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RECENSIONI

FISHER

MARK FISHER, IL MILIONARIO – BOMPIANI, MILANO 2017

Il Milionario, pubblicato a Londra nel 1997, e da noi nel 2001, per essere riproposto da Bompiani lo scorso anno, ha venduto nel mondo più di due milioni di copie, ed è stato tradotto in una trentina di lingue. Un best seller planetario, quindi, che deve la sua fama non solo allo stile semplice, accattivante, didascalico in cui è scritto, ma soprattutto al messaggio positivo e incoraggiante di cui si fa tramite. Il sottotitolo recita infatti “Chi fa ciò che ama è come un re”, sull’esempio di molta manualistica – soprattutto statunitense – di self help, di propedeutica all’autostima e al miglioramento del sé, lontana da qualsiasi approfondimento psicanalitico o indagine socio-politica, e vicina invece ai più blandi suggerimenti sul vivere bene che ci impartiscono quotidianamente i media.

L’autore, Mark Fisher (1953-2017) nato a Montreal ma vissuto a Londra, era un vulcanico intellettuale, critico musicale, docente universitario, blogger e acclamato conferenziere.

Il Milionario si presenta, sia formalmente sia nell’obiettivo didattico, come una fiaba a lieto fine. Racconta la storia di un giovane pubblicitario, squattrinato e privo di particolari doti fisiche, culturali, caratteriali, che insegue il sogno di diventare ricco, anzi ricchissimo. Questo è l’incipit del romanzo: «C’era una volta un giovanotto che voleva diventare ricco. Perché era nato povero. E soffriva della propria povertà. Come di una malattia».

Come in ogni favola che si rispetti, il ragazzo si imbatte inaspettatamente in un mentore messianico, (il milionario, appunto): vecchio saggio che lo ospita nel suo castello e gli impartisce alcuni fondamentali insegnamenti, che sembrano ricalcare il programma berlusconiano del successo: “volere è potere”. Attraverso alcuni semplici esempi comportamentali, l’anziano capitalista trasforma l’ingenuo e sprovveduto giovane in un uomo consapevole delle proprie potenzialità, e destinato a vincere in ogni settore dell’esistenza, e soprattutto su se stesso. Sostanzialmente, i suggerimenti fornitigli sono quasi banali: praticare gentilezza, pazienza, generosità, precisione, parsimonia, semplicità, ottimismo, ambizione, fiducia nel caso, concentrazione, utilizzo di un linguaggio appropriato e di un vestiario elegante… Ma soprattutto l’esercizio dell’introspezione attiva, della solidarietà con il prossimo e dell’affidamento a Dio. Un vademecum facilmente applicabile da chiunque, che inevitabilmente porterà al potere economico, alla serenità affettiva, alla benevolenza di tutti e verso tutti.

 

 

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https://www.sololibri.net/Il-milionario-Mark-Fisher.html           6 febbraio 2018

 

 

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FITZGERALD

FRANCIS SCOTT FITZGERALD, PRIMO MAGGIO – GARZANTI, MILANO 2021

Questo racconto di Francis Scott Fitzgerald, ambientato nella New York degli anni Venti, rivela tutte le caratteristiche principali della scrittura dell’autore statunitense: veloce, brillante, caustico come l’ambiente che descrive, eppure anche amaramente consapevole delle ingiustizie sociali e delle inquietudini politiche che agitavano l’epoca rappresentata.

La metropoli americana del primo dopoguerra era invasa da truppe di reduci desiderosi di riappropriarsi della loro vita interrotta dal conflitto mondiale, e di recuperare il ruolo economico perduto. La crisi industriale aveva creato masse di disoccupati che reagivano alla perdita del lavoro con manifestazioni violente e ribellioni sindacali, fomentando disordini spesso sedati con la forza dall’esercito: al panico che serpeggiava tra la piccola borghesia e gli operai, corrispondeva invece nelle classi più abbienti. un clima di esaltazione e di ritrovata fiducia nel futuro.

Primo maggio, pubblicato nel 1920, si apre appunto sulla contrapposizione evidente delle due anime esistenti nella popolazione newyorkese durante quella che fu in seguito definita “età del jazz”, grazie proprio alla narrativa di Fitzgerald. Da una parte l’entusiasmo della vittoria animava riti festaioli e celebrazioni ufficiali (“Una guerra s’era fatta e s’era vinta, e la patria dei vincitori era un tripudio di archi di trionfo, una pioggia di fiori sgargianti, bianchi, rossi e rosati… Non s’era mai visto tanto splendore nella grande città…”), dall’altra “una folla da civili, cenciosi e un po’ sfatti dall’alcol… brutti, malnutriti, sprovvisti di tutto… gettati alla deriva come legni sin dalla nascita”, si fronteggiavano tra rivendicazioni socialiste e posizioni esasperatamente patriottiche e belliciste, provocando tumulti e colluttazioni.

In quel primo maggio del 2019 molti personaggi e molte vicende si muovevano intorno alle reception, ai bar e alle stanze di alcuni hotel di lusso (Biltmore, Delmonico, Commodore, Childs’), tra la Quinta e la Cinquantanovesima Strada. Due ventiquattrenni laureati a Yale, Gordon Sterrett – tornato dalla guerra depresso e immiserito -, e Philip Dean – elegante e viziato rampollo di una famiglia facoltosa, impersonano i due caratteri giovanili prevalenti nella società americana.

Gordon, innamorato dell’affascinante compagna di università Edith Bradin (“di una bellezza totale, infinitamente delicata, assolutamente perfetta”) chiede a Philip di aiutarlo a liquidare con trecento dollari un’altra ragazza che lo tormenta e ricatta, pretendendo da lui l’ufficializzazione del rapporto. Il rifiuto dell’amico ricco di soccorrere il collega povero innesca una serie di situazioni paradossali, che raggiungono il culmine durante una festa da ballo in onore degli ex studenti di Yale.

Tra alcol, scazzottate, corteggiamenti, gelosie e personaggi equivoci infiltrati tra gli ospiti, Gordon e Edith si incontrano dopo molto tempo, rimanendo però reciprocamente delusi. La festa degenera, spostandosi e dilagando in strada, dove un gruppo di rivoltosi assalta la sede di un giornale riformista, diretto dal fratello di Edith. I disordini si concludono tragicamente, con un morto e alcuni arresti. Altrettanto tragica sarà la scelta di Gordon di sottrarsi a un destino professionalmente e sentimentalmente fallimentare.

