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FORLANI

FRANCESCO FORLANI, PARIGI, SENZA PASSARE DAL VIA – LATERZA, BARI 2013

«I miei erano molto preoccupati, in quel 21 giugno del ’91, perché non avevo un lavoro, non parlavo la lingua e non eravamo ricchi di famiglia. Io mi ricordo soltanto che ero partito con la valigia da mimo, di cartone puro, che scendendo dal treno si era rotta, aperta in due, come se quei milleduecentonovantuno chilometri se li fosse fatti tutti da sola».

Non è l’amarcord di un tradizionale emigrato che dal nostro sud abbia cercato lavoro e successo all’estero, ma la rievocazione antiretorica che Francesco Forlani fa della sua partenza da Caserta, dopo la laurea in filosofia, per raggiungere Parigi: città-mito in cui ha cercato riparo e consolazione, soprattutto intellettuale, al sorgere del ventennio berlusconiano, e dove saltuariamente risiede tuttora. I trentatré capitoli in cui si suddivide questo vivacissimo e coinvolgente romanzo sono scanditi logisticamente secondo i suoi spostamenti (abitativi-lavorativi-trasgressivi-esistenziali) nei vari arrondissements della metropoli francese. Quindi dalla sua abitazione in un sottotetto «pittoresco e basso» (con travi a vista, cesso che si ottura in continuazione, invasione di blatte e una seducente vicina tentatrice), condivisa con l’amico scrittore Massimo Rizzante, il giovane e vulcanico Francesco si muove inquieto e perennemente affamato – di cibo, letture, sesso, amori, incontri – nei vari quartieri parigini, circondato da un universo cosmopolita di personaggi dalle occupazioni più varie: librai, cuochi, poeti, jazzisti, grafici, manovali. Sulle orme di altri celeberrimi stranieri che avevano fatto della città la loro patria (Cioran, Hemingway, Cvetaeva, Modigliani, Henry Miller, Anaïs Nin…), questa banda squattrinata insegue il sogno di fondare una rivista letteraria,  La bête étrangère, e il miraggio di un riconoscimento non solo culturale, ma vivaddio magari anche economico. Tra lezioni private di italiano, performances teatrali, occupazioni saltuarie e spesso umilianti, i protagonisti del libro trascorrono il loro tempo in avventure varie, pigiati nei metrò o sfidati da estremisti di destra a colpi di forchetta in un ristorante, in lavanderie a gettone o in musei e biblioteche, negli uffici finanziari dell’Unesco o al cimitero di Père-Lachaise, sui boulevards o nei parchi lussureggianti del centro. In una Parigi in cui però scoppiano anche le bombe, e si viene costretti a passare la notte in un commissariato per schiamazzi, o ancora si accompagna una ragazzina italiana in ospedale perché si sottoponga a una inutile e crudele terapia di chemio. Cementati da un’amicizia solidale e incrollabile, da un’utopistica fede nell’arte e nella letteratura come panacea dalla fatica di vivere, i personaggi di Forlani abitano questo «immaginario Monopoli parigino»» senza passare dal via, ma anche senza arrivare mai a una meta definitiva. E se i genitori dell’autore lo raggiungono, intimoriti e orgogliosi, nella metropoli trovandolo «sciupato», ecco che torna la tentazione ricorrente di un rientro alla base, di una sistemazione più tranquilla e appagante (tentazione a cui cede l’amico più caro, Massimo, lasciando Francesco nel baratro di una sconsolata solitudine). Ma è più giusto e poetico resistere, rimanere attaccati a un desiderio di libertà e sradicamento da confortanti abitudini borghesi: «Chiunque cerca chiunque e, quando l’ha trovato, il vento lo riporta dovunque», creando dalla propria esperienza una suggestiva e scoppiettante mappa letteraria, ad uso e consumo di lettori curiosi e non conformisti.

 

«incroci on line», 14 maggio 2015

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FORLANI

FRANCESCO FORLANI, PENULTIMI – MIRAGGI, TORINO 2019

 

Un libro composito, questo di Francesco Forlani, fatto di versi stampati in tondo e in corsivo, di prosa e interstizi meditativi, di haiku; intervallato da fotografie scattate con il cellulare dallo stesso autore, presumibilmente dalla metropolitana (interrata e sopraelevata) che è l’ambiente da cui, su cui e per cui il testo è stato pensato e scritto. “Pensato” come omaggio ai Penultimi, suoi inconsapevoli e meritevoli protagonisti: un omaggio malinconico, grato e rimordente. “Scritto” in un italiano colto ma nello stesso tempo popolare, striato di francese e di napoletano: le tre lingue e le tre anime dell’autore.

Francesco Forlani è infatti nato a Caserta, si è laureato in filosofia a Napoli, ha insegnato a Torino, è emigrato a Parigi dove tuttora risiede, professore in una scuola della banlieu. Poeta, narratore, saggista, consulente editoriale, traduttore, redattore di blog letterari, vulcanico performer e cabarettista, in questo volume si è ritagliato un suo spazio di riflessione, amara e insieme indignata., sulle vite degli altri, sulla sua che li osserva, sul mondo in cui è inserito pur con dignitosa estraneità. Da due anni si imbarca ogni mattina alle 5,40 sulla linea 6 della metro parigina, «nella tratta che da Nation va a Montparnasse» per raggiungere l’istituto in cui insegna: con lui una massa indistinta di persone, presenze assenti e intercambiabili: i penultimi, appunto, non proprio gli ultimi nella scala sociale. Un lavoro ce l’hanno, e lo raggiungono all’alba di ogni giorno feriale, rassegnati a una routine malpagata, ripetitiva, spersonalizzante: «Se ne stanno seduti i penultimi / alle cinque e mezza del mattino / tutti occupati i sedili sulla banchina / prima che il primo treno del giorno / salpi e porti per mari di moquettes / e vetri negli uffici le donne delle pulizie / o gli operai giù in fabbrica, i travet per piani / senza più nulla chiedere né altro domandare».

