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RECENSIONI

FERRERO

ERNESTO FERRERO, STORIA DI QUIRINA – EINAUDI, TORINO 2014

Una vedova ultraottantenne, abitudinaria e un po’ maniaca come tutti gli anziani, laureata in lettere antiche e appassionata di citazioni latine con cui infarcisce le sue scarse conversazioni quotidiane, vive la sua serena e dignitosa esistenza di pensionata in un paesino delle montagne lombarde. Solida e robusta come le vacche della razza bruna alpina che pascolano nella sua zona, esiste senza dare fastidio agli altri. «Era orgogliosa. La solitudine non le pesava, e anzi le sembrava una condizione privilegiata». Ha un nome antico, romano, come tutti i membri della sua rispettabile famiglia borghese: Quirina. Sua unica passione è il giardino, più umilmente definito orto, in cui coltiva rose, ortensie, pomodori e le amate zucchine: cura il suo verde con la stessa compita dedizione rivolta alla sua inappuntabile casetta. «Perché all’ordine Quirina teneva moltissimo, anche in giardino. Lo considerava il perfetto equivalente di una disciplina mentale e morale…doveva essere l’emblema di una sorta di misura, di armonia cosmica…». Ma ecco che un bel giorno l’universo decoroso, disciplinato e monotono dell’anziana viene sconvolto dalle scorribande ipogee di una talpa, che con le sue gallerie sotterranee e collinette di terreno in superficie le deturpa l’orto («L’abominio. L’intollerabile offesa.»). Inizia così una strenua guerra di Quirina contro l’ospite indesiderato: cerca alleati in paese e in famiglia, studia rimedi, ricorre a erbe velenose, acqua, gas, rumori, vibrazioni, colpi di roncola, trappole, gatti nevrotici, spicchi d’aglio e vento per debellare la «trivellatrice invisibile». Che tuttavia resiste, e continua a sconciarle l’orticello. Alla fine, Quirina accetta l’antagonista come una sorta di alter-ego, oppure una metafora del potere subdolo e vessatorio, o ancora come espressione della sana vitalità della natura. Nell’economia universale, e nell’elegante scrittura di Ernesto Ferrero, c’è posto per tutti: vecchie, talpe e buchi nell’orto.

 

«L’Immaginazione»» n.285, gennaio 2015

RECENSIONI

FERRI

GIULIANA FERRI, UN QUARTO DI DONNA – ELLIOT, ROMA 2017

Giuliana Ferri (1923-1975), romana, giornalista politica, attivista del PCI, pubblicò questo suo unico romanzo un anno prima di morire prematuramente. È la storia di una donna che, negli anni 70, alle prese con i doveri di moglie-madre-lavoratrice e con quelli altrettanto impegnativi di militante comunista, vive una sua personale e pubblica paura di sconfitta, al punto da non sentirsi mai del tutto completa e realizzata. Un quarto di donna, insomma, una persona che vorrebbe recuperare, e teme di non riuscirci, la sua interezza.

I quattordici capitoli in cui si divide la narrazione sono scritti con uno stile quasi giornalistico (l’autrice era redattrice de L’Unità), preciso, incalzante, sorretto da un’evidente intenzione esplicativa e definitoria, tesa a dire tutto senza velleità di strategia letteraria, pur nell’accuratezza elegante del periodare. I temi sono quelli dello scavo interiore e dell’esame di coscienza politico: era il periodo dell’interesse collettivo per la psicanalisi, della nascente consapevolezza femminista, delle lotte popolari per i diritti civili, ma anche delle prese di posizione schierate, doverosamente condivise con la collettività.

Come racchiusi in una coerente cornice, i capitoli vengono titolati con un unico termine: Ritorno, Aborto, Viaggio, Lei, Incontro… A partire dal primo (“Risveglio”), che narra del faticoso inizio di giornata nell’appartamento in disordine, con i due bambini lamentosi, la colazione da preparare, i vari appuntamenti da ricontrollare: «Il mio globo mi piace, anzi lo amo e lo riamo continuamente. L’ho voluto così, pulito, scarno, abbondante di valori, inzeppato di principi, cresciuto nel suo tempo, pieno di buone intenzioni, frettoloso». Per finire con l’ultimo brano (“Separati”), che sancisce il divorzio dal marito, la fine di un’abitudine amata ma ormai logora e disseccata: «Penso ai suoi gusti che non hanno mai trovato spazio nei miei, alla quiete che non gli ho dato: i risvegli pacati, lenti come una passeggiata, la vita addomesticata di premure, la stupidità delle ore di riposo, a tutte quelle cose che ho sempre rifiutato cercando disperatamente qualche altra cosa».