© Riproduzione riservata  SoloLibri.net            14 luglio 2021

 

 

RECENSIONI

FITZGERALD

FRANCIS SCOTT FITZGERALD, SOGNI D’INVERNO – FELTRINELLI, MILANO 2021

Feltrinelli ha pubblicato nella brillante collana Zoom un nuovo ebook di Francis Scott Fitzgerald (1896-1940): Sogni d’inverno. Brillante e sagace, questa collana, perché i racconti propone sono veloci, letterariamente non impegnativi, però scritti con eleganza e accuratezza: che di questi tempi non è cosa da poco. Permettono una lettura rapida e mai soporifera, da affrontare in mezz’ora, magari sul treno, o in una pausa di lavoro, o prima di andare a dormire, a un costo minimo, o addirittura nullo per gli abbonati a Kindle unlimited.

Fitzgerald è tra gli autori più gettonati, proprio per la qualità della sua scrittura, scorrevole e ironica, e per i temi che affronta: i rapporti di coppia e l’ambiente sociale americano dei ruggenti anni ’20. Sempre piacevolmente spigliato nel ritrarre i personaggi, in questo testo troviamo un’attenzione più marcata e suggestiva nelle descrizioni naturali, ricche di metafore: “In autunno, quando le giornate diventavano frizzanti e grigie e il lungo inverno del Minnesota calava come il coperchio bianco di una scatola…”, “nella brutta stagione lo offendeva vedere i terreni in forzato abbandono, afflitti da passeri arruffati… Quando saliva sulle colline, il vento soffiava freddo come l’infelicità”, “osservò le onde accavallarsi al docile soffio del vento, la melassa d’argento alla luce della luna piena settembrina. Poi la luna avvicinò un dito alle labbra e il lago divenne una pozza d’acqua limpida, pallida e silenziosa”.

Protagonista della novella è Dexter Green, un ragazzo nato in una modesta famiglia di negozianti, che riesce a riscattare le sue origini attraverso una carriera imprenditoriale di successo. A quattordici anni fa il caddie (portabastoni) in un lussuoso campo da golf di Sherry Island per trenta dollari al mese, e un pomeriggio rimane folgorato dall’incontro con una splendida e capricciosa undicenne, Judy Jones, al cui tono sprezzante e imperioso si ribella, rifiutandosi di mettersi al suo servizio. Questa disobbedienza inaugura per Dexter una serie di altre numerose resistenze al corso degli eventi che segneranno non solo il suo percorso professionale, ma anche quello sentimentale.

I due giovani si incontrano di nuovo una decina di anni più tardi, quando lui, ormai laureato e proprietario di una serie di remunerative lavanderie, scorge Judy nuotare sensuale e bellissima nel lago vicino allo stesso campo da golf che li aveva visti insieme per la prima volta: “Le sue braccia, color noce, si muovevano sinuose tra le monotone increspature platino; prima emergeva il gomito, poi l’avambraccio spingeva all’indietro scandito dallo scroscio d’acqua, per riemergere e affondare di nuovo aprendosi un varco”. La ragazza avvia uno sfrontato corteggiamento, e lo invita a cena a casa sua. Da banale flirt estivo, il rapporto tra i due si fa man mano più stringente. Judy rivela una personalità spregiudicata, passionale ed egocentrica; Dexter, conquistato dal fascino di lei, si lascia irretire, desideroso di un coinvolgimento sempre maggiore e sempre negato. Dopo un anno di sofferenza e di tradimenti patiti in silenzio, decide di lasciarla (“Lei lo aveva trattato con interesse, con incoraggiamento, con cattiveria, con indifferenza, con disprezzo”), e si fidanza con la più responsabile, tranquilla e solida Irene Scheerer. “Sapeva che Irene non sarebbe stata altro che una tenda tirata alle sue spalle, una mano tra luccicanti tazze da tè, una voce che chiama i figli…”, eppure con lei si sente più sicuro di sé e di un sereno futuro da costruire.

Proprio alla vigilia delle nozze, tuttavia, si ripresenta Judy, sfrontata e infelice, che implora Dexter di sposarla. Rotto il fidanzamento con Irene, Dexter si ritrova ancora stregato, illuso e infine di nuovo abbandonato dall’inquieta e implacabile seduttrice. Partito volontario per la guerra “per liberarsi dalle ragnatele di un groviglio di emozioni”, al suo ritorno in una luccicante New York come businessman, troverà la sua vendetta venendo casualmente a conoscenza dell’esistenza infelice in cui si dibatteva la donna che era riuscita a ferirlo di più, facendolo innamorare come non gli sarebbe più successo.

 

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7 ottobre 2021

 

 

 

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FLAUBERT

GUSTAVE FLAUBERT, LETTERE D’AMORE A LOUISE COLET – SE, MILANO 2018

Chissà se André Gide diceva la verità, quando scrisse, a proposito dell’epistolario flaubertiano “Se l’opera intera di Flaubert dovesse essere messa su un piatto della bilancia, la sola Corrispondenza, gettata sull’altro, la supererebbe; e se mi fosse permesso di conservare soltanto l’una o l’altra, io sceglierei quest’ultima”. È certo comunque che queste Lettere d’amore a Louise Colet, pubblicate dalle edizioni milanesi SE, sono di una bellezza struggente, di un’accesa intensità emotiva, oltreché di superba raffinatezza formale.

Gustave Flaubert (Rouen 1821-Croisset 1880), autore di capolavori universalmente riconosciuti, aveva ventiquattro anni e solo vaghe ambizioni letterarie, quando nell’estate del 1846 incontrò Louise Colet nell’atelier parigino dello scultore Pradier, dove si era recato per ordinare due busti funerari per il padre e la sorella morta di parto, e dove lei posava come modella. Trentaseienne, sposata e madre di una figlia, già amante del filosofo Victor Cousin e corteggiata da molti, animatrice di salotti culturali, scrittrice e poetessa affermata, Louise era bellissima. Capelli castani lunghi e morbidi, occhi di un azzurro cupo, collo e spalle armoniosamente disegnati, voce suadente e sorriso aperto, temperamento altero e impulsivo: così descriveva sé stessa e veniva descritta dagli ammiratori. L’attrazione reciproca tra Gustave e Louise sfociò subito in una relazione tempestosa, fatta di slanci e rimproveri, premure e accuse, sensualità irruente e improvvise freddezze, animata da un fitto scambio epistolare, prolungatosi per una decina d’anni e scandito in due fasi: la prima, accanita e sofferta, dal 1846 al 1848, la seconda dal 1851 al 1855, più riflessiva e incentrata su temi intellettuali e letterari.

