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RECENSIONI

ESPOSITO

EDOARDO ESPOSITO, LETTURA DELLA POESIA DI VITTORIO SERENI – MIMESIS, MILANO 2015

Una lunga fedeltà, quella che Edoardo Esposito (professore di Letterature comparate all’Università degli Studi di Milano) ha mantenuto nei riguardi della poesia di Vittorio Sereni (1913-1983). Argomento della sua tesi di laurea – poi ripreso in articoli, saggi, corsi accademici, convegni -, lo studio attento ed empatico della produzione sereniana ha infatti accompagnato tutta l’attività critica di Esposito, e oggi trova un necessario e puntuale compimento in : Lettura della poesia di Vittorio Sereni (Mimesis, 2015). «Sereni non è un poeta facile; anche se molti suoi versi si offrono limpidi alla lettura, qualcosa resta, nel fondo, di non detto, qualcosa di cui i versi hanno alzato il velame ma che non vuole scoprirsi per intero, qualcosa che costituisce il rovello segreto dell’occasione e dell’uomo».

All’ “uomo Sereni” Esposito dedica espressioni di ammirato e solidale affetto, ribadendone continuamente discrezione, gentilezza e coerenza, velate tuttavia da alcuni tratti di insicurezza e mite rassegnazione, che gli impedivano di schierarsi in maniera programmaticamente impegnata sia in sede ideologica sia nelle scelte stilistiche. Una rinuncia a prendere posizione derivata forse da un immutabile tratto caratteriale, ma anche da dolorose vicende biografiche e dalla difficile interpretabilità del periodo storico vissuto. Tale fluttuante disposizione psicologica si rifletteva nelle sue poesie, nelle esitazioni formali caratterizzate spesso da iterazioni, inversioni, sentenziosità, allusioni, reticenze e nell’impronta sempre composta, trattenuta, le cui parole d’ordine paiono essere misura, decoro, pudore, autocontrollo.

Esposito ripercorre tutta la vicenda umana e letteraria del poeta lombardo, dalla nascita e infanzia a Luino (il cui paesaggio lacustre tanto segnò l’ambientazione dei suoi versi), alla giovinezza trascorsa a Brescia, fino al trasferimento a Milano, dove si svolse quasi tutta la sua esistenza familiare e professionale. Fondamentale cesura, e ferita mai rimarginata nella sua vita, fu l’esperienza della guerra e della lunga prigionia in Africa, che pur privandolo non solo della spensieratezza degli anni giovanili, ma anche della possibilità di aderire attivamente alla Resistenza, offrirono materia di ispirazione a tutta la sua produzione poetica, dal Diario di Algeria del 1947 a Stella variabile del 1981. Ma la guerra e la storia non sembrano mai essere le vere protagoniste della scrittura di Sereni, in cui «l’avvenimento esterno è ricondotto all’interiorità dell’uomo, e la realtà stessa viene subordinata alle verità inquiete e perplesse della propria coscienza»: «Questa è la musica ora; / delle tende che sbattono sui pali. / Non è musica d’ angeli, è la mia / sola musica e mi basta».

Il volume di Edoardo Esposito non si limita a interpretare analiticamente il percorso letterario di Sereni (scandito sia dai libri di versi, sia dalle prose che li hanno accompagnati), ma scruta i differenti motivi della sua «mancanza di accordo con il mondo che lo attornia e con cui si confronta», una disarmonia indagata dai molti, validissimi critici che si sono occupati di lui: tra gli altri, Fortini, Mengaldo, Scarpati, Caretti, Seroni, Luzi, Forti, Cecchi, Anceschi, Antonielli, Ferretti, Siciliano, Macrì, Portinari, i cui pareri vengono riportati con puntuale accuratezza.
Il giudizio complessivo che Esposito dà di Sereni-poeta lo descrive come «fondamentalmente un lirico, la cui capacità, a qualunque materia si applichi, non è già logica, ma evocativa e trasfigurativa». Quello espresso su Sereni-uomo arriva a identificarsi con un rispettoso e intenerito omaggio: «Un elemento che va sottolineato per comprendere fino in fondo il pensiero di Sereni…è quello della “dolcezza”, che senza enumerare i torti, senza rinfacciare il passato richiama tuttavia a dei valori antichi… Dolcezza è capacità di affrontare la vita con il rispetto che le è dovuto, con l’umiltà di chi accetta di conoscerla solo in parte e non vuole sostituirle comodi schemi; è risoluzione ma non durezza, è fermezza ma non violenza, è la capacità di operare con “abnegazione e innocenza”, capacità che risulta da una più profonda comprensione e accettazione della vita, che sottolinea la necessità di lottare per le proprie convinzioni senza diventare chiusi e cinici».

 

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26 aprile 2016

RECENSIONI

ESPOSITO

CECILIA MARIA ESPOSITO, MELPOMENE RACCONTA – MANNI, SAN CESARIO DI LECCE 2017

Nella mitologia greca, Melpomene era la musa della tragedia, figlia di Zeus e di Mnemosine: assumendo il ruolo affabulatore di lei, Cecilia Maria Esposito (Milano, 1992, studentessa di medicina e filosofia) ci narra le vicende tormentate, quando non decisamente tragiche, di undici donne del mito e della letteratura greca. Nelle loro passioni, nella loro sofferenza, negli interrogativi che rivolgono al destino e agli dei, l’autrice riflette le stesse inquietudini delle donne contemporanee, dopo più di duemila anni ancora vittime di società misogine, di amori sbagliati, di pregiudizi collettivi, o dei loro stessi errori.