In mezzo c’è l’esistenza comune, in quegli anni, a molte altre coppie e a molte altre famiglie dell’Italia borghese, colta, di sinistra, efficiente e scontenta di sé. C’è una relazione extra-coniugale di lui e l’avventura di una notte di lei con un vecchio compagno di studi, le serate nei salotti intellettuali romani, i film e i libri, le discussioni politiche e i pettegolezzi dalla parrucchiera, la sessualità matrimoniale di routine, un aborto clandestino poco sofferto e partecipato da entrambi, le bollette scadute e la domestica assillante. C’è soprattutto il confronto continuo e appesantito dai sensi di colpa con le proprie utopie giovanili, il desiderio frustrato di un’intensità di rapporto coniugale che si manifesta invece annacquato e abitudinario, l’interrogarsi reciproco sul ruolo genitoriale, il ricordo dell’impegno antifascista ormai diluito in fiacchi dibattiti parlamentari. E la stanchezza della protagonista, sempre in attesa di conferme, di approvazione, di solidarietà: «Ho bisogno che qualcuno si avvicini e mi dica che sono una gran brava persona».

Il volume è introdotto da un’intelligente prefazione di Angela Scarparo.

 

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www.sololibri.net/Un-quarto-di-donna-Giuliana-Ferri.html       13 marzo 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

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FERRONI

FERNANDO FERRONI, LA SCIENZA TRA VERITA’ E BALLE – CASTELVECCHI, ROMA 2017

Il Presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, Fernando Ferroni (Roma, 1952), professore ordinario presso l’Università Sapienza di Roma, ha pubblicato per Castelvecchi un intrigante libriccino, “La scienza tra verità e balle”, che in dodici smilzi capitoli ci illustra alcuni tra i maggiori svarioni presi da scienza e scienziati nel corso della storia millenaria dell’umanità. Non solo errori involontari e inconsapevoli, non solo equivoci o inciampi, ma anche inganni, frodi, imbrogli veri e propri.
Come quello che nell’88 fece sussultare la comunità scientifica mondiale, lasciando sgomenti medici, teologi e filosofi, ma galvanizzando gli omeopati e gli scrittori di fantascienza, quando Jacques Benveniste pubblicò su Nature uno studio sulla memoria dell’acqua. Più recentemente, un giovane ricercatore, Jan Hendrik Schön, affermò di aver costruito un transistor privo di silicio, avviandosi così a una folgorante carriera accademica, prima di essere smascherato e denunciato.
Più giustificabili gli errori degli antichi, da Aristotele a Tolomeo, dovuti a una visione antropocentrica del cosmo o all’eccessiva autoreferenzialità del proprio sapere. Nell’800 il famoso astronomo Giovanni Schiaparelli ipotizzò la presenza di vita organica su Marte, e anche Enrico Fermi, geniale fisico italiano, vinse il Nobel grazie a un’intuizione rivelatasi poi falsa.
Due straordinarie scienziate, Ida Noddack e Lise Meitner, produssero ricerche eccezionali, ma ignorate probabilmente perché partorite da cervelli femminili.

Gli errori nella scienza derivano da molteplici fattori: mancanza di metodo nella sperimentazione o nella verifica dei risultati, problemi di strumentazione, pregiudizi ideologici, timori politici. Quando non si tratti addirittura di frodi e imposture dettate da interessi economici, come nel recente caso del metodo Stamina, che ha illuso e ingannato centinaia di malati.
Ma, come scrisse Jules Verne, “la scienza è fatta di sbagli che è utile commettere, perché a poco a poco ci conducono alla verità”.

 

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www.sololibri.net/scienza-verita-balle-Ferroni.html;   17 marzo 2017

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FERRONI

GIULIO FERRONI, LA SOLITUDINE DEL CRITICO – SALERNO, ROMA 2019

“Siamo nel tempo della moltiplicazione, della pluralità, dell’eccesso: costipazione degli oggetti, delle informazioni, dell’esperienza, delle possibilità, delle lacerazioni, della comunicazione”. Così inizia La solitudine del critico, pamphlet che Giulio Ferroni, Professore Emerito di Letteratura Italiana all’Università La Sapienza di Roma, ha dedicato ai processi della critica letteraria degli ultimi decenni. Anni troppo pieni di tutto, quelli in cui ci troviamo a vivere, quindi anche di libri, di linguaggi e teorie interpretative diverse.

La figura del critico letterario, che in passato godeva di un notevole prestigio, facendo pesare le sue scelte e i suoi giudizi nelle sedi deputate (case editrici, riviste, quotidiani, corsi universitari, dibattiti nei media) e aspirando al ruolo di maître à penser anche in ambito etico, filosofico e politico, si vede oggi privata di autorità da parte delle istituzioni, e di credibilità da parte del pubblico dei lettori. Tale mortificante esautorazione è forse derivata sia dal cambiamento dei metodi comunicativi, (dominati dalla rete e dai media), sia dalla caduta dei modelli umanistici, sia da due opposte tendenze affioranti nella critica contemporanea: l’arroccamento in discipline specifiche da un lato, il dilagare in campi eterogenei e onnicomprensivi dall’altro, in una sorta di “espansione tuttologica”. Attualmente prevale poi la moda di sottoporre qualsiasi prodotto editoriale a statistiche, classifiche, sondaggi, valutazioni tramite “like” e stelline, per cui l’intellettuale che pure aspiri a impegnarsi in una seria ermeneutica del testo, si vede assoggettato alle esigenze del mercato, e finisce per ridursi a megafono pubblicitario.