Il poeta li osserva, nei copricapi di lana degli uomini, nei foulard delle donne, negli occhi socchiusi per il sonno interrotto e nelle labbra che si muovono in cantilene o preghiere: appartengono a razze e religioni diverse, sono esseri umani come lui, compagni di ventura e sventura, ma forse non altrettanto capaci di introspezione e di valutazione sul destino che altri hanno confezionato per loro: «E ce ne stiamo attaccati studenti ed operai / come le lancette / di un orologio che segni / l’esatta metà del giorno / (e della notte) / c’est l’heure! c’est l’heure!» La Parigi della democrazia e dell’insurrezione ‒ Liberté, Égalité, Fraternité ‒ , si offre nel suo squallore quotidiano al giudizio sconfortato e agro dell’intellettuale, che sa comunque più e meglio dei suoi compagni di viaggio cercare scampo nella bellezza residua della luna seminascosta tra le nubi, del cielo ancora grigio, di una ragazza-runner ansante sul marciapiede, o nel profumo di colonia che improvviso invade lo scompartimento, riaccendendo memorie familiari.

In una posizione di privilegio, l’autore possiede gli strumenti culturali per interrogarsi su cosa sia diventato il vivere in comunità, oggi, nelle metropoli di tutto il mondo, pagando uno scampolo di welfare con la mancanza di rapporti umani e di felicità individuale. Lo fa in uno degli inserti in prosa del libro («Quando è cominciato tutto questo? Quando è iniziato l’assedio che ci stringe in una morsa che rende irrespirabile l’aria del tempo e che strozza l’anima… »), rispondendosi da solo: «Ed è strano e insieme meraviglioso che proprio in quell’attimo di scoramento senti rinascere dentro un soffio di vita nova, il gorgoglìo, la misura della tua forza, sapere che più inespugnabile è il diritto meno la forza potrà e che basta il pensiero di queste cose e quelle a far sollevare lo sguardo, a osservare meglio di fuori sporgerti per scoprire che quelli che sembravano i tratti ingrugnati del nemico sono solo il riflesso del tuo stesso volto nell’acquitrino di cinta e che un solo rimedio al fronte interno vale a quel punto, liberare il portale, calare il ponte, issarsi a riveder le stelle e respirare forte e dire vita, ehi vita mia, urlare, grazie».

Grazie alla vita comunque, grazie ai penultimi, «sti pauvres christi, de christiani, au senso largo / car il y a aussi el muslim, le buddist lo istemmatore, / toti sti pasi, bon, stano toti amuchiati, entassés, / addunuchiate dans la grande salle des pas perdus», che chiedono poche cose alle cose, «a volte solo un segno, un cenno, / da parte a parte della vita », quando bastano «i tre boccioli di rosa sulla piattaforma, in pieno inverno / di piena neve, sussurrano courage, la primavera avanza ».

© Riproduzione riservata        https://www.sololibri.net/Penultimi-Forlani.html         7 gennaio 2020

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FORTINI

FRANCO FORTINI, I CONFINI DELLA POESIA – CASTELVECCHI, ROMA 2015

Di Franco Fortini (1917-1994), protagonista tra i maggiori della cultura novecentesca italiana, l’editore Castelvecchi propone due conferenze sulla poesia tenute nel 1978 e nel 1980 nelle università del Sussex e di Ginevra. Erano anni di pesante conflittualità sociale e politica, di vivaci polemiche intellettuali, di pulsioni utopistiche. Di tale tensione etica si nutrono i testi fortiniani, dei quali il primo (Sui confini della poesia) si interroga – nello spazio di pochi, lineari paragrafi – sul ruolo della poesia e dell’arte nella società, mentre il secondo (Metrica e biografia) si sofferma sui tratti peculiari della produzione in versi dell’autore stesso.
Attualissime, pungenti e amare paiono le considerazioni delineate nel primo saggio, a partire dalla constatazione che la letteratura italiana ha lentamente virato verso posizioni antistoriche, individualistiche e di mercato, divaricandosi tra un «vitalismo neosurrealista» e un «formalismo esasperato», accentuando «una perdita di memoria del passato» e una «proliferazione produttiva dell’inutile». Nel suo rigoroso richiamo alle fonti del marxismo, e quindi a un’arte che sia anche educativa, e mantenga una valenza pedagogica, Fortini si rifà a Lukács, Horkheimer, Adorno. Pur riconoscendo che la poesia ha una dimensione conservatrice e conciliatrice, perché espressione di gratuità e privilegio (il cuore di un mondo senza cuore… Il sabato di un villaggio senza domenica), in una collettività sempre più reificata e indotta alla pura produzione e al consumo, Fortini sa che essa rimane uno dei rari luoghi integri, non invasi dalla sclerosi della prestazione. Aumenta la richiesta di una letteratura di successo, che rimane l’unica abbordabile dai ceti subalterni, e in grado di trasformarsi in esibizione e spettacolo: ma resta forse ancora la possibilità di un’arte più meditata formalmente, più consapevole del significante e non solo dei significati, attraverso cui «gli uomini raggiungano controllo, comprensione e direzione della propria esistenza».
Nel secondo intervento, Fortini racconta di sé adolescente, del suo avvicinamento alla poesia determinato dal desiderio di difendersi «dalla volgarità del quotidiano», «scavalcando» la storia ottusa degli anni fascisti. E di come poi abbia compreso quanto sia invece necessario rapportarsi col proprio tempo, perché «c’è qualcosa di più importante della più importante e sublime opera di poesia». Questa rigidità ideologica di fondo lo confermò nella necessità di produrre versi severamente vincolati a regole metriche: al punto da costringersi a lavorare per sei lunghi mesi a un’unica composizione (La poesia delle rose), continuamente rielaborata nelle sillabe e negli accenti, che finì per rivelarsi fallimentare, anzi addirittura «mostruosa»».
L’interesse di Fortini per la metrica indica l’estremo appassionato rispetto per la fattura del verso, per la sua morfologia, per gli aspetti più tecnici della scrittura: cosa che ha fatto di lui, sia come poeta sia come intellettuale, un «ospite ingrato» della nostra letteratura, oggetto di «esecuzioni sommarie e ordini di scuderia intese a tacitarne la voce», come ricorda nella sua intelligente prefazione Luca Lenzini.
E non poteva essere altrimenti, per chi aveva anzitempo diagnosticato «la fine del mandato sociale degli scrittori», affermando che «L’unico modo di resistere alla morte è quello di costituirsi entro un sistema, secondo un progetto e quindi con un’autoeducazione di cui le opere d’arte sono un esempio».