Il volume qui presentato riporta esclusivamente le lettere del primo biennio, in cui i due amanti si concessero solo sei incontri, interrotti spesso da scenate di reciproca gelosia e puntigliose recriminazioni. Successivamente, Flaubert si regalò distrazioni, viaggi, e un lungo periodo di formazione esistenziale e culturale in Medio Oriente, in Grecia e in Italia. Tornato dall’esperienza esotica psicologicamente trasformato e deciso a dedicarsi in maniera esclusiva alla propria arte, nelle più sporadiche e distaccate missive a Louise manifestava le sue teorie estetiche, vantando soprattutto la sua dedizione al romanzo che lo consacrerà a una fama mondiale. Il progressivo allontanamento tra i due si rivelò inevitabile. Gustave era appassionato ma incostante, incapace di rinunciare alle proprie abitudini domestiche, agli affetti familiari e alle amicizie, alle frequentazioni letterarie, all’ossessione della scrittura coniugata a un’ambizione divorante. Louise, femminilmente più istintiva e generosa, incline al sospetto e possessiva, era però disposta a sacrificarsi nel quotidiano pur di salvare l’impeto del rapporto amoroso.

Le lettere di lei sono andate perdute, o più probabilmente sono state distrutte: dovevano essere febbrili e ulcerate come l’inquietudine che la struggeva. La sua vendetta dopo l’abbandono venne consegnata a due romanzi, in cui scherniva le grettezze e gli egoismi dell’amante, mentre Flaubert si servì più scaltramente della vicenda sentimentale e dell’esperienza epistolare nella composizione del suo chef d’oeuvre, Madame Bovary.Le frasi e i saluti di commiato vergati da Gustave indicano il fervore che lo animava nei primi mesi della corrispondenza: “Addio, addio. Tutte le tenerezze che vorrai”, “Addio, addio, poso la testa sui tuoi seni e ti guardo dal basso in alto come una madonna”, “Addio, ti bacio dove ti bacerò, là dove ho voluto. Vi ci metto la bocca, mi rotolo su di te, mille baci. Oh! dammene, dammene!”, “Tuo, dalla sera al mattino, dal mattino alla sera”, “Tuo, tuo corpo e anima”, “Ho ancora sete di te. Non sono sazio, sai! Addio, addio”, “Tuo che ami e che t’ama”, “Addio, tuo, su di te”, “Che il Dio dei sogni ti mandi da me”.Tanta passione inizia però a raffreddarsi già nel secondo anno della relazione, i baci diventano più casti e quasi fraterni, per poi ibernarsi del tutto nel saluto del biglietto conclusivo, quando da tempo i due si davano ormai del “Voi”: “Grazie del dono. Grazie dei bellissimi versi. Grazie del ricordo. Vostro.” (Flaubert non si firmava, forse per prudenza verso lo stato coniugale dell’amante).Le lettere scritte quotidianamente nei primi mesi seguiti al loro incontro, indicano quanto intenso e radicato fosse il trasporto del giovane verso l’affascinante dama parigina: è divertente notare come i messaggi reciproci venissero recapitati in giornata, nonostante la distanza tra Croisset, in Normandia ‒ dove lui risiedeva con la madre, il fratello, il cognato e due nipotine ‒, e la capitale dove viveva lei con marito e figlia. Incredibilmente, così Gustave raccomandava a Louise: “quando mi scriverai la domenica, impostala presto; sai che gli uffici chiudono alle due”. Qual era il valore di queste pagine per Flaubert? Quasi feticistico; le conservava in un cassetto come reliquie, insieme al fazzoletto, alle pantofoline, a una ciocca di capelli dell’amata: “le rileggo, le tocco. Una lettera è come un bacio, l’ultima è sempre la migliore. Quella di stamattina è qui. Fra la mia ultima frase e questa non ancora finita me la sono riletta per rivederti più da vicino e sentire più forte il profumo di te. Penso alla posa che devi avere mentre scrivi e ai lunghi sguardi vaghi che getti voltando le pagine. È sotto quella lampada che ha fatto luce ai nostri primi baci, e su quella tavola su cui scrivi i tuoi versi. Accendila la sera la tua lampada d’alabastro, guardane la luce bianca e pallida ricordando la sera in cui ci siamo amati”.Le manifestazioni di affetto sincero, di ammirazione, di desiderio fisico si alternano con considerazioni più generali sulla vita domestica, sulla morale (“Non cerchiamo tutti quanti di soddisfare la nostra natura secondo i nostri diversi istinti?”), o con valutazioni sull’arte (“Fra tutte le menzogne è ancora la meno menzognera”), sulla letteratura (“Non bisogna sempre credere che il sentimento sia tutto, nelle arti non è nulla senza la forma”), sulla propria scrittura (“Mi sono sempre proibito di mettere qualcosa di personale nelle mie opere, eppure ve ne ho messo molto. Ho sempre cercato di non rimpicciolire l’Arte per soddisfare una personalità isolata. Ho scritto pagine tenerissime senza amore, e pagine incandescenti, senza alcun fuoco nel sangue”, “Il grottesco triste ha per me un fascino inaudito. Esso corrisponde agli intimi bisogni della mia natura buffonescamente amara”).Rimane comunque preponderante in chi legge l’interesse per il vincolo che legava i due personaggi, la dedizione incondizionata di lei, e la difesa dell’indipendenza di lui, talvolta giustificata dall’esigenza di non lasciare sola l’anziana madre, più spesso (al di là di ogni appassionata dichiarazione d’amore) dalla consapevolezza del proprio ineliminabile egoismo, dell’allergia ai legami soffocanti, di un’orgogliosa autosufficienza emotiva.In una delle ultime lettere, seguita a un violento litigio, Gustave scriveva: “Avrei voluto amarti come mi amavi tu, ho lottato invano contro la fatalità della mia natura, niente, niente. Il cardo non è buono che per gli asini, tanto peggio per quelli che vi si sdraiano sopra come si fa su un prato… Io che amo sopra ogni cosa la pace e il riposo non ho trovato in te che il turbamento, burrasche, lacrime o collera… Hai voluto, tu, trar sangue da una pietra. Hai scalfito la pietra e ti sei fatta sanguinare le dita. Hai voluto far camminare un paralitico, il suo peso è ricaduto tutto su di te ed è diventato ancor più paralitico. No, non c’è acredine, né collera, né odio, ma un profondo e triste convincimento… C’è sempre una devozione pronta e, se la parola non ti ferisce, una smisurata gratitudine. Mi chiedi che almeno i nostri ricordi mi riportino qualcosa; ebbene, come la prima sera un casto bacio sulla fronte. Addio, immagina che sia partito per un lungo viaggio. – Ancora addio, incontra qualcuno più degno, per dartelo andrei a cercarlo in capo al mondo. Sii felice”.Poco prima del silenzio definitivo, Louise confida a Gustave – che non vedeva da molto tempo – una notizia inaspettata, probabilmente quella di una nuova gravidanza. Flaubert reagisce con educata comprensione ma sostanziale indifferenza: “Qualunque cosa accada contate sempre su di me. Anche quando non ci scrivessimo più, anche quando non ci vedessimo più, ci sarà sempre fra di noi un legame che non si cancellerà, un passato di cui sopravviveranno le conseguenze”.