L’excursus che Ferroni offre ai lettori sugli sviluppi della critica, prende l’avvio dagli anni ’60, anni di grandi trasformazioni sociali, di apertura democratica e di impegno politico: comparvero allora le tesi innovative e spesso contrastanti di Goldmann, Girard, Adorno, Jakobson, Todorov, Bachtin. Nel decennio successivo furono lo strutturalismo e la semiologia (Barthes e Derrida) a imporre un nuovo approccio alle opere, chiamando in causa tutte le scienze umane: filosofia, antropologia, sociologia, psicanalisi. In seguito, fu il decostruzionismo di Deleuze-Guattari a suggerire modalità alternative di avvicinamento al testo.

In Italia, dall’interpretazione tradizionale e storicizzata di Sapegno e Binni, si passò a quella militante di Debenedetti a quella psicanalitica di Orlando, quindi alla semiologia di Corti e Segre. Una serie successiva di mode culturali e di letture particolari dissezionanti forma e contenuto secondo ottiche diverse, misero in crisi l’idea di letteratura intesa come “senso integrale del mondo”, nelle sue tensioni, aspirazioni, angosce. Ne è derivata “una fase di disorientamento e di anarchia”, tra ibridismi di vario genere, complicata dalla crisi economica e politica, che ha allontanato i lettori dal reale rapporto con il libro, espunto da ogni orizzonte esistenziale e storico.  Così nell’ultimo ventennio la passione per la teoria è andata scemando, e con essa l’illusione della scientificità della critica, soprattutto per il repentino stravolgimento dei metodi di conoscenza imposti da internet e dai social. La volontà di ridare significato e sostanza all’esperienza della lettura, aldilà dei tecnicismi esasperati dello strutturalismo, fu espressa dalle voci discordanti di Cases, Lavagetto, Berardinelli, Di Girolamo, Brioschi, Bertoni.

A circoscrivere in un cono d’ombra la critica letteraria sono state negli ultimi decenni altre discipline di orientamento: la linguistica, in primis, con la sua pretesa di ricondurre a puri sistemi funzionali e formali ogni struttura comunicativa. Anche la proliferazione dei cultural studies, intenti a promuovere l’espressione di tutte le minoranze (sociali, di razza e di genere), e di qualsiasi forma espressiva, indipendentemente dal suo effettivo rilievo culturale, ha contribuito a ridimensionare l’attività interpretativa del critico. Insieme alle neuroscienze ‒ che riducono la creatività artistica e l’esperienza estetica a meccanismi cerebrali ‒, alla geocritica e all’ecocritica, più sensibili all’habitat in cui le opere vengono prodotte che alle loro connotazioni stilistiche.

Quale la ricetta suggerita da Giulio Ferroni per ridare fiato a una disciplina che molti considerano ormai agonizzante, se non definitivamente morta? La indica già il sottotitolo del libro: “leggere, riflettere, resistere”. Leggere perché i libri “ci parlano di ciò che non abbiamo”, aiutandoci a mitigare le nostre ansie e a inseguire i nostri desideri. Riflettere “sull’inafferrabile oggettività del mondo”, che essendo altro da noi chiede di essere capito e interpretato. Resistere all’omologazione imposta dal mercato, che ci vorrebbe assuefatti alla comunicazione dominante, alla pubblicità ipnotica, all’impero “del pensiero unico economico e computazionale”. In questo compito di sensibilizzazione il critico letterario non deve essere lasciato solo.

 

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www.sololibri.net/La-solitudine-del-critico-Ferroni.html             9 dicembre 2019

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FINI

MASSIMO FINI, CATILINA – MARSILIO, VENEZIA 2016

Chi è stato davvero Catilina? Quali gli scopi della sua famosa congiura? In questo volume Massimo Fini ci offre una delle sue originali biografie, autentiche rivisitazioni critiche di personaggi troppo facilmente liquidati dalla storiografia tradizionale. A chiunque abbia studiato, al liceo o all’università, storia romana, il nome di Catilina riporta subito alla mente l’apostrofe con cui Cicerone gli si rivolse dagli scranni del senato: «Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?». Questo recente saggio di Massimo Fini, pubblicato da Marsilio, ci offre l’opportunità di conoscere più a fondo – e in pagine vivaci, non boriosamente accademiche -questo personaggio, che l’autore introduce subito come autore della «prima, anche se fallita, rivoluzione della Storia». Letterariamente, sono stati lo stesso Cicerone, e con lui Sallustio, a ragguagliarci sulla vita e sulle imprese di Catilina; servendosi delle loro testimonianze, e di quelle più frammentarie di Plutarco, Svetonio, Dione Cassio, Fini ragguaglia il lettore sugli essenziali dati biografici del suo protagonista.