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/I-confini-della-poesia-Franco.html     12 febbraio 2016

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FOSSE

JON FOSSE, MATTINO E SERA – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2019

Di Jon Fosse, scrittore e drammaturgo norvegese nato nel 1959, sono stati pubblicati in italiano diversi volumi, con buon successo di vendite e di critica. L’ultimo apparso, Mattino e sera, è un racconto lungo, sospeso in un’atmosfera onirica, scritto con uno stile fluido, privo di interruzioni, leggibilissimo nella sua precisa e stringata adesione al corso dei pensieri dei protagonisti.

Scandito in due parti, racconta il mattino e la sera di Johannes, figlio del pescatore Olai, nipote del nonno pescatore di cui porta il nome, e lui stesso pescatore, marito di Erna da cui ha avuto sette figli. La narrazione si apre con la sua nascita, atteso figlio maschio arrivato dopo un’unica altra figlia ormai adolescente. Il padre Olai, seduto al tavolo della cucina, segue con trepidazione il parto non facile della moglie Marta, sussultando spaventato a ogni urlo di dolore che arriva dal letto di lei, e perdendosi in riflessioni sul senso e la bellezza della vita:

“E adesso perché c’è questo silenzio dentro la camera? c’è qualcosa che non va? ma non gli sembrava che ci fosse niente di strano quando la vecchia levatrice Anna era venuta in cucina per prendere altra acqua calda, no? non aveva notato nulla nella vecchia levatrice Anna che rivelasse che qualcosa non andava come doveva, no, pensa Olai e di colpo si sente più tranquillo, sì, di colpo riesce pure a sentirsi quasi felice, eh sì come cambia tutto, da non crederci, pensa Olai, adesso un maschietto, il piccolo Johannes, vedrà la luce del mondo perché è cresciuto grande sano e bello nell’oscurità e nel calore della pancia di Marta, dal non esistere assolutamente si è trasformato in un essere umano, un bambino, sì, dentro la pancia di Marta si sono formate le dita delle mani, dei piedi e il viso, lì dentro si sono plasmati anche gli occhi e il cervello e magari ha anche qualche capello, e adesso, mentre la mamma Marta urla di dolore, verrà alla luce in questo mondo freddo dove sarà solo, separato da Marta, separato da tutti gli altri, sarà solo sempre solo e poi, quando verrà il momento, quando sarà la sua ora, si dissolverà e si trasformerà in nulla e ritornerà là da dove viene, dal nulla e al nulla, questo è il corso della vita, per esseri umani, animali, uccelli, pesci, case, recipienti, per tutto quello che esiste, sì, pensa Olai e poi c’è ancora molto di più, pensa, perché anche se si può pensarla così, dal nulla e al nulla, in realtà non è neppure questo, è molto di più, ma che cos’è allora tutto il resto? il cielo blu, gli alberi a cui spuntano le foglie?”.

Questo è dunque il mattino di Johannes, e le meditazioni del padre saranno le stesse che accompagneranno lui per tutto il corso della sua semplice e buona esistenza, fino appunto al buio della notte, raggiunto in tarda età. La seconda parte del racconto ci presenta quindi Johannes ormai vecchio e vedovo, solo nella sua casa in una “giornata plumbea, fatta di pioggia e pioggerellina fine, folate di vento e cielo grigio, freddo umido e mezzo gelo”. Svegliandosi all’alba, si sente stranamente anchilosato e incapace di muoversi, ma subito dopo è preso da una inconsueta leggerezza, fisica e mentale, che lo induce a ripetere con facilità i gesti quotidiani di sempre. Sale quindi in soffitta a ispezionare gli attrezzi da pesca e tutti i vecchi oggetti ammassati confusamente, e li trova diversi dal solito, “diventati dorati e pesanti, come se pesassero molto di più del loro peso reale e allo stesso tempo fossero privi di peso”. Esce poi di casa, dirigendosi verso la costa sassosa del paese di Vågen, per dare un’occhiata alla sua barca a remi lì ormeggiata, quando scorge venirgli incontro l’amico più caro, smagrito e con i capelli lunghi e radi: Peter, morto da molti anni, con cui aveva diviso bevute, confidenze e giornate di pesca. Concreto nei gesti e nella voce, eppure avvolto in un’aria inconsistente. I due si perdono in chiacchiere, rievocando vicende passate e conoscenti del paese, scomparsi da anni. Ogni cosa, intorno, assume sembianze sfocate, “tutto è come cambiato e al tempo stesso è tutto come sempre, tutto è come prima e tutto è diverso”. Il mare, i granchi nei cesti, l’esca gettata in acqua che galleggia in superficie, sembrano a Johannes presagi di qualcosa che non riesce a comprendere.

Con la lievità di un’ombra, torna verso casa, ed è già il crepuscolo: sua moglie Erna lo aspetta per il caffè (ma non era morta? si chiede confuso): parlano un po’, e lui fuma una sigaretta. Poi si stende sul letto aspettando che la figlia minore Signe, affettuosa e amabile, venga a trovarlo come fa di solito. E Signe arriva, infatti, trafelata perché non ha sentito il padre per tutto il giorno, e perché vede le finestre buie, e non ode rumori. “Entra in soggiorno e poi nella camera e lì vede papà Johannes sdraiato sul letto e ha un’aria tranquilla, quasi come se stesse dormendo, pensa Signe e gli prende la mano, quasi come quando ero una bambina, pensa Signe e sente fremere dietro gli occhi e gli occhi si riempiono di lacrime”, rendendosi conto che il vecchio e rude padre ha raggiunto serenamente la sua sera.