Utilizzando una prosa elegante, che nelle scelte lessicali desuete e nel ritmo stesso della narrazione ricalca lo stile raffinato e composto dei classici, Cecilia racconta – sempre in prima persona – l’amore coniugale della vecchia Bauci, quello materno di Ecuba, di Giocasta e di Persefone, quello folle di passione e gelosia di Fedra, Clitemnestra, Eco, Medea, l’affetto sororale di Antigone e Arianna, e l’invasamento profetico di Cassandra. Sempre di amore, comunque, si tratta. Quasi le donne scegliessero con consapevolezza di volersi immolare sull’unico altare della dedizione all’altro: sia esso un dio, il compagno, un parente, la propria città. Ecco quindi le giovanissime Arianna ed Eco, che scelgono la morte quando comprendono di avere sprecato i loro giorni per chi le ha trattate con indifferenza ed egoismo («Hai risucchiato tutto il resto»; «Passava i giorni a fissare se stesso – io passavo le notti a sognarlo»). Ecco le più anziane, Giocasta, Ecuba e Bauci: le prime due unite dalla stessa disperazione materna, straziata da incubi; la terza vissuta per più di sessant’anni in simbiosi col marito («c’era dell’ingiustizia, fin dall’inizio, nell’avere due corpi, per due esseri così completamente compenetrati l’uno nell’altro»). E poi le folli di passione: Fedra innamorata del figliastro Ippolito («Ho conosciuto il tradimento prima di conoscere l’amore, il brivido del peccato prima del candore della colpa»), Medea assassina dei figli per punire l’infedeltà di Giasone, Clitemnestra complice-uxoricida per essere stata troppo umiliata da Agamennone. Infine, le sacrificate a causa della loro stessa fragile femminilità: Persefone scissa tra il mondo degli Inferi e la luminosità delle messi agresti, Cassandra condannata per la sua visionarietà anticipatrice degli eventi, Antigone generosa e ribelle («Ci vuole ostinazione per distruggersi… La mia vita scorre nel solco dell’inevitabile»). Un lungo elenco di dolore e ingiustizie, concretizzatosi in suicidi, assassinii, tradimenti, immolazioni e sacrifici, egoismi ed altruismi eroici, generosità e meschinità, ricatti e terrori, gelosia e sottomissione: gli stessi sentimenti esasperati, cupi, irrazionali che animano le tragedie sentimentali e familiari di oggi.

Cecilia Maria Esposito mette sulle labbra delle sue protagoniste affermazioni che ribadiscono spesso il loro senso di inferiorità rispetto al mondo maschile, l’estraneità al vissuto degli uomini, una rassegnazione che talvolta sfiora il masochismo: «Ti ho amato per il male che mi hai fatto», «Sono una donna, la mia conoscenza del mondo è informe come un castello di sabbia», «Gli uomini non sono fatti per donarsi a un amore solo», «L’uomo ha sempre l’illusione di poter dominare il proprio destino, la donna crede sempre di non esserne la schiava». Ci capita ancora di trasalire, increduli, quando sentiamo ripetere le stesse frasi da vittime della violenza altrui o propria, quasi il nascere donna sia rimasta nei millenni una condanna all’inferiorità, alla sudditanza, all’infelicità: e non il miracolo di bellezza e forza che in realtà è.

 

© Riproduzione riservata             www.sololibri.net/Melpomene-racconta-Esposito.html      1 aprile 2017

 

 

 

RECENSIONI

ESPOSITO

ROBERTO ESPOSITO, I VOLTI DELL’AVVERSARIO – EINAUDI, TORINO 2024

Roberto Esposito, Professore emerito di Filosofia teoretica all’Università Normale di Pisa, con il suo ultimo, complesso e interessantissimo volume I volti dell’Avversario, traccia una cesura, uno scarto tematico rispetto alla sua produzione più nota, indirizzata negli ultimi anni verso la biopolitica e i rapporti tra movimenti e istituzione: allo stesso modo i dieci versetti della Genesi (32, 23-33) di cui si occupa in questo libro costituiscono una netta rottura all’interno del ciclo narrativo che riguarda il personaggio biblico di Giacobbe. Il brano indagato dall’analisi di Esposito racconta l’episodio della lotta del patriarca (figlio di Isacco e Rebecca, fratello di Esaù, sposo di Lia e di Rachele, padre di dodici figli), che fuggendo dall’inseguimento vendicativo del fratello a cui aveva sottratto la primogenitura con l’inganno, si accampa sulla riva del torrente Jabbòk, dopo aver messo in salvo sull’altra sponda l’intera sua famiglia, nella speranza di condurla alla terra promessagli dal Signore.

Giacobbe quindi rimane solo, di notte, e improvvisamente gli appare dinanzi un uomo dal profilo fisico e morale indefinito, con cui inizia a lottare “fino allo spuntare dell’aurora”, in un alternarsi di duri colpi inferti e restituiti vicendevolmente, finché questo oscuro Avversario (Esposito usa l’iniziale maiuscola) lo colpisce all’anca, provocandogli una slogatura che lo renderà zoppo per sempre, e ne segnerà la trasformazione spirituale. Infatti, al sorgere del sole la sfida tra i due contendenti si conclude, e Giacobbe chiede al nemico di benedirlo; questi, senza rivelargli la propria identità, così gli risponde: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”.  Giacobbe stesso riconosce orgogliosamente la propria superiorità nel conflitto, quando afferma: “Ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva”.

Il nome Israele, attribuitogli da un’entità sconosciuta, significa “colui che lotta con il Signore”, e sta a indicare non solo il suo destino, ma anche quello della popolazione di cui sarà capostipite, segnata nei millenni da un’immedicabile “ferita che si è fatta storia”.

Chi è l’Avversario? Chi è colui che lotta con Giacobbe “fino allo spuntare dell’aurora”? Un uomo, come lo definisce il brano genesiaco, oppure Dio, un Angelo, il Male, un nemico nazionale o religioso, una divinità protettiva del fiume Jabbòk, un incubo, l’inconscio rimosso? E cosa simboleggia la lotta tra i due? Si tratta veramente di uno scontro, di un corpo a corpo feroce, o non piuttosto di un abbraccio furioso e annichilente, o di una danza inebriata, secondo le varie raffigurazioni tramandateci dall’arte?