Nato a Roma nel 108 a.C. da una famiglia patrizia, era «alto, asciutto, atletico, nevrile», dotato di «una spavalderia, un’audacia, un coraggio spinti fino alla temerarietà»; aveva fama di grande seduttore, e venne addirittura accusato di aver violato una Vestale, tale Fabia, cognata di Cicerone, che forse proprio da allora gli giurò inimicizia eterna. Fu combattente fedele accanto a Lucio Silla, e tra i trenta e i quarant’anni percorse tutto il cursus honorum, da questore a edile a pretore, senza approfittare di particolari appoggi politici o finanziari. Tentò tre volte di venire eletto console, tra il 66 e il 64 a.C., ma venne sempre fermato dalla feroce ostilità dell’oligarchia aristocratica, che riuscì a impedire la sua nomina attraverso escamotages legali e processi truffaldini messi in atto non solo dal nemico di sempre, Cicerone (diversissimo da lui per «temperamento, abitudini, attitudini, carattere, concezione della vita»), ma anche da falsi amici e alleati ingannevoli, quali Crasso e Giulio Cesare.

Al primo di questi oppositori, Massimo Fini dedica un divertente secondo capitolo, senza nascondere l’antipatia quasi nauseata che gli provoca la figura dell’oratore («politicante di terz’ordine, maneggione e intrigante… di una viltà, fisica e morale, patologica e caricaturale… Per il carattere ameboide, incerto, molle, svirilizzato Cicerone assomiglia ad Aldo Moro, è una specie di protodemocristiano. Per vanità e trombonaggine ricorda invece Spadolini, ma uno Spadolini disonesto e moralmente corrotto»). Crasso e Cesare vengono invece definiti «due opportunisti», che dapprima illusero Catilina del loro appoggio, per poi negarglielo nel momento cruciale del suo attacco al potere, spaventati dal radicalismo rivoluzionario del suo programma sociale. Che si delineava in alcuni punti focali: fine dei privilegi aristocratici, riforma istituzionale in senso democratico, legge agraria, cancellazione parziale dei debiti. Un programma decisamente rivoluzionario, che raccoglieva gli entusiasmi della plebe (soprattutto quella rurale, impoverita dai latifondisti), degli artigiani impoveriti e indebitati, degli schiavi, delle donne escluse dai diritti politici, dei giovani galvanizzati dall’idea di un riscatto economico e sociale dei ceti emarginati e dal richiamo ai nobili valori di integrità morale dell’antica Roma.

Gli ultimi capitoli del volume di Massimo Fini sono dedicati ai mesi febbrili e tragici del 63 a.C., tra settembre e dicembre, in cui Catilina decise di organizzare la sua congiura contro lo Stato passando all’azione violenta, tra assassini programmati e falliti, insurrezioni mancate, tradimenti, lettere anonime, denunce, arresti, esecuzioni capitali di alcuni congiurati: avvenimenti tutti commentati dalle quattro famose arringhe ciceroniane in Senato. Fino alla conclusione inevitabile e sanguinosa, con la battaglia combattuta nei pressi di Pistoia tra i 3000 ribelli e i 18000 dell’esercito romano, sigillata dalla morte eroica di Catilina, a cui anche l’ostile Sallustio rese omaggio con queste parole: «Venne trovato lungi dai suoi fra i cadaveri dei nemici; respirava ancora un poco ma gli si leggeva sul volto la stessa espressione di indomita fierezza che aveva da vivo».

 

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www.sololibri.net/Catilina-Massimo-Fini-145826.html    21 gennaio 2017

 

 

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FINZI

GILBERTO FINZI, DIARIO DEL GIORNO PRIMA – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2012

