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RECENSIONI

FRATUS

TIZIANO FRATUS, LETTERE A UNA SEQUOIA – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2023

Un albero pensa? Ci osserva e ci giudica? Conosce il significato della vita e della morte, prova sentimenti benevoli od ostili nei confronti dell’ambiente in cui affonda le sue radici? Tiziano Fratus (Bergamo 1975) ha fatto della sua passione per gli alberi una missione e una professione. Scrittore, poeta, fotografo, pubblicista, ha pubblicato numerosi volumi di versi, narrativa, saggistica e viaggi, dedicandosi anche alla letteratura per l’infanzia e collaborando con vari quotidiani e programmi tele-radiofonici. Dichiaratamente buddista, infaticabile viaggiatore nel mondo, ha coniato i concetti di “uomo/donna radice”, “dendrosofia” e “alberografia”, utilizzati nelle sue opere legate al mondo vegetale, tradotte in varie lingue.

Il suo ultimo volume, Lettere a una sequoia, uscito per le edizioni pugliesi di AnimaMundi e illustrato dalle foto che ha scattato nelle sue peregrinazioni, raccoglie dodici messaggi rivolti a una sequoia, in un colloquio epistolare che si evolve via via in confessione, sostegno reciproco, senso di fratellanza, riflessione sull’esistenza.

Fratus ci parla di sé, dell’amore che lo ha portato a girare l’Italia per studiare gli alberi, catalogarli e fotografarli, spinto da un’incontenibile ansia di conoscenza e raffronto, fino a farsi lui stesso Homo Radix, confondendosi nel verde, recuperando serenità nel loro silenzio “risorgivo e madornale”, trovando nell’habitat boschivo la sua casa, la famiglia accogliente e generosa che non ha avuto: “Ho girato tutte e venti le regioni, ho attraversato tutte le province, ho raggiunto alberi nostrani e alberi esotici, ho potuto abbandonarmi in parchi nazionali, parchi regionali, parchi naturali, giardini storici di proprietà privata e giardini storici di proprietà pubblica, boschi, foreste, montagne, isole, campagne e città”. Ha viaggiato dall’Italia fino in America e in Oriente, sempre sulle tracce di continui arricchimenti culturali e di una crescita spirituale, incoraggiata dai suoi frondosi maestri elettivi. Si dichiara tuttora scandalizzato dall’avidità e dall’incuria degli uomini, che tra il 1850 e il 1900 hanno distrutto il sistema forestale del mondo, abbattendone l’80%.

In particolare, sono state le sequoie a catalizzare il suo interesse, questi “dinosauri arborei” millenari che si trovano soprattutto in Nord America, con gli esemplari più giganteschi in California.

Le sequoie sono state importate anche da noi, se ne trovano in tutte le città italiane: a Torino, a Roma, in Sardegna, per “il nostro continuo prevaricare, la nostra mania persecutoria, se vogliamo anche gentile, anche agitata da un curioso amore possessivo, di andare e pretendere, di comprare e collezionare”.  Nel Comune di Pollone, un paesino in provincia di Biella, si possono ammirare cinque sequoie gemelle, piantate nel 1848 nel parco di Burcina.

“Tra i 12 miliardi di alberi presenti in Italia, un miliardo sono faggi e un altro miliardo o poco più querce, lecce e farnie anzitutto, e quindi roveri, roverelle, cerri, cerrosughere, sughere”. Le sequoie non sono moltissime, ma attraggono la curiosità di molti visitatori, colpiti dalla loro imponenza.