L’indagine di Roberto Esposito si articola in dieci capitoli e in un corposo repertorio di glosse e di note, che non si accentrano solo sull’episodio biblico preso in considerazione, ma ne valutano la “straordinaria irradiazione nella tradizione culturale degli ultimi due secoli in ambito filosofico, letterario, artistico, politico, psicoanalitico”.

I filosofi, gli storici, gli psicanalisti passati in rassegna dall’autore indicano ipotesi diverse e a volte contrastanti nel delineare la figura del nemico: vengono citati Heidegger, Barthes, Girard, Rank, Freud, Jung, Schmitt, Stirner, Peterson, Lacan, Recalcati, Agamben, tutti concordi nel sottolineare la potenza metamorfica che consente all’Avversario di assumere infiniti volti.

Scrittori e poeti come Baudelaire, Malraux, Mann, Bernanos, Sachs, Celan, Corbin, Carrère, Capote,

si sono confrontati con i nuclei tematici che emergono dal ciclo di Giacobbe (Potere, violenza, inganno, dualità, fratellanza, vendetta, paura, rimorso, narcisismo, enigma), tentando di darne una chiarificazione. La stessa cosa hanno fatto i pittori presi in esame da Esposito, in primo luogo Eugène Delacroix, il cui dipinto – collocato su una parete della chiesa di Saint-Sulpice a Parigi -, ha attirato l’attenzione dell’autore in ogni visita alla capitale francese reiterata per trent’anni. Se Delacroix raffigura il movimento dei corpi che lottano in un epico contrasto tra l’impeto furioso di Giacobbe e la forza trattenuta ed elegante dell’Angelo, Rembrandt lega i due contendenti in un abbraccio inclusivo, mentre Odilon Redon addirittura nasconde il patriarca tra le ali del Messaggero, e Moreau mantiene i duellanti discosti;  Gaugin invece oggettivizza la scena attraverso lo sguardo di alcune spettatrici in primo piano, Chagall e Bonnat utilizzano intensi contrasti coloristici, e Marte Sonnet raffigura l’Avversario come una nera forza informe e minacciosa.

Un ulteriore e forse definitivo conflitto è quello che coinvolge il lettore di Genesi 32 con l’interpretazione del testo, a cui Roberto Esposito tende a dare infine una soluzione assolutamente condivisibile: “Non si lotta – da parte di Giacobbe come da parte di ognuno di noi – per impadronirsi di una verità inattingibile, ma per accertarne l’inafferrabilità… Quale ne sia la motivazione contingente, in ultima analisi lottiamo sempre per la nostra verità, per cercare, almeno per una volta di vederla ‘faccia a faccia’, come Giacobbe fa con l’Avversario, prima che si dilegui di nuovo…”. Lottiamo tutti con il nostro inconscio, il daimon interno che tendiamo a espellere fuori di noi: “dal momento che non si darà mai un tempo umano riconciliato, esteriore o posteriore al conflitto con l’altro e con se stesso”. Per dirlo con le magiche parole della poetessa Nelly Sachs, che tanto ha combattuto con i mulini a vento della mente e con le concretissime persecuzioni della Storia: “nessuno torna illeso dal suo dio”.

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 22 giugno 2024

 

RECENSIONI

FALCI – TONDELLI

GIUSEPPE ALBERTO FALCI – JACOPO TONDELLI, DOPO LA DEMOCRAZIA

ZOLFO, MILANO 2022

 

In sei capitoli, un’introduzione e una conclusione, due giornalisti politici – Giuseppe Alberto Falci e Jacopo Tondelli – raccontano “un decennio vissuto pericolosamente, tra populismo e tecnocrazia”, come recita il sottotitolo del loro volume da poco uscito presso l’editore milanese Zolfo: Dopo la democrazia.

Il periodo di storia italiana preso in esame dagli autori va dalla fine dell’ultimo governo Berlusconi (novembre 2011) alla nascita del governo Meloni (ottobre 2022), anni in cui a Palazzo Chigi si sono succeduti Monti, Letta, Renzi, Gentiloni, Conte e Draghi, tutti arrivati al potere senza una reale investitura popolare. Il decennio in questione è stato contraddistinto da una serie di emergenze economiche, sociali e sanitarie a cui non sono state offerte soluzioni significative, impedendo oltretutto la partecipazione democratica nella scelta dei rappresentanti incaricati di reggere il Paese.

Sebbene accolto con freddezza e pregiudizievole timore dai media e dagli intellettuali progressisti per la sua provenienza post-fascista, il governo di Giorgia Meloni risulta quindi il primo, dopo dieci anni di “avvelenamento della democrazia italiana”, ad aver rispettato il volere degli elettori, che hanno scelto di votare la coalizione dei partiti di destra, a cui non ha saputo opporsi una sinistra allo sbando nelle idee, nei programmi e nelle alleanze.

Il volume si apre dunque sulle pagine dedicate all’attuale maggioranza, presieduta da una leader della destra post-missina e nazionalista, fedele tuttavia all’Europa e al patto atlantico, in consonanza con le scelte del predecessore Mario Draghi, soprattutto in difesa dell’Ucraina contro l’aggressione sovietica. Il libro, soffermandosi sugli esordi politici e sulla vita familiare della prima donna italiana capo di governo, ripercorre puntualmente le giornate frenetiche della sua vittoria alle ultime elezioni del 25 settembre: elenca i collaboratori che ne costituiscono l’entourage più fidato, l’entusiasmo dei conservatori europei, il sarcasmo dell’opposizione, le prime schermaglie con gli alleati della Lega e di Forza Italia. Il governo nascente si è caratterizzato da subito come iper-politico, nella volontà di creare un esecutivo di alto profilo, a netta egemonia del partito vincitore, Fratelli d’Italia, che ha imposto a un Parlamento acquiescente sia i Presidenti di Camera e Senato, sia Ministeri più rilevanti.