 

© Riproduzione riservata              «SoloLibri», 30 luglio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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FRABOTTA

BIANCAMARIA FRABOTTA, DA MANI MORTALI – MONDADORI, MILANO 2012

In un suo recente articolo uscito sul sito dell’editore Lietocolle, Biancamaria Frabotta ha scritto: «Ciò che non si può spiegare è spesso solo il sintomo di un fallimento, di una scorciatoia che l’anima prende di fronte ai rischi della semplicità. La semplicità, dice Pasternak in una poesia esemplare, «più d’ogni cosa è necessaria agli uomini / ma essi intendono meglio ciò che è complesso».

Una dichiarazione di intenti, quasi a prendere le distanze da quello che è stato finora il procedere poetico di quest’autrice, finalizzato soprattutto alla ricerca e alla sperimentazione linguistica – talvolta anche provocatoria, comunque sempre innovativa, e di non facile interpretazione. In quest’ultimo libro, in effetti, la complessità dello stile e l’oscurità formale si sciolgono in una discorsività più piana e comunicativa, benché il dettato dei versi non si possa definire “semplice”. Ma è il contenuto, il messaggio che ora balza in primo piano, più che il gioco e il collaudo sulla lingua: un interesse più partecipe a ciò che ci circonda, alla natura, agli uomini, alle cose. Ed è proprio nella prima sezione del volume che la poetessa tocca il vertice più alto della sua scrittura, in questo rapporto riscoperto con la vegetazione, osservata con ammirato stupore, quasi con religiosa contemplazione e solidarietà: «una foglia / pende ancora a lato del legno, trema, / si rimette al vento con l’astuzia dei deboli», «udire il mormorio della terra che dorme / quando sibila la sofferenza delle piante. / Potessi, ospite impensierita, dal pietrisco salvare la salvia /…accorrere dove il ramerino implora una sponda…».

Allora la missione del poeta diventa quella di guardare la vita dal basso (biancospini, ortaggi, molluschi, chiocciole..), collaborando con la misteriosa divinità positiva che protegge e recupera l’innocenza delle sue creature («il fieno / dorme senza diffidenza»), opponendosi all’artificiosità cittadina e metropolitana, alla freddezza delle sue convenzioni. Ed è proprio alla voce dei poeti («acquattati nel pelo del mondo… // scovarli, stanarli / dai loro nascondigli / i pochi (troppo pochi!) poeti») che Biancamaria Frabotta demanda il compito di uno sguardo più puro e salvifico sull’esistente: li nomina, li ringrazia, i suoi amici poeti, se ne circonda nelle pagine e nella vita. Dall’amato Giorgio Caproni che sembra sorvegliare dall’alto una sua irriconoscibile Genova («le gallerie di colpo senza / golfi, seni azzurranti, rive / mancate come ragazze viziate»), alla compianta Giovanna Sicari, ricordata nel martirio della sua malattia, ad altri raccontati nei loro incontri-scontri, nelle frequentazioni reciproche. Le esistenze private, gli amori, i gesti quotidiani comuni a tutti si ripetono come le stagioni, i cicli lunari, in un avvicendarsi di giorni e notti, di sonno e veglia, di vita e morte : «Alzarsi nel buio, strisciare nell’obbligata trincea / lungo le pareti, senza centro, né gravità, arrancare / prendere un po’ d’acqua, perderne altrettanta».

Personale e politico si intrecciano: cronache cittadine e storia ufficiale (dagli echi del declino di un impero romano corrotto alla visita di G.W.Bush in Italia), siccità naturali e terremoti distruttivi, citazioni omeriche e ritratti severi del mondo intellettuale e politico, versi d’occasione e poemetti-testimonianza, con l’unico rischio che al lettore vengano presentati troppi stimoli, troppe circostanze e immagini diverse, troppe emozioni da rielaborare. E se nelle ultime sezioni del volume Biancamaria Frabotta presta la sua voce a un dio umano, eccessivamente umano, anche nella sua impotente incapacità di opporsi al male e di soccorrere al bisogno («Sono le mie debolezze, le mie imperfezioni / a illuminare la mia oscura sintassi»), è forse in questa crudele e dolcissima metafora il significato più vero della sua scrittura: «A nord, lungo il filare dei cipressi / una trave di quercia lentamente / marciva nascosta fra le erbe. I tarli / hanno lavorato, ma il nocciolo è sano. / Certo sosteneva una casa in pericolo».

Ecco: perché la casa pericolante non crolli, può forse bastare la trave bagnata della poesia, la sua indistruttibile forza interiore.

