Mostra: 41 - 50 of 1.317 RISULTATI
RECENSIONI

AGAMBEN

GIORGIO AGAMBEN, LA FOLLIA DI HŌLDERLIN – TORINO, 2021

L’ultimo libro di Giorgio Agamben, La follia di Hölderlin. Cronaca di una vita abitante (1806-1843), ricostruisce in forma letteraria la vicenda biografica del poeta tedesco Friedrich Hölderlin (nato a Lauffen am Neckar nel 1770 e morto a Tubinga nel 1843), la cui esistenza fu divisa esattamente in due metà: i primi 36 anni trascorsi nella normalità dei rapporti con il mondo, e i successivi 36 anni segregati a Tubinga in casa di un falegname, in preda alla follia che lo portò a rifiutare qualsiasi relazione con gli eventi esterni.

L’intento di Agamben nel raccontare il lungo periodo di reclusione domestica del celebre poeta non è stato quello di indagare storicamente, clinicamente o psicologicamente i motivi che lo portarono a evitare ogni rapporto con la società, quanto invece, basandosi su sintetici dati di cronaca e sull’analisi degli ultimi scritti – considerati incomprensibili dalla maggior parte dei critici –, di proporre un’interpretazione etico-politica della sua incapacità di vivere in comunità. Secondo il filosofo romano “il tenore di verità di una vita non può essere definito esaurientemente in parole, ma deve in qualche modo restare nascosto”: in ogni biografia convergono vari fatti, circostanze, episodi, ma non sono essi a dare il senso reale dell’esistenza di un individuo, che si costituisce e va rispettata come “figura” informulabile e mai completamente conoscibile. Gli avvenimenti sono una traccia, indicano una direzione da seguire, insieme alle vicende storiche che ad essi si intrecciano.

Ecco quindi la ricostruzione succinta degli eventi che condussero Friedrich Hölderlin alla condizione mentale che i contemporanei definirono pazzia. A metà maggio 1802, il poeta abbandonò il posto di istitutore presso la famiglia del console Meyer a Bordeaux che occupava da soli tre mesi, e si mise in viaggio a piedi verso la Germania, raggiungendo nei primi giorni di luglio, dopo essere stato derubato del bagaglio, prima Stoccarda, quindi la casa materna a Nürtigen in condizioni fisiche spaventose: magro, sporco, in preda a stato confusionale. La notizia della morte della donna amata Susette Borkenstein sembra avesse accresciuto il suo sconforto, ma per un breve periodo riprese le forze, completando le traduzioni dell’Antigone e dell’Edipo di Sofocle e componendo gli inni Patmos e Andenken, su cui aveva lavorato indefessamente. Nel giugno 1803 Hölderlin raggiunse a piedi, “attraversando i campi come guidato dall’istinto”, il convento di Murrhardt, dove incontrò Schelling, compagno di studi universitari, che di quella visita scrisse a Hegel in maniera turbata, avendo trovato l’amico “in uno stato di assoluta assenza di spirito”. L’impegno costante della traduzione senz’altro esacerbava la già compromessa salute del poeta, nello sforzo inaudito di rendere il testo greco non soltanto traducendo parola per parola come calco dell’originale, ma forzando la sintassi tedesca ad aderire all’articolazione sintattica del greco, in una personalissima ri-creazione e correzione, con l’innesto di azzardati neologismi. L’intervento “estraniante” sul testo greco fu poco apprezzato e addirittura deriso da molti letterati, tra cui Schiller e Goethe, quando il volume venne pubblicato dall’editore Wilmans nell’aprile del 1804. La madre di Hölderlin, che nelle sue comunicazioni epistolari lo chiamava costantemente “l’infelice”, riuscì a far ricoverare il figlio in una clinica a Tubinga e poi ad alloggiarlo nel 1807 in maniera definitiva nella casa del falegname Ernst Zimmer, senza mai recarsi a trovarlo.

Agamben dedica centocinquanta pagine del suo volume a una cronaca dettagliata dei trentasei anni trascorsi dal poeta nella torre (una stanza a forma circolare all’ultimo piano della casa, con una splendida vista sul Neckar e la valle circostante), riportando le testimonianze dei rari visitatori, stralci di lettere e di diari, elenchi delle spese per il mantenimento e dei medicinali somministrati, puntuali riferimenti agli avvenimenti storici coevi. E dubitando della completa follia del suo protagonista, commenta: “A metà pazzo, ma forse sano, pazzo furioso e tuttavia veggente: i giudizi sulla condizione di Hölderlin continuano a oscillare fra due poli opposti”.

Nel dicembre 1808 lo scrittore Karl Varnhagen von Ense, andato a trovare il poeta rinchiuso, così lo descrisse: “Non delira, ma parla ininterrottamente seguendo la sua immaginazione, si crede circondato da visitatori che gli rendono omaggio, discute con loro, ascolta le loro obiezioni e li contraddice con grande vivacità, cita le grandi opere che ha scritto e altre, che sta ora scrivendo e tutto il suo sapere, tutta la sua conoscenza del linguaggio e la sua familiarità con gli autori antichi sono ancora presenti in lui; di rado però un autentico pensiero e una connessione logica fluiscono nella corrente delle sue parole, che nel complesso sono solo una comune insensatezza”. Eppure, nelle lettere scritte alla madre, Hölderlin dimostra ancora una discreta lucidità, e l’esasperato formalismo con cui le si rivolge assume calcolate sfumature ironiche e parodistiche: “La mia partecipazione a Lei non si è ancora esaurita; quanto durevole è la sua bontà, tanto immutata è la mia memoria per lei, venerabile madre! La Sua tenerezza ed eccellente bontà risvegliano la mia devozione alla gratitudine e la gratitudine è una virtú. Io penso al tempo che ho passato con lei, venerandissima madre! con molta riconoscenza. Il suo esempio pieno di virtú mi rimarrà nella lontananza sempre indimenticabile e mi incoraggerà a seguire i Suoi precetti e a imitare un cosí virtuoso esempio” (1813).