Retrocedendo nel tempo al novembre 2011, vengono ricostruite le vicende che hanno portato l’allora Capo di Stato Giorgio Napolitano a incaricare l’economista Mario Monti di guidare un governo tecnico, retto da una vasta maggioranza. Soluzione che era parsa inevitabile, dopo il declino dell’epopea berlusconiana durata 25 anni, e conclusasi tra inchieste giudiziarie e scandali sessuali, nell’aggravarsi di una crisi economica segnata da uno spread insostenibile. Il programma di austerità promosso da Monti, supportato dalle figure carismatiche ma discusse di Elsa Fornero e Corrado Passera, sembrava rappresentare gli interessi di una minoranza stabile e influente, intesa a rassicurare soprattutto i timori dell’alta finanza europea, tenendo contemporaneamente a bada la rabbia sociale incanalata dal Movimento 5 Stelle, che in effetti alle elezioni del febbraio 2013 ottenne il 25,5% dei voti. Davanti al partito creato da Beppe Grillo si apriva però un dilemma gravido di conseguenze: “Tenere duro e negarsi a ogni alleanza e compromesso, costi quel che costi, oppure accettare la fine del proprio mito fondativo e governare, scegliendo l’alleato «migliore»?”

L’imprevedibile ascesa, e il conseguente declino della formazione, merita nelle pagine dei due autori un’analisi attenta e puntuale, esattamente come quella dedicata al loro rappresentante di maggiore rilievo istituzionale, Giuseppe Conte, a capo di due governi (2018-2019 e 2019-2021).

Molta attenzione critica viene riservata anche alla rielezione del Presidente Sergio Mattarella, che con il plebiscito del 29 gennaio 2022, dopo un lungo lavoro diplomatico sotterraneo ha spazzato via tutti gli altri candidabili (Draghi, Casellati, Casini, Belloni, Cartabia, Amato), in nome di un “mero principio di autoconservazione”, per mantenere “l’unico equilibrio possibile”. Mattarella viene definito dagli autori del libro “Moroteo di stile e di contenuto, grisaglia d’inverno e d’estate, silenzioso”, e pari severi giudizi sono riservati anche a un altro vulcanico protagonista di questi anni: Matteo Renzi (il rottamatore, il royal baby), e infine al “mito impossibile di Mario Draghi” (“L’ex direttore del Tesoro è il salvatore della Patria che tutti evocano per qualsiasi ruolo istituzionale”).

I commenti che Falci e Tondelli riservano a big, comprimari e comparse del Parlamento risultano quasi imbarazzanti, nel sottolineare volubilità e volatilità di proposte e idee, nell’elenco vorticoso di manovre oscure, riciclaggi e ripescamenti di figuranti inattendibili, nell’ostentato culto dell’immagine praticato su tutti i media, intrecciandosi prima e svincolandosi subito dopo in caroselli ideologici

Agli attori principali di questa recita nazionale (farsa, commedia o tragedia) sono dedicate esplorazioni e riflessioni che non riguardano solo alleanze, tradimenti espliciti, sgambetti imprevisti, ma anche gli interventi di amici-nemici-fidanzati, di intellettuali-industriali-giornalisti-magistrati,  riportando alla memoria dei lettori episodi e figuranti dimenticati della scena politica più o meno  recente, come evidenzia il lunghissimo elenco dei nomi citati a fine volume, giustamente inghiottiti nelle sabbie mobili dell’oblio.

A conclusione di tale sconfortante e impietoso ritratto, gli autori tentano un bilancio dei problemi strutturali del nostro Paese. Problemi ereditati da un passato certo non edificante, che minacciano di incacrenirsi nel futuro: l’irrilevanza politica sullo scacchiere internazionale, la perdita progressiva di prospettiva industriale e di investimento nel tessuto produttivo, l’incapacità di attrarre capitali economici dall’estero, la criminalità organizzata, il consolidarsi delle diseguaglianze sociali e territoriali, il degrado delle periferie urbane, il costante calo demografico, l’immigrazione clandestina, le scarse risorse destinate alla sanità e all’istruzione…

Sono solo una parte delle questioni irrisolte a cui la classe politica attuale non sembra poter o voler rimediare.

 

© Riproduzione riservata          19 dicembre 2022

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FALCO

GIORGIO FALCO, LA COMPAGNIA DEL CORPO – DUE PUNTI, PALERMO 2011

In questo racconto lungo di Giorgio Falco (1967), La compagnia del corpo, due sembrano i sentimenti che affiorano dal narrato: la crudeltà e l’indifferenza. Ambientato in un paese immaginario della periferia milanese, Cortesforza, già scenario di altri racconti e romanzi dell’autore, vede come protagonisti principali due fidanzati ventenni, Alice e Diego, anonimi e banali a prima vista (simili nelle scelte/non scelte esistenziali, nel carattere apatico e nell’esibita ignoranza): in realtà animati da un rancore feroce e inespresso nei confronti dell’ambiente in cui vivono – genitori, amici, realtà urbana – e di sé stessi. Diego, poco presente e individualizzato fino alle pagine conclusive, lavora come dipendente del padre, proprietario di una ditta metalmeccanica. È frustrato, privo di ambizioni e di interessi che esulino dal sesso con la sua ragazza e dai ritrovi serali con un gruppo di sfigati. Alice è scolpita con maggiore rilievo, e non solo a causa della sua imponenza fisica: ossessionata dai suoi cento chili, soffre di bulimia dall’infanzia, famelica divoratrice delle merendine di cui suo padre è venditore per una grande azienda dolciaria. Vive con la madre in una villetta a schiera di un quartiere nuovo, spopolato e malinconico: i suoi rapporti con i genitori, separatisi subito dopo l’acquisto nella casa, sono freddi e formali. Alice passa le sue giornate a letto, a pesarsi sulla bilancia, a confrontarsi con l’amica Fede detta “Mucchietto” perché pelle e ossa, e a portare fuori la cagnolina Lucy, salvata dal canile comunale. Proprio nella descrizione del canile e del processo produttivo delle merendine di cui si nutre la ragazza, la prosa di Falco si fa particolarmente attenta e perspicace, nel sottolineare i due caratteri distintivi del racconto: la crudeltà nel trattamento degli animali e delle persone, l’indifferenza a qualsiasi scrupolo etico, a qualsiasi sfumatura di solidarietà umana.