«Leggendaria» n.106,  luglio 2014

RECENSIONI

FRABOTTA

BIANCAMARIA FRABOTTA, IL RUMORE BIANCO – FELTRINELLI, MILANO 1982

«Bianco» è una parola chiave per penetrare tra i rumori di questo libro di Biancamaria Frabotta, che si intitola appunto  Il rumore bianco. «Bianco»» non si dice, di solito, del silenzio? Non è al silenzio che colleghiamo il candore della neve, che cade senza produrre suono, che attutisce qualsiasi vibrazione acustica? E quale colore può avere il rumore, se non una tinta violenta (il nero, il rosso, un giallo fosforescente?). Un rumore bianco pare un’offesa al senso comune, anzi un’ipotesi di sospensione del senso, di attesa/sorpresa: in questo titolo c’è già poesia. Ma nell’intenzione che lo ispira c’è anche dell’altro: una motivazione più sottile, una provocazione più acuta. Nel linguaggio scientifico, rumore bianco viene definito il suono prodotto dalla collisione delle molecole immerse nel fluido della loro corsa. Un rumore che può essere assordante ma che il nostro orecchio non percepisce. Presente nell’aria intorno a noi, dentro di noi; possiamo chiamare rumore bianco anche quello della poesia, con i suoi suoni e i suoi silenzi. Alle parole dette, più che a quella letta in silenzio, la Frabotta affida il compito di comunicare poesia (vedi anche un suo interessante articolo, Il poeta in palcoscenico su Il Manifesto del 27 dicembre 1981): e i lettori sono immaginati «accecati…ammutoliti, …altro che come un orecchio / un ombroso orecchio guardone», un pubblico di ascoltatori. Queste poesie sono infatti da leggere a voce alta, sonore, nervose, asseverative. Ma di tanto in tanto la voce si concede, quasi a raccogliere respiro e dolcezza, la pausa riposante del più cantato dei versi, l’endecasillabo. E può essere un endecasillabo provocatorio, come una spallata data apposta («Spremi la resina il pimento il piscio»); è comunque una distrazione, una concessione all’orecchio desideroso di refrain. In queste pagine letteratissime, lontane dalla discorsività e da ogni spontaneismo, si è sorpresi da qualche arcaismo come da un vezzo (cui talvolta Frabotta indulge anche in prosa): l’aggettivo che precede il nome («la tua sudata pelle»), o l’avverbio che precede il verbo («per finalmente esserci», «sfrontatamente ridere»). Subito dopo si è magari costretti a sbrogliare i mille fili delle tecniche raffinate dell’inversione sintattica, dell’eliminazione della punteggiatura, della divisione delle parole a fine verso non giustificata da altro che dalla scansione metrica. Ancora una volta un omaggio alla voce, e non fa niente se è un’offesa all’occhio («Monade chiac / cherina», ««lenzuolo inzu / ppato»). Ci siamo abituati a leggere – o a scrivere- un certo tipo di poesia femminista, molto didascalica, a volte rancorosa, oppure privata in modo totalizzante. Questa della Frabotta è senz’altro poesia femminista, nei contenuti più che nella forma. Il linguaggio femminile, nonostante le molte teorizzazioni, sembra non riesca a inventarsi («Anche se oggi ti rendo l’onore delle armi / il fuoco sacro dell’imitazione»). Gli strumenti poetici sono sempre quelli, bisessuali, come li vuole chiamare Porta nell’introduzione al libro. E i temi sono quelli propri di una poesia femminista, ma né didascalica né rancorosa, semmai fiera, altera («Non come te poeta io sono / io sono poetessa e intera / non appartengo a nessuno»). Le altre, le donne, le sorelle sono presenze concretissime nelle due prime sezioni del volume, amate irrazionalmente ma anche razionalmente giudicate: «Prepolitiche / da sempre e scorrette agitano / l’ascia bipenne dei moicani e scuotono le piume. / Vi offriamo perline colorate per piombo. / Siamo già spaventate dall’urlo dei cani. / Cerchiamo di farvi paura».

Oppure: «Amiche che così identiche vi fa uniche / il guerriero pudore declinante / l’irragionevolezza del passo». Il rapporto con loro è tormentato («E’ la vita che vi debbo o / il suo estinguersi per sempre?», «Lasciami / correre a nascondermi fra le macerie / per paura e vergogna delle sorelle che / ci rapano la testa come a donne di partigiano / incinte di seme tedesco»), ma basato sulle certezze di una sorellanza: «Insinui perché la tua razza così ti vuole. / Lei invece mi dà già la sua solidarietà. / La vedi? Là, dall’altro marciapiede».

Anche il privato entra in questa poesia, ma in maniera pudica e riservata, «Un bambino che di parlare non ne vuole sapere». Un privato chiuso, che non rivela niente di sé, che potrebbe essere il privato di tutti: ci sono le altre, c’è un lui, una lei. Un privato che irrompe con un “tu” personalizzato, subito però dirottato sul piano dell’oggettività, dell’impersonale, del pubblico; dal tu al lei/lui al loro, nella stessa poesia, lo sguardo interno può diventare occhiata esterna. Il rapporto con l’altro non è mai abbandonato, ma sempre vigile, ostile: il maschio è appunto il lui, oggetto di indagine, in definitiva estraneo. Non c’è un uomo in particolare, nessuna storia o relazione personale è privilegiata: di questi corpi virili si vedono sempre e solo i fianchi, le spalle, girati dall’altra parte, in una loro chiusa indifferenza. Delle loro menti si intuisce una comune abilità nel tessere inganni di parole, nel sezionare argomenti con logica angusta. Questa logica maschile è incomprensibile, temuta perché vincente seppure povera, condannata dalla sua rigidità. E’ la severità di Abelardo, «disperso» nelle sue trame di pensiero, «idee intricate», la cui «sapienza non vale misurare l’ardore di vegetale» rispetto al coraggio, alla voglia di vivere di Eloisa. Se filosoficamente domina Abelardo, è Eloisa la «morbosa, terragna» che ha il suo regno tra i meli, le foglie, i passeri, l’acqua, le alghe. L’eterno duello tra cultura e natura ha trovato i suoi emblemi, un Abelardo ascetico, un’Eloisa «prensile mobile radice», che preferisce «le corde di terra / e non una mongolfiera vuota di vento». Il verso finale di questo poemetto e del libro suggerisce una meta a chi scrive, donna, poesia di donna: «si emigra al sud, a ali spiegate».