La sequoia più alta del mondo si trova nella Foresta gigante nel Parco nazionale di Sequoia, a est di Visalia in California; l’hanno chiamata Generale Sherman, in onore dell’eroe della guerra civile: ha circa 2500 anni, è alta 83 metri, pesa 1910 tonnellate e ha una circonferenza del tronco alla base di 31 metri. Un colosso buono, che si lascia osservare da centinaia di turisti ogni giorno, offrendosi mansueto ai loro selfie, insegnando la pazienza di esistere senza opporsi allo scorrere del tempo. Tiziano Fratus interroga gli alberi, consapevole che noi e loro abitiamo lo stesso respiro selvatico. Li vive nella loro naturale fisicità, interrogandosi su quali siano i pensieri, le emozioni, i rapporti che instaurano con la vegetazione circostante. “Mi chiedo se voi ragionate in termini di “io” o di “noi”, o di un “essi” onnipresente e onnisenzien te, o asenziente… Abitate i secoli, siete stabili, fate soltanto quel che vi occorre: è in queste geometrie chimiche che vi giocate tutto il senso della vita, senza perder tempo in agitazioni ipotetiche, forse voi non conoscete nemmeno il senso di un verbo come ‘provare’ … Voi vivete, non “provate” a vivere… Noi sì, invece, noi siamo creature che per eccellenza ‘provano’ a vivere”. Superiori a noi, migliori di noi, nella loro tranquilla, innocua, generosa imperturbabilità, gli alberi ci propongono esempi di saggezza, di non prevaricazione, in accordo con la natura-madre.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 9 luglio 2023

 

 

RECENSIONI

FRAZER

JAMES G. FRAZER, LA PAURA DEI MORTI – IL SAGGIATORE, MILANO 2016

James G. Frazer, nato a Glasgow nel 1854 e morto a Cambridge nel 1941, fu uno dei padri fondatori dell’antropologia moderna. La sua opera più famosa, Il ramo d’oro. Studi sulla magia e la religione, venne pubblicata nel 1890. Convinto seguace dell’evoluzionismo darwiniano, era persuaso che l’umanità si fosse sviluppata socialmente e culturalmente seguendo tre stadi fondamentali: dalla magia alla religione alla scienza.
In questo volume che la casa editrice milanese Il Saggiatore ha da poco presentato al pubblico, con la traduzione di Anna Malvezzi, sono raccolti due cicli di conferenze che Frazer tenne tra il 1932 e il 1933 al Trinity College di Cambridge: testi arricchiti da un cospicuo apparato di note e da un utilissimo indice analitico.
La tesi ribadita in questo La paura dei morti nel mondo primitivo è che «la credenza quasi universale nella sopravvivenza dello spirito umano» derivi dalla paura dei morti (del loro minaccioso riemergere dal buio dell’aldilà), più che dal timore della morte stessa: e che sia diffusa e radicata in tutte le civiltà e religioni, a partire dalle società primitive o che tuttora rimangono confinate in uno stadio di civiltà non evoluta. L’idea (lusinghiera e consolatoria) dell’immortalità dell’anima e della sopravvivenza dell’ individualità personale non trae dunque origine dai fondatori delle grandi religioni storiche, ma era già presente in epoche antichissime: a tale convinzione le varie fedi e chiese mondiali hanno poi attribuito un carattere etico e un messaggio di salvezza o di riscatto dalla sofferenza.
Frazer indaga miti e riti riguardanti le pratiche funerarie, le preghiere, gli esorcismi che presentano incredibili analogie in tutti i continenti e in tutte le epoche, e che dimostrano quanto l’umanità abbia sempre creduto, e in buona parte creda tuttora, che i trapassati possano influire (sia negativamente che positivamente) sull’esistenza dei viventi.
Ecco allora che il terrore degli spiriti poteva spingere i parenti a blandirli seppellendo i cadaveri in casa, gratificandoli con offerte di cibo e bevande, ammansendoli con canti o litanie; oppure al contrario li induceva ad allontanarli dall’abitato, a legarne le membra o a spezzarne le ossa perché non tornassero a pretendere qualcosa o a vendicarsi dei torti ricevuti. In genere le popolazioni primitive ritenevano che i morti mantenessero le abitudini e il carattere avuto in vita, con un aumento di potere tale da poter costituire sia una minaccia sia un aiuto per i vivi.
Qualcosa del genere rimane nelle usanze occidentali e contemporanee di celebrare la festa dei defunti, con visite collettive alle tombe, l’omaggio di fiori, l’oscuramento di porte e finestre, le benedizioni con incenso e le processioni popolari. Tuttora, poi, molte persone si recano dai medium o dai veggenti per cercare di comunicare con i trapassati, esattamente come in alcune popolazioni primitive e tribali si ricorreva agli stregoni o ai negromanti, che cadevano in trance, assumevano le voci degli spiriti evocati o utilizzavano oggetti particolari (ossa, pietre, amuleti) per perpetrarne il soccorso o renderne innocua l’influenza malevola.
L’atteggiamento che i popoli primitivi nutrivano verso i morti era insomma «un insieme di speranza e paura, di affetto e avversione, di attrazione e repulsione», ma in genere prevaleva l’idea che gli spiriti fossero pericolosi, e quindi dovessero essere allontanati con la forza o l’inganno, impedendo in qualsiasi modo il loro ritorno foriero di disgrazie per la comunità. E qui Frazer intrattiene il lettore raccontando dei più vari stratagemmi messi in atto per impedire ai fantasmi di uscire dalle tombe per rapire i bambini, tormentare le vedove, fare malefici sui campi o il bestiame: quindi barriere di fuoco, d’acqua, di fumo; trappole, mutilazioni e decapitazioni dei cadaveri, incenerimenti… Usanze e credenze che si ritrovano tuttora in alcuni paesi dell’Africa, dell’Australia e dell’Europa orientale, e che rivivono anche nei riti di purificazione e negli esorcismi messi in atto da molte chiese. A ribadire che l’umanità non è progredita granché, nei millenni.

