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FECHNER

GUSTAV T. FECHNER, IL LIBRETTO DELLA VITA DOPO LA MORTE – ADELPHI, MILANO 2014

Cosa rimane dell’uomo dopo la morte? E cos’era egli prima di nascere? Esiste solo il buio, prima e dopo la cosa contingente che chiamiamo vita, o c’è dell’altro? Ed è recuperabile un qualsiasi rapporto con i defunti, o dobbiamo rassegnarci ad averli perduti per sempre? Questo “libretto” pubblicato nel 1836, e oggi riproposto da Adelphi, tenta di tracciare alcune risposte, e lo fa con il pudore quasi incantato del suo autore, il fisico e filosofo tedesco Gustav Theodor Fechner (1801-1887). Non uno sprovveduto, questo originale personaggio spesso deriso in vita e snobbato dai posteri, se il suo nome è rimasto legato a importanti studi sulla percezione e alla legge Weber-Fechner sulla sensazione, e se per decenni fu titolare della cattedra di fisica all’Università di Lipsia. Autore di molti volumi, non solo scientifici, ma anche letterari e umoristici, fu il fondatore di una particolare scienza, la “psicofisica”, che cercava di conciliare la materia di cui siamo fatti con l’identità spirituale che caratterizza la coscienza di ognuno, ed è indistruttibile, immortale. Appassionato di botanica, Fechner era convinto che anche le piante, e tutto ciò che vive, avessero una coscienza, e l’intero cosmo fosse animato e in armonia, esplicandosi in un rapporto di bellezza e accordo con il divino. Una filosofia, la sua, che oggi potrebbe venire recuperata da qualche tendenza di pensiero new-age, e che forse può avere ancora una certa attrattiva sotto un profilo estetico-romantico. L’idea che esista un filo magico che collega ciò che respira a ciò che si è decomposto fisicamente, e che tuttavia solo per il fatto di essere esistito ha lasciato traccia di sé in uno spazio-tempo spirituale, è indubbiamente poetica e consolante: “colui la cui piccola casa, dove per lungo tempo si è aggirato, viene distrutta, se ne va lontano per sempre e comincia una nuova peregrinazione… il campo delle sue migrazioni è solo indicibilmente più ampio, le vie più libere e i punti di vista più alti…”.

IBS, 2 giugno 2014

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FELDER

ANNA FELDER, LA DISDETTA – CASAGRANDE, BELLINZONA 2002

Anna Felder (Lugano, 1937), autrice svizzera di madre italiana, ha scritto romanzi, racconti e poesie, molto apprezzati dalla critica e premiati con prestigiosi riconoscimenti.  La disdetta fu pubblicato da Einaudi nel 1974, grazie al convinto sostegno di Italo Calvino che lodava dell’autrice: “lo humor sommesso e trattenuto e continuo”, aggiungendo “Il suo modo di raccontare attraverso oggetti, quasi nature morte; o comunque organizzazioni visive dello spazio, o ‘messe in scena’ di momenti della vita quotidiana è interessante e compiuto e richiama esperienze della poesia contemporanea”.

Voce narrante del romanzo è quella di un gatto che osserva sornione, allarmato, complice o ironico il nucleo familiare con cui da molti anni condivide l’abitazione: un vecchio, il figlio e la nuora, una figlia giovane con un amante mal tollerato dalla cerchia parentale. La casa a tre piani, con un grande giardino alberato, è adiacente a un asilo gestito da suore: il gatto si aggira tra le due fatiscenti costruzioni a cui è stato imposto uno sgombero prima della inappellabile demolizione, viziato da tutti gli inquilini e anche un po’ temuto, a causa del suo occhio vigile e giudicante, con cui coglie ogni tic, debolezza e trasgressione degli esseri umani con cui viene a contatto. Il felino antropomorfizzato assurge così a coscienza rimproverante di qualsiasi avvenimento di cui venga a conoscenza.

È un gatto paziente, che sa aspettare l’evolversi delle situazioni, mentre in casa cresce l’ansia e l’agitazione per il futuro trasloco che costringerà i familiari a dividersi, o comunque a trovare una nuova e più costosa sistemazione in città. Lui mantiene le sue abitudini animalesche: caccia mosche, vermi, topi e uccellini, appostandosi con geniali strategie d’assalto nell’erba o negli angoli delle stanze. Contemporaneamente non rinuncia però a esprimere le sue ponderate opinioni sulle stranezze del nonno, sull’irrequietezza sessuale della giovane figlia, sulla pedantesca abitudinarietà del figlio e sulle isteriche lezioni di canto della nuora; commenta poi le notizie dei giornali, i concerti radiofonici, le trasformazioni architettoniche determinate dall’urbanizzazione capitalistica, il traffico e il consumismo, evidente soprattutto nell’avvicinarsi delle assillanti feste natalizie.

L’originalità del testo non risiede solo nella particolare e inusuale prospettiva dell’io narrante, e nella caratterizzazione della sua indole mansueta eppure acutamente critica e sentenziante, ma nello stile con cui Anna Felder segue i labirintici percorsi visuali e mentali del gatto: in una lingua sempre inventiva ed echeggiante, con il filo del discorso che segue quello dei pensieri, sospeso a volte e poi subito riacciuffato ed espanso, in una sintassi franta e poi elegantemente ricomposta. Di cui è interessante dare qui un piacevole esempio: “Eppure, dentro la caligine più densa, da arricciare le narici anche tra le piante aromatiche tanto era insistente l’odore di cenere senza che se ne fosse mai visto il fuoco, in mezzo a tutto quel fiato grigio venuto a stagnare chissà da dove, da che branco di bestioni che per pigrizia o testardaggine non volessero più muoversi di lì; l’ultimo o il penultimo di dicembre, voglio dire, imbavagliati ancora nell’anno vecchio, con le pupille torbide di un chiuso sonno interrotto e i polpastrelli appiccicosi per i pavimenti trascurati durante le feste natalizie, noi di razza felina si era al di là: all’addiaccio, sulla linea dell’equatore: si era oltre il calendario gregoriano”.

