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FERRARI

EMANUELE FERRARI, ASCOLTARE IL SILENZIO – MIMESIS, MILANO 2013

Secondo il pianista e musicologo Emanuele Ferrari (Milano,1965), il silenzio è un elemento cruciale e imprescindibile di qualsiasi creazione ed esecuzione musicale. Nel breve saggio pubblicato da Mimesis, l’autore afferma che «la musica è in rapporto costante col silenzio: anche quando non è materialmente presente esso agisce come sfondo, come rimando implicito, come dimensione di senso. Tra i due elementi esiste un’intera gamma di relazioni che vanno dall’evocazione al rimando implicito, dall’allusione al comando».

Nella prima parte del suo scritto, Ferrari invita il lettore all’ascolto attento di diverse atmosfere musicali, confrontando un Notturno di Chopin con una Fantasia di Bach: la poetica emozionale e interiore del primo con «lo stupefacente vortice di forme sonore» del Cantor di Lipsia. E ancora di Bach sottolinea «il silenzio evocato» in un clima «di intensa, quieta devozione ed elevazione spirituale» nel corale Vieni ora, salvatore dei pagani, o l’ascetismo di fondo espresso dalla Prima Sonata in sol minore per violino solo, in cui la musica esprime «il fluire del pensiero nel silenzio». E sempre in Bach, nella Passione secondo Matteo, mette in luce il senso di abbandono reso evidente dal tacere di Gesù interrogato da Pilato, o dal silenzio che segue il suo grido “Eli, Eli” sulla croce. In una prosa appassionata ma mai pedantesca, Ferrari ci guida a riflettere sul silenzio squarciato, lacerato dalle fanfare in Mahler, che poi si inabissa in «una melodia struggente e carica di nostalgia». O sulla «memoria del silenzio» rievocata dalla musica nell’apostrofe straziata della Elizabeth wagneriana nel Tannhauser. E ancora sulla diversità di interpretazione che grandi pianisti danno alle pause in Beethoven, nella ricerca di «un equilibrio quasi utopico fra pieno e vuoto, transitorietà e permanenza». Una guida preziosa e competente per chi voglia lasciarsi penetrare dalla musica anche nelle sue sospensioni, rarefazioni, attese.

 

«Accademia del Silenzio», 22 novembre 2013

RECENSIONI

FERRARIO DENNA

MARISA FERRARIO DENNA, RITRATTI IN CONTROCANTO – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2011

Un’architettura rigorosa, meditata, in cui racchiudere il destino e l’arte di trenta scrittrici e di venti pittrici, e la memoria di dieci donne appartenenti alla mitologia e alla letteratura classica.
E’ questa la scelta coraggiosa ed estranea alle mode culturali attuali di Marisa Ferrario Denna, che così ha deciso di rendere omaggio a figure femminili eccezionali della storia mondiale.
Quindi, un volume che si divide in due parti, Scrivere  e  Dipingere, aperto e chiuso da due composizioni che fungono da prologo ed epilogo. La sezione Scrivere presenta trenta poetesse o narratrici, a partire da Anna Maria Ortese, scomparsa nel 1998, per risalire alla più antica, la cinquecentesca Isabella Di Morra. Ad esse seguono le poesie dedicate a dieci eroine classiche, da Ipazia a Penelope, passando per Medea e Circe. Nella seconda parte del libro, Dipingere, si percorre il cammino inverso, partendo dalla figura più antica (Sofonisba Anguissola), per terminare esemplarmente con una donna che racchiude in sé diversi ruoli e talenti: Lalla Romano, scrittrice e pittrice, moglie e madre.
A ciascuno di questi personaggi femminili, Marisa Ferrario Denna dedica due poesie, la prima delle quali è un vero e proprio ritratto in versi, in cui si tratteggia l’esistenza della protagonista nei suoi snodi essenziali: famiglia, ambizioni, amori, solitudini, malattie, violenze, morte. Talora tra le righe affiorano addirittura i titoli dei libri scritti , come nel caso dell’Ortese, o si allude alle opere più conosciute. A questa poesia introduttiva, che presenta nei tratti essenziali la figura dell’artista, ed è scritta a volte in prima persona ( in una sorta di autobiografia sovrapposta, di elezione), ma per lo più è rivolta a un tu fraterno, corrisponde in controcanto una seconda poesia, più breve, spesso epigrammatica, in cui l’autrice offre il suo ammirato o impietosito, solidale o consapevolmente amareggiato, omaggio alla donna e all’artista raccontata.
La partecipazione della poetessa è sempre vivissima e empatica, di complice sorellanza e intensa adesione intellettuale: non c’è mai rancore femminista, ma una consapevolezza fiera della dignità del lavoro artistico delle donne, insieme alla constatazione desolata di quanto questa fatica dello scrivere e del dipingere sia stata e sia tuttora spesso osteggiata o sottovalutata dall’ambiente familiare e culturale circostante. E allora la denuncia può essere aspra, il dolore causato dall’incomprensione dei più si fa acuto e risentito: «oh, Sylvia, fissata per sempre/ con gli occhi abbassati,/ in quanti ruoli, dimmi,/ in quanti ruoli furono/ i tuoi anni più dolci così devastati?»