 

© Riproduzione riservata         

www.sololibri.net/La-paura-dei-morti-nelle-religioni.html        17 febbraio 2016

 

 

RECENSIONI

FRENE

GIOVANNA FRENE, IL NOTO, IL NUOVO – TRANSEUROPA, MASSA 2011

«Mi piace pensare a questo testo come a un’opera di poesia della storia», scrive Giovanna Frene a commento di questo suo denso, severo, impegnato contributo poetico. Poesia della storia e non sulla storia, quasi a mettere tra parentesi il suo ruolo di voce sola e celebrante, in favore di una testimonianza più collettiva di sdegno e denuncia. Un libro particolare, il suo, di un’originalità esibita e orgogliosa, non solo formale e contenutistica. Nella proposta editoriale, in primo luogo, della coraggiosa casa editrice Transeuropa, che affianca ai testi proposti nella collana  Inaudita  anche un allegato multimediale (in questo caso, un cd del gruppo POEMS). Nella veste grafica, che intervalla i versi con fotografie newyorkesi di Laura Callegaro, e accompagna ogni poesia con la traduzione in inglese. Nella prefazione di Paolo Zublena e nella postfazione di Silvia De March, entrambe dottissime ed esploranti tutti i collegamenti filosofici, psicologici e letterari interni al testo. Soprattutto poi nei rimandi culturali sottesi, stratificati in ogni pagina della plaquette, che richiamano i nomi basilari del pensiero novecentesco (Braudel, Deleuze, Arendt, Benjamin, fino al nostro Severino) e che rendono ogni parola poetica radicata nel terreno scabro, risentito e recettivo della coscienza civile e ideologica del secolo appena trascorso. Una poesia, questa di Giovanna Frene, assertiva, dura, compatta: concentrata sul tema del male, come si prospetta non solo metafisicamente, ma nel suo concreto operare storico. Il male come “skàndalon” intollerabile, e pure troppo spesso accettato pavidamente, non contrastato nell’operare quotidiano dei popoli e dei singoli. Un male che nei millenni si è fatto guerra, strage, terrorismo, pulizia etnica: quasi sempre senza capacità di redenzione e riscatto, senza prospettive di speranza e riparazione: «ma è mai esistito un tempo buono, inenarrabilmente / buono, aperto a conchiglia verso ogni futuribile possibilità che esista anche / solo un frammento diverso / attorno a cui germinare?».