Se Sartre nella sua severa biografia flaubertiana L’idiota della famiglia ebbe a definire l’odiosamato autore dell’epistolario “un incurabile nevrotico”, al lettore contemporaneo rimane invece l’impressione di aver disigillato attraverso queste pagine la natura scorticata di due anime sprofondate in un baratro di rancore e incomprensione mentre tentavano di raggiungere la vetta dell’intensità amorosa, pretendendo troppo da sé stesse e dal sentimento illusorio e spietato che le aveva unite.

 

© Riproduzione riservata                  «Il Pickwick», 20 giugno 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

FLICK

GIOVANNI MARIA FLICK, CATERINA FLICK, L’ALGORITMO D’ORO E LA TORRE DI BABELE – BALDINI & CASTOLDI, MILANO 2022

Giovanni Maria Flick, Ministro di Grazia e Giustizia nel primo governo Prodi e  Presidente emerito della Corte Costituzionale, dopo aver pubblicato libri coinvolgenti sul tema della legalità e dell’ambiente, ha firmato con la figlia Caterina Flick (Docente di diritto internazionale dell’era digitale e sistemi giuridici dei Big Data e titolare di un importante studio legale a Roma), un volume edito da Baldini & Castoldi: L’algoritmo d’oro e la torre di Babele. Con il sottotitolo Il mito dell’informatica, il testo – scandito in due sezioni, cinque capitoli e una nutrita bibliografia – invita a una consapevolezza più attenta nei riguardi delle prospettive e delle conseguenze di uno sbilanciamento della società verso il sovra-dominio di una cultura digitale di massa. Se è vero che tra le urgenze della politica europea viene indicata la realizzazione di un modello di sviluppo innovativo, basato non solo sulla protezione dell’ambiente, della salute, della dignità individuale, ma anche sul progresso della tecnologia informatica, è altrettanto vero che è necessario guardarsi da una civiltà delle macchine che tenda a sovrapporsi alla civiltà umana, accompagnata da un eccesso di entusiasmo acritico, in una sorta di delirio di onnipotenza. Le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT), nelle quali rientrano l’informatica, la cibernetica, l’elettronica e la telematica, hanno determinato una svolta epocale nelle relazioni interpersonali, nel modo di studiare, di lavorare, di produrre e di consumare risorse, utilizzando sistemi altamente sofisticati in grado di subentrare alla persona in compiti complessi. Gli autori di questo volume esprimono tuttavia il timore che in un prossimo futuro la persona venga sostituita dai computer anche nelle funzioni più̀ connaturate alla sua identità̀ e coscienza.

Partendo dal commento degli articoli 9 e 33 della nostra Costituzione (che promuovono lo sviluppo delle cultura e la ricerca scientifica e tecnica, tutelando il patrimonio artistico e storico della Nazione e proteggendo l’ambiente, la biodiversità, gli ecosistemi e gli animali, anche nell’interesse delle future generazioni), Giovanni e Caterina Flick insistono sull’importanza di collegare la conoscenza e la difesa del passato alle istanze di rinnovamento digitale presenti nella società, purché tale progresso sia vigilato da indispensabili regolamentazioni istituzionali e da processi educativi, in modo da non fare dell’algoritmo un nuovo vitello d’oro da idolatrare. Raccomandano pertanto qualche cautela nell’esaltare euforicamente l’innovazione del mercato e del linguaggio globale, ricordando due episodi narrati nell’Antico Testamento: il diluvio universale e la torre di Babele. Nel primo racconto la rottura del rapporto con la natura aveva condannato l’ambiente umano e naturale alla catastrofe, nell’altro la presuntuosa utopia di una lingua unificante aveva portato alla distruzione dell’edificio costruito collettivamente.

Tante sono le minacce che provengono da un uso incondizionato e privo di controllo della digitalizzazione universale: non solo il cyberbullismo, la pedopornografia, le fake news, il rilevamento dei dati biometrici in luogo pubblico, il non rispetto della riservatezza personale, la sicurezza delle reti, le diseguaglianze nello sviluppo delle capacità cognitive. Si sono anche sottovalutati i costi della rivoluzione informatica e il suo consumo energetico, la necessità di investimenti e infrastrutture dispendiose, la competitività e il confronto sul piano internazionale con i colossi del web, l’urgenza di diffondere una nuova alfabetizzazione nelle diverse età e classi economiche.

Gli obiettivi di profitto e di potere che condizionano la gestione delle relazioni sociali potrebbero mettere in secondo piano l’identità dell’individuo-persona nell’eguaglianza di tutti e nella diversità di ciascuno. Si pongono infatti altri interrogativi di ordine etico e sociale, culturale e filosofico: l’uso dei Big Data, il diritto alla memoria e all’oblio, il rapporto con l’autorità e l’amministrazione pubblica, la strumentalizzazione dell’informazione per finalità non trasparenti, una percezione distorta della realtà attraverso la manipolazione virtuale, l’uso di un linguaggio criptato accessibile a pochi eletti, o addirittura l’utilizzo di tecniche subliminali in grado di interferire sul pensiero umano. In campo giuridico, poi, si prospetta una «giustizia predittiva» in grado di suggerire decisioni, anziché fornire dati obiettivi ai magistrati, con il rischio di arrivare a una giustizia robotica.

In sostanza rischiamo forme di controllo e di sorveglianza di massa, senz’altro non democratiche e non rispettose dei diritti civili. Per di più, in termini di pura convivenza, “l’avanzamento della tecnologia – con la velocità, l’elimi nazione delle distanze, la modifica del modo di comunicare– si traduce nella riduzione dello spazio, del tempo e delle relazioni, oltre che in una competitività esasperata”, producendo spesso dipendenza emotiva e intellettuale, e incoraggiando il narcisismo individualistico.