 

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https://www.sololibri.net/La-disdetta-Felder.html           18 febbraio 2019

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FENEON

FÉLIX FÉNÉON, ROMANZI IN TRE RIGHE – ADELPHI, MILANO 2009

Félix Fénéon (1861-1944) fu un giornalista, critico d’arte, polemista e anarchico francese, che nel 1894 venne arrestato a Parigi per l’ideazione e la partecipazione a un attentato all’Hotel Foyot. Impiegato al Ministero della Guerra, scriveva allora recensioni sulle mostre e le esposizioni cittadine, occupandosi clandestinamente di politica, in maniera sovversiva. Nel 1906 il quotidiano Matin lo incaricò di scrivere una ventina di brevissimi articoli al giorno, di circa trenta parole, in cui riassumere il senso di un avvenimento di cronaca che stimolasse la curiosità e il divertimento dei lettori, quasi fosse la trama succinta di un romanzo. Fénéon inventò una formula di successo, nei suoi millecinquecento frammenti, che coniugava insieme realtà e invenzione: una riga per l’ambientazione, una per il resoconto del fatto, e una per l’epilogo, a cui riservava sempre un aculeus sarcastico e provocatorio. Queste tre righe erano in genere dedicate a episodi di cronaca nera, ad azioni dimostrative, a intrecci sentimentali piuttosto curiosi. Abbondavano omicidi e suicidi, aneddoti surreali con risvolti comici e demenziali, che l’autore stigmatizzava sapientemente attraverso l’uso di un solo aggettivo o di una sfumatura di sussiegosa ironia. L’editore Adelphi ne ha raccolto un florilegio in questo libriccino pubblicato nel 2009:

Ieri a Rouen il signor Colombe si è ucciso con un colpo di rivoltella. Nel marzo scorso sua moglie gliene aveva sparati tre. I due erano in attesa di divorzio.
Il curato di La Compote, un paese della Savoia, era andato in montagna, da solo. Dopo essersi spogliato nudo, si è coricato sotto un faggio, ed è morto. Di aneurisma.
Nel corso delle indagini sul mistero di Luzarches, il giudice istruttore ha interrogato la detenuta Averlant: che però è pazza.
Playnet, 14 anni, di Annonay, ha morso il padre e un compagno di scuola. Due mesi fa un cane rabbioso gli aveva leccato la mano.
A Dunkerque un certo Scheid ha sparato per tre volte alla moglie senza mai riuscire a colpirla. A quel punto ha rivolto l’arma verso la suocera. Centro.
A Djiajelli una vergine di 13 anni ha ucciso con tre coltellate un suo impudico molestatore, di anni dieci.
Ieri gara con la canna nella Sévre. 1900 concorrenti hanno gettato l’amo, mentre 15.000 spettatori incitavano il pesce ad abboccare.
Odette Hautoy, di Roissy, ha tre anni. Giovane, ma non troppo per L. Marc, che di anni ne ha trenta.
Un colpo apoplettico ha steso il signor André, 75 anni, di Levallois, nei paraggi del pallino. La sua boccia rotolava ancora, e lui non c’era già più.
Perronet, di Nancy, l’ha scampata bella. Mentre rientrava a casa suo padre Arsène, saltando dalla finestra, si è sfracellato a un passo da lui.
L’ex sindaco di Cherbourg, Gosse, era nelle mani del barbiere. A un certo punto ha lanciato un grido, ed è morto. Ma il rasoio non c’entra.
Conciso, beffardo, geniale.

 

 

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www.sololibri.net/Romanzi-in-tre-righe-Feneon.html          29 settembre 2017

 

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FENOGLIO

BEPPE FENOGLIO, EPIGRAMMI – EINAUDI, TORINO 2005

L’epigramma, di cui Leopardi indicava i tratti fondamentali nell’arguzia e nella brevità, ha una tradizione millenaria nella nostra letteratura. Il termine deriva dal greco ἐπί-γράφω («scrivere sopra») e originariamente indicava la breve formula posta sulle lapidi funerarie. In età classica, i pochi versi che lo caratterizzavano si indirizzarono verso composizioni poetiche di vario genere, assumendo toni burleschi, licenziosi, celebrativi o di aspra critica civile e politica.Testimonianza fondamentale dell’epigrammatica greca fu l’Antologia Palatina, una raccolta di autori cristiani e pagani composta a Bisanzio nel X secolo. Nel mondo latino, erano stati soprattutto due i poeti a distinguersi in tali composizioni: Catullo e Marziale, più elegante il primo, decisamente aggressivo e al limite dell’osceno il secondo, che giustificava la licenziosità con cui fustigava i costumi corrotti della Roma dei Flavi, affermando hominem pagina nostra sapit («la mia pagina ha sapore di uomo»): la sua spietata satira metteva in scena, sbeffeggiandoli, vizi pubblici e privati di nobili e plebaglia, senatori e schiavi, matrone e lenoni, soldati e sacerdotesse. La tradizione classica venne recuperata nel corso dell’Umanesimo da Poliziano e Lorenzo de’ Medici, che composero epigrammi in greco e latino; durante i secoli successivi si distinsero in queste fulminee composizioni Buonarroti, Machiavelli, Ariosto, Bembo, Marino, accentuando il carattere polemico dei loro versi. Tra i letterati successivi, questo stile divenne strumento di feroce critica letteraria (ricordiamo che Foscolo definiva Monti «gran traduttor dei traduttor d’Omero»!), e nel ‘900 non si risparmiarono vicendevoli e crudeli attacchi Montale, Ungaretti, Fortini, Sereni, Giudici, Caproni, Bassani, Arpino, Calvino, Ginzburg, Flaiano, Marchesi, Pasolini, Sanguineti, Eco… Anche oggi duelli rimati e non, comici o furenti, vengono combattuti da molti signori e signore della pagina scritta, non si sa con quanto reciproco gaudio.