Male che si è concretizzato nella storia «dal Giordano alla Vistola», dai lager nazisti a Ground Zero, lontano da ogni giustizia e giustificazione, che pesa con la sua crudele gratuità anche solo nella possibilità di nominarlo; il male provocato, ad esempio, dalle armate di Giovanni dalle Bande Nere, che poi si ritorce contro lui stesso, uccidendolo di cancrena a ventotto anni. Gli eccidi degli eserciti di ogni tempo sono «una piccola macelleria simulata / sopra un prato ridente e fuggitivo»: e l’ironia spiazzante dell’utilizzo di echi leopardiani diventa scherno, orrore esacerbato. Allora l’innocenza della natura, «il fruscio d’ali, va all’incontro con il marchio di esistere, / si interseca al vertiginoso concrescere botanico e sociale / per le chiare ragioni che non guarda negli occhi lo sguardo». Non sembra esserci salvezza, sollievo dal dolore, in questi versi che si rincorrono ansimanti, spezzati, lunghissimi e perentori. A volte chiusi in parentesi, in virgolette, in rettangoli che ne sottolineino la violenta icasticità. L’evento narrato non è mai grazia, illuminazione, riabilitazione: «l’occidente comune della morte non muta, tagliato / il fiume, il gesto bruciato, da flutti apparenti presto spento il fuori-posterità». Non c’è un dopo, in queste poesie di Giovanna Frene: tutto viene azzerato in una combustione immediata di senso e di immagini: «non è l’eccezione che si pensa, la schiuma che ingoia il mare. / non si scava la fossa, questo tornare irrevocabile, / inimmaginabile, calpestato, trito dai sassi…». E ancora, in un impotente grido di ribellione contro il moloch che ci assedia e deturpa tutti, e macina ogni storia: «forza, o carne di potere, o tutto-potere, o vita che deriva dalla vita; / da ciò deriva la simulazione, la nostra vera imposta fine».

 

«Leggendaria» n. 102, novembre 2013

RECENSIONI

FREZZA

LUCIANA FREZZA, COMUNIONE COL FUOCO – EIR, ROMA 2013, p. 806

 

“Una presenza discreta nella poesia italiana del secondo Novecento”. Così Roberto Deidier ha definito in un suo articolo la persona e l’opera di Luciana Frezza.

Ottima e stimata traduttrice, Luciana Frezza si è occupata soprattutto della poesia simbolista e decadente francese dell’800-900: Mallarmé, Laforgue, Nouveau, Verlaine, Baudelaire, Fargue, Baron, Apollinaire, Proust, resi in versioni sapienti e intelligentemente personalizzate per i più importanti editori italiani. Da questa empatica, vitale e costante applicazione «ha ricavato miracolosamente con un suo setaccio d’argento un tesoro di abilità», secondo l’acuta lettura di Luigi De Nardis. Intrecciata alla straordinaria competenza di traduttrice, Frezza ha seguito una propria attitudine all’espressione poetica, messa in evidenza da numerose e apprezzate pubblicazioni. Sul suo duplice e correlato impegno di poetessa e traduttrice, così si esprimeva: «È una sfida che mobilita la creatività … e altre virtù come la pazienza e la vigilanza… Il pericolo per cui bisogna prestare una costante attenzione è costituito dalle possibili intrusioni dell’Io…; occorre tenerlo fuori ma non eliminarlo del tutto, perché il suo contributo di esperienza vissuta può talvolta giovare, come giovano la fortuna e il caso, elementi da mettere in conto».

Giovanna e Natalia Lombardo, figlie di Luciana e del noto anglista Agostino Lombardo, hanno voluto giustamente riunire in un unico corposo volume (uscito nel 2013 dagli Editori Internazionali Riuniti) tutta la produzione in versi e prosa della madre, scandita in diverse raccolte (Cefalù -1958, La farfalla e la rosa -1962, Cara Milano -1967, Un tempo di speranza -1971, La tartaruga magica -1984, 24 pezzi facili -1988, Parabola sub -1990, Agenda -1994, i racconti de Il disegno -1996), sparsa in riviste o del tutto inedita.

È stata appunto la figlia Natalia, giornalista e pittrice, a firmare sia l’illustrazione di copertina sia le puntuali e commosse note biografiche in apertura dell’antologia. Da cui desumiamo che Luciana Frezza, nata a Roma nel 1926, da padre romano agente di cambio e madre siciliana, si laurea alla Sapienza nel 1946 discutendo con Giuseppe Ungaretti una tesi su Eugenio Montale, e iniziando già dagli anni universitari a comporre versi e a collaborare con prestigiose riviste letterarie. In seguito si dedica con generosità e impegno sia alla famiglia sia allo studio e alla traduzione degli amati poeti francesi, coltivando nello stesso tempo amicizie importanti nel mondo intellettuale (Luigi De Nardis, Giovanni Macchia, Vittorio Sereni, Vittorio Bodini…). Alterna momenti di crisi e insoddisfazione personale ad altri di entusiastica apertura a esperienze partecipative nei movimenti politici e femministi degli anni ’70 e ’80. Sofferente di gravi e invalidanti disturbi alla vista, continua tuttavia a pubblicare libri di poesia, ottenendo ottimi riscontri critici; partecipa a letture pubbliche di versi, insieme a un folto gruppo di amici scrittori romani, e collabora con il Terzo programma di Radio Rai. All’alba del 30 giugno del 1992, afflitta dal timore di un’incombente cecità e da una profonda depressione, «tragicamente per chi rimane, pensa forse di riprendersi la libertà», conclude con malinconico pudore Natalia.