L’elenco delle sofferenze patite da queste scrittrici si esemplifica spesso in percorsi di vita quanto mai tortuosi, sofferti, che sfociano in comportamenti autodistruttivi, in malattie feroci, in suicidi. Quando non addirittura, come nel caso di Isabella Di Morra, nell’uccisione da parte dei parenti.
Marisa Ferrario Denna riesce comunque a decantare ogni violenza, anche la descrizione del più ottuso sopruso, in una scrittura melodiosa, quasi cantata, che fa tesoro di una tradizione millenaria, scegliendo sempre una struttura metrica collaudata, utilizzando endecasillabi e novenari , quartine e sonetti che la ancorano alla norma letteraria e insieme le permettono audaci innovazioni stilistiche.
E’ in questa tonalità discreta e affabile che nascono i versi più abbandonati e lievi, quasi che l’autrice chieda alle sue eroine una dichiarazione affettuosa di amicizia, una preghiera di assistenza e ispirazione, come nella poesia dedicata a Anna Achmatova: «Sei arrivata, amica mia cara, / vieni, beviamoci un tè. / Possiamo parlare del tempo…». Esiste, in chi scrive queste poesie, una pacata e sicura fiducia nella parola poetica, nella sua purezza e gratuità: l’autrice sembra ottimisticamente certa della verità cui può giungere l’arte, nella sua ricerca dell’eterno: «C’è solo il poeta a vincere / il tempo e lo spazio».
E se nell’artista donna può sussistere un timore più accentuato dell’esposizione e del giudizio altrui, che la spinge a chiudersi in se stessa e a rinunciare anche al suo scampolo di gloria («E’ qui che sta la vita rannicchiata. / Al cuore concentrato dentro il corpo / la mente s’introverte. Si rinserra»; «Parole strappo nel tessuto / di un urlo, per anni, sottaciuto»), se è vera quindi questa esitazione femminile nell’offrire al mondo la propria arte, è d’altra parte reale anche un’orgogliosa consapevolezza della propria irrinunciabile singolarità, della fierezza della propria voce. E questo si avverte di più nelle poesie dedicate alle pittrici, quasi che lì il segno sulla carta possa esprimere maggiormente una sua incisiva peculiarità ( «è nella forza del colore / nella potenza dell’ombra e della luce / che ho riposto di me memoria»). Ancora di più si sente questa convinta considerazione di sé nelle dieci poesie dedicate alle figure classiche della storia antica, che non nascondono la loro appassionata e pervicace appartenenza alla loro realtà femminile di amanti, madri, figlie, sorelle, sacerdotesse, filosofe.
E proprio tra questi versi dedicati alla classicità, ne troviamo due che ben definiscono qual è il destino particolare dell’essere donna. «Sorgo e tramonto; e in questo divenire / vado tracciando il cerchio della vita». Legata a doppio filo al suo ciclo biologico, la donna artista se ne sa districare con sofferenza e purissima ansia di libertà: Marisa Ferrario Denna lo racconta con intenerita e ammirata partecipazione.

 