I più originali e imprevedibili epigrammi scritti nel dopoguerra sono tuttavia quelli firmati da Beppe Fenoglio, celebrato autore di romanzi sulla Resistenza, nato nella cittadina di Alba (1922-1963), a cui fu legato da un viscerale rapporto di amore e odio, disprezzo e totale dipendenza. Proprio nella sua Alba degli anni del dopoguerra l’autore de Il partigiano Johnny ambientò questi versi, paludandoli (se così si può dire) in toghe e calzari dell’antica Roma, utilizzando un linguaggio arcaicizzante e aulico, latinizzando i nomi dei personaggi (che diventano Clodia, Rufo, Decio, Plautina, e così via), mimetizzando automobili e interni borghesi novecenteschi tra portantine e triclini, con la finalità esplicita di stigmatizzare il modus vivendi della comunità albese.

I 144 epigrammi che Fenoglio scrisse nell’arco del 1961 rimasero inediti per molti anni, per venire poi parzialmente recuperati, dopo la sua morte precoce, da Maria Corti nell’edizione critica delle Opere del 1978, ed essere quindi pubblicati nella loro interezza da Einaudi nel 2005, con una approfondita e coltissima introduzione di Gabriele Pedullà, che li ricolloca all’interno della produzione narrativa dello scrittore piemontese, svelandone le ascendenze più o meno remote. L’intento dissacratorio e polemico di Fenoglio era quello di prendere di mira l’ipocrisia, il cinismo e l’apatia dei suoi concittadini che, concluso il periodo dei generosi slanci e delle utopie rivoluzionarie vissuto durante la lotta al nazifascismo, sembravano essere stati risucchiati nel grigiore della routine abitudinaria e sconfortante della vita in provincia, ossessionata dal sesso, dai soldi e dal miraggio del potere. «Varron tribuno ammette che la legge / Passata grazie ai voti del suo gruppo / Lede la libertà, ma leggermente. / Avant’ieri Settimio mi diceva / Riguardo alla figliola signorina: / Lucilla mia è leggermente incinta», «Quel leguleio, che vedi servire / (Levando gloria e mancia a un chierichetto), Non più tardi di ieri a una vedova / Ha tolto anche la tavola e le sedie», «Caco lenone vedi porporato? / La porpora non spregi, stimi Caco», «Ti lagni non ti fruttano i poderi. / Aulo, qual meraviglia? Ari tu il Foro».

Giustamente Gabriele Pedullà sottolinea quanto lo schermo dell’ambientazione romana sia servito a Fenoglio per esprimere tutto il suo sprezzante rifiuto verso il culto della latinità (pomposo, virile e vuoto) celebrato dalla retorica fascista. Tale riluttanza nei confronti della romanità, e quindi di un nazionalismo anche letterario, lo aveva condotto all’amore per la cultura d’oltremanica, a «una terapia intensiva di britishness», al punto da fargli scrivere direttamente in inglese sia Primavera di bellezza sia Il Partigiano Johnny, riconosciuto anche in qualità di straordinario traduttore di poesia inglese e americana. Un Marziale, il suo, risciacquato nello humor britannico, ad evitare la bolsa monumentalità della prosa del ventennio, con l’obiettivo di sferzare i costumi corrotti, ignavi e conformisti di un’italietta che aveva tradito gli ideali della Resistenza.    I vizi presi di mira dagli Epigrammi fenogliani sono quelli comuni a tante epoche e luoghi diversi: L’adulazione: «Secca hai la lingua, ma non ti daremo / Nemmeno un goccio per rifar saliva. / Aduli tu per vizio, non bisogno». L’invidia: «In mascherar l’invidia fai progressi: / Prima inverdivi come il lauro, adesso / Come l’ulivo». La cupidigia: «Dall’aurora al tramonto senza tregua / il gruzzolo ha palpato e numerato. / A notte fonda si risveglia e frigge / Per la necessità di ricontare. / Bussa da me: non gli regalerei / Appena un’oncia d’olio per lucerna?». La vanagloria: «Credete a me, Cepione con le donne / Non compisce al momento, ma compisce / L’indoman, quando a noi ne riferisce». L’avarizia: «La predica che hai fatto all’accattone / Valeva bei soldoni, per sorbirla. / Gli desti – non travidi – un quattrinello». La lascivia: «Come esperto di squillo torinesi / Getulio,almen da noi, non ha rivali. / Tutto sa e narra: le telefonate, / Gli ambienti, le bellezze, le tariffe». L’avidità: «Perdona se non faccio meraviglie, / Arrio, adeguate. Già lo prevedevo / Ai dì che fummo insieme scolaretti. / Mancavati lo stilo? Te ‘l donavo. / Mancava a me? Tre soldi ne volevi». La petulanza: «Nulla di sé mi tace; in pieno foro / Mi arresta per parlarmi dei suoi calli, / Di come vomitò la notte avanti, / Dei mestrui della moglie, e tutto questo / Perché mi stima, dice, sopra tutti». L’inerzia: «Sostiene Lentulo esser tutto vano: / Sposare, ambire, amare ed operare. / Util però ritiene il respirare», «Niente di niente si poteva dire / Avere Nonio fatto nella vita. / Ora ha ereditato. Ha fatto. Basta».

Lo scherno, il dileggio, il turpiloquio mantengono a volte il tono goliardico «dello scherzo tra compagni di classe», come scrive Pedullà, o degli avventori del bar che si danno di gomito vedendo passare uno o l’altro dei compaesani: «Hai, dicono, la bocca come il culo, / Ma di culo sei stitico, talvolta», «Tigellio d’esser calvo si dispera: / Certo, se il cranio col cul sostituisse, / In vantaggio sarebbe di capelli». Numerosi epigrammi appaiono decisamente misogini, rancorosi nei riguardi delle donne che si concedono troppo o non si concedono per niente, che tradiscono fingendo fedeltà. Spose per interesse, vedove falsamente inconsolabili, vergini pudibonde ma smaniose: «Ingiusta fama ha Licia di sgualdrina: / Non sa dire di no, semplicemente», «Serissima Licisca? Non contesto. / Si denudò, si dié supina e prona, / indi si rivestì, senza un sorriso», «A che s’aggira intorno alla palestra? / Partirono in tournée, ora fa un mese / I gladiatori. Restane l’odore», «E così se la son goduta in molti / la tua Drusa, tuissima Drusa. / Incauto Decio, troppo spesso e male / Affermavi che d’alito puzzava», «Tu invece sei per bene, estremamente: / Di te non si può dire proprio niente, / Salvo che ne patisci, Aurunculeia», «Fa’ come me, che da gran tempo tengo / Per vergini le donne che non hanno / Ancora partorito».