Comunione con il fuoco, questa fondamentale e completa rassegna della scrittura di Luciana Frezza, si apre con l’empatico saggio introduttivo di Elio Pecora, e presenta altri approfonditi interventi critici di Patrizia Lanzalaco, Filippo Bettini, Luigi De Nardis, Walter Pedullà, Jacqueline Risset, Angela Giannitrapani, accompagnati dagli affettuosi ricordi privati della figlia primogenita Giovanna Lombardo.

I vari libri di versi, pubblicati secondo una scansione cronologica, mettono in luce il percorso umano e letterario dell’autrice, che in tutta la sua produzione rimane legata sentimentalmente a temi ricorrenti di matrice privata: l’infanzia, le figure parentali, i luoghi abitati (Sicilia, Milano, Roma), l’amore nelle sue duttili sfumature. Ma la sua scrittura non è mai circoscritta a un interesse puramente ambientale, di confidenza confessionale, di nostalgico lirismo: ha invece il rigore necessitante di una ricerca severa della propria interiorità, anche nelle inquietudini e negli umori contrastanti, nella ribellione e nelle paure. Elio Pecora presentandone gli sviluppi formali e contenutistici, sottolinea l’esigenza testimoniale di «valicare il proprio io per intelligenza del mondo», insieme a «un senso estetico vigilato fino alla spietatezza»: «Sento mutarsi il battito del tempo / come fa il treno se lascia / la rassegnata pianura / dove inavvertito / lungamente strisciò / ormai nebbiosa e strana / memoria mentre divora / oggi domani fatti rocce e ombre», «Un’altra infanzia mi perdo / un’altra vena s’asciuga. / Ho perduto / il filo dei sentieri / e gemo, animale fermato / dalla tagliola, nel caldo / dei crepuscoli abbandonato…».

Se nelle prime prove di Luciana Frezza è evidente l’eredità del nostro ’800 e ’900 (da Leopardi a Pascoli, da Saba a Montale), in seguito sarà il rapporto con il surrealismo francese a incidere maggiormente nei suoi versi, con l’irrompere del fantastico e dell’onirico all’interno del fino ad allora privilegiato realismo: “Chissà in quale / canneto di carta o verde / fantasma errante coorte / falciata alla radice / al di là di quali porte / nell’andito scuro di botteghe / in disuso dietro quale / muro di eluso rione / giace il piccolo corpo / di Amore dopo l’ordita / esecuzione”, “Non crederli gigli appassiti / mi conforta anzi scintillanti / ancora i tuoi bicchieri alzati / voglia di gioia negata / impuntatura librata / per forza propria ape e fiore nell’aria / dove ancora salgono e il brutto / muso di lutto pret a porter che detestavi cade / come buccia dal frutto”.

Anche l’ironia si concede alcuni spazi, soprattutto nel lucido esame del ruolo che il destino biologico di donna ha giocato nel determinare le scelte esistenziali della poetessa. Il rapporto non facile e non sempre idilliaco con il marito, la fatica dell’impegno domestico (la conserva andata a male, gli inutili ninnoli costruiti con la creta, la lista della spesa…) vengono avvertiti come limitanti o deludenti, provocando frustrazione e sensi di colpa: “E io che così sola ho spostato / i massi più pesanti. Tutto succedeva perché ero donna / ma questo l’ho sempre saputo”, “Vivere bene è spostarsi / per far posto a qualcosa e a qualcuno”, “una caviglia fasciata / una cantina allagata / e uno strofinaccio torto / ecco vi presento i miei / avvocati / roba da far venir la / pelle d’oca / a un morto”, “– Ah, una piccola cosa –  / a bassa voce / – miei cari, attenti a non chiudermi / in una scatola di sardine”,  “Quanto fa male amore / tardiva carezza / sulla nuca infestata / di pidocchi neri. / Marito / non capito / vendicativo senza / farmi capire / inevitabile divergenza / io l’incrociato sorriso / volevo – ricordo due dita / un giorno sulla gota per caso / sotto l’arco del salotto quasi / una cresima / tu partecipazione / al tuo lavoro io / che non ne davo troppa / neanche al mio / Parlare volevo magari / non troppo non troppo spesso / di noi”, “La madre poeta / non va”.