«Leggendaria» n.99, marzo 2013

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FERRARIO DENNA

FERRARIO DENNA, MAL DI LUNA – BOOK, FERRARA 1996

Se esiste una specificità femminile della poesia, se esiste cioè una poesia al femminile, tale è quanto altra mai la poesia di Marisa Ferrario Denna, particolarmente in questo suo ultimo volume di versi, a partire già dal titolo (Mal di luna, Book Editore). “Mal di luna” così come si dice mal di testa, o mal di mare: un male fisico, patito nel corpo e insieme cerebrale, di pensiero, proprio per l’accezione filosofica, la valenza mitica – ed essenzialmente muliebre – che ha il nostro pianeta. Alla fonte e alla foce questi versi sembrano destinati soprattutto a un pubblico di donne, perché in massima parte dalle donne ispirati e ad esse dedicati. Si tratta infatti in gran parte di versi d’occasione, scritti in omaggio ad amiche o parenti, o su committenza per antologie o ancora su richiesta per avvenimenti particolari, non estemporanei ma giustificati da una loro necessità e impellenza. Sotteso e aleggiante su di essi è un concreto sentimento di complicità, di sorellanza, verso l’altra metà del cielo, sia essa incarnata in nomi e facce conosciute (Rosalba: «corre un nastro di seta fra di noi»), o riferito a un vasto e antico mondo femminile, fatto di gesti che hanno la sacralità del rito, la gravità della tradizione («col mestolo alla mano sul balcone / s’affacciano le donne a respirare. / E intanto danno l’acqua a una piantina / o ritirano l’ultimo bucato/ ancora steso lungo la ringhiera»). Le donne, quindi, come argomento principale della raccolta poetica: donne della mitologia o della letteratura antica. Marisa Ferrario Denna mostra tutta la sua profonda e acuta sensibilità nel raccontare «l’amore quieto e rassegnato di Penelope», «il dio che infuria dentro il corpo» di Cassandra, le condanne dei destini di Elena e Didone, gli inganni della parole di Circe, la colpa imperdonabile, ma assetata d’amore, di Giocasta. Sono gli uomini, qui, in queste storie tragiche e grandi, ad apparire comparse insipide e incapaci di assumersi responsabilità, a essere figure accessorie, di passaggio. E infatti “passaggi” è intitolata la sezione dedicata ad alcune figure maschili: il bambino picchiato, il viaggiatore addormentato, il sensuale cameriere spagnolo, il vanesio seduttore insistente, il conferenziere parolaio. L’unico uomo ad avere consistenza e spessore umano è il padre della poetessa, morto e recuperato nella morte, dopo dissidi e incomprensioni che hanno divaricato le loro esistenze: «Ma mi è rimasto dentro un urlo cupo / un gesto di ribelle disatteso, / un conto in sospeso da saldare, / con la memoria e i fantasmi del dolore». Altri versi appartengono poi all’area privata e nostalgica del passato, dell’infanzia, della vita nelle case, nelle strade e paesaggi di provincia, e sono tra i più felici della Ferrario Denna, tra i più spontanei e sorgivi, perché l’autrice sembra avere un suo segno distintivo nella capacità di recuperare dalle nebbie del ricordo un presente concretissimo e d salvezza, cui potersi aggrappare per andare avanti. Ieri che vivifica l’oggi, morte che dà senso alla vita. Le paure, le gioie, i sogni e i miti del passato, privato e collettivo, sono la realtà vera, quella che dà significato al quotidiano, forse al futuro: «L’Ade non è l’esilio/ che ci aspetta/ ma il bosco che ci spaventò – bambini». Oppure: «Non hanno storia quelli come noi, / vissuti dentro l’isola dei sogni, / fuori del tempo, contro il quotidiano, / legati solo a un filo di memoria». Ecco, quindi, l’astoricità di questa poesia, la sua indifferenza all’attualità, il suo nutrirsi di sogno, che ne segnano il pregio e il limite. L’atemporalità della scrittura viene ribadita anche formalmente, dalle scelte stilistiche dell’autrice, tutte nel solco aureo della nostra migliore tradizione, da Pascoli a Gozzano, da Montale e Giudici, poeti molto amati e recuperabili, come sostrato di lettura e insegnamento, nell’opera di Marisa Ferrario Denna. La quale si affida a una scelta metrica facile e difficile, quella di un cantabilissimo endecasillabo, a volte inframezzato da settenari, lontana comunque dalla prosaicità narrativa e da ogni sperimentazione. Ma la cifra peculiare di questa poesia è l’incanto elegiaco nella forma, il mondo degli affetti e della memoria femminile nei contenuti: mai titolo di una raccolta poetica è stato più appropriato.

 

«Steve» n. 15, autunno 1996

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FERRERO

ERNESTO FERRERO, STORIA DI QUIRINA – EINAUDI, TORINO 2014

Una vedova ultraottantenne, abitudinaria e un po’ maniaca come tutti gli anziani, laureata in lettere antiche e appassionata di citazioni latine con cui infarcisce le sue scarse conversazioni quotidiane, vive la sua serena e dignitosa esistenza di pensionata in un paesino delle montagne lombarde. Solida e robusta come le vacche della razza bruna alpina che pascolano nella sua zona, esiste senza dare fastidio agli altri. «Era orgogliosa. La solitudine non le pesava, e anzi le sembrava una condizione privilegiata». Ha un nome antico, romano, come tutti i membri della sua rispettabile famiglia borghese: Quirina. Sua unica passione è il giardino, più umilmente definito orto, in cui coltiva rose, ortensie, pomodori e le amate zucchine: cura il suo verde con la stessa compita dedizione rivolta alla sua inappuntabile casetta. «Perché all’ordine Quirina teneva moltissimo, anche in giardino. Lo considerava il perfetto equivalente di una disciplina mentale e morale…doveva essere l’emblema di una sorta di misura, di armonia cosmica…». Ma ecco che un bel giorno l’universo decoroso, disciplinato e monotono dell’anziana viene sconvolto dalle scorribande ipogee di una talpa, che con le sue gallerie sotterranee e collinette di terreno in superficie le deturpa l’orto («L’abominio. L’intollerabile offesa.»). Inizia così una strenua guerra di Quirina contro l’ospite indesiderato: cerca alleati in paese e in famiglia, studia rimedi, ricorre a erbe velenose, acqua, gas, rumori, vibrazioni, colpi di roncola, trappole, gatti nevrotici, spicchi d’aglio e vento per debellare la «trivellatrice invisibile». Che tuttavia resiste, e continua a sconciarle l’orticello. Alla fine, Quirina accetta l’antagonista come una sorta di alter-ego, oppure una metafora del potere subdolo e vessatorio, o ancora come espressione della sana vitalità della natura. Nell’economia universale, e nell’elegante scrittura di Ernesto Ferrero, c’è posto per tutti: vecchie, talpe e buchi nell’orto.