Eppure, tra tanta pletora di donnette e donnacce, Fenoglio recupera una figura altera e inavvicinabile, quella stessa Fulvia che avevamo amato leggendo della tormentosa passione di Milton, in Una questione privata. Eccola di nuovo, incubo e sogno, premio e condanna: «C’ero e non vidi. Stavasi in platea / Un’ignota fanciulla somigliante, / Nei sopraccigli, a Fulvia. Altro non vidi», «”Fulvia non è più qui”. Buona ragione / perché debba partirmene per dove / Fulvia mai fu?», «Se un tuo viaggio mi annunci, / Ecco sull’oceano / Un gabbiano stride / Coltello nella carne del mio amore», «Alfin ci riunivamo Fulvia ed io, / Giovani come allora, un po’ più saggi, / Ma di Fulvia apparivo assai più bello. / Morfeo non mi replichi un tal sogno».

Sempre recuperando gli stimoli offertici dall’acuta prefazione di Gabriele Pedullà, dobbiamo considerare quanto il Fenoglio degli Epigrammi abbia tratto ispirazione dall’Antologia di Spoon River di Edgar Lee Masters, di cui era stato pregevole traduttore. Ma se Masters sceglie un cimitero per rappresentare in ogni singolo epitaffio gli abitanti della stessa città, individuando nel momento della morte il disvelamento di un segreto, di una sofferenza, di una passione o di una colpa individuale, per Beppe Fenoglio è l’indole che si manifesta lungo tutta la vita privata e civile degli albesi che va presa di mira, e giudicata con ironia, indignazione o rabbia: in questo dichiarandosi vero erede dell’inclemente sogghigno di Marziale.

 

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 20 aprile 2018

 

 

 

 

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FEOLE

ILARIA FEOLE, C’ERA UNA VOLTA IN AMERICA – GREMESE, ROMA 2018

La giovane critica cinematografica Ilaria Feole (Milano1983), autrice di due monografie su Wes Anderson e Michele Soavi, e collaboratrice delle riviste Film TV e Gli spietati, ha pubblicato quest’anno per Gremese un esaustivo e interessante volume illustrato sul capolavoro di SergioLeone C’era una volta in America.

Il libro consta di un prologo riguardante le varie fasi dell’ideazione e della lavorazione del film, e di una corposa sezione che illustra e commenta in maniera minuziosa lo sviluppo narrativo, supportandone iconograficamente i momenti clou con immagini e fotogrammi significativi: a queste due parti centrali si affiancano una presentazione autobiografica dell’autrice, e in conclusione una bibliografia e una serie di valutazioni di noti recensori. Uscito nel 1984 dopo quasi vent’anni di laboriosa gestazione, nello stesso anno il film fu presentato a Cannes e a Venezia, riscuotendo tiepidi consensi, molte critiche, e scontrandosi all’inizio con un deludente insuccesso commerciale. Sergio Leone era incappato in numerose difficoltà durante la realizzazione del lavoro, sia nell’acquisizione dei diritti del libro, sia nel trovare un produttore (fu l’israeliano Arnon Milchan che coraggiosamente accettò la sfida), sia nella scelta degli sceneggiatori. Anche lo svolgimento del casting si rivelò problematico, con più di tremila attori sottoposti a provino per centodieci ruoli, e ripensamenti continui riguardo agli interpreti principali. Solo per la colonna sonora la decisione fu convinta e immediata: Ennio Morricone aveva già collaborato con lui, e in questo specifico caso approntò le musiche prima ancora dell’inizio delle riprese.

La trama si basa sul romanzo Mano armata scritto da Harry Grey, ex braccio destro di Frank Costello, mentre era in prigione a SingSing: uscito in Italia nel ’58, narrava le vicende di un gruppo di ragazzini cresciuti nel quartiere ebraico di New York, decisi ad affrancarsi dalla miseria diventando gangster negli anni del proibizionismo americano. Il regista recupera l’atmosfera di un’America scissa tra ferocia e tenerezza, nostalgia e brutalità, creando personaggi che vivono sospesi in un’eterna infanzia,  in cui una frustrante quotidianità  si confonde con la memoria di un passato mitizzato, riproponendo flashback e piani temporali che si sovrappongono indistinti. Il sogno di un riscatto sociale da raggiungere con qualsiasi mezzo, meglio se illecito e violento, esprime un’ideologia crudamente sopraffatrice, volgarmente maschilista, che utilizza omicidi, droga, contrabbando, rapine, stupri, corruzione per riabilitarsi agli occhi della classe dominante, disprezzata ma ambita e invidiata nei suoi successi e nel suo prestigio economico.