Lo studente Wilhelm Waiblinger, autore del saggio Vita, poesia e follia di Hölderlin, pubblicato postumo nel 1831, scrisse che il poeta nel corso dei loro ripetuti incontri si esprimeva con termini talvolta incomprensibili mescolati al francese, ripetendo frasi stereotipate (“Es geschieht mir nichts”, – non mi succede nulla –, oppure “A questo non posso, non mi è lecito rispondere”), rivolgendosi agli ospiti con un inchino,  in maniera cerimoniosa: “Vostra maestà, Vostra Santità, Vostra Grazia, Vostra Eccellenza, Signor Padre! Graziosissimo, io attesto la mia soggezione”, improvvisando musica sul pianoforte, passeggiando in giardino con i membri della famiglia Zimmer o fissando immobile fuori dalla finestra il fiume e la campagna. A volte sembrava vegetare in uno stato catatonico, altre dava in improvvise escandescenze. La sua produzione poetica, affidata a fogli singoli, negli anni della reclusione si limitò perlopiù a liriche in due strofe dedicate alla natura e alle stagioni, oppure a quartine ripetitive e monotone dall’umile struttura rimata, “definite da un’estrema paratassi e dalla deliberata assenza di ogni coordinazione ipotattica”, firmate con pseudonimi e riportanti date di fantasia.

Secondo Agamben, sembra “quasi che Hölderlin cercasse di articolare un altro modo – non logico – della connessione fra i pensieri”. Come nel vissuto quotidiano e nei ragionamenti slegati, così anche nei versi non esisteva coordinazione: sembravano semplicemente giustapposti e poi bloccati in un isolamento asemantico, con un continuo avvicinamento e distanziamento dal proprio significato. Walter Benjamin aveva intuito a quale dedizione il poeta tedesco si fosse votato, optando per una poetica disarticolata e spesso incomprensibile: “il senso precipita di abisso in abisso, fino a rischiare di perdersi in profondità linguistiche senza fondo”.

Quando nel 1826 alcuni estimatori si adoperarono per far pubblicare le sue creazioni migliori, il poeta non manifestò particolare interesse. Rimase indifferente anche alla notizia della morte di alcuni amici, della madre (1828) e del falegname Zimmer che lo ospitava (1838). Affidato alle cure amorevoli della figlia di quest’ultimo, Hölderlin morì di polmonite nel 1843, a 73 anni, poco dopo aver firmato la sua ultima composizione, La veduta, con il nome fittizio di Scardanelli; “Quando lontano va la vita abitante degli uomini, / dove lontano splende il tempo delle viti / e vicini sono i vuoti campi dell’estate, / la selva appare con la sua scura immagine; // che la natura compia l’immagine dei tempi, / che essa si fermi e quelli subito trascorrano, / è per la perfezione, l’altezza del cielo / risplende per l’uomo, come alberi incoronati di fiori”.

Alla poesia e non alla riflessione o alla conoscenza, Hölderlin affidò il compito di afferrare e dire la verità dell’essere: la “vita abitante”, quella vissuta per abitudine, nei trentasei anni trascorsi nella torre di Tubinga, era lontana e indifferente allo scorrere del tempo, mentre la perfezione risiedeva nella sommità dei cieli. Per Agamben “Hölderlin non ha cercato la pazzia, ha dovuto accettarla, ma … la sua concezione della follia non aveva nulla a che fare con la nostra idea di una malattia mentale. Era, piuttosto, qualcosa che si poteva o si doveva abitare… E vivere non significa forse per gli uomini innanzitutto abitare?” Proprio al termine “abitare” (wohnen, in tedesco) sono dedicate le venti pagine, intense e partecipate, dell’epilogo nel volume einaudiano. Hölderlin dimorava nelle sue giornate secondo abiti e abitudini liberi da ogni affezione e determinazione, in una passività indefinita che abdicava sia all’essere sia all’avere, sia all’identità sia al nome. La sua vita abitante o abitiva, scandita solo dal ripetersi di atti invariati, non conosceva più l’opposizione tra pubblico e privato, ormai coincidenti in una posizione di stallo: non era tragica, in quanto priva di azioni decisive e imputabili, né era comica, cioè basata su insensatezze deresponsabilizzate. Era invece “un semplice, quotidiano, trito dimorare, una forma di vita anonima e impersonale, che parla e fa gesti, ma alla quale non è possibile imputare azioni e discorsi”.

In questo labile e innocente abitare l’esistere – anche nel fallimento sociale, nel decadimento fisico e mentale, estraneo a successi e trionfi –, rimane il lascito etico e politico del poeta rinchiuso nella torre: nel suo “abitare poeticamente la terra” c’è meno follia di quella in cui l’intera umanità sta colpevolmente precipitando oggi.

 

© Riproduzione riservata                  «Il Pickwick», 9 marzo 2021

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

AGAMBEN

GIORGIO AGAMBEN, QUEL CHE HO VISTO, UDITO, APPRESO… – EINAUDI, TORINO 2022

Sulla quarta di copertina del volumetto di Giorgio Agamben pubblicato da Einaudi lo scorso anno, Quel che ho visto, udito, appreso… leggiamo: “parole ultime o penultime, vergate in fretta, come da chi prende appunti per il suo testamento”. Si tratta in effetti di una serie di riflessioni “serotine”, crepuscolari non tanto in senso letterario, ma perché scritte al tramonto di una lunga esistenza, tentando un inventario di ciò che si è riusciti a fare, tra obiettivi raggiunti e mancati, occasioni perse e afferrate al volo, incontri arricchenti o frustranti, amicizie, rimorsi, tradimenti. E più che un elenco di stampo diaristico, assistiamo a una serie di illuminazioni, squarci di verità che improvvisamente diradano la nebbia, accendono il buio, rivelano.

Ho visto… ho udito … ho appreso: ogni capitoletto, nell’estensione limitata di un aforisma, si apre con tali dichiarazioni. Dai due sensi fondamentali deriva la conoscenza di ciò che si sa e di ciò che si è, trasformati dalle sedimentazioni di diverse impressioni, accresciuti nella consapevolezza di noi da quanto si presenta – inatteso e vivificante – alla nostra coscienza assopita.