Sono i presupposti da cui nasce l’episodio, imprevisto e terrificante, che offre una svolta alla storia. Diego e Alice trascorrono un pomeriggio domenicale nel capannone industriale del padre di lui, sorvegliato da un doberman, portandosi dietro Lucy. Dopo un amplesso svogliato, “sussultorio, amatoriale aritmico, dilettantistico”, per scherno o idiozia tentano di far accoppiare la bastardina con il doberman, quindi irritati dal continuo abbaiare di lei, la ammazzano a sprangate, appendendola a una trave dell’officina, filmandosi a vicenda col cellulare nelle sevizie, per poi gettare il corpo ridotto a poltiglia della cagnetta in un fosso. Fin qui il racconto, esposto con frasi secche e concise, prive di partecipazione emotiva, a indicare il distacco quasi disgustato dell’autore dalla vicenda. Ma ecco che nelle ultime pagine, viene riportato un verbale dei carabinieri in cui i due fidanzati sono accusati del reato di maltrattamento e uccisione di animale, sulla base di una denuncia anonima sporta da qualcuno cui era stato mostrato il video come un trofeo.

Giorgio Falco rivela in conclusione di essersi ispirato a un fatto realmente accaduto in provincia di Pordenone nel 2009: riporta i nomi dei protagonisti citati dai media internazionali e le reazioni del mondo, dapprima scandalizzate, poi disorientate, infine sbadatamente noncuranti. Crudeltà e indifferenza, appunto.

 

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https://www.sololibri.net/La-compagnia-del-corpo Falco.html     29 maggio 2018

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FANTATO

GABRIELA FANTATO, CODICE TERRESTRE – LA VITA FELICE, MILANO 2008

Un codice per interpretare la realtà, questo Codice terrestre di Gabriela Fantato: e non solo. Per penetrare il tempo, e in qualche modo, rigorosamente, delinearlo, limitarlo (“geometria” è termine ricorrente, in questi versi, insieme a perimetro, a retta…). Ma un codice decisamente terragno, fisico, ancorato alla materia, al suolo (“La terra è tutta solchi – una marcia”, “Potrei stendermi nell’erba, essere un sasso o una radice”), e anche all’acqua, incombente come minaccia, tracimazione, forza della natura (fiume, fango, palude, mare: “c’è l’acqua pronta all’inondazione”, “un’acqua che viene / e slitta, vedi s’avvicina”).
Il colore che domina è in realtà l’assenza del colore: il bianco (“Nella fatica del paesaggio resta / un bianco ostinato”), inteso forse come assenza o cancellazione, e ribadito dalla scelta di sostantivi che indicano un’incisione violenta (nelle cose, nei sentimenti, nei ricordi): “taglio”, innanzi tutto, vocabolo che troviamo più volte nella raccolta, e che la chiude con perentorietà: “Solo nel taglio esatto / a volte riposo”. Ma anche coltello, gancio, falce, chiodo; e poi crepa, solco, spigoli, colpo.
Una poesia che insiste più sul battere che sul levare (il verbo “battere” nelle sue varie coniugazioni torna otto volte!), più sull’ostinazione che sul condono, più sulla ferita che sulla guarigione. Anche l’amore è severo, non si concede leggerezza: “la tenerezza, una stanza mai aperta / insetti e anni corrono, si agitano”, “Dentro lo specchio mi chiami bambina, / mi chiami cagna e piangi”, “Non mi consolare con una minestra, / non fare la fine che ti aspetta”.

Ed è quasi sempre l’addio il momento che prevale all’interno del rapporto amoroso; la mancanza, il rimpianto, l’insufficienza. Un libro “del destino e della maturità”, lo definisce Milo De Angelis nella prefazione: senz’altro un libro scabro e sapiente, che non conosce indulgenze, in primo luogo verso l’autrice stessa, inflessibile scandaglio di se stessa: “ho visto i bordi di me”.

 

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www.sololibri.net/Codice-terrestre-Gabriela-Fantato.html   15 novembre 2016

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FANTE

JOHN FANTE, BRAVO, BURRO! – EINAUDI, TORINO 2016

Bravo, burro! è un’opera minore di John Fante, pensata per l’infanzia e pubblicata in America nel 1970. Scritta insieme al giovane sceneggiatore Rudolph Borchert, e illustrata da Marilyn Hirsch, nelle intenzioni degli autori doveva costituire il canovaccio di un progetto cinematografico mai portato a termine. Dell’iniziale struttura filmica persistono nel racconto il ritmo narrativo veloce, i dialoghi incalzanti, la plasticità delle immagini che rendono visivamente il colorito susseguirsi degli eventi. I temi e i contenuti rimangono poi quelli tipicamente fantiani: l’infanzia, la miseria, la fede religiosa, l’attenzione per la natura e gli animali, il rapporto tormentato con la figura paterna.
La storia è semplice ed edificante. C’è un ragazzino, Manuel, e c’è un asino: il loro incontro voluto dal destino trasformerà in maniera positiva non solo la loro vita, ma anche quella di altre persone e di un intero villaggio messicano. «Era quasi il crepuscolo sull’altopiano del Messico settentrionale… Il ragazzo Manuel arrancava per la strada polverosa. In una mano recava un pollo pigolante e nell’altra stringeva un sacco di farina che s’era buttato sulle spalle. Il luogo era solitario, e Manuel canticchiava, perso nei suoi pensieri».