Ilaria Feole è attenta esegeta dello spirito e della mentalità dell’epoca, e abile nell’approfondire la psicologia dei personaggi principali, Noodles e Max, legati da un’amicizia morbosamente competitiva (“Cosa faresti senza di me?”, “Ho rubato la tua vita e l’ho vissuta al posto tuo”, sono alcune tra le loro battute più famose). “Due fuorilegge. Uno, Max,è un conformista; l’altro, Noodles, è un anarchico. Uno ha un solo desiderio: rientrare nei ranghi; l’altro, restare libero”, secondo le parole dello stesso regista. In particolare l’autrice esplora la psicologia di Noodles (interpretato da un eccezionale De Niro), che a differenza di Max – criminale asettico e ambizioso, smanioso di entrare nel mondo corrotto dell’alta finanza e della politica –,  rimane sentimentalmente legato alla malavita di strada, rassegnato a tradire e a essere tradito, bloccato nell’illusione di far rivivere il passato. “Noodles non è altro che un voyeur incapace di passare all’azione, un eterno spettatore, che trascorre la sua vita a guardare, aspiare, ad assistere alle altrui messe in scena: Leone sottolinea il concetto a livello tematico ed estetico”. De Niro è infatti ripreso spessissimo all’interno di cornici, gabbie, vetrine, oblò, finestre, porte, feritoie; sempre sulla soglia di qualcosa, di un atto risolutore e liberatorio, si riconosce perdente nell’amore come nella deliquenza, rifugiandosi nella violenza avvilente dello stupro o del massacro sanguinario. L’inquadratura finale, di un Noodles avvolto nei fumi dell’oppio, ambiguamente e vacuamente sorridente, sembra alludere al timore di aver sognato l’intera sua vicenda terrena, o alla consapevolezza di essere stato beffato per tutta l’esistenza, o al desiderio di libertà appagato solo dalla droga. E rimanda alla famosa risposta iniziale data all’amico Moe che gli chiedeva cosa avesse fatto neglicultimi anni, “Sono andato a letto presto”: ammissione di una rinuncia e di una sconfitta.

Numerosissimi sono gli omaggi che Leone porge al cinema americano degli anni ’30 e ’40 (Strada sbarrata, Una pallottola per Roy, Ilgrande caldo, La furia umana, I gangsters, Tempi moderni, La signora di Shangay,Duello al sole) e ad altri celebri registi di periodi successivi (OttoPreminger, Alfred Hitchcock, François Truffaut, Roman Polanski, Stanley Kubrik), citazioni che trovarono poi un opportuno e meritato pendant nelle dichiarazionic– esplicite e no ‒ di filiazione e riconoscenza verso il maestro romano di molti cineasti più giovani: Scorsese, Spielberg. Lucas, Carpenter, Cronenberg, Fincher, Cohen, Linklater, Winter, Tarantino, Wong Kar-wai…

Sergio Leone, che Jean Baudrillard definì “il primo regista post-moderno”, con C’era una volta in America ha creato un film-cult, “un’opera sterminata sul tempo perduto, sulla nostalgia e sulla negazione del sogno americano. Ma anche un teorema sul lavorio dell’immaginario cinematografico e sulla narrazione che l’America ha fatto di sé attraverso la settima arte”, secondo la lettura di Ilaria Feole.


© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 18 dicembre 2018

RECENSIONI

FERRACUTI

ANGELO FERRACUTI, LA METÀ DEL CIELO ‒ MONDADORI, MILANO 2019

Lo scrittore marchigiano Angelo Ferracuti (Fermo, 1960), autore di romanzi, racconti, saggi e reportage, è noto alla critica e al pubblico dei lettori soprattutto per il suo impegno testimoniale sul tema del lavoro e della letteratura aziendale, così poco frequentata in Italia. Con il romanzo La metà del cielo torna invece alla narrativa biografica, unendo insieme, con sensibilità priva di retorica, elementi di vita privata e collettiva, strazio personale e responsabilità sociale. La stesura del libro, durata quattordici anni, ha utilizzato la memoria come “elaborazione permanente del lutto”, nella volontà sia di fissare i ricordi, sia di superare il dolore causato dalla morte precoce della moglie Patrizia, uccisa da un cancro poco più che quarantenne.

Il volume si apre sulla telefonata della figlia minore che comunica al padre la fine attesa e temuta della mamma; da lì si dipartono fili che intrecciano insieme momenti di un passato di coppia e familiare, felici o combattuti, con vicende di cronaca italiana e mondiale. Nelle stesse giornate angosciose e convulse in cui si preparavano e celebravano le esequie (tra amici e parenti che invadevano la casa, affettuosamente solidali, costernati o confusi), le notizie trasmesse dalla televisione si susseguivano nel tragico silenzio di un’assenza. La morte di Pinochet, la strage di Erba, Superquark con i suoi servizi sull’inquinamento, scorrevano davanti agli occhi del marito impietrito, già in preda ai sensi di colpa e ai rimorsi di chiunque sopravviva a una persona amata: “Sono colpevole, mia moglie è morta. Non l’avevo uccisa veramente, però non ero riuscito a salvarla”.

La stessa ricostruzione della vicenda matrimoniale offre al protagonista continui appigli alle giustificazioni e alle recriminazioni, nel rivivere il primo incontro casuale in un teatro lombardo, quindi il corteggiamento, la convivenza e le nozze, attraverso i momenti di passione intensa e quelli di gelosia, i litigi feroci e le delusioni reciproche, il tradimento di lui con una giovane studentessa (“la mia Lolita”) e la traumatica scoperta della malattia di lei. Severo nell’elencare le proprie debolezze e i propri fallimenti (le ire improvvise, le ambizioni e le frustrazioni letterarie, l’abuso di alcol, l’inquietudine di chi si sente invecchiare), Angelo è altrettanto coinvolgente quando racconta le pagine più dolci ed emotivamente condivise della sua vita con Patrizia: i viaggi, le fotografie, la nascita delle due bambine, l’impegno politico, le letture e le canzoni (le note dei Jethro Tull, Led Zeppelin, Deep Purple, di Keith Jarrett e Ian Anderson si rincorrono con quelle del disco galeotto, Woman di John Lennon): “quando la nostra vita insieme c’era ancora e scorreva nei suoi movimenti minimi, quando eravamo giovani e immortali, e tutto era d’oro, ogni minuto, ogni battito, ogni momento di quella vita, quel vedersi all’improvviso in soggiorno di ritorno dal lavoro, dirsi semplicemente ciao”.