Cos’ha visto dunque Agamben? Una “capretta snella, esitante, divina” che ricambiava umanamente il suo sguardo, esplosioni di colori sotto forma di estasi e inaspettata felicità, uomini malevoli e calunniatori in ogni paese del mondo. Cos’ha udito? Le campane che dicono “qualcosa senza bisogno di parlare”, il grido di un unico poeta “in luogo di un popolo assente”, donne analfabete cantilenanti la Bibbia.

E cos’ha imparato da tutto il veduto e l’ascoltato? “Che noi esistiamo solo nelle intermittenze del nostro esserci, che quello che chiamiamo «io» è solo un’ombra sempre in congedo e in annuncio, memore appena del suo dileguare”. Viviamo infatti nella precarietà e nell’illusione, e nessuno è essenziale nell’economia dell’universo, essendo creazione e distruzione adiacenti. Ha appreso che il mito sa insegnarci più della storia, perché è indifferente tanto al vero che al falso, dato che non esistono verità, ma solo errori: i propri. Che non la conoscenza è importante, ma solamente la spinta che se ne ricava. Invece è fondamentale accorgersi che Dio è nelle cose e le cose sono in Dio, e che “la semplice, giornaliera sensazione di esistere” deriva dal “destarsi al mattino con questa minuscola gioia”. L’arte di vivere e di farsi divini implica la capacità di abitare non “la casa, ma la soglia, non il centro, ma il margine”.

Assunta la consapevolezza della propria marginalità, l’essere umano può raggiungere la beatitudine attraverso la contemplazione, con il compito di condividere sia la visione sia la cecità con l’altro, in un rapporto di scambio, apertura, amore, coltivando “la memoria del non ancora e del non più umano – del bambino, dell’animale, del divino”.

In queste meditazioni è il filosofo che parla, con la lingua del saggio, del sapiente antico, nutrito in spirito e mente dai testi sapienziali di tutte le religioni, dai grandi pensatori (Epicuro, Lucrezio, Platone, Averroè, Spinoza), da poeti e scrittori (Kavafis, Annamaria Ortese, Elsa Morante, Kafka).

Uomo del XX secolo, Agamben ha provato ad affacciarsi al nuovo millennio, ma se ne è ritratto con timore e tremore, senza riuscire a comprenderlo, e senza riuscire a recuperare un’altra dimora del pensiero: “Come la colomba, siamo stati mandati fuori dall’arca per vedere se c’era sulla terra qualcosa di vivo, anche soltanto un ramoscello di ulivo da prendere nel becco – ma non abbiamo trovato nulla. E, tuttavia, nell’arca non abbiamo voluto tornare”. Il filosofo, l’autore, ha il dovere di testimoniare, anche nel silenzio, nel taciuto e nel non vissuto. Già da bambino aveva intuito l’invivibilità, l’inesplicabilità e il vuoto dell’esistenza, inesprimibile, a cui lasciare uno spazio bianco nella pagina: “la sorte che ci è stata assegnata è fallire: in ogni arte e studio come e soprattutto nella casta arte di vivere bene… Ci dimentichiamo di noi e ci perdiamo, così come Dio, perdendosi in noi, si smemora di sé”. Ammettere il fallimento è l‘unico modo per salvare le piccole creature che siamo.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 20 agosto 2023

 

RECENSIONI

AGUSTONI

NADIA AGUSTONI, RACCONTO – NINO ARAGNO, TORINO 2016

L’impressione che rimane dopo aver letto Racconto di Nadia Agustoni (1964), è quella di una sofferenza sospesa, diluita nella coscienza e nella memoria: un dolore distillato, evaporato, come suggerisce Maria Grazia Calandrone nella quarta di copertina. Non per questo meno coinvolgente, e perturbante. L’estraneità al mondo è in qualche modo conclamata dal titolo della prima sezione del volume, “esistono storie in cui sono straniera”, e ribadita ideologicamente quasi come scelta esistenziale: una vita ai margini, volutamente incapace di opporsi, di soverchiare “nessuna promessa di vivere ma / un melo piccolo una / terra ai bordi della terra // nei verbi la distanza // a sera solo l’aria ricordava”.

Solo l’aria, il cielo, la neve, la terra, gli alberi sembrano manifestare la loro solidarietà a chi scrive, con una netta predilezione per le stagioni fredde, per la campagna e l’acqua che vi scorre. Anche se le epigrafi sono tutte tratte da Melville (con l’esplicita formula di rifiuto bartlebiana), il mare c’entra poco in questa scrittura: “nell’esilio degli alberi nel fragore dei secchi / o l’eleganza della volpe nel tracciato di neve / il bianco porta il silenzio l’ora scende ovunque / e resta uguale”. Le povertà materiale, vissuta e patita nell’infanzia, viene raccontata con il sottile orgoglio di chi la riconosce come un segno distintivo di nobiltà d’animo, di affinamento spirituale, di empatia nella sofferenza: “la nostra cena è un piatto di cenere”, “dobbiamo il cappotto all’inverno / rivoltarlo finché per vivere c’è solo offesa”, “una parola per stare lì coi maglioni infeltriti / il fumo in cucina”.