Sono problematiche che non vanno sottovalutate, per le quali gli autori propongono alcune possibili soluzioni nella seconda parte del volume, dedicata alla normativa giuridica che disciplina l’intricato e problematico universo informatico.

In primo luogo sarà fondamentale l’elaborazione di regole sulla raccolta delle informazioni e dei dati, sulla sorveglianza commerciale e sulle forniture di servizi, individuando e definendo l’ambito di responsabilità dell’utente, delle imprese produttrici e di quelle che sviluppano i sistemi software installati, predisponendo inoltre modalità risarcitorie in base ai rischi di danni. Poi si dovrà ridiscutere il sistema di tassazione per le grandi imprese, provvedere al rafforzamento del mercato e dei suoi nuovi strumenti come gli smart contract e le block chain, senza dimenticare la lotta alla disinformazione, all’hate speech, al furto di conoscenza e di identità. Infine, se è indifferibile il continuo aggiornamento delle conoscenze informatiche nei programmi scolastici a tutti i livelli, lo è altrettanto l’approfondimento di materie che sono state svilite, la rivalutazione della capacità di critica individuale, insieme alle competenze nella scrittura, oggi messa in secondo piano rispetto all’espressione orale.

Rimane irrisolta la questione di fondo, nei riguardi dei sistemi basati sull’intelligenza artificiale, e cioè se sia possibile “inserire” in essi principi e idealità umane, in modo che sappiano operare scelte etiche, restituendo il giusto ruolo ai concetti di altruismo e cooperazione che si sono persi nel tempo. Per tale motivo deve soprattutto essere favorita “una coesistenza equilibrata tra uomo e macchina, nella consapevolezza che quest’ultima più si potenzia, più tende a essere vista come un fine e un valore, non come un mezzo e uno strumento”.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 30 dicembre 2023

 

RECENSIONI

FO

ALESSANDRO FO, MANCANZE – EINAUDI, TORINO 2014

Quali siano le mancanze cui allude il titolo di questo delicato libro di Alessandro Fo, possiamo solo ipotizzare da vaghe tracce disseminate qua e là nel testo: forse i «Reliqua desiderantur», scritta posta in calce ai tre capitoli di cui si compone il volume (e allora ci viene in soccorso il latino, materia d’insegnamento dell’autore all’Università di Siena, in cui eccelle come traduttore egregio di Virgilio, Catullo, Apuleio, Rutilio Namaziano…). «Il resto manca», ciò che si è perduto rimane tra i desideri inespressi o irrealizzati. Come, forse, l’identificazione totalizzante con la poesia quando essa esprima e sveli «nella più favorevole posa, momenti alti, significativi (per assenza o per incuria di osservatore) negletti, dell’esistenza di cose e persone». Così, prosasticamente, il poeta chiarisce nelle esaurienti note finali. E ancora, più poeticamente, in versi in cui indica la mancanza come «insufficienza», «nostalgia di amorosa visione», «sera / priva d’angeli o di affetti». La poesia, nelle intenzioni dichiarate e spesso ribadite dell’autore, serve proprio a recuperare dolcezza, sensibilità, attenzione verso ogni aspetto della vita che ci circonda, facendoci crescere in consapevolezza e generosità, aprendoci a una visione meno materiale e scontata dell’esistenza. Alessandro Fo uomo di fede, più per una particolare e ormai in disuso disposizione dell’animo che per un’adesione (che pure esiste, si avverte concretamente salda tra le righe) al cattolicesimo. Una sorta di aspirazione quasi francescana al rispetto per ogni forma del vivere («scuotendo per i passeri / la tovaglia in balcone», «il lastricato / è cosparso di chiocciole. / Le schiaccio / involontariamente, / e mi dispiaccio / di sterminare vite, / anche minuscole», «mentre resto intento a una sua vena / (come fa a funzionare? / chi l’ha mossa e la fa così pulsare?)»). Muovendo da un doloroso evento biografico, come l’incidente stradale occorso alla moglie Francesca, o la morte del padre per tumore, il poeta inizia un suo percorso di conversione e rivelazione, una vera ascensione spirituale, che lo spinge a recuperare gli aspetti più tradizionali della nostra religione (le parabole evangeliche, la recita delle preghiere, la frequentazione della Messa…), e ad adottare un nuovo sguardo, più sorgivo, con cui affrontare l’esterno, nel tentativo di «accostarsi al divino non dalla devozione o dalla riflessione teologica, ma da quaggiù, sorprendendone infinitesimali particelle in questa realtà». Questa scoperta del divino nella bellezza, nella tenerezza, nella discrezione non compete infatti esclusivamente al sentire religioso, eppure ha in sé qualcosa che rimane magicamente epifanico. Alessandro Fo lo intuisce, con assoluta e commossa riconoscenza, nella musica, ad esempio. Soprattutto in Chopin, a cui dedica tutta la seconda sezione del volume: ritrovando nel suo compositore d’elezione («Ariel del pianoforte», «ponte arcobaleno», «un Virgilio polacco», «gioco di carezza e di abbandono») una sorta di alter ego, una corrispondenza alla sua stessa gentilezza, scandita nei preludi, nei valzer e negli studi più amati. Bellezza come dono imprevisto e imprevedibile, talvolta immeritato, che si concretizza nell’eleganza di sottili figure femminili incontrate per strada («L’infinita bellezza del creato / si rifrange in singole creature») e narrate recuperando stilemi stilnovistici (««Così vo cercand’io fra opachi effetti, / donna, quanto è possibile in altrui…»). Nell’ultimo capitolo del libro sono gli Angeli portatori di «una dimensione / di una metafisica dolcezza»: angeli carnali e insieme disincarnati, che si mescolano a noi nella vita quotidiana, figure salvifiche e illuminanti, in cui il poeta si imbatte sui banchi di una chiesa in una semideserta funzione infrasettimanale, o nelle stazioni, o in solitarie passeggiate senesi. Ragazze spaurite o trasgressive, anziane eleganti, preti indiani, archeologi in piscina, bambine incantate, giovani donne down, figure rese riconoscibili da «un’andatura appena un po’ sospesa / fra la fluidità e l’esitazione», che sembrano destinate da sempre al «mondo dei gentili», con lo scopo di riscattare la banalità, la sofferenza, la trascuratezza. A queste apparizioni miracolose il poeta pare voler accomunarsi, offrendo al lettore un ritratto di sé consapevolmente e orgogliosamente diverso da quello del letterato da salotto («Amo i versi, e altre schegge / di libri e vite», «Ero abbastanza felice, stavo bene / con i miei cari e le cose belle e vere / dentro i miei libri», «Amo la dissolvenza di me, della mia scia»). Nella volontà non tanto di proporre ai lettori soluzioni di vita, risposte fideistiche, quanto di suggerire trame, «filamenti che in modi anche eccentrici collegano punti, disposti chissà dove ‘a piacere’ oltre la nostra percezione». Alla poesia, quindi, Alessandro Fo demanda questo dovere di illuminare e salvare «le mancanze»: a questi suoi versi che sanno unire tradizione classica e ritmi più narrativi, fedeltà alla metrica dei settenari e gusto delle ripetizioni (unico artificio retorico, cui si affida più frequentemente che alla rima). Convinto della necessità di un messaggio espresso in contenuti – mai polemici, mai ironici, mai dissacranti – più che in velleitari sperimentalismi formali. Poesia che sappia saldare lo iato tra cielo e terra, eternità e tempo, Creatore e creature: «ispira diffidenza la poesia, / non convince la delicatezza, / poca gente è all’altezza dell’affetto, / quasi niente è il rispetto dell’amore». Alle mancanze, nostre e di tutti, essa può forse offrire una risposta.