Patrizia nelle parole dell’autore si manifesta in tutta la sua vivace esuberanza di donna propositiva e anticonvenzionale, creando un contrasto penoso con i tre anni di calvario, raccontato puntualmente nei ricoveri ospedalieri, nelle cure chemioterapiche, nei crolli fisici e psichici. In lei (alta e robusta, dal sorriso aperto e dalle labbra sensuali; battagliera, animata da un’intelligenza strategica), era presente uno “strano contrasto di dolcezza sobria, austera, e animalità selvaggia”. Insieme, loro due avevano vissuto l’impegno politico giovanile, in una stagione di slanci generosi, di utopie e di lotta; quindi la delusione di un riflusso sociale nell’individualismo, nell’invidia economica e nella rincorsa al successo: “Patrizia, hanno vinto i barbari”.

Particolarmente taglienti e sarcastiche sono le pagine che Ferracuti dedica alla sua “piccola città di morti”, in cui vede emergere una strisciante cattiveria quando non addirittura una gratuita ostilità, nel dilagare di pettegolezzi meschini, nella totale assenza di solidarietà sociale, e in una agguerrita competizione fine a se stessa: “Si erano fatti tutti borghesi, anche gli artigiani, gli operai, gli sguatteri, i facchini, le donne delle pulizie, i carpentieri”. La delusione provocata dal tramonto di un orizzonte ideale si coniuga con le difficoltà di crescere da solo le due figlie adolescenti, di seguire i vecchi genitori artritici e arteriosclerotici, e con il desiderio di sottrarsi alle responsabilità attraverso i continui spostamenti o il bere fino allo stordimento. Fino a quando lentamente il dolore e la fatica di vivere si alleggeriscono, e un aiuto insperato arriva dalla comparsa di una nuova figura femminile, con cui riprendere in mano il timone della propria quotidianità, e riaprirsi a una rinnovata fiducia verso la vita.

 

© Riproduzione riservata    https://www.sololibri.net/La-meta-del-cielo-Ferracuti.html  11 novembre 2019

 

 

 

 

 

RECENSIONI

FERRARI

IVANO FERRARI, LA MORTA MOGLIE – EINAUDI, TORINO 2013

Versi impregnati dell’odore della morte, del suo degradante e immobile gelo, del suo imperturbabile squallore, questi di Ivano Ferrari pubblicati nella prestigiosa collezione bianca di Einaudi. Il volume si divide in due parti, scritte a distanza di trent’anni una dall’altra. La prima sezione (Le bestie imperfette) ritorna sui temi già proposti al lettore nella indimenticabile raccolta  Macello del 2004: il sacrificio cruento delle bestie nei macelli pubblici, la loro agonia, la loro ingiustificabile, orrenda e gratuita sofferenza, che tutti siamo pronti a dimenticare davanti a un sandwich al prosciutto. Eccoli qui, gli animali raccontati in versi da Ferrari: puledri uccisi appena partoriti, vermi che escono dalla carne guasta, vitelli e asini malati da scartare, veterinari impietosi, aguzzini sadici, macellai che assaggiano il sangue delle vacche o giocano con le tenie dei cavalli: «boia, squartatori / chi sgozza e chi raccoglie il sangue trippai, scuoiatori, facchini / quelli che macellano a domicilio / pellai, insaccatori e necrofori, / la classe operaia». Cosa dire ghignando alle bestie da immolare? «ricordargli che il padre / la madre / i genitori di entrambi, / i figli / i fratelli / la specie sua, / è nata / cresciuta e morta / per renderci più alti». Tenere presente però che forse «la specie ospite» siamo noi, che magari ci aspetta una sorta di contrappasso, o chissà, una vendetta a cui non siamo preparati: «Se sfondassi il muro della carne / e attaccato al gancio sorridessi / cosa direbbe chi è pagato per squartare / il timbratore di lingue / quale etichetta mi metterebbero / quanti organi scarterebbero / e il veterinario penserebbe panta rei?» Perché in un macello «l’eterno dura / al massimo un giorno», e «Più grande / del dolore è l’universo»: quindi possiamo voltarci dall’altra parte, e non pensare. Ma cosa succede quando a soffrire, a agonizzare e morire è una persona cara? Nel caso del poeta, sua moglie (La morta moglie): allora la malattia, il tumore, «i capelli radi come un angelo», le ospedalizzazioni, «la sacca dell’urina» e la casa in disordine (cibi confezionati, frigo sfornito) raccontano una disperazione lucida e senza appello. Nessuna retorica in questi versi di Ferrari («sono giorni semplici di agonia», «nella casa si raduna attesa», «sei destinata alla fluttuazione»), che rifiuta rabbiosamente sia qualsiasi consolazione fideistica, sia di rassegnarsi con umiltà. C’è rabbia, ma c’è anche consapevolezza che la morte è la conclusione naturale destinata a tutti: «Prima o poi / i luoghi scompariranno», «non c’è luogo che rimanga intero / né secolo a cui resti tempo / muore sta morendo la materia». E finire è una cosa crudele e semplice, a cui tuttavia non sappiamo arrenderci: «Entrare nel tuo sguardo obliquo / senza sentire né anima né fosforo divino / ma solo la punta fredda delle ossa e la pelle / arresa al tuo profilo». La scrittura di Ferrari si offre nella sua franca durezza, scabra e priva di concessioni a giochi linguistici; «spesse volte la poesia accumula polvere», è ridondante e inutile, elegante e sciocca. Non è il caso di questi versi.

«Poesia» n. 287, novembre 2013

RECENSIONI

FERRARI

EMANUELE FERRARI, ASCOLTARE IL SILENZIO – MIMESIS, MILANO 2013

Secondo il pianista e musicologo Emanuele Ferrari (Milano,1965), il silenzio è un elemento cruciale e imprescindibile di qualsiasi creazione ed esecuzione musicale. Nel breve saggio pubblicato da Mimesis, l’autore afferma che «la musica è in rapporto costante col silenzio: anche quando non è materialmente presente esso agisce come sfondo, come rimando implicito, come dimensione di senso. Tra i due elementi esiste un’intera gamma di relazioni che vanno dall’evocazione al rimando implicito, dall’allusione al comando».