Attraverso la riflessione sulle relazioni interpersonali e familiari, Luciana Frezza riusciva a recuperare l’eco fascinoso di miti archetipici, ritrovando nelle vicende di Iside e Osiride, Demetra e Persefone, Orfeo ed Euridice le radici di ogni attuale sentire e soffrire. Proprio alla sofferenza degli ultimi anni si riferiscono i versi dolentemente allusivi che precedono la sua scomparsa: “Mi restringo alla pista / pericolante dei miei passi. / Solo vorrei afferrare / una cosa, / nascondervi il volto. // E poi pianamente un sussulto / e le lampade e tutto fluisce”, “Scrivere questi poveri // frammenti / significava ancora amare un // poco il mondo”, “Spreco questi ultimi secondi / dei tempi supplementari / a gustare le poche sensazioni / piacevoli”, “Agostino viene alla messa / delle 9 poi il cappuccino / Tutti mi amano / più di quanto io ami / Io non amo nessuno eppure / evito di sfiorarli col pensiero / i piccoli e le figlie e questo / noli los tangere forse / è una specie d’amore”, “Scatta il lucchetto, presto signori si chiude”.

Un’esplorazione ininterrotta, talvolta tormentante, intorno al significato della vita e della poesia ha contrassegnato ogni aspetto dell’esistenza fisica e letteraria di Luciana Frezza. Come ha scritto il critico Filippo Bettini, in lei “la ricerca del ‘senso della vita’ si identifica con quella del ‘senso della poesia’; ed ogni scampolo, epitome o ritaglio, anche il più piccolo o marginale, diventa il pretesto necessario di una più ampia trasfigurazione poetica di essenze interiori, psicologiche e ideali”.

 

© Riproduzione riservata                  «Nazione Indiana», 10 luglio 2020

 

RECENSIONI

FRISCH

MAX FRISCH, IL SILENZIO: UN RACCONTO DALLA MONTAGNA – DEL VECCHIO, 2013

È del 1937 questo romanzo breve, o racconto lungo che dir si voglia, dello scrittore svizzero Max Frisch (Zurigo 1911-1991) – altro grande della letteratura europea novecentesca ingiustamente dimenticato. L’editore Del Vecchio l’ha riproposto al pubblico italiano qualche anno fa, con la nitida traduzione di Paola Del Zoppo e un’appassionata postfazione, riccamente informativa, di Peter von Matt.

Il silenzio: un racconto dalla montagna è la seconda opera di Frisch, forse ancora un po’ immatura nello stile, ma già segnata dalla forza polemica dei temi, dal rifiuto di ogni retorica descrittiva, dall’essenzialità nella caratterizzazione dei personaggi. Il giovane autore, dopo la morte del padre aveva abbandonato gli studi di germanistica e si era dedicato, senza particolare vocazione, al giornalismo, per poi iscriversi alla facoltà di architettura. Alle prese con problemi finanziari, sentimentali ed esistenziali, rifletté le tensioni emotive di quegli anni, insieme alle risonanze affettive della sua passione per l’alpinismo, nelle pagine del romanzo di cui ci occupiamo. Il protagonista Balz Leuthold, ricercatore trentenne in cerca di risposte sul suo destino e sul senso del vivere comunemente inteso, sembra essere una sorta di alter ego di Frisch, all’epoca scisso tra due amori e incerto riguardo al suo futuro professionale. Leuthold torna nella valle montana frequentata da ragazzo, deciso a emulare l’abilità sportiva del fratello maggiore che allora lo umiliava, e a mettere se stesso alla prova con una grande impresa: la scalata in solitaria del Nordgrat, mai tentata prima da nessuno. Lo fa cimentarsi con le sue forze fisiche e con il destino, e soprattutto in dispregio della “vita ordinaria” a cui si rassegnano tutti, rinunciando alle passioni vere, alle emozioni forti, in favore di una tranquillizzante e abitudinaria quotidianità.  Il giovane è in procinto di sposare, senza convinzione e senza alcun trasporto, un’ingenua ventenne, Barbara: probabilmente nemmeno lei innamorata, ma spinta al grande passo dalle circostanze, dall’opportunità sociale e dalla famiglia.