L’elenco di mancanze e privazioni diventa affermazione di uno stato di grazia, che marca una differenza tra vittima e carnefice, là dove chi vince davvero è proprio la vittima. E vince appunto attraverso il Racconto, l’uso delle parole che diventano giaculatorie salvifiche, litanie con cui ri-costruire la realtà: “costruiamo la casa i bicchieri le posate…”, nella memoria recuperata delle fiabe ascoltate da piccoli.
Infatti, “siamo le parole che sappiamo”, si intitola un’altra sezione del libro, siamo “quell’altrove delle parole o le immagini», «perché nulla resiste se non lo pronunci”: solo nel racconto ci salviamo, individualmente e come collettività. Solo nel racconto possiamo recuperare un’assenza, un amore che non c’è più, il rapporto con la natura. La magia definitoria delle parole riesce a riscattare l’esistente dal male, offrendo una testimonianza della bellezza: “l’arancia è un nome rotondo / il mondo non è la risposta”.
E l’uso reiterato, insistito, straniante e graficamente deformato che Nadia Agustoni fa dei due punti (prima, dopo e nel mezzo di un verso) tende a promettere una spiegazione del taciuto e sottinteso, esemplificazione che poi non arriva, perché il significato rimane sospeso, criptico, da indovinare o reinventare. “Non sappiamo nulla dell’amore / solo l’amore: non confondere / questa speranza:”

Parlarsi, raccontare, recuperarsi attraverso la parola: “non c’era un’altra vita una storia / per diventare un altro / ma una parola”.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/Racconto-Nadia-Augustoni.html       14 settembre 2016

RECENSIONI

AIME-BORZANI

MARCO AIME-LUCA BORZANI, INVECCHIANO SOLO GLI ALTRI – EINAUDI, TORINO 2017

Un titolo accattivante e provocatorio per questo pamphlet einaudiano, in cui i due autori Marco Aime e Luca Borzani esplorano vantaggi e svantaggi della terza e quarta età, e della senescenza progressiva di cui soffrono tutte le società occidentali, con le evidenti problematiche sociali, economiche, culturali che ne derivano. Il volume riporta dati e statistiche allarmanti, per ciò che riguarda l’Italia: la nazione con il più alto numero di anziani dopo il Giappone. Due milioni e seicentomila non autosufficienti, dei quali più di un milione malato di Alzheimer; sei milioni con una pensione mensile inferiore ai cinquecento euro: un sesto di loro indigenti assoluti. Una brutta vecchiaia, quindi, che pesa economicamente sulle finanze pubbliche e su quelle private delle famiglie, costrette spesso a indebitarsi o a rinunciare alle proprie attività lavorative per curare genitori e nonni. Solitudini, malattie, povertà che alimentano drammi personali, rancori, conflitti e violenze all’interno delle mura domestiche. A questo aspetto avvilente dell’invecchiamento fa da contraltare l’immagine sempre più diffusa di un’età avanzata vitale ed energica, che rincorre l’utopia di una giovinezza eterna: viaggia, si cura fisicamente, fa sport, non rinuncia ai piaceri della tavola e del sesso, si mantiene aggiornata culturalmente, aiuta con i risparmi di una vita figli adulti in difficoltà e nipoti disoccupati. La strategia anti-età messa in campo dai media, con l’ausilio di medici, psicologi, religiosi, operatori culturali e turistici, finisce per convincere la popolazione agé che “Invecchiano solo gli altri”, e dovere di tutti è rimanere sani, attivi, ottimisti, addirittura penalizzando i più giovani: spesso privi di prospettive lavorative, depressi, eternamente dipendenti dalle famiglie di origine.

Aime e Borzani elencano statistiche preoccupanti riguardo al deficit previdenziale che inciderà sull’economia italiana nei prossimi decenni: la percentuale di pensionati rispetto ai lavoratori passerà dal 37 per cento di oggi al 65 per cento del 2040, e a pagarne lo scotto saranno ovviamente le nuove generazioni. Attraverso un rapido excursus storico, gli autori evidenziano le cause che (dagli anni del boom economico del dopoguerra, attraverso la contestazione giovanile e femminista, fino alla bolla finanziaria del terzo millennio e alla conseguente depressione economica) hanno provocato questa profonda mutazione antropologica, di sostanziale dominio dei capelli bianchi, disinvoltamente rinnegati e dissimulati. Si tratta di tesi abbastanza risapute, e talvolta elencate in modo poco organico: con il merito tuttavia di voler volutamente alleggerire l’argomento citando non solo fonti accademiche e dati di mercato, ma rispolverando proverbi, testi letterari, poesie e canzoni (di Gaber, Jacques Brel, Guccini, Jim Morrison, Bob Dylan…), a mo’ di consolazione, vista l’assenza conclamata di prospettive e soluzioni future.

 

© Riproduzione riservata         

www.sololibri.net/Invecchiano-solo-gli-altri.html              8 agosto 2017

 

RECENSIONI

AIRA

CÉSAR AIRA, IL MARMO – SUR, ROMA 2014

Dovremmo sempre affidarci e fidarci dei consigli di amici più colti di noi, riguardo a letture da fare, musica da ascoltare, film da vedere. Un amico coltissimo, a me che lamentavo la banalità formale e contenutistica di troppi romanzi presenti sul mercato, ha suggerito di indagare tra i narratori argentini, citando in particolare César Aira. Aira è uno dei più famosi, originali e prolifici scrittori sudamericani, nato nel 1949 in provincia di Buenos Aires. Pubblica dai due ai cinque volumi all’anno, perlopiù racconti e romanzi brevi, ma anche commenti critici e traduzioni da diverse lingue. In un’intervista ha dichiarato di essere fedele da tre decenni allo stesso sistematico metodo di lavoro. La mattina scrive una sola cartella, seduto al tavolino del bar sotto casa, poi assembla i fogli e li consegna al suo piccolo editore senza rielaborarli. Ha uno stile particolarissimo, sperimentale e visionario nei contenuti, conciso e lineare nella forma, che utilizza sia il gergo sub-letterario delle soap opere televisive, dei fumetti, del pulp, sia la reinvenzione dei classici e la fantascienza, creando situazioni spesso illogiche e prive di una conclusione razionale, in un flusso di scrittura continuo ed esorbitante, eccitato, inventivo.

Il marmo, scritto nel 2009 e pubblicato in Italia da Sur nel 2014, ben esemplifica il carattere della produzione di questo narratore “estrovertito… debordante… conturbante”, come lo definisce nella prefazione Giuseppe Genna, giustamente intuendo nella costruzione del plot romanzesco un parallelo con la paradossalità kafkiana.

Il personaggio voce narrante è un sessantenne argentino corpulento, di salute cagionevole, disoccupato o in prepensionamento, sposato con un’attivissima e sfibrata psicologa che lo mantiene. Complessato dalla propria inattività lavorativa e inefficienza sociale, frustrato per la dipendenza economica dalla moglie, si rifugia in un mondo onirico, meditativo e auto-riflessivo, in cui le persone vive hanno lo stesso rilievo e importanza degli oggetti, delle immagini, della fantasia.

