Cases, Fortini, Mengaldo) hanno bollato come “classica, marmorea… buona per le lapidi”. Paolo Febbraro indaga con finezza il rapporto che i versi di Levi hanno avuto con la sua ben più ricca e apprezzata produzione narrativa, contrappuntandola quasi didascalicamente, fieri del proprio “tono biblico-dantesco”, ma anche di tutte le ascendenze culturali che li hanno nutriti: dal Midrash ai racconti Yiddish, da Lucrezio a Leopardi, fino a Coleridge, Poe, Eliot. Una poesia pregna di storia, di amore per la scienza, di indignazione civile, di rabbioso dolore, di memoria lacerata e di un mai superato e angoscioso senso di colpa per essere riuscito a sopravvivere allo sterminio nazista. Con ferma delicatezza Febbraro esplora anche aspetti meno conosciuti della vita privata di Levi, sottolineando con forza la sua grandezza “inappariscente e sobria,… di candida spregiudicatezza, di non adulterato coraggio”.

IBS. 25 aprile 2013