«Caffè Michelangiolo», aprile 2014

RECENSIONI

FOA

ANNA FOA, GIORDANO BRUNO – IL MULINO, BOLOGNA 1998

Il Giordano Bruno di Anna Foa, pubblicato più di vent’anni fa e ristampato nel 2015, mantiene ancora oggi freschezza e appetibilità di lettura per chi volesse avvicinarsi all’affascinante e controversa figura del filosofo di Nola in maniera non specificamente accademica. L’autrice introduce il suo racconto con la descrizione del monumento eretto in Campo de’ Fiori a Roma nel giugno del 1889, che ritrae il frate eretico “avvolto nel saio domenicano, un libro socchiuso fra le mani, il cappuccio abbassato sul volto, pensieroso e raccolto”. La statua, opera di Ettore Ferrari, fu posizionata, dopo molte polemiche, proprio nella piazza in cui Giordano Bruno era stato arso vivo tre secoli prima, il 17 febbraio del 1600, dopo la condanna dell’Inquisizione approvata dalla Chiesa di Clemente VIII e del Cardinale Bellarmino. La stessa Chiesa che a fine ’800 si oppose anche alla celebrazione laica del filosofo, continuando a vedere in lui “il simbolo di una modernità aborrita e combattuta”. Anna Foa partendo proprio dalle dispute sorte tra l’area cattolica e quella liberale-massonica riguardo all’opportunità di dedicare un monumento a Bruno, ripercorre tutta la travagliata esistenza del pensatore campano, ricostruendone l’evoluzione filosofica e teologica, le resistenze, i dissensi, e gli entusiasmi suscitati dalle sue teorie, i numerosi processi, fino alla condanna finale e alla morte.

Giordano Bruno era nato a Nola nel 1548, da famiglia umile; a quindici anni entrò come novizio nel convento di San Domenico a Napoli, scontrandosi presto con i suoi superiori a causa sia del suo temperamento, collerico e sprezzante, sia per le sue provocatorie affermazioni contro il devozionismo e il culto dei Santi e della Vergine. Lasciato l’abito monacale nel 1576, iniziò una serie di peregrinazioni attraverso l’Italia e l’Europa (Ginevra, Lione, Tolosa, Parigi, Londra, Wittenberg, Praga, Francoforte), pubblicando scritti fortemente critici nei riguardi della dottrina cattolica e calvinista, e insegnando filosofia presso diverse università. Ovunque andasse, lasciava dietro di sé una scia di diatribe e scandali, anche per la sua condotta libertina e sfrontata. Rientrato in Italia, nel 1592 si stabilì a Venezia, ospite del giovane patrizio Giovanni Mocenigo, che divenuto suo allievo, dopo pochi mesi lo denunciò all’Inquisizione per eresia. Le accuse che portarono Bruno ad essere processato prima in Veneto e poi a Roma dal Santo Uffizio riguardavano sia le sue teorie religiose e filosofiche (apostasia, irriverenza, critiche a dogmi, magia ed esoterismo, panteismo, dottrina della molteplicità di mondi eterni, ecc.), sia il rapporto con le gerarchie ecclesiastiche, i viaggi in paesi stranieri anticattolici, il suo comportamento dissoluto. Dopo una serie di processi, imprigionamenti, torture, Giordano Bruno fu condannato al rogo, i suoi libri messi all’Indice e bruciati. Prima dell’esecuzione, rivolse ai giudici una frase rimasta leggendaria: “Tremate più voi nel pronunziare questa sentenza che io nell’ascoltarla”.

La vicenda esistenziale del frate eretico è stata molto indagata e discussa: ciò che suscita più interesse nel saggio di Anna Foa è invece l’approfondimento di temi particolari riguardanti la sua figura intellettuale. In particolare, l’utilizzo e il recupero del profilo di Bruno da parte della cultura risorgimentale e laica, interessata a edificare un’immagine autonoma e originale del pensiero italiano rispetto a quello egemonico europeo, da accompagnare alla realizzazione dello stato unitario, costruendo un ponte ideologico che dal rinascimento si collegasse alla filosofia di matrice hegeliana (da Spaventa a Croce a Gentile), diventata poi dominante nella prima metà del ’900. Giordano Bruno, quindi, non solo “precursore del libero pensiero e martire dell’intolleranza cattolica”, ma anche iniziatore di una filosofia moderna, in grado di affrancare la cultura del nostro paese “dalle pastoie del dogma religioso”, e forse anche ideatore di un’utopia politica che favorisse l’instaurazione della pace religiosa in un’Europa cristianamente unificata.

 

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https://www.sololibri.net/Giordano-Bruno-Anna-Foa.html     4 febbraio 2019

RECENSIONI

FONTANELLA

LUIGI FONTANELLA, L’ADOLESCENZA E LA NOTTE – PASSIGLI, FIRENZE 2015

Luigi Fontanella(1943), autore prolifico di poesia e narrativa, divide la sua vita tra l’insegnamento universitario a New York e Firenze, e in questa città ha pubblicato questo volume di versi, composto da «due sezioni antitetiche e complementari allo stesso tempo», come lui stesso sottolinea nella nota finale. In effetti i temi delle poesie si rincorrono e intersecano nei due capitoli che danno il titolo al volume (il primo dedicato all’adolescenza vissuta a Salerno, e il secondo a una sorta di pacata meditazione sulla notte): rimpianto, confronto tra passato e presente, riflessione sul significato ultimo dell’esistenza.