«Produzione e cultura» n. 26/27, giugno 1982

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FRANCK

DAN FRANCK, LA SEPARAZIONE – RIZZOLI, MILANO 1996

Uno scrittore di successo, sceneggiatore abituato alle luci della ribalta, ebreo di sinistra cresciuto nella scia del maggio ’68, approdato a un laicismo ecologico e tollerante, insomma un interessante quarantenne parigino, sicuro di sé e della sua vita, si rivela improvvisamente fragilissimo, sbandato, disperato, quando sua moglie decide di lasciarlo, portandosi via i due bambini, di cinque anni e otto mesi. Torna ad essere, allora, il più tradizionale dei mariti, geloso, ricattatore, infantile. Capace di studiare e di mettere in atto ogni pratica di seduzione e convincimento, pur di trattenerla. Scritto in terza persona, con uno stile conciso, a volte sincopato, quasi a seguire i pensieri e i sentimenti altalenanti, a singhiozzo, dell’autore, il romanzo  La separazione di Dan Franck ha ottenuto nel ’91
il Premio Renadout, ed è stato trasposto sugli schermi con l’interpretazione di Isabelle Huppert e Daniel Auteuil. Si apre con la descrizione di una serata a teatro, in cui lui («Lui») tenta di prendere la mano di lei («Lei») che gli è seduta accanto, «distante e tesa», e non risponde alla sua stretta, o si ritrae. Lui insiste, le preme la spalla, le accarezza un ginocchio, e lei si irrigidisce, si scosta, infastidita. Al ritorno, in moto, non si appoggia alla sua schiena, non gli cinge i fianchi. A casa lo schiva, esce dalle stanze quando lui entra. Alle domande incalzanti del marito oppone annoiata resistenza («Non so, non mi capisco, sarà lo stress, saranno i bambini»). Però si cura di più, si veste con maggiore ricercatezza, a momenti è radiosa: altrimenti soprappensiero, malinconica, via da tutto. Fino a quando confessa di amare un altro, di vederlo regolarmente, di desiderarlo. Un altro («l’Altro»), non meglio precisato, mai descritto, ma onnipresente. Per un mese, dopo la rivelazione, non succede niente: i due si sorvegliano, scaramucciano, tormentandosi con sadismo. Poi lei sta fuori una notte, e lui crolla, impazzisce. Non mangia più, tenta improvvisi recuperi, la ricatta con la rivisitazione degli anni passati insieme, o con la sofferenza dei bambini, verso cui si accorge solo ora di nutrire un affetto morboso. Insieme vanno alla deriva, non hanno più gesti o parole in comune, non si chiamano nemmeno più per nome («Ehi!»); coinvolgono nella loro storia decine di vecchi amici, e parenti, tutti alle esequie di un amore, maledicenti o complici. Infine, la separazione arriva come il minore dei mali, i bambini rimangono a lei, lui pian piano si rassegna a una solitudine riempita di espedienti, non più rancoroso ma senz’altro sconfitto,e convinto che la moglie e i figli, anche se ormai lontani, in una casa che non è la sua, «quei tre resteranno per sempre i suoi».

 

«L’Arena», 21 giugno 1996

RECENSIONI

FRANZOSINI

EDGARDO FRANZOSINI, SOTTO IL NOME DEL CARDINALE – ADELPHI, MILANO 2013

Edgardo Franzosini, scrittore e traduttore lombardo, alla sua terza pubblicazione da Adelphi, affronta ancora una volta la vita di un personaggio storico, la cui vicenda biografica -non immediatamente e universalmente nota, ma nemmeno del tutto sconosciuta- assume nelle sue luci e nelle sue ombre, nei riconoscimenti meritati e nelle ingiustizie patite, un valore paradigmatico, esigendo un riscatto postumo. Quindi, dopo aver raccontato di Raymond Isidore e Bela Lugosi, l’autore ricostruisce qui la tormentata storia del sacerdote Giuseppe Ripamonti, nato nel 1577 e morto il 14 agosto 1643 (e non è forse casuale che il giorno del suo decesso coincida con il compleanno di Franzosini, così come il luogo della sua morte -Rovagnate in Brianza- sia il paese natale del nostro autore: se queste coincidenze possono in qualche modo giustificare il coinvolgimento emotivo di chi scrive nei riguardi dell’oggetto del suo studio…). Ripamonti fu uno storico utilizzato come fonte da Alessandro Manzoni sia nei Promessi Sposi sia nella Storia della colonna infame, e da lui molto apprezzato per la documentata puntigliosità descrittiva, e per l’eleganza del suo latino «rigorosamente modellato sui grandi autori classici». Franzosini ripercorre l’esistenza del personaggio a partire dalle origini contadine, dagli studi in seminario e dai primi impieghi come precettore, fino all’ordinazione sacerdotale avvenuta nel 1605, mettendone in luce soprattutto il carattere: «Riservato, introverso, suscettibile, con la precisa consapevolezza della propria superiorità intellettuale, arso dal fuoco dell’ambizione… istintivamente insofferente verso alcune regole di disciplina».

L’indole geniale e ribelle di Giuseppe Ripamonti venne ben presto a scontrarsi con quella, altrettanto «viva e risentita… calda e collerica», per quanto mascherata da una «pacatezza imperturbabile», del suo superiore e mentore, Cardinale Federico Borromeo, di cui Manzoni ci ha lasciato un ritratto monumentale. Dopo aver nominato Ripamonti «istoriografo» nel Collegio dei nove Dottori della Biblioteca Ambrosiana, e averlo accolto nel suo stesso palazzo arcivescovile per sottrarlo all’invidia velenosa degli altri studiosi, e dopo avergli affidato l’incarico prestigioso di redigere una Historiarum Ecclesiae Mediolanensis, Borromeo diede inizio a una sistematica persecuzione del suo sottoposto, che sfociò in un arresto, in vari e lunghi processi, in una condanna dell’Inquisizione e infine nella prigionia durata quattro anni.
Scandagliando documenti d’archivio, lettere autografe, cronache dell’epoca e posteriori, Franzosini riesce a offrirci un’esauriente ricostruzione dell’ambiente della curia ambrosiana del 1600, dei suoi intrighi, delle faziosità culturali, delle falsità ufficiali e delle verità ufficiose, principalmente in fatto di ortodossia ed eresie religiose. Ma soprattutto indaga nei meandri dell’inconscio e del rimosso, che possono portare anche anime fulgide e personaggi in odore di santità a manifestazioni di puerile fragilità, di insospettabili e meschine ripicche. Le accuse terribili, mai del tutto provate, che condussero Giuseppe Ripamonti in carcere (insubordinazione, tradimento, stregoneria, forse sodomia) potevano essere frutto di un risentimento personale, dovuto a gelosia intellettuale? Edgardo Franzosini ci descrive un Cardinale Federico Borromeo tormentato da una «irresistibile vocazione letteraria» e insieme bloccato da un impedimento paralizzante che lo rendeva complessato sia nei confronti dell’inarrivabile modello – il cugino San Carlo- , sia verso altri letterati contemporanei. Con uno stile rigoroso e classico, e offrendo al lettore un ricco apparato di note e una puntuale bibliografia, Franzosini ha saputo restituirci un ritratto convincente di due personalità di grande spessore, legate in vita e in morte da un contrastato rapporto di stima-disistima, amore e odio. Rapporto ipocritamente edulcorato nell’epigrafe incisa sulla lapide apposta alla casa natale di Ripamonti a fine ‘800: «espiò duramente in se stesso l’invidia altrui e le proprie stranezze solo confortato dal patrocinio dell’immortale Federico Borromeo».