 

«L’Immaginazione»» n.285, gennaio 2015

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FERRI

GIULIANA FERRI, UN QUARTO DI DONNA – ELLIOT, ROMA 2017

Giuliana Ferri (1923-1975), romana, giornalista politica, attivista del PCI, pubblicò questo suo unico romanzo un anno prima di morire prematuramente. È la storia di una donna che, negli anni 70, alle prese con i doveri di moglie-madre-lavoratrice e con quelli altrettanto impegnativi di militante comunista, vive una sua personale e pubblica paura di sconfitta, al punto da non sentirsi mai del tutto completa e realizzata. Un quarto di donna, insomma, una persona che vorrebbe recuperare, e teme di non riuscirci, la sua interezza.

I quattordici capitoli in cui si divide la narrazione sono scritti con uno stile quasi giornalistico (l’autrice era redattrice de L’Unità), preciso, incalzante, sorretto da un’evidente intenzione esplicativa e definitoria, tesa a dire tutto senza velleità di strategia letteraria, pur nell’accuratezza elegante del periodare. I temi sono quelli dello scavo interiore e dell’esame di coscienza politico: era il periodo dell’interesse collettivo per la psicanalisi, della nascente consapevolezza femminista, delle lotte popolari per i diritti civili, ma anche delle prese di posizione schierate, doverosamente condivise con la collettività.

Come racchiusi in una coerente cornice, i capitoli vengono titolati con un unico termine: Ritorno, Aborto, Viaggio, Lei, Incontro… A partire dal primo (“Risveglio”), che narra del faticoso inizio di giornata nell’appartamento in disordine, con i due bambini lamentosi, la colazione da preparare, i vari appuntamenti da ricontrollare: «Il mio globo mi piace, anzi lo amo e lo riamo continuamente. L’ho voluto così, pulito, scarno, abbondante di valori, inzeppato di principi, cresciuto nel suo tempo, pieno di buone intenzioni, frettoloso». Per finire con l’ultimo brano (“Separati”), che sancisce il divorzio dal marito, la fine di un’abitudine amata ma ormai logora e disseccata: «Penso ai suoi gusti che non hanno mai trovato spazio nei miei, alla quiete che non gli ho dato: i risvegli pacati, lenti come una passeggiata, la vita addomesticata di premure, la stupidità delle ore di riposo, a tutte quelle cose che ho sempre rifiutato cercando disperatamente qualche altra cosa».

In mezzo c’è l’esistenza comune, in quegli anni, a molte altre coppie e a molte altre famiglie dell’Italia borghese, colta, di sinistra, efficiente e scontenta di sé. C’è una relazione extra-coniugale di lui e l’avventura di una notte di lei con un vecchio compagno di studi, le serate nei salotti intellettuali romani, i film e i libri, le discussioni politiche e i pettegolezzi dalla parrucchiera, la sessualità matrimoniale di routine, un aborto clandestino poco sofferto e partecipato da entrambi, le bollette scadute e la domestica assillante. C’è soprattutto il confronto continuo e appesantito dai sensi di colpa con le proprie utopie giovanili, il desiderio frustrato di un’intensità di rapporto coniugale che si manifesta invece annacquato e abitudinario, l’interrogarsi reciproco sul ruolo genitoriale, il ricordo dell’impegno antifascista ormai diluito in fiacchi dibattiti parlamentari. E la stanchezza della protagonista, sempre in attesa di conferme, di approvazione, di solidarietà: «Ho bisogno che qualcuno si avvicini e mi dica che sono una gran brava persona».

Il volume è introdotto da un’intelligente prefazione di Angela Scarparo.

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/Un-quarto-di-donna-Giuliana-Ferri.html       13 marzo 2017