Il volume si apre sulla descrizione del protagonista che osserva se stesso seduto su un blocco di marmo, con i pantaloni abbassati, mentre si guarda cosce polpacci e genitali, traendone una sensazione di ilare conforto, quasi di felicità, nel constatare la materialità del proprio corpo: “in me era sempre vivo l’elemento animale, il dato biologico, la rappresentazione individuale della specie, un promemoria di potenza d’azione, una promessa di tempo e movimento… Basta così poco per sollevarci al di sopra del lavoro triviale e assillante di negoziare il giorno-per-giorno”. Nella volontà di ricordare il motivo per cui si trovava seduto sul blocco di marmo con i calzoni calati, e perché ne abbia derivato una tale sensazione di serenità, l’uomo cerca di ricostruire nella memoria attraverso quali azioni fosse arrivato a vivere quell’ inspiegabile circostanza. Ricorda quindi che il giorno prima, delegato dalla consorte a occuparsi della spesa settimanale, si era recato nel supermercato cinese del quartiere, e si era trovato a pagare il conto con due banconote.

L’uomo alla cassa, non avendo da dargli il resto, l’aveva invitato a servirsi di piccole cianfrusaglie tenute a disposizione dei clienti per saldare il credito. A caso, aveva scelto allora una serie di “mercanzie lillipuziane” assolutamente inutili: una confezione di pile AAA, un occhio di gomma che a schiacciarlo sprigionava una luce rossa, una tabella delle proteine, una forcina dorata, un cucchiaio-lente di ingrandimento, un anellino di plastica, una macchina fotografica grande quanto un dado e infine una manciata di globuli di marmo. Tutti questi oggettini, e in particolare le minuscole palline marmoree, avranno nel corso della narrazione un’importanza strategica, trasformandosi in chiavi per aprire le porte del mondo reale ed entrare nell’iperreale, in un continuo alternarsi di spazi temporali e di incontri con personaggi misteriosi. In particolare con un adolescente cinese di nome Jonathan che conduce il protagonista in una serie di imprese travalicanti il mondo terrestre per approdare tra gli alieni. Concorsi televisivi, compravendite di negozi, baratri che si aprono minacciosi sotto le case, luci e suoni allucinogeni si rincorrono in una mappa infinita e insensata di luoghi e contesti stranianti, di universi paralleli che i personaggi tentano vanamente di ricomporre, ma in cui vengono trascinati per poi perdersi. Fino alla conquista finale dell’unica realtà possibile: quella del recupero concreto del proprio corpo, da realizzare magari abbassando i pantaloni, e controllando che tutto sia a posto.

© Riproduzione riservata          «Gli Stati Generali», 25 ottobre 2022

 

RECENSIONI

AKUTAGAWA

AKUTAGAWA RYUNOSUKE, LA SCENA DELL’INFERNO E ALTRI RACCONTI

ATMOSPHERE, Roma 2015

 

Akutagawa Ryunosuke, nato a Tokyo nel 1892 e morto per overdose da barbiturici a trentacinque anni nel 1927, era stato adottato dopo la nascita da una nobile e colta famiglia di samurai, a causa di una grave malattia mentale della madre. Di salute cagionevole, ebbe un’esistenza tormentata da frequenti crisi psichiche, che segnarono profondamente anche la sua pur ricca produzione letteraria. Akutagawa fu uno strenuo oppositore del naturalismo che dominava la narrativa giapponese di inizio Novecento, preferendo attingere nei suoi scritti ai temi fiabeschi dell’antico Giappone, e a tradizioni popolari reinterpretate in chiave moderna. Dalle sue novelle e dai romanzi sono stati tratti film di Kurosawa, Sydney Lumet e Martin Ritt.
La casa editrice romana Atmosphere propone ai lettori una raccolta di sedici racconti di questo ormai classico autore nipponico, parzialmente presentati la scorsa estate nella rubrica di Radio3  Ad alta voce: introdotte da brevi prefazioni di alcuni giganti della letteratura giapponese (Mishima, Kawabata,Tanizaki), queste storie mantengono dopo quasi un secolo un loro fascino gentile, impregnate come sono di un’atmosfera elegante e incantata.
Si tratta appunto di storie assimilabili ad antiche favole, in cui appaiono personaggi truci e violenti (veri orchi del male, stregonesche femmine ossute, fantasmi dell’oltretomba), insieme a generosi cavalieri dall’animo nobile, a leggiadre ed eteree fanciulle, ad animali parlanti. Angeli e demoni, inferno e paradiso, castelli e oscure prigioni, templi buddisti e chiese cattoliche, foreste minacciose e laghetti idilliaci: nello scenario di un Giappone antico, medievale, popolato da samurai e geishe, monaci e assassini. In Akutagawa la colpa non è mai imperdonabile, il peccato trova sempre un suo riscatto, il lutto e il dolore vengono alleviati da insperate, spirituali consolazioni.
Un ancestrale cristianesimo (preti, miracoli, resurrezioni, rosari, inferno e paradiso) si fonde con il buddhismo più rasserenante, che tutto giustifica e perdona con lievità: la crudeltà dei gesti e dei pensieri di alcuni viene vendicata dalla magnanimità e finezza del compatimento di altri. «Anche quando gli uomini credono di aver vinto una tentazione, non hanno in realtà perso qualcosa?»

Come suggerisce nella postfazione il traduttore Alessandro Tardito, in Akutagawa troviamo “un atteggiamento privo di obblighi moralistici”, che vede la sua massima espressione nelle frasi conclusive dei racconti, stemperate da ogni categoricità, mai perentorie, pietosamente constatanti la complessità dell’esistenza e della natura umana.