Nella prima parte del suo scritto, Ferrari invita il lettore all’ascolto attento di diverse atmosfere musicali, confrontando un Notturno di Chopin con una Fantasia di Bach: la poetica emozionale e interiore del primo con «lo stupefacente vortice di forme sonore» del Cantor di Lipsia. E ancora di Bach sottolinea «il silenzio evocato» in un clima «di intensa, quieta devozione ed elevazione spirituale» nel corale Vieni ora, salvatore dei pagani, o l’ascetismo di fondo espresso dalla Prima Sonata in sol minore per violino solo, in cui la musica esprime «il fluire del pensiero nel silenzio». E sempre in Bach, nella Passione secondo Matteo, mette in luce il senso di abbandono reso evidente dal tacere di Gesù interrogato da Pilato, o dal silenzio che segue il suo grido “Eli, Eli” sulla croce. In una prosa appassionata ma mai pedantesca, Ferrari ci guida a riflettere sul silenzio squarciato, lacerato dalle fanfare in Mahler, che poi si inabissa in «una melodia struggente e carica di nostalgia». O sulla «memoria del silenzio» rievocata dalla musica nell’apostrofe straziata della Elizabeth wagneriana nel Tannhauser. E ancora sulla diversità di interpretazione che grandi pianisti danno alle pause in Beethoven, nella ricerca di «un equilibrio quasi utopico fra pieno e vuoto, transitorietà e permanenza». Una guida preziosa e competente per chi voglia lasciarsi penetrare dalla musica anche nelle sue sospensioni, rarefazioni, attese.

 

«Accademia del Silenzio», 22 novembre 2013

RECENSIONI

FERRARIO DENNA

MARISA FERRARIO DENNA, RITRATTI IN CONTROCANTO – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2011

Un’architettura rigorosa, meditata, in cui racchiudere il destino e l’arte di trenta scrittrici e di venti pittrici, e la memoria di dieci donne appartenenti alla mitologia e alla letteratura classica.
E’ questa la scelta coraggiosa ed estranea alle mode culturali attuali di Marisa Ferrario Denna, che così ha deciso di rendere omaggio a figure femminili eccezionali della storia mondiale.
Quindi, un volume che si divide in due parti, Scrivere  e  Dipingere, aperto e chiuso da due composizioni che fungono da prologo ed epilogo. La sezione Scrivere presenta trenta poetesse o narratrici, a partire da Anna Maria Ortese, scomparsa nel 1998, per risalire alla più antica, la cinquecentesca Isabella Di Morra. Ad esse seguono le poesie dedicate a dieci eroine classiche, da Ipazia a Penelope, passando per Medea e Circe. Nella seconda parte del libro, Dipingere, si percorre il cammino inverso, partendo dalla figura più antica (Sofonisba Anguissola), per terminare esemplarmente con una donna che racchiude in sé diversi ruoli e talenti: Lalla Romano, scrittrice e pittrice, moglie e madre.
A ciascuno di questi personaggi femminili, Marisa Ferrario Denna dedica due poesie, la prima delle quali è un vero e proprio ritratto in versi, in cui si tratteggia l’esistenza della protagonista nei suoi snodi essenziali: famiglia, ambizioni, amori, solitudini, malattie, violenze, morte. Talora tra le righe affiorano addirittura i titoli dei libri scritti , come nel caso dell’Ortese, o si allude alle opere più conosciute. A questa poesia introduttiva, che presenta nei tratti essenziali la figura dell’artista, ed è scritta a volte in prima persona ( in una sorta di autobiografia sovrapposta, di elezione), ma per lo più è rivolta a un tu fraterno, corrisponde in controcanto una seconda poesia, più breve, spesso epigrammatica, in cui l’autrice offre il suo ammirato o impietosito, solidale o consapevolmente amareggiato, omaggio alla donna e all’artista raccontata.
La partecipazione della poetessa è sempre vivissima e empatica, di complice sorellanza e intensa adesione intellettuale: non c’è mai rancore femminista, ma una consapevolezza fiera della dignità del lavoro artistico delle donne, insieme alla constatazione desolata di quanto questa fatica dello scrivere e del dipingere sia stata e sia tuttora spesso osteggiata o sottovalutata dall’ambiente familiare e culturale circostante. E allora la denuncia può essere aspra, il dolore causato dall’incomprensione dei più si fa acuto e risentito: «oh, Sylvia, fissata per sempre/ con gli occhi abbassati,/ in quanti ruoli, dimmi,/ in quanti ruoli furono/ i tuoi anni più dolci così devastati?»

L’elenco delle sofferenze patite da queste scrittrici si esemplifica spesso in percorsi di vita quanto mai tortuosi, sofferti, che sfociano in comportamenti autodistruttivi, in malattie feroci, in suicidi. Quando non addirittura, come nel caso di Isabella Di Morra, nell’uccisione da parte dei parenti.
Marisa Ferrario Denna riesce comunque a decantare ogni violenza, anche la descrizione del più ottuso sopruso, in una scrittura melodiosa, quasi cantata, che fa tesoro di una tradizione millenaria, scegliendo sempre una struttura metrica collaudata, utilizzando endecasillabi e novenari , quartine e sonetti che la ancorano alla norma letteraria e insieme le permettono audaci innovazioni stilistiche.
E’ in questa tonalità discreta e affabile che nascono i versi più abbandonati e lievi, quasi che l’autrice chieda alle sue eroine una dichiarazione affettuosa di amicizia, una preghiera di assistenza e ispirazione, come nella poesia dedicata a Anna Achmatova: «Sei arrivata, amica mia cara, / vieni, beviamoci un tè. / Possiamo parlare del tempo…». Esiste, in chi scrive queste poesie, una pacata e sicura fiducia nella parola poetica, nella sua purezza e gratuità: l’autrice sembra ottimisticamente certa della verità cui può giungere l’arte, nella sua ricerca dell’eterno: «C’è solo il poeta a vincere / il tempo e lo spazio».
E se nell’artista donna può sussistere un timore più accentuato dell’esposizione e del giudizio altrui, che la spinge a chiudersi in se stessa e a rinunciare anche al suo scampolo di gloria («E’ qui che sta la vita rannicchiata. / Al cuore concentrato dentro il corpo / la mente s’introverte. Si rinserra»; «Parole strappo nel tessuto / di un urlo, per anni, sottaciuto»), se è vera quindi questa esitazione femminile nell’offrire al mondo la propria arte, è d’altra parte reale anche un’orgogliosa consapevolezza della propria irrinunciabile singolarità, della fierezza della propria voce. E questo si avverte di più nelle poesie dedicate alle pittrici, quasi che lì il segno sulla carta possa esprimere maggiormente una sua incisiva peculiarità ( «è nella forza del colore / nella potenza dell’ombra e della luce / che ho riposto di me memoria»). Ancora di più si sente questa convinta considerazione di sé nelle dieci poesie dedicate alle figure classiche della storia antica, che non nascondono la loro appassionata e pervicace appartenenza alla loro realtà femminile di amanti, madri, figlie, sorelle, sacerdotesse, filosofe.
E proprio tra questi versi dedicati alla classicità, ne troviamo due che ben definiscono qual è il destino particolare dell’essere donna. «Sorgo e tramonto; e in questo divenire / vado tracciando il cerchio della vita». Legata a doppio filo al suo ciclo biologico, la donna artista se ne sa districare con sofferenza e purissima ansia di libertà: Marisa Ferrario Denna lo racconta con intenerita e ammirata partecipazione.