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

FERRONI

FERNANDO FERRONI, LA SCIENZA TRA VERITA’ E BALLE – CASTELVECCHI, ROMA 2017

Il Presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, Fernando Ferroni (Roma, 1952), professore ordinario presso l’Università Sapienza di Roma, ha pubblicato per Castelvecchi un intrigante libriccino, “La scienza tra verità e balle”, che in dodici smilzi capitoli ci illustra alcuni tra i maggiori svarioni presi da scienza e scienziati nel corso della storia millenaria dell’umanità. Non solo errori involontari e inconsapevoli, non solo equivoci o inciampi, ma anche inganni, frodi, imbrogli veri e propri.
Come quello che nell’88 fece sussultare la comunità scientifica mondiale, lasciando sgomenti medici, teologi e filosofi, ma galvanizzando gli omeopati e gli scrittori di fantascienza, quando Jacques Benveniste pubblicò su Nature uno studio sulla memoria dell’acqua. Più recentemente, un giovane ricercatore, Jan Hendrik Schön, affermò di aver costruito un transistor privo di silicio, avviandosi così a una folgorante carriera accademica, prima di essere smascherato e denunciato.
Più giustificabili gli errori degli antichi, da Aristotele a Tolomeo, dovuti a una visione antropocentrica del cosmo o all’eccessiva autoreferenzialità del proprio sapere. Nell’800 il famoso astronomo Giovanni Schiaparelli ipotizzò la presenza di vita organica su Marte, e anche Enrico Fermi, geniale fisico italiano, vinse il Nobel grazie a un’intuizione rivelatasi poi falsa.
Due straordinarie scienziate, Ida Noddack e Lise Meitner, produssero ricerche eccezionali, ma ignorate probabilmente perché partorite da cervelli femminili.

Gli errori nella scienza derivano da molteplici fattori: mancanza di metodo nella sperimentazione o nella verifica dei risultati, problemi di strumentazione, pregiudizi ideologici, timori politici. Quando non si tratti addirittura di frodi e imposture dettate da interessi economici, come nel recente caso del metodo Stamina, che ha illuso e ingannato centinaia di malati.
Ma, come scrisse Jules Verne, “la scienza è fatta di sbagli che è utile commettere, perché a poco a poco ci conducono alla verità”.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/scienza-verita-balle-Ferroni.html;   17 marzo 2017

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FERRONI

GIULIO FERRONI, LA SOLITUDINE DEL CRITICO – SALERNO, ROMA 2019

“Siamo nel tempo della moltiplicazione, della pluralità, dell’eccesso: costipazione degli oggetti, delle informazioni, dell’esperienza, delle possibilità, delle lacerazioni, della comunicazione”. Così inizia La solitudine del critico, pamphlet che Giulio Ferroni, Professore Emerito di Letteratura Italiana all’Università La Sapienza di Roma, ha dedicato ai processi della critica letteraria degli ultimi decenni. Anni troppo pieni di tutto, quelli in cui ci troviamo a vivere, quindi anche di libri, di linguaggi e teorie interpretative diverse.

La figura del critico letterario, che in passato godeva di un notevole prestigio, facendo pesare le sue scelte e i suoi giudizi nelle sedi deputate (case editrici, riviste, quotidiani, corsi universitari, dibattiti nei media) e aspirando al ruolo di maître à penser anche in ambito etico, filosofico e politico, si vede oggi privata di autorità da parte delle istituzioni, e di credibilità da parte del pubblico dei lettori. Tale mortificante esautorazione è forse derivata sia dal cambiamento dei metodi comunicativi, (dominati dalla rete e dai media), sia dalla caduta dei modelli umanistici, sia da due opposte tendenze affioranti nella critica contemporanea: l’arroccamento in discipline specifiche da un lato, il dilagare in campi eterogenei e onnicomprensivi dall’altro, in una sorta di “espansione tuttologica”. Attualmente prevale poi la moda di sottoporre qualsiasi prodotto editoriale a statistiche, classifiche, sondaggi, valutazioni tramite “like” e stelline, per cui l’intellettuale che pure aspiri a impegnarsi in una seria ermeneutica del testo, si vede assoggettato alle esigenze del mercato, e finisce per ridursi a megafono pubblicitario.

L’excursus che Ferroni offre ai lettori sugli sviluppi della critica, prende l’avvio dagli anni ’60, anni di grandi trasformazioni sociali, di apertura democratica e di impegno politico: comparvero allora le tesi innovative e spesso contrastanti di Goldmann, Girard, Adorno, Jakobson, Todorov, Bachtin. Nel decennio successivo furono lo strutturalismo e la semiologia (Barthes e Derrida) a imporre un nuovo approccio alle opere, chiamando in causa tutte le scienze umane: filosofia, antropologia, sociologia, psicanalisi. In seguito, fu il decostruzionismo di Deleuze-Guattari a suggerire modalità alternative di avvicinamento al testo.

In Italia, dall’interpretazione tradizionale e storicizzata di Sapegno e Binni, si passò a quella militante di Debenedetti a quella psicanalitica di Orlando, quindi alla semiologia di Corti e Segre. Una serie successiva di mode culturali e di letture particolari dissezionanti forma e contenuto secondo ottiche diverse, misero in crisi l’idea di letteratura intesa come “senso integrale del mondo”, nelle sue tensioni, aspirazioni, angosce. Ne è derivata “una fase di disorientamento e di anarchia”, tra ibridismi di vario genere, complicata dalla crisi economica e politica, che ha allontanato i lettori dal reale rapporto con il libro, espunto da ogni orizzonte esistenziale e storico.  Così nell’ultimo ventennio la passione per la teoria è andata scemando, e con essa l’illusione della scientificità della critica, soprattutto per il repentino stravolgimento dei metodi di conoscenza imposti da internet e dai social. La volontà di ridare significato e sostanza all’esperienza della lettura, aldilà dei tecnicismi esasperati dello strutturalismo, fu espressa dalle voci discordanti di Cases, Lavagetto, Berardinelli, Di Girolamo, Brioschi, Bertoni.