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/La-scena-dell-inferno-e-altri.html         9 marzo 2016

 

 

RECENSIONI

ALVI

GEMINELLO ALVI, ECCENTRICI – ADELPHI, MILANO 2015

«Gli ingenui ritengono che la propria biografia consista in un racconto di sé o peggio in un tirar fuori i propri sentimenti, come se il meglio di noi, nostro io più alto, consistesse in un raffinamento interiore. Questa pessima mistica trascura che sono gli eventi, quanto è esterno al corpo e alle anime, la vera materia nella quale l’io di chiunque viene tessuto. E perciò i più autentici e migliori libri autobiografici sono, per un solo apparente paradosso, dei libri di biografie altrui».

Questa che parrebbe una vera e propria dichiarazione di principio, Geminello Alvi la confina nell’ultima delle vite raccontate in questo interessante volume adelphiano, Eccentrici. Quindi, se dovessimo basarci su tale affermazione, ecco che le 42 biografie proposte dall’illustre economista diventerebbero in qualche modo autoritratti, magari parziali, magari informali, ma pur sempre riflettenti qualcosa di chi li ha tracciati. E in effetti, Alvi non riesce a celare la sua simpatia per i personaggi di cui racconta l’esistenza: tipi strani, estrosi, “eccentrici” appunto, cioè lontani non tanto dal centro (sono quasi tutti noti al pubblico, se non addirittura famosissimi), quanto da ogni aurea mediocritas, da qualsiasi livellante conformismo.
L’elenco dei protagonisti compreso nell’indice ad apertura del libro non segue nessun ordine, né alfabetico né cronologico, spaziando in luoghi ed epoche diverse. Ad ogni nome, l’autore affibbia una definizione, talvolta puramente denotativa (George Trakl, poeta), altre volte fuorviante o ironica: Keaton, imperturbabile; Andersen, ispirato; Salgari, orientale; von Stroheim, bugiardo; Legrand, lussurioso; Bordiga, settario; Artusi, benefattore…
Cosa racconta, Geminello Alvi, di questi signori (solo tre sono donne)? Fatti. Azioni. Peripezie. Viaggi. Fortune o disgrazie economiche. Matrimoni. Lutti. Tradimenti. E attraverso gli episodi salienti che hanno segnato le loro vite, ricostruisce e ci restituisce pregi e difetti, inclinazioni caratteriali, propensioni culturali e politiche. Così veniamo a conoscere insopportabili vezzi di qualche celebre attore, ammiriamo la nobiltà d’animo di un monaco buddhista nel Giappone del dopoguerra, deprechiamo le bassezze di un malandrino nel Nebraska dell’800, o ci interroghiamo stupiti sulle doti soprannaturali di una mistica tedesca degli anni ’30.
In questi medaglioni, scritti per lo più in terza persona, più raramente rivestendo i panni del protagonista, Alvi utilizza un linguaggio raffinato, orgogliosamente démodé, in uno stile che rimane sempre asciutto, monocorde e distaccato, sia quando descriva efferatezze sia quando celebri comportamenti elogiabili.
Cronista imparziale di vite vissute eccentricamente, l’autore sa che in ognuna di esse si confonde l’aspetto pubblico e quello privato, il volto e la maschera, l’indole naturale e il ruolo costrittivo: convinto che in generale gli esseri umani siano «persuasi che la vita sia improba recita, eppure intenti a recitarla con decoro»

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Eccentrici-Geminello-Alvi.html     9 febbraio 2016

RECENSIONI

AMBROSI

ROSANNA AMBROSI, I BAGNI DI CALDIERO – CASAGRANDE, BELLINZONA 1991

Rosanna Ambrosi, veronese emigrata in Svizzera a vent’anni, ben conosciuta nel mondo dell’emigrazione italiana per il suo impegno culturale e politico a favore degli stranieri, ha pubblicato in dicembre presso le Edizioni Casagrande di Bellinzona un romanzo-diario, I bagni di Caldiero, in cui ripercorre anni e atmosfere comuni al ricordo e alla sensibilità di molti di noi. Con tratto leggero e piacevolezza di stile, la Ambrosi recupera il rapporto doloroso ma fecondo che la legava ai genitori: una madre repressa e repressiva, dolente e pudica, che mai neanche in punto di morte riesce a trovare il modo di comunicare con la figlia al di là delle convenzioni, e un padre più amato, se non altro per l’aura di mistero che avvolgeva i suoi anni giovani, passati in carcere per attività antifascista. La bambina Rosanna viene fatta rivivere nella sua selvatichezza istintiva di animaletto mai del tutto addomesticato, impaurito e pronto a mordere: si veste da maschiaccio ma è affascinata da ogni preziosismo e raffinatezza femminile (appena accennato, ma intenso, è il richiamo subìto dall’elegante figura della nonna materna, che, sola, la sa introdurre ai misteri incantati della fiaba e della poesia); patisce presto il richiamo imperioso del sesso, occultato ferocemente da cattolicissimi sensi di colpa; conosce l’umiliazione di frequenti rovesci di fortuna della famiglia, il confronto penoso con ambienti più ricchi, più colti, più raffinati. Dapprima Verona, in seguito Padova, provinciali nella loro affettazione pseudoculturale, offrono alla sua adolescenza inquieta uno sfondo solidamente tradizionale su cui formarsi e affinare le armi per le prime, importanti, ribellioni. E’ l’incontro con Bernardo, poeta comunista più anziano ed esperto di lei, ad agire come miccia, a far esplodere i contrasti fino ad allora censurati in famiglia. Questa lunga e meticolosa carrellata di avvenimenti del passato, ripercorsi da una memoria mai ironica o risentita, a tratti anzi troppo lucida e distaccata, vengono inframmezzati da pagine diaristiche (esternamente rese riconoscibili anche da un diverso carattere tipografico) “al presente”, in cui Rosanna Ambrosi ormai adulta, divorziata e madre di due problematici adolescenti, si analizza e ridiscute i ricordi alla luce dei loro sviluppi concreti; racconta l’agonia dei genitori e, con essa, la morte, la non recuperabilità di una parte di sé; si giudica come madre, moglie, ex moglie, tenendo però sempre a bada la sua sofferenza, non scoprendosi mai troppo nelle fibre più intime: forse proprio perché finisce per “raccontarsi” eccessivamente negli accadimenti esteriori. E’ un po’ come se a noi lettori venisse proiettato sotto gli occhi il veloce film di una vita: un film girato con competenza e completezza, ma senza primi piani, senza pause per la riflessione. Un esempio tra i tanti, queste poche righe, liquidatorie, sul funerale della madre: «Infilata la cassa nel loculo, dei muratori l’hanno richiusa alla meglio. Più tardi vi verrà applicato un marmo. Mi faceva una ben strana impressione vedere murare mia madre».