In «una specie di ipertempo», come suggerisce il prefatore Paolo Lagazzi, la biografia privata si fa percorso comune di tutti, al di là di ogni contingenza personale: e il tratto unificante del volume rimane quello stilistico, nella lingua composta e piana, priva di artefici retorici, con un tono narrativo che accondiscende a un ritmo interno di musicalità discreta.
La memoria, quindi, come elemento strutturante della prima sezione: le partite di calcio sudate nel cortile e nel «rustico campetto / sotto casa», la colonia estiva con i suoi rigorosi appelli mattinieri, i «piccoli baci concentrici» con le compagne di scuola (e i nomi citati sono veritieri: Anna Pierro, Elvira Forte, Renata Ferri…). Però è una memoria selettiva e poco obiettiva, che tende a rielaborare con commozione e nostalgia i momenti più felici dell’adolescenza ««assoluta ed eterna», sapendo che «Il tempo è in quel concentrato assoluto, / fermo e preciso, come / il tiro secco in porta», ma anche che ogni amarcord «è un film che posso modificare / a mio piacimento».
C’è tuttavia in Fontanella una consapevole rassegnazione a un futuro prevedibile e deludente («Avrai i tuoi anni / le tue disgrazie le tue diaspore / le tue speranze»), e il desiderio di una pace ritrovata, di meta raggiunta, di meritata serenità («Dormire, / insonnarsi d’oblio»).
Allora la notte, materna e consolatrice, diventa un approdo e una conquista: «ecco, rifletto sognando, sempre / così dovrebbe esser e il mondo / senza astio e senza invidia»; «Riconoscimi, Notte. / Avvolgimi»; «Acquietarsi infine / sottrarsi almeno per un breve intervallo / da ogni male»; «Recuperando, nel pensiero o nel sogno, gli amori e le amicizie, i libri letti e le avventure vissute, perché «Vibra nella notte l’anima del mondo».

 

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www.sololibri.net/L-adolescenza-e-la-notte-Luigi.html     27 febbraio 2016

RECENSIONI

FORCADES

TERESA FORCADES, PER AMORE DELLA GIUSTIZIA. DOROTHY DAY E SIMONE WEIL – CASTELVECCHI, ROMA 2021

Si può essere contemporaneamente monaca benedettina di clausura, teologa, medico, scrittrice, femminista? Evidentemente sì, e lo dimostra la coraggiosa esistenza fuori dagli schemi di Teresa Forcades, nata a Barcellona nel 1966, laureata in Medicina e Teologia con dottorato e post-dottorato a New York, Harvard e Berlino, fondatrice del movimento indipendentista catalano Process costituent. Suor Teresa nei libri e in seguitissimi interventi sui social si occupa di politica, psicanalisi, clericalismo e ruolo della donna nella Chiesa, patriarcato e vita di coppia, sessualità. Soprattutto riferendosi alle sue posizioni anticonformiste su quest’ultimo tema (omosessualità, transessualità, aborto, utero in affitto, pornografia), Michela Murgia l’ha definita “personalità carismatica di rara intensità, di una spiazzante capacità dialettica e di una determinazione assertiva che ne fanno l’infrazione vivente di tutti gli stereotipi dell’immaginario collettivo sulle suore di clausura”.

Nel secondo volume edito da Castelvecchi (qualche anno fa “Siamo tutti diversi! Una prospettiva queer” aveva creato scandalo tra le gerarchie vaticane) traccia un ammirato ritratto di due figure femminili fondamentali nella teologia novecentesca: l’americana Dorothy Day e la francese Simone Weil, mettendone in luce affinità e differenze, e sottolineandone nel contempo la comune combinazione di impegno politico ed esperienza mistica, altruismo e coerenza esistenziale, concretizzata nel lavoro per la giustizia sociale e nella condivisione della vita degli ultimi. Entrambe si ergono a difesa dell’inviolabile libertà di coscienza individuale, al di là di ogni direttiva confessionale o partitica.

Diverse nell’estrazione sociale, Dorothy Day (New York, 1897-1980) e Simone Weil (Parigi, 1909-Ashford, 1943) ebbero però un percorso simile nella ricerca di autenticità riguardo alle scelte spirituali e alla decisa presa di posizione in favore delle classi lavoratrici. Tutt’e due mosse nell’infanzia da un’accentuata sensibilità verso il cristianesimo, nel corso dell’adolescenza si dichiararono atee e anticlericali, recuperando solo in età adulta un rapporto di adesione convinta al cattolicesimo. La famiglia di Dorothy Day era di tradizione anglicana e quella di Simone Weil ebraica, la prima di estrazione piccolo borghese, la seconda colta e abbiente.

Dorothy visse una giovinezza inquieta, con continui trasferimenti, rapporti sentimentali e sessuali trasgressivi, dipendenza da droghe e alcol. Ebbe una figlia, Tamar, da una relazione con un pensatore ateo e anarchico che per coerenza non volle sposare, quindi convisse a lungo con un predicatore visionario, Peter Maurin, insieme a cui nel 1933 fondò il periodico «Catholic Worker», organo dell’omonima comunità ispirata al radicalismo della parola evangelica, rimanendone alla guida per cinquant’anni. Suoi obiettivi erano la diffusione della dottrina sociale cattolica, e un tenace proselitismo in favore dei movimenti non-violenti, pacifisti, antirazzisti, femministi. Arrestata sette volte per aver organizzato e partecipato a scioperi e manifestazioni non autorizzate, si occupò generosamente fino alla morte dell’accoglienza dei senzatetto e degli emarginati, accettando di rimanere all’interno dell’istituzione cattolica, pur in maniera conflittuale, con il preciso intento di migliorarla.

Culturalmente più raffinata, spiritualmente ricercata ed elitaria, Simone Weil, rifiutandosi di aderire all’ebraismo dei familiari, visse la sua prossimità al cristianesimo in modo più cerebrale, soprattutto in base a valutazioni intellettuali, senza tuttavia arrivare mai a farsi battezzare, poiché non condivideva le rigide e illiberali teorie della Chiesa cattolica in ambito socio-politico e dottrinale. La sua ansia di verità, il suo rifiuto di ogni compromesso ideologico la rese per tutta la vita “una persona fuori contesto, fastidiosa,     non omologata”, fieramente ostile all’inserimento in qualsiasi gruppo o partito, politico e religioso. Decisa a condividere la sorte disagiata delle classi subalterne, lavorò come operaia in diverse fabbriche e come stagionale nelle campagne. Abbracciò poi la lotta politica antifranchista e antinazista andando a combattere in Spagna nel 1936. La sua natura eminentemente meditativa le fece vivere esperienze di estasi profonda, in un’unione mistica con la figura di Gesù, espressa profeticamente in pagine di rara bellezza.