A circoscrivere in un cono d’ombra la critica letteraria sono state negli ultimi decenni altre discipline di orientamento: la linguistica, in primis, con la sua pretesa di ricondurre a puri sistemi funzionali e formali ogni struttura comunicativa. Anche la proliferazione dei cultural studies, intenti a promuovere l’espressione di tutte le minoranze (sociali, di razza e di genere), e di qualsiasi forma espressiva, indipendentemente dal suo effettivo rilievo culturale, ha contribuito a ridimensionare l’attività interpretativa del critico. Insieme alle neuroscienze ‒ che riducono la creatività artistica e l’esperienza estetica a meccanismi cerebrali ‒, alla geocritica e all’ecocritica, più sensibili all’habitat in cui le opere vengono prodotte che alle loro connotazioni stilistiche.

Quale la ricetta suggerita da Giulio Ferroni per ridare fiato a una disciplina che molti considerano ormai agonizzante, se non definitivamente morta? La indica già il sottotitolo del libro: “leggere, riflettere, resistere”. Leggere perché i libri “ci parlano di ciò che non abbiamo”, aiutandoci a mitigare le nostre ansie e a inseguire i nostri desideri. Riflettere “sull’inafferrabile oggettività del mondo”, che essendo altro da noi chiede di essere capito e interpretato. Resistere all’omologazione imposta dal mercato, che ci vorrebbe assuefatti alla comunicazione dominante, alla pubblicità ipnotica, all’impero “del pensiero unico economico e computazionale”. In questo compito di sensibilizzazione il critico letterario non deve essere lasciato solo.

 

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www.sololibri.net/La-solitudine-del-critico-Ferroni.html             9 dicembre 2019

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FINI

MASSIMO FINI, CATILINA – MARSILIO, VENEZIA 2016

Chi è stato davvero Catilina? Quali gli scopi della sua famosa congiura? In questo volume Massimo Fini ci offre una delle sue originali biografie, autentiche rivisitazioni critiche di personaggi troppo facilmente liquidati dalla storiografia tradizionale. A chiunque abbia studiato, al liceo o all’università, storia romana, il nome di Catilina riporta subito alla mente l’apostrofe con cui Cicerone gli si rivolse dagli scranni del senato: «Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?». Questo recente saggio di Massimo Fini, pubblicato da Marsilio, ci offre l’opportunità di conoscere più a fondo – e in pagine vivaci, non boriosamente accademiche -questo personaggio, che l’autore introduce subito come autore della «prima, anche se fallita, rivoluzione della Storia». Letterariamente, sono stati lo stesso Cicerone, e con lui Sallustio, a ragguagliarci sulla vita e sulle imprese di Catilina; servendosi delle loro testimonianze, e di quelle più frammentarie di Plutarco, Svetonio, Dione Cassio, Fini ragguaglia il lettore sugli essenziali dati biografici del suo protagonista.

Nato a Roma nel 108 a.C. da una famiglia patrizia, era «alto, asciutto, atletico, nevrile», dotato di «una spavalderia, un’audacia, un coraggio spinti fino alla temerarietà»; aveva fama di grande seduttore, e venne addirittura accusato di aver violato una Vestale, tale Fabia, cognata di Cicerone, che forse proprio da allora gli giurò inimicizia eterna. Fu combattente fedele accanto a Lucio Silla, e tra i trenta e i quarant’anni percorse tutto il cursus honorum, da questore a edile a pretore, senza approfittare di particolari appoggi politici o finanziari. Tentò tre volte di venire eletto console, tra il 66 e il 64 a.C., ma venne sempre fermato dalla feroce ostilità dell’oligarchia aristocratica, che riuscì a impedire la sua nomina attraverso escamotages legali e processi truffaldini messi in atto non solo dal nemico di sempre, Cicerone (diversissimo da lui per «temperamento, abitudini, attitudini, carattere, concezione della vita»), ma anche da falsi amici e alleati ingannevoli, quali Crasso e Giulio Cesare.