Gilberto Finzi ha dedicato lunghi e operosi anni alla letteratura in qualità di docente, critico e consulente editoriale, distinguendosi inoltre in modo particolare come poeta impegnato nella ricerca linguistica e sperimentale: ha pubblicato numerosi volumi di versi con le maggiori case editrici italiane, è stato tradotto all’estero, antologizzato, premiato, discusso e celebrato.
Raggiunta la ragguardevole età degli ottantacinque anni, ha deciso di dedicare a se stesso l’omaggio di una pubblicazione, presso le eleganti edizioni Nomos, di una sessantina di poesie scritte nell’arco di pochi mesi, «versi insoliti e inattesi… poesie non liriche, umane, forse irripetibili», tutte incardinate intorno al tema, sofferto e desolante, della senilità: l’età «monstre».
Ovviamente, il fil rouge che lega la maggior parte dei versi (che l’autore stesso definisce, forse con eccessiva severità autocritica, «un insolito mix di metafisica, ricordo, fatti qualunque, sogni… il tutto condito da un linguaggio prosastico e ben poco lirico») è quello della memoria («ieri o ierlaltro, / un secolo addietro»»). Quindi la nativa Mantova, con Piazza Sordello percorsa da turbe di studenti vocianti; i sogni di gioventù irrealizzati (la Parigi-Dakar così spesso vagheggiata); la maestra elementare («Severa crocchia alla nuca, / mano tremula e odore di caffè»); le donne amate, le polemiche letterarie; gli scrittori più ammirati e studiati: Dante, Foscolo, gli Scapigliati, Ungaretti e Quasimodo, i francesi… Ricordi di una vita, che ora appaiono annebbiati e talvolta privi di significanza: «Vengono e vanno gli zero colorati, / i fosfeni, gli inganni di tutto il passato». Ma la meditazione sul tempo che passa riguarda anche lo spettrale presente, fatto di isolamento («La solitudine si svela al mattino / con le ossa che dolgono»), di visite mediche («Ho preso il numeretto, / ho fatto il prelievo, ho dato, / sono in attesa del verdetto»), di disfacimento fisico («lo scadimento dei muscoli, degli arti, / le orbite profonde degli occhi / luciferini, le petecchie / nella pelle infisse come chiodi»). E la vanità dei gesti e dei pensieri, la noia di ore che non passano mai e non si sa come riempire («vivere ormai significa fingere / fingere fingere / che si è vivi», «Uscire, non uscire. / Andare, non andare. / Camminare, forse?»). Anche meditare sulla realtà della morte non aiuta più, e i filosofi tante volte interrogati ed esplorati non sembrano avere più risposte da suggerire: «È quando / non riesci ad allacciarti / le stringhe della scarpe che comprendi». Allora la domanda più insistente riguarda il momento della fine, che si spera improvvisa, indolore e notturna: «Sento il cuore che batte. / Insiste. / Anche questa notte è passata. / Non è successo», e che si tende ad esorcizzare con qualche ironia: «In bagno no, prego, sono tanti i modi, / il luoghi, i destini, non questo / mi tocchi e mi sorprenda, / in bagno, solo, no!» Se il futuro non può riservare sorprese («enigmatica anima finita/ in attesa, in attesa…»), Gilberto Finzi sa però mantenersi poeta fino in fondo, e continua a credere nel miracolo dell’istante da penetrare con ammirata gratitudine: «Molto mi preme / questo attimo, lasciarmelo / vuol dire vivere».

 

«criticaletteraria», 18 marzo 2014

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FIORE

ELIO FIORE, L’OPERA POETICA – ARES, MILANO 2016

L’intera opera poetica di Elio Fiore (Roma, 1935-2002) è stata pubblicata dall’editore milanese Ares in una raffinata ed esaustiva antologia (comprendente testi editi e inediti, biografia, note e contributi critici), curata con appassionata competenza da Silvia Cavalli e introdotta da un’affettuosa prefazione di Alessandro Zaccuri, amico ed estimatore del poeta.
Elio Fiore è stato poeta cristiano quanto pochi altri: cristiano di una fede sorgiva e ingenua, entusiasta e comunicativa. Una fede universale, che abbracciava sia il paganesimo classico, sia il profetismo ebraico, la mistica medievale come la rasserenante meditazione delle religioni orientali: tutti aspetti di un novello e fraterno umanesimo capace di superare confini e ideologie, alla ricerca di una trascendenza illuminata, di una spiritualità capace solo di clemenza, perdono, lode, ringraziamento. Ma, accompagnato dalla grazia del suo nome che ne indicava quasi il destino, Elio Fiore ha conosciuto nella sua esistenza (segnata da povertà, malattia psichica, lavori umili, esclusione sociale) anche il dono quotidiano e assiduo della frequentazione poetica, cioè di una passione febbrile e sempre meravigliata per la poesia. Passione che lo ha portato non solo a una conoscenza approfondita dei maggiori autori della letteratura universale, ma soprattutto alla volontà di coltivare personalmente, concretamente, l’amicizia e l’incontro con tutti i più famosi poeti e intellettuali del suo tempo.
Nell’intero volume si rincorrono infatti, come destinatari di dediche e missive, come recensori, ospiti,corrispondenti epistolari, i nomi importanti di Ungaretti, Montale, Bo, Luzi, Bertolucci, Erba, Raboni, Rafael Alberti, Alfonso Gatto, Liliana Cavani, Carlo Maria Martini, Gianfranco Ravasi, insieme a decine di altri nomi, di persone meno note o del tutto sconosciute: vicini di casa, compagni di lavoro, donne, parenti, religiosi, bambini. Proprio ai bambini il poeta Elio si sente non solo affettuosamente vicino, ma addirittura accomunato da una manifesta innocenza, dal solare e innegabile candore del proprio modo di essere e di scrivere: «I bambini hanno bisogno / di scale, di corde per saltare, / di sfere per misurare il cielo. .. // I bambini hanno bisogno / di prati verdi, del sorriso di Dio. / I bambini hanno bisogno di te,  / uomo,  / per ricordarti di essere stato bambino;
Sogno che tutti i bambini non moriranno più. / (ogni minuto nel mondo 32 bambini / muoiono per fame, lo sapevate?)».