In montagna, immerso nella natura silenziosa (“un silenzio senza suono che forse è Dio o il nulla”), Balz Leuthold recupera tutta la sua ansia di libertà e di autenticità, stimolato anche dall’incontro con una ragazza danese, Irene, solare e allegra, che lo sfida all’impresa alpinistica, offrendosi di accompagnarlo nella scalata almeno fino a una certa altezza. I due si piacciono, e forse si amano nella notte gelida trascorsa insieme sotto la tenda da campeggio: Frisch non ce lo racconta, anzi pudicamente interrompe un pudico abbraccio con una serie di lineette grafiche, che possono significare tutto o niente. Sta di fatto che quando la donna si sveglia, all’alba, non trova più il compagno, decisosi virilmente all’arrampicata solitaria. Balz sparisce per tre giorni e tre notti. Una cordata di volontari parte alla sua ricerca, accompagnata emotivamente dall’angoscia di Irene, della fidanzata sopraggiunta dalla città e di tutto il paese.

Non mi sembra giusto rivelare il finale del racconto, guastando la sorpresa di chi volesse leggerlo. Max Frisch, che severamente non vorrà includerlo nei suoi Gesammelte Werke, lo chiude con “una sensazione di grazia e gratitudine”, chiedendosi e chiedendoci se eroismo e sacrificio valgano quanto “l’antica usanza” di vivere.

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/Il-silenzio-Max-Frisch-146119.html     1 marzo 2017

 

RECENSIONI

FRISCH

MAX FRISCH, HOMO FABER   ̶   FELTRINELLI, MILANO 2019, p.219

Capita talvolta di chiedersi se vale davvero la pena seguire ogni anno le classifiche della narrativa più venduta in Italia, o di acquistare gli autori presenti nell’ultima cinquina dell’ultimo premio letterario, per accorgersi, alla fine di una faticosa e svogliata lettura, che quelle pagine hanno lasciato scarse tracce di sé, nella mente e nel cuore, e invece una specie di frustrazione, di scoraggiato disappunto. Allora perché non rivolgere direttamente la propria attenzione ai libri belli (ce ne sono tantissimi!) pubblicati in Italia e nel mondo tra gli anni ’40 e gli ’80, quando ancora alla letteratura era demandato il compito non solo di intrattenere, ma anche di proporre vicende private e collettive coinvolgenti, di notevole spessore etico e culturale, e addirittura formalmente curate?

Magari riscoprendo Max Frisch (Zurigo, 1911-1991), autore di validissimi romanzi e testi teatrali, capaci di interrogare il lettore su questioni di rilievo sociale e politico, e acuti nell’indagine psicologica dell’ambiente e dei personaggi. Tra i tanti suoi volumi (Stiller, Il mio nome sia Gantenbein, L’uomo nell’Olocene, Barbablù…), Homo Faber, scritto nel 1957, è quello che ha conosciuto più ristampe, il più vivace dal punto di vista del plot narrativo, e ancora oggi assolutamente attuale.