Il linguaggio è pulito, lo stile scorrevole: e oggi poter scrivere ciò è già moltissimo. Ma se la sofferenza e la gioia fossero state in grado più spesso di aprire squarci, buchi neri, bagliori accecanti nelle pagine e nel lettore, Rosanna Ambrosi ci avrebbe fatto un dono migliore.

 

«Eco di Locarno», 22 febbraio 1992

RECENSIONI

AMBROSI

ROSANNA AMBROSI, GOMITOLI – HIBISCUS PRESS, ZURIGO 1991

Rosanna Ambrosi è arrivata a Zurigo dal nativo Veneto nel ’64, e da allora si è sempre occupata con competenza e dinamismo dei problemi dell’emigrazione, come insegnante e funzionaria sindacale. A tutt’oggi è membro eletto di due commissioni miste per i problemi degli stranieri nella città di Zurigo. Traduttrice e giornalista part-time (ricordiamo le sue collaborazioni ad Agorà nella rubrica «camera con vista»), per breve tempo ha tentato anche l’impervia via dell’editrice in proprio, coltivando sempre -al di là di tutte queste attività- l’ambizione e la passione per la scrittura. Con la poesia si era già cimentata una decina di anni fa, nel volumetto Diario discontinuo, in cui era pressante la materia esistenziale cui dare forma, ancora un po’ acerbo ma curioso di nuovi timbri risultava lo stile, febbrilmente franto in una ricerca non sempre coerente e rigorosa di suoni, e segni, e immagini a metà tra la post-avanguardia e un ungarettismo di maniera. Nel volume di versi che ha dato recentemente alle stampe (Gomitoli, Hibiscus Press), Rosanna Ambrosi è riuscita ad asciugare le più vistose sbavature di quella prima produzione, anche se talvolta persiste nel gusto per lo sperimentalismo più datato, con una consapevolezza che rasenta il masochismo: «Sì, lo so / spesso / scivolo nel banale // continuo a scivolare / in questo cunicolo / sdrucciolevole // chi verrà a ripescarmi / mettendomi manette ai polsi?».

I gomitoli del titolo sono composti da tanti fili (visioni, ricordi, emozioni), che indicano strade percorse e interrotte, rapporti intrecciati e strappati, matasse di vita da dipanare e ricomporre nella speranza di recuperare il bandolo iniziale, di cui servirsi per disegnare un arazzo armonioso: «riarrotolare / lentamente // (con pazienza) // i gomitoli interiori». Il più vivo tra questi «momenti di grazia poetici» mi pare quello rappresentato dall’ottava sezione di un breve poemetto senza titolo, che ha qualche cadenza montaliana: «finalmente / li trovammo / tutto un gruppo – una famiglia / non proprio porcini / ma parenti // bellissimi // li guardammo a lungo / con amore // decidemmo di lasciarli crescere / ancora un po’ // quando ripassammo / erano marci di pioggia».

Ma altri ancora si potrebbero citarne, di particolarmente felici, non tanto quelli in cui l’elegia è più spiegata e distesa, al punto da rasentare la retorica, quanto quelli più ironici e autoironici: «grande capacità / di fare / cose / alla rovescia / figli-lavoro-università»; «tre / quattro / cinque / (a volte sei-sette) / persone diverse / mi coabitano dentro // spesso / mi danno tutte fastidio».

Stilisticamente c’è da rilevare una propensione, non sempre formalmente giustificata, al pastiche linguistico, all’uso indifferenziato di francese, inglese, tedesco, lingue che certo contribuiscono a creare un’atmosfera di estraniamento e di sospensione del lettore, e che tuttavia non bastano da sole a fare poesia; un’evidente inclinazione all’uso-abuso degli avverbi, spesso tra parentesi, con l’esplicito proposito di riprodurre nei versi la prosaicità colloquiale di una poesia narrativa e “bassa”; la tendenza mediata ancora dal primo Ungaretti ad abolire qualsiasi segno di interpunzione, rime e metrica, in versi che si riducono per lo più ad un’unica parola e rifiutano quasi del tutto la coniugazione del verbo, come in questa poesia dell’ 80, una tra le migliori del libro: «al lume di una / candela / (una sola) // per / vedere meno // per lasciare / più spazio».

 

«Agorà» (Svizzera), 30 gennaio 1991

RECENSIONI

AMÉRY

JEAN AMÉRY, RIVOLTA E RASSEGNAZIONE – BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2023

Assistiamo da un po’ di anni alla celebrazione e autocelebrazione della tarda età. Osserviamo anche l’inamovibile occupazione di ruoli istituzionali di altissimo prestigio da parte di ottantenni e novantenni, insieme alle performance artistiche, sportive, sentimentali e sessuali di chi si avvicina trionfalmente al secolo di vita. Rispolverando le quattro idee portanti del De senectute ciceroniano, diversi autori firmano articoli, saggi e volumi che esaltano i lati positivi dell’invecchiamento. Per questo mi sembra salutare rileggere le pagine che Jean Améry scrisse in Rivolta e rassegnazione, affermando schiettamente che l’essere anziani è triste, difficile, frustrante. In una parola: brutto.

Améry (Vienna,1912 – Salisburgo,1978), nato da famiglia di origini ebraiche non praticante, dopo l’annessione dell’Austria alla Germania nazista nel 1938, emigrò in Belgio unendosi alla Resistenza. Nel 1943 fu arrestato e torturato dalla Gestapo, quindi deportato ad Auschwitz e poi a Buchenwald e a Bergen-Belsen, dove venne liberato dall’esercito britannico il 15 aprile 1945. Trasferitosi a Bruxelles, pubblicò numerosi volumi su temi etici e filosofici, tra cui il più famoso rimane Intellettuale a Auschwitz. Morì suicida, e proprio sul finis vitae e la morte volontaria si era espresso laicamente sostenendo tesi scomode e molto discusse.