 

«Leggendaria» n.99, marzo 2013

RECENSIONI

FERRARIO DENNA

FERRARIO DENNA, MAL DI LUNA – BOOK, FERRARA 1996

Se esiste una specificità femminile della poesia, se esiste cioè una poesia al femminile, tale è quanto altra mai la poesia di Marisa Ferrario Denna, particolarmente in questo suo ultimo volume di versi, a partire già dal titolo (Mal di luna, Book Editore). “Mal di luna” così come si dice mal di testa, o mal di mare: un male fisico, patito nel corpo e insieme cerebrale, di pensiero, proprio per l’accezione filosofica, la valenza mitica – ed essenzialmente muliebre – che ha il nostro pianeta. Alla fonte e alla foce questi versi sembrano destinati soprattutto a un pubblico di donne, perché in massima parte dalle donne ispirati e ad esse dedicati. Si tratta infatti in gran parte di versi d’occasione, scritti in omaggio ad amiche o parenti, o su committenza per antologie o ancora su richiesta per avvenimenti particolari, non estemporanei ma giustificati da una loro necessità e impellenza. Sotteso e aleggiante su di essi è un concreto sentimento di complicità, di sorellanza, verso l’altra metà del cielo, sia essa incarnata in nomi e facce conosciute (Rosalba: «corre un nastro di seta fra di noi»), o riferito a un vasto e antico mondo femminile, fatto di gesti che hanno la sacralità del rito, la gravità della tradizione («col mestolo alla mano sul balcone / s’affacciano le donne a respirare. / E intanto danno l’acqua a una piantina / o ritirano l’ultimo bucato/ ancora steso lungo la ringhiera»). Le donne, quindi, come argomento principale della raccolta poetica: donne della mitologia o della letteratura antica. Marisa Ferrario Denna mostra tutta la sua profonda e acuta sensibilità nel raccontare «l’amore quieto e rassegnato di Penelope», «il dio che infuria dentro il corpo» di Cassandra, le condanne dei destini di Elena e Didone, gli inganni della parole di Circe, la colpa imperdonabile, ma assetata d’amore, di Giocasta. Sono gli uomini, qui, in queste storie tragiche e grandi, ad apparire comparse insipide e incapaci di assumersi responsabilità, a essere figure accessorie, di passaggio. E infatti “passaggi” è intitolata la sezione dedicata ad alcune figure maschili: il bambino picchiato, il viaggiatore addormentato, il sensuale cameriere spagnolo, il vanesio seduttore insistente, il conferenziere parolaio. L’unico uomo ad avere consistenza e spessore umano è il padre della poetessa, morto e recuperato nella morte, dopo dissidi e incomprensioni che hanno divaricato le loro esistenze: «Ma mi è rimasto dentro un urlo cupo / un gesto di ribelle disatteso, / un conto in sospeso da saldare, / con la memoria e i fantasmi del dolore». Altri versi appartengono poi all’area privata e nostalgica del passato, dell’infanzia, della vita nelle case, nelle strade e paesaggi di provincia, e sono tra i più felici della Ferrario Denna, tra i più spontanei e sorgivi, perché l’autrice sembra avere un suo segno distintivo nella capacità di recuperare dalle nebbie del ricordo un presente concretissimo e d salvezza, cui potersi aggrappare per andare avanti. Ieri che vivifica l’oggi, morte che dà senso alla vita. Le paure, le gioie, i sogni e i miti del passato, privato e collettivo, sono la realtà vera, quella che dà significato al quotidiano, forse al futuro: «L’Ade non è l’esilio/ che ci aspetta/ ma il bosco che ci spaventò – bambini». Oppure: «Non hanno storia quelli come noi, / vissuti dentro l’isola dei sogni, / fuori del tempo, contro il quotidiano, / legati solo a un filo di memoria». Ecco, quindi, l’astoricità di questa poesia, la sua indifferenza all’attualità, il suo nutrirsi di sogno, che ne segnano il pregio e il limite. L’atemporalità della scrittura viene ribadita anche formalmente, dalle scelte stilistiche dell’autrice, tutte nel solco aureo della nostra migliore tradizione, da Pascoli a Gozzano, da Montale e Giudici, poeti molto amati e recuperabili, come sostrato di lettura e insegnamento, nell’opera di Marisa Ferrario Denna. La quale si affida a una scelta metrica facile e difficile, quella di un cantabilissimo endecasillabo, a volte inframezzato da settenari, lontana comunque dalla prosaicità narrativa e da ogni sperimentazione. Ma la cifra peculiare di questa poesia è l’incanto elegiaco nella forma, il mondo degli affetti e della memoria femminile nei contenuti: mai titolo di una raccolta poetica è stato più appropriato.

 

«Steve» n. 15, autunno 1996