Al primo di questi oppositori, Massimo Fini dedica un divertente secondo capitolo, senza nascondere l’antipatia quasi nauseata che gli provoca la figura dell’oratore («politicante di terz’ordine, maneggione e intrigante… di una viltà, fisica e morale, patologica e caricaturale… Per il carattere ameboide, incerto, molle, svirilizzato Cicerone assomiglia ad Aldo Moro, è una specie di protodemocristiano. Per vanità e trombonaggine ricorda invece Spadolini, ma uno Spadolini disonesto e moralmente corrotto»). Crasso e Cesare vengono invece definiti «due opportunisti», che dapprima illusero Catilina del loro appoggio, per poi negarglielo nel momento cruciale del suo attacco al potere, spaventati dal radicalismo rivoluzionario del suo programma sociale. Che si delineava in alcuni punti focali: fine dei privilegi aristocratici, riforma istituzionale in senso democratico, legge agraria, cancellazione parziale dei debiti. Un programma decisamente rivoluzionario, che raccoglieva gli entusiasmi della plebe (soprattutto quella rurale, impoverita dai latifondisti), degli artigiani impoveriti e indebitati, degli schiavi, delle donne escluse dai diritti politici, dei giovani galvanizzati dall’idea di un riscatto economico e sociale dei ceti emarginati e dal richiamo ai nobili valori di integrità morale dell’antica Roma.

Gli ultimi capitoli del volume di Massimo Fini sono dedicati ai mesi febbrili e tragici del 63 a.C., tra settembre e dicembre, in cui Catilina decise di organizzare la sua congiura contro lo Stato passando all’azione violenta, tra assassini programmati e falliti, insurrezioni mancate, tradimenti, lettere anonime, denunce, arresti, esecuzioni capitali di alcuni congiurati: avvenimenti tutti commentati dalle quattro famose arringhe ciceroniane in Senato. Fino alla conclusione inevitabile e sanguinosa, con la battaglia combattuta nei pressi di Pistoia tra i 3000 ribelli e i 18000 dell’esercito romano, sigillata dalla morte eroica di Catilina, a cui anche l’ostile Sallustio rese omaggio con queste parole: «Venne trovato lungi dai suoi fra i cadaveri dei nemici; respirava ancora un poco ma gli si leggeva sul volto la stessa espressione di indomita fierezza che aveva da vivo».

 

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www.sololibri.net/Catilina-Massimo-Fini-145826.html    21 gennaio 2017

 

 

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FINZI

GILBERTO FINZI, DIARIO DEL GIORNO PRIMA – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2012

Gilberto Finzi ha dedicato lunghi e operosi anni alla letteratura in qualità di docente, critico e consulente editoriale, distinguendosi inoltre in modo particolare come poeta impegnato nella ricerca linguistica e sperimentale: ha pubblicato numerosi volumi di versi con le maggiori case editrici italiane, è stato tradotto all’estero, antologizzato, premiato, discusso e celebrato.
Raggiunta la ragguardevole età degli ottantacinque anni, ha deciso di dedicare a se stesso l’omaggio di una pubblicazione, presso le eleganti edizioni Nomos, di una sessantina di poesie scritte nell’arco di pochi mesi, «versi insoliti e inattesi… poesie non liriche, umane, forse irripetibili», tutte incardinate intorno al tema, sofferto e desolante, della senilità: l’età «monstre».
Ovviamente, il fil rouge che lega la maggior parte dei versi (che l’autore stesso definisce, forse con eccessiva severità autocritica, «un insolito mix di metafisica, ricordo, fatti qualunque, sogni… il tutto condito da un linguaggio prosastico e ben poco lirico») è quello della memoria («ieri o ierlaltro, / un secolo addietro»»). Quindi la nativa Mantova, con Piazza Sordello percorsa da turbe di studenti vocianti; i sogni di gioventù irrealizzati (la Parigi-Dakar così spesso vagheggiata); la maestra elementare («Severa crocchia alla nuca, / mano tremula e odore di caffè»); le donne amate, le polemiche letterarie; gli scrittori più ammirati e studiati: Dante, Foscolo, gli Scapigliati, Ungaretti e Quasimodo, i francesi… Ricordi di una vita, che ora appaiono annebbiati e talvolta privi di significanza: «Vengono e vanno gli zero colorati, / i fosfeni, gli inganni di tutto il passato». Ma la meditazione sul tempo che passa riguarda anche lo spettrale presente, fatto di isolamento («La solitudine si svela al mattino / con le ossa che dolgono»), di visite mediche («Ho preso il numeretto, / ho fatto il prelievo, ho dato, / sono in attesa del verdetto»), di disfacimento fisico («lo scadimento dei muscoli, degli arti, / le orbite profonde degli occhi / luciferini, le petecchie / nella pelle infisse come chiodi»). E la vanità dei gesti e dei pensieri, la noia di ore che non passano mai e non si sa come riempire («vivere ormai significa fingere / fingere fingere / che si è vivi», «Uscire, non uscire. / Andare, non andare. / Camminare, forse?»). Anche meditare sulla realtà della morte non aiuta più, e i filosofi tante volte interrogati ed esplorati non sembrano avere più risposte da suggerire: «È quando / non riesci ad allacciarti / le stringhe della scarpe che comprendi». Allora la domanda più insistente riguarda il momento della fine, che si spera improvvisa, indolore e notturna: «Sento il cuore che batte. / Insiste. / Anche questa notte è passata. / Non è successo», e che si tende ad esorcizzare con qualche ironia: «In bagno no, prego, sono tanti i modi, / il luoghi, i destini, non questo / mi tocchi e mi sorprenda, / in bagno, solo, no!» Se il futuro non può riservare sorprese («enigmatica anima finita/ in attesa, in attesa…»), Gilberto Finzi sa però mantenersi poeta fino in fondo, e continua a credere nel miracolo dell’istante da penetrare con ammirata gratitudine: «Molto mi preme / questo attimo, lasciarmelo / vuol dire vivere».