In quel tramonto arancione, su quelle montagne brulle, Manuel assiste alla feroce lotta scoppiata tra un puma e un asinello, alla coraggiosa resistenza di quest’ultimo, e all’umiliante sconfitta dell’aggressore. Il burro, sanguinante ma fiero, segue il ragazzo nella grande hacienda in cui vive, un rancho in cui si allevano tori da combattimento. Qui John Fante introduce subito i caratteri di altri fondamentali protagonisti della vicenda: il patròn della corte agricola, don Francisco, uomo generoso e giusto, amato dai suoi dipendenti e rispettato anche dai nemici. E soprattutto Juan Cabriz, il padre di Manuel, giovane vedovo alcolizzato e inconcludente, incapace di resistere agli eventi negativi che lo travolgono nella quotidianità. «Il padre di Manuel apparve sull’uscio. Juan Cabriz era un uomo alto e robusto, la barba lunga, vestito coi suoi abiti da manovale. Sul viso s’indovinava un’ombra di disperazione, come se gl’importasse poco che quel giorno fosse quello e non un altro».

Il rapporto di vicendevole affetto e solidarietà nato tra il ragazzo e l’asino, da lui appropriatamente battezzato «Il Valiente», riuscirà a scuotere – dopo una serie di avvincenti vicissitudini – la rassegnata infelicità degli abitanti del villaggio, garantendone non solo una bastevole sussistenza economica, ma anche una ritrovata fiducia nella bontà del prossimo e nella clemente protezione divina. Soprattutto il giovane padre riuscirà a riscattare i suoi fallimenti attraverso l’esempio illuminante del figlio, riconquistando una sua dignità agli occhi dei compaesani e dello stesso Manuel.
Una storia esemplare, educativa, che sa unire aspetti umoristici e commoventi, retorici e avventurosi, sullo sfondo di un antico Messico fiabesco e crudele.

 

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www.sololibri.net/Bravo-burro-John-Fante.html              20 giugno 2016

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FATICA

OTTAVIO FATICA, VICINO ALLA DIMORA DEL SERPENTE – EINAUDI, TORINO 2019

Ottavio Fatica, nato a Perugia e tornato a vivere in Umbria dopo lunghi anni trascorsi a Roma, è considerato tra i maggiori traduttori italiani dall’inglese e dal francese. Collabora con molte case editrici, e ha curato testi classici e contemporanei (Melville, Poe, James, Kipling, London, Fitzgerald, Joyce, Tolkien, Auden, Cassian, Céline, Girard…), vincendo importanti premi nazionali. Oggi, consulente editoriale per Adelphi, insegna pratica del tradurre letteratura. Nella collana bianca di Einaudi aveva pubblicato nel 2009 un primo volume di versi, Omissioni, e ora propone questo funambolico Vicino alla dimora del serpente. Funambolico non solo perché la figura dell’acrobata e la metafora dell’equilibrismo siano ricorrenti nelle poesie, ma perché stile e temi si susseguono compositi e frammentati, poliedrici e provocatori, sempre sul fil di lama – per dirla in termini montaliani – di una soluzione prima perseguita e poi raggirata. L’illusione di una ricomposizione contenutistica e formale viene irrisa continuamente: a ragione nella quarta di copertina si fa riferimento alla poesia di Ripellino come antesignano di questa inventività ironica e spiazzante. Soprattutto sembra venir presa di mira la coerenza stilistica, poiché le sei sezioni di cui si compone il volume utilizzano timbri poetici diversi e persino discordanti.

In alcune pagine iniziali la finalità che si propone il poeta appare principalmente etica: una riflessione sconfortata sul destino dell’uomo, in bilico tra bene e male, volontà di purificazione e di espiazione da un lato, attrazione verso la colpa e la dannazione dall’altro. Il lettore si trova davanti a un continuo moto ascendente e discendente, a un innalzarsi e a un precipitare nell’abisso: la metafora dell’affondamento, del diluvio, dell’alluvione rovinosa che si abbatte e non lascia scampo, travolgendo tutto, fa da pendant al volo in un empireo sconfinato e indifferente, per nulla protettivo, in «cieli senza rete»: «l’arduo / gioco che dalla base terra / avrà l’ardire e l’ardenza / del cielo come meta», «Poi in un baleno / viene giù il Diluvio e poi / il lutulento / lento decorso, la / conta dei danni e / dei condannati», «l’universo / favo ronza e bulica / sulfureo in un via vai di fuchi / e di operai spersi / per i buchi sporchi di morchia / di materia oscura / di materia losca / del bugno».

I sostantivi utilizzati esprimono perlopiù minaccia e aggressione (squarcio, schianto, sbrago, torchio, graticola, rovi, lama, forbici, crepaccio, gabbia), inganno e sporcizia (morchia, mucillagini, catrame, crosta, ragnatela). Chi scrive avverte «tutto il peso del mondo», e come suggerisce il titolo, si riconosce Vicino alla dimora del serpente. Frequenti sono i rimandi alla Sacre Scritture, mai con intenzioni consolatorie, poiché prevale invece l’immagine demoniaca di un Lucifero spaesato, quasi vittima di se stesso più che di una divinità indecifrabile: «e io da scuro / a scuro scorribanderò / anima scalza / di balza in balza», «come / faremmo senza fuoco o morte?», «pure una sera / insieme al gregge reduce / allo speco / non mancherò al raduno / ad uno ad uno in tempo / per soffriggere».