 

«incroci on line», 23 giugno 2014

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FRANZOSINI

EDGARDO FRANZOSINI, QUESTA VITA TUTTAVIA MI PESA MOLTO – ADELPHI, MILANO 2015 –

Edgardo Franzosini (1952) è uno scrittore lombardo molto apprezzato dalla critica, ma non conosciuto dal pubblico quanto dovrebbe. Gode del privilegio, piuttosto raro nella nostra narrativa contemporanea, di saper raccontare con sobria eleganza e scrupolo documentaristico le vite particolari di personaggi poco noti, ma realmente esistiti, che hanno lasciato traccia di sé nella storia, nell’arte, nella cultura europea. Dopo aver illustrato le biografie di Raymond Isidore (costruttore di una cattedrale fatta di detriti), di Bela Lugosi (il più famoso interprete cinematografico di Dracula) e di Giuseppe Ripamonti (sacerdote e storiografo), in questo volume – sempre pubblicato da Adelphi – si sofferma sulle vicende biografiche di Rembrandt Bugatti, uno scultore animalista il cui nome risulta pressoché ignoto ai più. Essendo un ottimo narratore, Franzosini ci introduce nelle giornate del suo protagonista descrivendone dapprima sommari tratti fisici (“E’ alto ed è vestito in modo elegante, ma ha le spalle curve e l’andatura rigida e impacciata…dai tratti del viso malinconici e taglienti, se non proprio severi, e abbigliato con uno stile che, come minimo, potrebbe essere definito sottilmente bizzarro o oscuramente provocatorio”), quindi gli incontri quotidiani più banali, e poi via via la storia della sua originale e facoltosa famiglia, le amicizie influenti, per arrivare all’unica, fondamentale passione della sua vita: gli animali. «Rembrandt si sente a proprio agio solo in mezzo agli animali, solo a contatto con quella comunità senza parole».

Non sono gli animali domestici ad affascinarlo, ma quelli esotici, selvatici, provenienti da terre lontane: davanti alle loro gabbie, negli zoo di Parigi e di Anversa (le due città in cui risiede abitualmente) passa ore, settimane, mesi. Li osserva nei loro movimenti che mantengono ancora qualche traccia di aggressività («Bestie a cui è stato tolto il piacere del sangue, il gusto di sbranare»), mentre si nutrono, o si azzuffano, o dormono. Li disegna, li modella con la plastilina, ne ricava dei calchi e poi delle sculture che presto lo rendono celebre e gli valgono il titolo della Legion d’ Honeur. Afflitto dalla sordità e dalla tisi, Rembrandt Bugatti è un giovane uomo solitario e aristocratico, conteso dai salotti parigini, ma costretto dall’indigenza a farsi mantenere dall’amatissimo fratello Ettore, fondatore della rinomata casa automobilistica. Sensibilissimo, profondamente religioso, è sconvolto dalla tragedia della grande guerra, dall’invasione tedesca del Belgio, dalle crudeltà prussiane contro i cittadini inermi (magistralmente descritte da Franzosini in pagine di rara efficacia): ma soprattutto dalla feroce esecuzione di tutti gli animali dello Zoo Antwerpen di Anversa, imposta dalle autorità belghe per ragioni di sicurezza. Rembrandt patisce la sua estraneità a un mondo sempre più feroce, indifferente all’arte, spietato verso il prossimo: lontano da parenti e amici, privato del suo lavoro e dell’ affettuosa frequentazione dei prediletti quadrupedi, si uccide nel gennaio del 1916. La vita, come aveva scritto al fratello pochi mesi prima, era diventata per lui un peso insopportabile.

 

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www.sololibri.net/Questa-vita-tuttavia-mi-pesa-molto.html      8 ottobre 2015

RECENSIONI

FRANZOSINI

EDGARDO FRANZOSINI, RIMBAUD E LA VEDOVA – SKIRA, MILANO 2018

Nella primavera del 1875 il ventunenne Arthur Rimbaud visse per quasi un mese a Milano, ospite di un’anziana vedova, in un appartamento affacciato su Piazza del Duomo. Proprio in quei giorni prese la decisione di abbandonare la scrittura, dando inizio a una nuova esistenza, sempre avventurosa e anticonvenzionale, ma non più votata al demone dell’arte. Edgardo Franzosini, scrittore lombardo nato nel 1952, ricostruisce minuziosamente quelle fatidiche giornate milanesi in cui il poeta che definiva sé stesso «ladro di fuoco», «fanciullo sfiorato dal dito della Musa», «veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi», decise di trasformarsi in «qualcuno che era stato lui, ma che non lo era più, in nessun modo» (secondo le parole di Mallarmé), diventando mercante d’armi in Abissinia, dopo aver lavorato come inserviente di un circo, soldato mercenario, caposquadra in un cantiere e venditore di caffè e avorio in Europa, in Africa e in Medio Oriente

Franzosini è uno dei più originali scrittori italiani, ex bancario e oggi stimato autore Adelphi molto tradotto all’estero: ha scelto di indagare la vita misteriosa di personaggi più o meno noti, ma le cui vicende esistenziali sono rimaste avvolte in un velo di nebbia, oscurate da silenzi, calunnie, pregiudizi, persecuzioni. Come Bela Lugosi, interprete di film horror su Dracula; o l’avventuriero inglese Johann Ernst Biren, mangiatore di carta stampata; oppure il religioso Giuseppe Ripamonti, che scriveva i discorsi del Cardinale Federico Borromeo e venne da lui accusato di eresia e fatto imprigionare; o Raymond Isidore, costruttore di una cattedrale fatta di detriti e sporcizia; o ancora Rembrandt Bugatti, straordinario scultore di animali in bronzo e fratello infelice del fondatore di un prestigioso marchio automobilistico… Personaggi stravaganti e ai margini, a cui rendere dignità sulla pagina, attraverso un minuzioso lavoro di ricerche negli archivi, approfondite letture, precise ricostruzioni d’ambiente.