 

«criticaletteraria», 18 marzo 2014

RECENSIONI

FIORE

ELIO FIORE, L’OPERA POETICA – ARES, MILANO 2016

L’intera opera poetica di Elio Fiore (Roma, 1935-2002) è stata pubblicata dall’editore milanese Ares in una raffinata ed esaustiva antologia (comprendente testi editi e inediti, biografia, note e contributi critici), curata con appassionata competenza da Silvia Cavalli e introdotta da un’affettuosa prefazione di Alessandro Zaccuri, amico ed estimatore del poeta.
Elio Fiore è stato poeta cristiano quanto pochi altri: cristiano di una fede sorgiva e ingenua, entusiasta e comunicativa. Una fede universale, che abbracciava sia il paganesimo classico, sia il profetismo ebraico, la mistica medievale come la rasserenante meditazione delle religioni orientali: tutti aspetti di un novello e fraterno umanesimo capace di superare confini e ideologie, alla ricerca di una trascendenza illuminata, di una spiritualità capace solo di clemenza, perdono, lode, ringraziamento. Ma, accompagnato dalla grazia del suo nome che ne indicava quasi il destino, Elio Fiore ha conosciuto nella sua esistenza (segnata da povertà, malattia psichica, lavori umili, esclusione sociale) anche il dono quotidiano e assiduo della frequentazione poetica, cioè di una passione febbrile e sempre meravigliata per la poesia. Passione che lo ha portato non solo a una conoscenza approfondita dei maggiori autori della letteratura universale, ma soprattutto alla volontà di coltivare personalmente, concretamente, l’amicizia e l’incontro con tutti i più famosi poeti e intellettuali del suo tempo.
Nell’intero volume si rincorrono infatti, come destinatari di dediche e missive, come recensori, ospiti,corrispondenti epistolari, i nomi importanti di Ungaretti, Montale, Bo, Luzi, Bertolucci, Erba, Raboni, Rafael Alberti, Alfonso Gatto, Liliana Cavani, Carlo Maria Martini, Gianfranco Ravasi, insieme a decine di altri nomi, di persone meno note o del tutto sconosciute: vicini di casa, compagni di lavoro, donne, parenti, religiosi, bambini. Proprio ai bambini il poeta Elio si sente non solo affettuosamente vicino, ma addirittura accomunato da una manifesta innocenza, dal solare e innegabile candore del proprio modo di essere e di scrivere: «I bambini hanno bisogno / di scale, di corde per saltare, / di sfere per misurare il cielo. .. // I bambini hanno bisogno / di prati verdi, del sorriso di Dio. / I bambini hanno bisogno di te,  / uomo,  / per ricordarti di essere stato bambino;
Sogno che tutti i bambini non moriranno più. / (ogni minuto nel mondo 32 bambini / muoiono per fame, lo sapevate?)».

L’infanzia del mondo, la docilità dell’anima, la purezza dei sentimenti, la lievità dei gesti, l’onestà del dettato poetico è ciò che secondo l’autore può salvare l’essere umano, mondandolo da ogni meschinità e colpa, avvicinandolo alla bellezza del creato e alla bontà di Dio: «Signore, il celeste ascolto dei cori / l’eternità la gloria dei tuoi cieli, / e il grano che ondeggia la pianura, / raggiungeranno la vita di ogni uomo. / Anche legati e torturati, oltre le sbarre / la luce porterà la luce del tuo canto…; Vita ti prometto d’essere fedele / alle tue leggi cupe e lievi, morte / paradossale e gioie vita accoglierò…; Nella trattoria sul piccolo porto, / mangio pesce fresco e bevo vino…;
Un poeta non può morire. / Me lo ha insegnato la spiga di Cristo, / la sua giusta vendemmia tra i ricchi e i poveri. / Assassini, ascoltate: un poeta non muore».

La voce trasparente e generosa di Elio Fiore, anche nelle sue riconosciute incertezze stilistiche e negli squilibri formali, mantiene la freschezza stupefatta e priva di sotterfugi delle anime candide: di lui che si vanta dell’elegante cappotto grigio lasciatogli in eredità da Eugenio Montale, di lui che arrossisce se per strada lo riconoscono come poeta, di lui che torna bambino abbracciato alla madre sotto i bombardamenti nel luglio del ’43, miracolato e offerto alla misericordia della Madonna.
Una voce solitaria, dimenticata, a cui oggi il ricco volume de L’ opera poetica rende la dovuta risonanza.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/L-opera-poetica-Elio-Fiore.html          15 giugno 2016