L’infanzia del mondo, la docilità dell’anima, la purezza dei sentimenti, la lievità dei gesti, l’onestà del dettato poetico è ciò che secondo l’autore può salvare l’essere umano, mondandolo da ogni meschinità e colpa, avvicinandolo alla bellezza del creato e alla bontà di Dio: «Signore, il celeste ascolto dei cori / l’eternità la gloria dei tuoi cieli, / e il grano che ondeggia la pianura, / raggiungeranno la vita di ogni uomo. / Anche legati e torturati, oltre le sbarre / la luce porterà la luce del tuo canto…; Vita ti prometto d’essere fedele / alle tue leggi cupe e lievi, morte / paradossale e gioie vita accoglierò…; Nella trattoria sul piccolo porto, / mangio pesce fresco e bevo vino…;
Un poeta non può morire. / Me lo ha insegnato la spiga di Cristo, / la sua giusta vendemmia tra i ricchi e i poveri. / Assassini, ascoltate: un poeta non muore».

La voce trasparente e generosa di Elio Fiore, anche nelle sue riconosciute incertezze stilistiche e negli squilibri formali, mantiene la freschezza stupefatta e priva di sotterfugi delle anime candide: di lui che si vanta dell’elegante cappotto grigio lasciatogli in eredità da Eugenio Montale, di lui che arrossisce se per strada lo riconoscono come poeta, di lui che torna bambino abbracciato alla madre sotto i bombardamenti nel luglio del ’43, miracolato e offerto alla misericordia della Madonna.
Una voce solitaria, dimenticata, a cui oggi il ricco volume de L’ opera poetica rende la dovuta risonanza.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/L-opera-poetica-Elio-Fiore.html          15 giugno 2016

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FIORE

VINCENZO FIORE, EMIL CIORAN – NULLA DIE, PIAZZA ARMERINA 2018

Nel 2018 la casa editrice siciliana Nulla Die ha pubblicato il volume di Vincenzo Fiore Emil Cioran. La filosofia come de-fascinazione e la scrittura come terapia. Vincenzo Fiore (Solofra, 1993) è un giovane filosofo e romanziere, collaboratore di riviste e quotidiani, membro del Progetto di ricerca internazionale dedicato a Emil Cioran. A buon diritto, e con assoluta competenza e passione, ha firmato questo esaustivo saggio, ricchissimo di note, corredato da una bibliografia e da un’appendice riportante una lettera autografa del filosofo romeno, tre ritratti fotografici e un articolo della giornalista venezuelana Carol Prunhuber.

Il libro si compone di tre capitoli, il primo dei quali ripercorre l’esistenza di Cioran dalla nascita in Transilvania nel 1911 alla morte a Parigi nel 1995: interessantissimo perché oltre a informare il lettore in maniera dettagliata su ogni avvenimento pubblico e privato della sua travagliata esistenza, garantisce puntualmente la veridicità dei fatti con testimonianze ricavate da lettere, interviste, brani tratti dalla sua produzione libraria e da interventi critici dei molti studiosi che di lui si sono occupati.
La parallela distribuzione tra notizie biografiche e il pensiero di Cioran è supportata proprio da un’affermazione del filosofo: “Tutto ciò che ho affrontato, tutto ciò di cui ho discorso per tutto il tempo della mia vita, è indissociabile da ciò che ho vissuto. Non ho inventato nulla, sono stato soltanto il segretario delle mie sensazioni… In fondo, tutti i miei libri sono autobiografici, ma di un’autobiografia mascherata”.

Nato a Rasinari, un villaggio di cinquemila abitanti situato nei Carpazi, Emil Cioran era il secondogenito di una famiglia istruita benché di modeste condizioni economiche. Il padre era prete ortodosso, e venne arrestato dalle autorità ungheresi insieme alla moglie con l’accusa di separatismo. L’infanzia di Emil fu quindi tormentata, tra separazioni e frequenti trasferimenti, e continuamente ossessionata dall’idea della morte, soprattutto a causa della sua acuta sensibilità, portata all’introspezione e alla malinconia. “Tanta febbre, tanta estasi e tanta follia”, ebbe a scrivere ricordando i suoi turbamenti giovanili, lo smarrimento di fronte agli avvenimenti politici, la sofferenza continua per l’insonnia, lo studio esaltato di argomenti religiosi – in particolare sul misticismo medievale -, di musica, di lingue straniere. Laureatosi nel 1932 con una tesi sull’intuizionismo di Bergson, l’anno successivo pubblicò il suo primo libro in lingua romena, Al culmine della disperazione, che metteva in luce la sua angoscia per la futilità della vita, il totale nonsenso di ogni attività quotidiana, la corruzione morale dell’essere umano. In quegli anni giovanili, si avvicinò a posizioni reazionarie e antisemite, convinto che l’ascesa al potere di Hitler potesse risvegliare la Romania dallo stato di abbrutimento politico ed etico in cui si era assopita per secoli, grazie a una sorta di trasfigurazione che dovesse favorire l’avvento di una “nuova umanità”. Tali posizioni ideologiche furono poi rinnegate dal filosofo con vergogna e pentimento, soprattutto dopo il suo volontario esilio in Francia a partire dal 1940.