In questo volume pubblicato da Skira, Edgardo Franzosini si occupa invece di un artista famosissimo, genio precoce dalla vita girovaga e sregolata, che aveva scritto il Bateau ivre a diciassette anni e, nel giro di poco tempo, altri due capolavori: Une saison en enfer e le Illuminations. Ricostruisce la città che accolse il giovane Arthur utilizzando diverse fonti documentarie: giornali d’epoca, locandine teatrali, antiche guide turistiche, resoconti di fatti di cronaca e di vicende politiche. Una laboriosa Milano di 280.000 abitanti, che verosimilmente non rappresentava per il poeta la meta finale del viaggio, bensì una tappa intermedia, prima di raggiungere Civitavecchia o Brindisi per imbarcarsi verso la Spagna o le Isole Cicladi, nel suo errabondo e inquieto vagare in cerca di lavoro e di una sistemazione abitativa. Sappiamo da una lettera che mal sopportava la sua cittadina nelle Ardenne («La mia città natale è superlativamente idiota fra tutte le cittadine di provincia»), la borghesia ottusa e convenzionale che vi abitava, i familiari meschini e ignoranti. Come era arrivato a Milano? Camminando dal confine tedesco fino al Canton Ticino, attraverso il passo del San Gottardo; e poi da Airolo a Milano, per 200 chilometri, ancora a piedi (agile e resistente marciatore qual era), oppure in treno, ma clandestinamente, poiché del tutto sprovvisto di soldi. Del suo soggiorno nel capoluogo lombardo sono rimaste «impronte lievissime». In pratica, solo la copia di un biglietto da visita che riportava a caratteri di stampa il suo nome, a cui era stato aggiunto a penna un indirizzo: «39. Piazza del Duomo. Terzo piano. Milano». Ne diede testimonianza Ardengo Soffici in un saggio critico sul poeta francese, con dedica «Alla ignota Signora milanese che soccorse e forse amò Rimbaud, affamato vagabondo per l’Italia».

Basandosi su queste labili tracce, Edgardo Franzosini ha fabbricato un racconto sospeso tra realtà e leggenda, supposizioni e aneddoti. Chi era la dama che lo ospitò per quasi un mese nella sua casa in Piazza del Duomo? Era esistita veramente, come suggeriva con qualche morbosità Verlaine (che nel 1873, pazzo di gelosia, aveva sparato all’amante due colpi di pistola, finendo per questo in carcere)? L’adorato Paul scriveva: «Coso è a Milano, in attesa di denaro per la Spagna», alludendo poi a due episodi di amore eterosessuale dell’amico, uno a Londra e uno «con una vedova molto civile in quel di Milano». Anche il critico Ernest Delahaye citò «una signora caritatevole… una buona milanese», di cui era venuto a conoscenza attraverso una lettera di Arthur. La sorella di Rimbaud, Isabelle, e il marito di lei, strenui difensori dell’immagine rispettabile e virtuosa del poeta, a più riprese smentirono la frequentazione con una donna italiana, affermando che il loro caro viaggiava esclusivamente per impratichirsi nelle lingue straniere, a cui era portato per naturale e felice disposizione mentale. Se l’ospitale signora fosse vedova inconsolabile o no, se affittasse camere sul sagrato della cattedrale a turisti bisognosi, se si fosse fatta ricompensare in qualche curioso modo dal ragazzo, probabilmente non si verrà mai a sapere: alcune composizioni rimbaudiane, sulla cui paternità si nutrono tuttavia dei dubbi, sembrano riferirsi a un rapporto con una imprecisata “madame”, che potrebbe però essere una figura di fantasia. Non esistono documenti ufficiali sul soggiorno milanese di Arthur, né segnalazioni di vagabondaggio che lo riguardassero, o incontri con esponenti del mondo letterario. È attestata solo una sua spedizione dalla Regia Posta Centrale di Via Larga, ma non sembra che in quel periodo abbia richiesto denaro alla famiglia, come aveva fatto in altri frangenti: perlomeno non rimangono documentazioni epistolari di tal sorta.

Franzosini si sofferma sulle testimonianze scritte che alludono ai rari rapporti che Rimbaud ebbe con le donne, in particolare con la Mariam di Harar, che forse lo rese padre. Lo descrive poi fisicamente, nelle grandi mani arrossate e nodose e negli occhi di un azzurro imbarazzante. Accenna agli eccessi comportamentali dettati dal suo carattere violento, arrogante e sfrontato: «insopportabile perché tutto gli era insopportabile». Ciò che risulta davvero fondamentale, al di là della relazione avuta con la misteriosa signora, è che nelle settimane in questione Arthur Rimbaud decise di non scrivere più, di lasciar perdere ogni interesse letterario, arrivando addirittura a cestinare inviti e omaggi da parte di editori ed estimatori: scelta «logica, onesta, necessaria», secondo il parere di Verlaine. Il «silenzio poetico», su cui tanto hanno indagato i critici, pare abbia coinciso con un «silenzio erotico» e con un «silenzio dell’ebbrezza» da alcol e droghe. Una rinuncia e un disconoscimento dell’esistenza fino ad allora vissuta, che già si era espressa in una giovanile dichiarazione di dissociazione da sé stesso («Io è un altro, Je est un autre»), e nel sogno di sconfinamento manifestato nel Bateau ivre, con il rifiuto di far galleggiare la sua folle navicella in una pozzanghera «noire et froide», quale avvertiva fosse allora l’Europa, portandola invece a veleggiare verso altri lidi.

 

«Il Pickwick», 17 maggio 2018