Ma aldilà della pregnanza metafisica dei versi, si avverte in Ottavio Fatica la lusinga dell’esibizione linguistica, la giocosità della sorpresa nell’uso ossessivo delle rime e delle allitterazioni, negli enjambement imprevedibili, nella vistosa negazione della punteggiatura, nel flusso di associazioni visive e sonore, nei sapienti arcaismi e neologismi. Il gusto del grottesco lo avvicina a una poetessa da lui tradotta recentemente, Nina Cassian, che si era addirittura inventata una lingua tutta sua (lo “spargano”), con l’evidente volontà di stupire il lettore, in uno pseudo-surrealismo basato sulla fascinazione della parola recitata, canzonatoria e sarcastica: «come il roggio / in ruggine si strugge / la ragione / la vita che rifugge», «per questo quello / invoca invano invidia / inventa Tazio / o no?», «quand’è tutt’un / mondo che duole / che vuole far male / e che può (si salvi / chi può) non va più / non va proprio giù», «per entro uno sghembo pertugio / ridotto o rifugio / per tutti e anzitutto / per me sotterfugio / perché quest’assolo spergiuro / perento / che indugia al centro».

Proprio riguardo al suo apprezzatissimo “mestiere” di traduttore, paventando di non possedere parole proprie, e temendosi esiliato dalla sua stessa esistenza e lingua, scrive: «come una spia un ipocrita / un transfuga un liberto / come tutti il traduttore / lotta per avere ragione / della ragione / della ragione e lascia / il certo per l’incerto e torna / schiavo e come tutti più / di tutti muore irrassegnato». L’idea di esclusione e autoesclusione dal mondo è spesso ribadita, e riconosciuta come colpa personale e collettiva, che chiude il genere umano in un’autoreferenzialità autistica («A bordo dello scafo / non si scorge nessuno / che ami nessun altro / più di sé», «Risucchiato / ti avviti su te stesso», «c’è mondo e non / c’è modo di smentirlo / con la vita»). Tuttavia la salvezza può insperabilmente arrivare dall’istintività ingenua del mondo animale, da un abbandono più disarmato e fidente alla vivezza del sentimento amoroso, o al ricordo dell’infanzia e di luoghi cari. Così nelle ultime sezioni del libro prevalgono temi più docilmente affettivi (l’immagine di una «gattina smarrita», un «bestiario onirico» aggirantesi in boschi fiabeschi, una gara ciclistica, la memoria di Natali trascorsi, una «musichetta stenta», i fiocchi di neve, il primo amore degli undici anni), e toni che corteggiano la filastrocca, la cantilena, lo stornello, l’aforisma moraleggiante o perfino l’elegia: «Qui sotto la mia cupola / di cielo i panni stesi / indorano al tramonto / sanno d’aria / di luminosità».

Se l’esperienza della scrittura appare spesso incomunicabile («Il cieco scrive / e dovrà farsi leggere / quello che ha scritto / se altri capirà / o capiranno / le zampe d’uccelletto / sulla neve»), resta salda la vocazione all’innamoramento fugace, alla comprensione della bellezza nell’altro da sé («noi / nostalgici ostaggi / un mondo d’ansie e primule / fatto per struggerci», «Vita diletta, anima / finitima alla mia / cuore pulsante / d’intima estraneità / mi duole di tristezza / tutto il corpo»). E rimane il dovere di esprimersi comunque: «io lancio sassi / contro i vetri del cielo / così imparo / a fare sempre meglio / quello che / non si può fare e che / pure va fatto». Ottavio Fatica in questo suo libro così pieno di immagini, voci, echi letterari, sapienza meditativa, ci ricorda continuamente la nostra caducità e la nostra immortalità, corpi animaleschi e angelici come siamo: «la vita è un piede a terra / e uno al piano nobile».

 

© Riproduzione riservata                             «SoloLibri», 18 giugno 2019

 

 

 

 

 

RECENSIONI

FATICA

OTTAVIO FATICA, LOST IN TRANSLATION – ADELPHI, MILANO 2023

Nel tradurre un testo ci si perde, e si perde qualcosa (del testo stesso, e di sé nell’immersione di parole altrui). Altro si recupera, si ricrea, si offre a chi parla una lingua differente. Lost in translation, titolo ripreso dal famoso film di Sofia Coppola, è un libriccino pubblicato da Adelphi nella collana Microgrammi. L’autore è Ottavio Fatica, poeta (ha pubblicato da Einaudi Le omissioni e Vicino alla dimora del serpente) e leggendario traduttore di capolavori: Il Signore degli Anelli e Moby Dick, tra i più citati. Inoltre, traghettatore in italiano e acuto interprete di romanzieri come Kipling, London, Celine, Joyce Nabokov e poeti come Byron, Yeats, Edward Lear, Auden, Frost, Nina Cassian.

In sei brevi capitoli, “sei appuntamenti al buio con lo straniero”, Fatica ci illustra l’improba ed esaltante arte del tradurre, e il ruolo (la vocazione!) di chi la esercita. Kipling, il primo narratore a essere da lui omaggiato, è stato anche il primo a iniziarlo ai misteri della giungla e al gusto di imboscarsi nella selva intricata dei significati, dei suoni, delle allusioni, delle metafore. E di sagaci metafore si serve l’autore per introdurci alla propria competenza tecnica: come i piccoli protagonisti di Kipling (Mowgli, diviso e conteso tra due mamme, e Kim, protetto da due diverse figure paterne) anche il traduttore soffre di inquietudine e di un timoroso senso di inappartenenza, sapendosi “creatura di confine, frontaliero per indole e mestiere”, “san Cristoforo in sedicesimo” che trasporta da una sponda all’altra il carico di una parola.