In Rivolta e rassegnazione, uscito in Germania nel 1968, in Italia tradotto e riedito più volte dal 1988 a oggi, lo studioso austriaco demolisce ogni falsa illusione, ogni consolazione retoricamente attribuita alla vecchiaia, che se in passato godeva ancora di rispetto e venerazione perché considerata portatrice di sapienza e autorità, adesso viene esplorata dal punto di vista sociale e medico nei suoi reali effetti di impoverimento fisico e mentale. “Tutti i mezzi raccomandati su come sia possibile accettare, addirittura attribuire valore al declino – nobiltà della rassegnazione, saggezza crepuscolare, tarda pacificazione – mi parevano ignobili inganni, contro i quali si doveva mobilitare ogni parola”.

Il primo, intenso e acuto capitolo introduttivo dedicato al concetto di tempo (“è il nostro nemico giurato e il nostro più intimo amico, l’unica cosa che possediamo in esclusiva totale, ciò che non siamo mai in grado di afferrare, il nostro tormento e la nostra speranza”) indaga l’essenza del tempo personale, interiore, vissuto nella quotidianità, in relazione con il tempo misurato dall’orologio e dal calendario, esterno, collettivo e storico. Il primo può essere segnato dalla noia, dall’esaltazione, dalla fretta, il secondo è implacabile, scorre nell’unica direzione di un futuro che rimane come prospettiva aperta per il mondo, ma va inesorabilmente chiudendosi per l’individuo singolo. Dallo “scatenato galoppo” vissuto nella giovinezza, si passa al “regolare piccolo trotto della maturità” e allo stanco trascinarsi degli ultimi anni. Se il giovane si proietta nel domani e nello spazio che gli si apre intorno, il vecchio vive le sue giornate interiormente, consapevole di quanto siano limitate quelle che gli restano da godere. Il suo è un tempo de-spazializzato, di attesa, di cui avverte pienamente l’irreversibilità, sapendo che presto il suo corpo non occuperà più nessun posto nell’esistenza concreta degli altri. Per lui il tempo torna ad avere senso solo nella memoria del vissuto, cronologicamente confuso, per cui “cinque anni fa” valgono quanto “vent’anni fa”, recuperabili entrambi solo nell’intensità del ricordo di avvenimenti fondanti, incisi nella gioia o nel dolore.

Il testo di Améry esamina il modo in cui la persona anziana trascorre gli anni che la separano dalla fine: diventando estranea a sé stessa, senza riuscire a trovarsi più in sintonia con la società che cambia, patendo lo sguardo indifferente e spazientito degli altri, vivendo con/per il morire.

Attraverso una lente lucidamente severa, l’autore racconta di come il senescente si osservi nel decadimento del corpo, arrabbiandosi con le rughe del viso, la presbiopia e la sordità, i muscoli non più tonici, la caduta di denti e capelli: “misera gamba, disobbediente cuore, stomaco ribelle: a me fate male, nemici, a me, che vorrei palparvi e proteggervi e compatirvi e al contempo strapparvi dal mio corpo, sostituirvi”. In una società che impone all’individuo di rimanere sano ed efficiente fino alla morte, agli imperativi esterni si somma anche l’umiliazione di chi si sente sempre più fragile e snervato. E gli altri (i figli, i nipoti, i vicini) con che indulgenza guardano le teste incanutite? Non le guardano, semplicemente. Le trovano imbarazzanti, perché riflettono un futuro problematico, di sofferenza, e di inutilità attuale. Viene in mente quello che ci hanno tramandato Strabone ed Eliano, (e ricordato da Giovanni Pascoli nei Poemi conviviali), sulla legge in vigore nell’isola di Ceo, che obbligava gli anziani a suicidarsi con la cicuta, compiuti i sessant’anni, in quanto considerati di peso alla comunità. Qualcuno sorrideva, durante la recente pandemia del Covid, riflettendo sui risparmi dell’INPS nell’elargire pensioni…

L’individuo che invecchia, persino se ha avuto un’esistenza felice, ricca di soddisfazioni morali e successi finanziari, si ritrova comunque perdente, perché “il suo agire è già stato quantificato e soppesato” dall’ economia di mercato e del profitto. Ha prodotto, è stato utile, è vero: ma non produce più, non serve più. Le jeux sont faits.

Un numero sempre più consistente di “âgées” si ribella, vuole continuare a competere, va in palestra, si trucca, ricorre a diete e alla chirurgia estetica; altri si rassegnano, accettando con dignità il tramonto, l’inattività, la solitudine. In questo caso rischiano però l’arroccamento in un privato sempre più ristretto ed egoistico, il rifiuto snobistico di ogni novità, la retrograda ostinazione nel considerare il mondo irritante e incomprensibile, arrivando così a un’inevitabile alienazione culturale. Sebbene nel subconscio ciascuno di noi sia convinto della propria immortalità, come affermava Freud, il confronto con la grande nemica, l’innominabile falciatrice, diventa più pressante e minaccioso con l’avanzare degli anni. Per quanto cerchi di allontanarne l’idea, il vecchio sa di essere un moribundus, e come tale è preda di angosce e paure, vive in equilibrio precario, in “un’aspettativa vuota e fallace”, tormentata dal pensiero di quando e come arriverà il momento fatale. Jean Améry ha deciso di sceglierlo autonomamente, seguendo l’ammonimento nietzschiano del Crepuscolo degli idoli: “Si dovrebbe, per amore della vita, volere una morte diversa, libera, consapevole, senza alcunché d’improvviso”.

C’è chi non accetta la calata definitiva del sipario, soffre, si dispera: “Tutti i miei dominii per un attimo di tempo”, sembra siano state le ultime parole di Elisabetta I d’Inghilterra. Ma ‘a livella è decisamente democratica, non conosce privilegi.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 12 aprile 2023