Da questa data in poi, l’esistenza di Cioran non conobbe eventi biografici particolarmente traumatici, essendo totalmente dedicata alla riflessione filosofica e alla scrittura. Nel 1942 conobbe Simone Boué, giovane insegnante che rimase al suo fianco per tutta la vita, con cui alla fine della guerra si stabilì definitivamente a Parigi con lo statuto di apolide, adottando la lingua francese nella comunicazione quotidiana e in ogni scritto. Ritornato sulle posizioni teoretiche della sua giovinezza, addirittura radicalizzate, diede avvio a una personale crociata intellettuale contro il cristianesimo, la filosofia classica e le ideologie contemporanee. Con uno stile che lo assimilava a Nietzsche, non scrisse trattati sistematici, servendosi invece di aforismi e frammenti di prosa, rifiutando sia ogni rigida strutturazione sia qualsiasi artificio linguistico. Nel negare autenticità ai filosofi dogmatici e agli accademici, Cioran affermava che esistono solo due grandi questioni gnoseologiche: come sopportare la vita e come sopportare se stessi. L’unica pratica filosofica esercitabile era per lui lo scetticismo, come de-fascinazione, eliminazione di tutte le ideologie e astrazioni concettuali, in favore del vissuto rispetto alla teoria. Gli obiettivi polemici che il filosofo si pose furono quelli della negazione della Provvidenza e di un Dio creatore e benefico (Il funesto demiurgo, 1969), il contrasto al fanatismo ideologico e al totalitarismo, lo scandalo della nascita, ancora più dolorosamente negativa della morte (L’inconveniente di essere nati, 1973). Il totale pessimismo del suo pensiero lo avrebbe probabilmente condotto al suicidio già in giovane età, se non avesse trovato nella scrittura una partica auto-terapeutica che serviva a differire l’idea punitiva della fine volontaria.

Il merito di Vincenzo Fiore è di aver saputo ricostruire, attraverso un linguaggio accessibile a tutti, lineare ed elegante, evoluzioni e involuzioni del pensiero di Cioran, appoggiandosi non solo alla propria appassionata interpretazione, ma anche alle numerose e approfondite analisi di critici non sempre benevoli verso le provocatorie e polemiche tesi dell’antifilosofico filosofo romeno.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net      16 novembre 2023

 

RECENSIONI

FIORI

UMBERTO FIORI, CHIARIMENTI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 1996

Che al nome corrisponda la cosa, al segno il senso, alla forma il concetto; che parlare significhi comunicare qualcosa di oggettivo, non essere fraintesi, farsi capire: è probabilmente desiderio di tutti, destinato a venire disilluso dalla quotidianità e banalità del discorrere comune. La chiarezza espositiva costituisce in genere l’obiettivo primario della saggistica, molto meno della narrativa, meno che mai, poi, della poesia: la quale fa della finzione, della metafora, dello straniamento il carattere peculiare della sua scrittura. Tuttavia, esistono poeti “espositivi”, piani, che usano un linguaggio privo di artifici: fanno parte di una tradizione collaudata, secolare, dai realisti del ’200 a Saba. Poeti il cui tratto specifico non è il gioco letterario o il lavoro sulla lingua, bensì lo sguardo che rivolgono a ciò che hanno intorno e dentro di sé. Uno sguardo da clic fotografico, intento a illuminare particolari solitamente trascurati.

Uno di questi poeti, Umberto Fiori, ha intitolato Chiarimenti un suo volume di versi dominati dalla volontà di illuminare con ossessiva insistenza, disarmante caparbietà, alcuni aspetti del reale. Fiori si interroga, ad esempio, su Il discorso e la voce, sulle parole che usiamo e sono monche, inespressive, fuorvianti: “Sono pronte, le parole. / Gli stanno in faccia / e non dicono niente”. Sui discorsi che scambiamo tra amici, e rimangono vuoti e futili, quando non addirittura offensivi, aggressivi: “Sempre un dunque ti aspetti / da quelle quattro chiacchiere, / una stretta finale, un chiarimento. / Invece, niente: a parte quando “era inutile, / non potevamo intenderci su niente. / Aveva poco senso tu dici, / loro travisano”, “Anche stasera / ognuno ha detto la sua / senza che poi nessuno, / alla fine, / riuscisse a chiarire niente. / Ma solo chi ha parlato veramente / può veramente essere frainteso”, “Dirsi quelle due cose, / con le persone, / più ci si tiene più / sembra impossibile. / A volte si sta lì davanti a loro / come i parenti al cimitero / coi fiori in mano / davanti ai marmi, alle foto”.