Metafore diverse ma altrettanto incalzanti sono quelle utilizzate nel capitolo dedicato al Signore degli Anelli, in cui lo hobbit Sam, caricatosi Frodo sulla schiena, lo sostiene lungo l’ardua e scoscesa salita verso il monte Fato: così fa il traduttore, novello sherpa che si mette al servizio di un altro scrittore, sottoponendosi con abnegazione a ogni difficoltà interpretativa, e infine, giunto “all’agognata meta, ecco – si ferma un passo prima, un passo indietro, e lascia allo straniero il dubbio privilegio di piantare la bandiera sulla vetta”. Illuminato di riflesso, esattamente come la parrucchiera delle dive, che si entusiasma del premio loro attribuito se solo per un attimo viene inquadrata dalle telecamere la sua acconciatura.

Quella di chi traduce è quindi un’arte umile, misconosciuta, vicaria, suppletoria? Ottavio Fatica rivendica con risolutezza e orgoglio straordinarie conquiste personali. Animato dallo stupore del fanciullino di fronte al mistero racchiuso nello scrigno del “verbo”, incalzato dall’interesse dello psicanalista che penetra nei sogni del suo paziente, infervorato nella comprensione della poesia più criptica, si riconosce parimenti ermeneuta e creatore. Soprattutto per ciò che riguarda la poesia che, intraducibile per definizione – poiché prigioniera di ritmi, misure metriche, rime –, richiede una resa rigorosa e circostanziata. Poeta egli stesso nella decodificazione e nella restituzione dei poeti, “poeta del poeta”, sa che “la traduzione di una poesia è una poesia che ha in un’altra poesia la sua ragione d’essere”. “Se tradurre è masochistico, tradurre poesia in poesia è disciplina da fachiri e da contorsionisti, da aspiranti suicidi”, in quanto si deve non solo ottenere una versione il più possibile fedele, ma anche “ridestare l’eco dell’originale, la tonalità affettiva, la sostanza sonora”.

Altri interessanti argomenti sono trattati nel volumetto adelphiano: quanta empatia occorra per sintonizzarsi realmente con la produzione letteraria di uno scrittore straniero, quando un romanzo o una poesia si possano definitivamente considerare conclusi e non più modificabili o migliorabili, per quale motivo veniamo sorpresi negativamente leggendo un testo italiano tradotto in una lingua non nostra, in che misura la conoscenza e l’uso di un unico codice linguistico contribuisca a rinchiudere gli esseri umani in confini angusti e soffocanti, aumentando gli attriti e i conflitti con chi si esprime diversamente.

Ma è soprattutto l’ultimo saggio che indica quale sia il trasporto di Ottavio Fatica verso gli autori di cui si occupa. In particolare, l’amatissimo Louis Ferdinand Céline. Solo con lui, e con Artaud, ha visceralmente desiderato di immedesimarsi: “Ricordo bene, ricordo come fosse ieri che, non appena mi mettevo a leggerlo, qualcuno ecco attaccava a parlare dentro me, parlava a me, direttamente: ai nervi, ai precordi – parlava attraverso me. Sensazione esaltante, perturbante, quasi di dolore fisico e, ho il sospetto, assai pericolosa da inseguire o sobillare”. Lasciandosi trasportare dal parlottio celiniano, “sbracato, virulento, garrulo, sublime, grondante amaritudine, venato di lirismo, sotteso di pietà”, Ottavio Fatica ha rischiato spesso uno “stato di fuga irreversibile, cogente”, quello che teme o spera di raggiungere ogni traduttore appassionato: “la perdita del possesso, della disponibilità della lingua, di se stessi in fondo, lo smarrimento ultimo”.

Lost in translation, appunto.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 25 marzo 2023

 

RECENSIONI

FAULKNER

WILLIAM FAULKNER, UNA ROSA PER EMILY – ADELPHI, MILANO 1997

Tre straordinari racconti di uno dei più grandi scrittori del ‘900. Asciutti e implacabili, nella loro durezza spietata, nella severa risoluzione dell’autore di non commentare le vicende narrate, né di esprimere qualsiasi giudizio di condanna o solidarietà nei confronti dei loro protagonisti. Una scrittura ossuta, quella di William Faulkner, e insieme paradigmatica: acuta nelle metafore, prive di qualsiasi compiaciuta sbavatura; originalissima nell’aggettivazione (“parola infrequente… scontrosa demenza… decadenza ostinata e civettuola… cimitero assorto): mai scontata. E con questi incipit memorabili, fatti di una sola frase scolpita: “Jim Grant faceva il mercante di bestiame”; “Non era originaria di questa zona”. E di altrettanto micidiali conclusioni: “Poi, quasi subito, svanì”; “Quella notte Mrs. Grant morì sulla sua sedia, eretta e tutta vestita”. Ma sono soprattutto i suoi personaggi, in particolare se donne, a rimanere inchiodati nella memoria del lettore. Come se le figure femminili raccontate da Faulkner avessero l’arduo e non ricompensabile compito di mandare avanti il mondo, e questo cadesse tutto, con le sue ingiustizie e la sua violenza, sulle loro spalle. Spalle forti, tuttavia, anche se piegate e piagate da sofferenze e abusi: spalle di donne che rendono triplicato il male ricevuto. E quindi la Mrs. Grant del primo racconto (“Miss Zilphia Grant”) affronta il suo destino di donna tradita e abbandonata vendicandosi sul marito e sulla figlia incolpevole, la quale perpetuerà a sua volta la stessa feroce follia materna. In Una rosa per Emily  l’anziana protagonista, volontariamente reclusa in casa per risentito orgoglio, si fa beffe dell’intera comunità cittadina, e il suo segreto viene svelato solo dopo la sua morte. Infine in Adolescenza si narra “il periodo felice” della selvatica Juliet, “con dei compiti da assolvere e l’orgoglio per il suo corpo piatto”, e il suo amore acerbo per un romeo disorientato e innocente.

IBS, 1 marzo 2014