Il volume, che nella sezione conclusiva riporta una puntuale cronologia biografica delle due donne, raffrontata specularmente, si concentra su alcuni nuclei fondamentali della loro esistenza, che le videro partecipi di uguali scelte ideologiche e professionali: il valore riconosciuto al lavoro manuale portò sia Dorothy sia Simone a sfidare il duro mondo dell’industria; la fede nella giustizia retributiva e il rifiuto dei privilegi di classe le convinse a prese di posizione radicali, a fianco dei più poveri e degli sfruttati per cambiare l’ordine economico capitalista; l’assunzione orgogliosa della propria femminilità le indusse a optare per una vita indipendente dal ruolo riconosciuto e garantito di moglie. Infine l’amore per Dio e per Cristo le persuase a condividere un cammino a fianco della Chiesa cattolica, lontano comunque dall’ufficialità vaticana.

Accanto a queste due donne colte, risolute e combattive si pone orgogliosamente la persona di Teresa Forcades, come loro fedele all’insegnamento di Cristo, e come loro impegnata nell’ascolto dei bisogni umani e nella ricerca speculativa: Simone Weil, la filosofa, e Dorothy Day, l’attivista, “donne eccezionali, molto diverse l’una dall’altra ma che,  tuttavia, presentano percorsi paralleli convergenti in molti punti e un’ispirazione comune che è quella che ha dato il titolo a questo li bro: Per amore della giustizia”.

 

© Riproduzione riservata              «Gli Stati Generali», 25 novembre 2021

RECENSIONI

FOREST

PHILIPPE FOREST, UN DESTINO DI FELICITÀ – ROSENBERG & SELLIER, TORINO 2019

 

Rileggere Arthur Rimbaud, e interpretarlo attraverso un’ottica non puramente ermeneutica ma di invenzione narrativa, secondo la scansione alfabetica tipica dell’abecedario. Lo fa Philippe Forest, critico letterario e cinematografico francese (Parigi 1962), che da oltre un ventennio esplora la relazione esistente tra il genere romanzesco e la realtà, contaminando analisi testuale, invenzione e autobiografia.

Forest indaga gioie e dolori, conquiste e fallimenti esistenziali propri e altrui, usando come fonte ispiratrice versi e aforismi rimbaudiani, i più noti e citati (Io è un altro; È sicurissimo, è oracolo quello che dico; M’incaponisco spaventosamente ad adorare la libertà libera; Bisogna essere assolutamente moderni; Scrivevo silenzi, notti, annotavo l’inesprimibile. Fissavo vertigini; Che cos’è il mio nulla, in confronto allo stupore che vi attende?). Non solo Rimbaud, comunque: molti sono gli autori di riferimento che Forest cita, a supporto e approfondimento delle sue riflessioni: Aragon, Bataille, Breton, Baudelaire, Eliot, Yeats, Mallarmé, Borges, Nietzsche, Verne, Mishima, l’amato Kierkegaard…

Ma è soprattutto il poeta adolescente dagli occhi celesti e interroganti, il visionario fieramente ribelle e inquieto, ad affascinarlo: “Ogni volta che sento di perdere fiducia nelle parole, apro volentieri Rimbaud, come se consultassi un oracolo, e mi fermo su frasi di cui non capisco niente e che, di colpo, prendono l’aspetto di una profezia alla quale io resto libero di dare il valore che preferisco. Sono certo che dice la verità. Sono certo anche che la verità che dice dipende unicamente dal senso che le do io”.

La parola, quindi. È proprio sul mistero dell’espressione umana che Philippe Forest pone l’accento in queste sue divagazioni, letterarie e filosofiche. Già da bambino si meravigliava del legame capace di unire le cose ai nomi, quando prima ancora di iniziare la scuola aveva imparato a leggere da solo, suscitando irritazione nella maestra e uno stupore intimorito nella mamma. La magia delle vocali colorate sui cartelloni al muro dell’asilo era già stata espressa un secolo prima da Rimbaud “A nero, E bianco, I rosso, U verde, O blu: vocali. Io dirò un giorno le vostre nascite latenti”.

Alfabeti, quaderni, sussidiari, un mondo da scoprire e inventare: “Quel bambino ero io, allevato tra i libri, e che forse li preferivo alla vita, convinto che valevano più di lei perché ne svelavano il senso”. Ecco come si snocciola l’abecedario di Forest; alfabeto, biblioteca, curiosità, dolore. E poi gloria, nulla, politica, sesso, zero.

La biblioteca tante volte frequentata ha lo stesso odore di quella universale raccontata da Borges: una Babele di lingue e significati da penetrare e di cui arricchirsi: “La storia di ogni individuo ripete quella dell’Umanità intera: dal giardino dell’Eden alla torre di Babele. Dapprima, Dio accorda all’uomo la facoltà di dare alle cose il loro vero nome. Poi subito gliela ritira per umiliare il suo orgoglio, moltiplicando le parlate in modo che una grande confusione si estenda sul mondo che ha creato. Le lingue separano gli uomini. Soprattutto: li separano da una realtà che non sanno più con che nome chiamare”.

La curiosità è l’ansia che ci spinge a seguir virtute e canoscenza: “La curiosità: il desiderio di sapere che cosa c’era prima, che cosa ci sarà poi. Come se la vita fosse un libro aperto nel bel mezzo di una storia già iniziata e destinata a continuare, di cui si ignora praticamente tutto, e non si capisce quasi niente. Perché del libro della vita, non si ha mai sotto gli occhi altro che la pagina del presente”.

Philippe Forest alterna note autobiografiche (lo straziante ricordo della sua bambina morta di cancro a tre anni, la lunga permanenza in Giappone per arricchire il proprio pensiero di nuovi orizzonti, il rapporto con il sesso e il mondo femminile, l’interesse per la fisica quantistica) con la ricerca di nuove modalità narrative, in grado di utilizzare fonti di scrittura esterne, citazioni, memorie, elementi diaristici, in uno stile che si mantiene costantemente lieve ed elegante.

 

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2 aprile 2020