Questa situazione di incomunicabilità diventa disagio esistenziale, incapacità di riferirsi non solo agli altri, ma anche a se stessi: “E intanto se lo sente, il mondo, / proprio qui, / sulla punta della lingua. / Una cosa su tre / fa un verso, gli manca il termine. / Zitto, però, non ci sa stare”. Se le parole tradiscono, deludendo chi le ascolta e chi le dice, anche i pensieri e i gesti non corrispondono mai alle intenzioni, la realtà esteriore rimane incompresa e incomprensibile, non definibile, non riportabile a coordinate precise: “A soffi, a onde, / il vuoto ti viene addosso. / Sentila che ti scappa tra le gambe / e ti saluta, la verità”, “Così ce ne andiamo in giro / nei bar, sui tram: ognuno un santo mistero / messo in piazza, un esempio / che nessuno può seguire”, “Giù, giù, sul fondo / si va, dove le cose / ‒ tutte – sarebbe uguale / se non ci fossero mai state”.

Chi scrive rimane stranito, estraneo, incapace di definirsi in un ruolo preciso: “Si sta col cielo, qui, / e con la terra, / come per strada i piatti / col frigo e le piante grasse / per un trasloco”, “Sentivo, ora, che loro – alle mie spalle ‒ / erano fatti della pasta del mondo, / solida, chiara. E io, di niente”, “Tre case / stanno là, sopra il ponte, / belle come un saluto. / Solo a loro io bado / qui, con le mani in mano, / con l’occhio del pastore / che da lontano conta le sue capre”.

Averlo, l’occhio del pastore, concreto, fattivo, e capire le cose, sapersele spiegare nella loro semplicità. Riuscire a chiarire ciò che esiste sarebbe, secondo Umberto Fiori, il dovere (un imperativo filosofico, quasi) del poeta. È un assunto contrario a quanto scriveva Giorgio Caproni, che non nel chiarimento, bensì nel confondimento indicava la missione di chi scrive versi: “Imbrogliare le carte, / far perdere la partita. / È il compito del poeta? / Lo scopo della sua vita?”.

 

© Riproduzione riservata        https://www.sololibri.net/Chiarimenti-Fiori.html      19 marzo 2020

 

 

RECENSIONI

FIORILLO

CARMINE FIORILLO, MASCHERE DI TECNODEMOCRAZIA – PETITE PLAISANCE, PISTOIA 2015

I due saggi qui riuniti offrono al lettore, sulla scia delle indicazioni filosofiche di Heidegger, Severino e Baudrillard, una animosa e motivata critica dell’oggi, della sua progressiva disumanizzazione, del suo arrendersi al dominio economico e ideologico del potere. Prendendo le mosse da un’acuta interpretazione del mito di Narciso, Carmine Fiorillo analizza come la soggettivazione innamorata di sé precluda il riconoscimento dell’altro e il confronto con la realtà, immobilizzando il narcisista in una fragile e sempre negativa autoreferenzialità, incapace di empatia e contemporaneamente dipendente da un’illusione di onnipotenza. Tale abbaglio si riflette nell’egemonia contemporanea della tecnica, certa di poter abolire dolore, malattia e morte creando artificialmente un ambiente di asettica perfezione, in cui tuttavia l’individuo perde sia la capacità di interagire con gli altri, sia la sua peculiare insostituibilità, convinto a rinunciare a rapporti affettivi più profondi e a valori quali la saggezza e la solidarietà, considerati desueti e inutili. «L’uso costante dell’apparato tecnico riduce le condotte personali a comportamenti standardizzati dal funzionamento delle macchine e dalle procedure richieste dalla rete delle connessioni tecniche, cosicché l’individuo diventa nel suo agire un esemplare del tutto intercambiabile». In questo aggrapparsi individuale al «flusso del nulla», in cui riveste più importanza ciò che si ha e si può mostrare di ciò che si è, l’umanità si de-realizza, adeguandosi a un modello sociale mercantile, assumendo comportamenti concretistici, concentrati su una fattività esteriore e su pratiche contingenti, che difendano da un’esplorazione dell’interiorità e da relazioni interpersonali più autentiche e profonde. La sola reazione possibile è quindi la riscoperta delle emozioni, «un po’ di volontario anacronismo», e il rifiuto di collaborare al meccanismo economico di un potere fagocitante, appiattito sul profitto e sul successo.

IBS, 11 maggio 2017