Walter Faber, ingegnere svizzero cinquantenne al servizio dell’Unesco, narra in prima persona l’odissea che lo porta, attraverso una serie di vicissitudini impreviste e imprevedibili, a mettere in discussione la sua intera esistenza di persona razionale, metodica, impermeabile a fedi, suggestioni ed emozioni incontrollate. Imbarcatosi a New York su un aereo diretto a Città del Messico, il susseguirsi di strane circostanze sembrerebbe indicargli l’opportunità di rimandare il viaggio di lavoro programmato. Le prime dieci pagine del romanzo sono eccezionali nella descrizione accurata della nevrosi del protagonista, infastidito da tutto ciò che sperimenta a bordo (dalle cattive condizioni atmosferiche al vicino di posto, un invadente e ciarliero tedesco di nome Herbert Hencke; dall’idiozia delle riviste pubblicitarie e dei reiterati annunci delle hostess al ricordo ossessivo e annoiato della sua giovane amante americana Ivy, svampita di cui non riesce a liberarsi). Durante lo scalo a Houston, Faber si chiude in una toilette dell’aeroporto pur di sottrarsi alla presenza del prossimo (“volevo esser lasciato in pace, gli esseri umani affaticano”), ma viene costretto dal personale a imbarcarsi di nuovo. Nel prosieguo del volo, un grave guasto tecnico costringe l’aereo a un atterraggio di emergenza nel deserto di Tamaulipas. I passeggeri trascorrono giorni e notti all’addiaccio, affamati e sporchi, prima di venire soccorsi e trasportati a Caracas. Durante questa forzata convivenza, l’ingegnere scopre che il compagno di viaggio Herbert è il fratello di un suo caro amico degli anni universitari, Joachim, attualmente in Guatemala per seguire gli affari di famiglia nelle piantagioni di tabacco. Dopo gli studi, aveva sposato una ragazza ebrea di nome Hanna, che era stato la prima fidanzata di Faber e l’aveva abbandonato appena rimasta incinta. Si lascia convincere da Herbert a cambiare programma, e ad accompagnarlo nella ricerca del fratello disperso. Inoltrandosi nella selva guatemalteca (torrida, fangosa, lussureggiante di vegetazione tropicale e infestata da insetti, serpenti e avvoltoi) i due compagni scampati all’incidente aereo riescono infine a raggiungere la squallida residenza di Joachim, e ne recuperarano il corpo appeso a una trave del tetto.

Il suicidio dell’amico e la rivelazione del matrimonio di lui con Hanna mettono in crisi la ferrea logica consequenziale del protagonista, che da sempre considera l’improbabile come un “caso limite del possibile”, e tende a escludere dal proprio orizzonte sia l’intervento della provvidenza, sia l’immodificabilità del destino. Turbato e infastidito dalle troppe avversità, torna a New York intenzionato a cancellare memorie e rimpianti, e da lì decide di rientrare in Europa via mare. Ma proprio sulla nave sembra attenderlo l’appuntamento fatale che stravolgerà la sua cinica e pianificata esistenza, votata esclusivamente al lavoro e al progresso scientifico.

“I sentimenti sono fenomeni di stanchezza, nient’altro”, pensava Walter Faber prima di incontrare Sabeth, una ventenne dalla coda di cavallo rossiccia e dagli occhi grigi. La tenerezza nei riguardi della ragazza (“Non sapevo più che si poteva essere tanto giovani”) si trasforma presto in un amore impastato di gelosia e senso di protezione. Con lei inizia a viaggiare, accompagnandola in un tour culturale attraverso l’Italia e la Grecia, e lasciandosi trascinare dal suo entusiasmo per l’arte. Ma proprio nei pressi di Atene l’epilogo drammatico della storia tra i due assume i contorni di una tragedia classica, in cui le figure di Edipo e Ifigenia si intrecciano in una nemesi che la stringente, laica e raziocinante logica dell’ingegnere svizzero non poteva né prevedere né governare.

Come in altri romanzi, Max Frisch affida a una soluzione imprevista e angosciante la conclusione delle sue trame, in cui i personaggi sono sovrastati e travolti dal succedersi di eventi casuali e necessari insieme.

Da questo romanzo (che dopo più di sessant’anni continua a risultare assolutamente moderno, anche nelle riflessioni quasi profetiche del protagonista sull’intelligenza artificiale, la sovrappopolazione, i rapporti tra i sessi, la sfida tra umanesimo e scienza, i vincoli della religione) è stato tratto nel 1991 il film Voyager diretto da Volker Schlöndorff.

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 5 settembre 2020

 

RECENSIONI

FROLLA’

ROSSELLA FROLLA’, IL SEGNO DELLA PAROLA – INTERLINEA, NOVARA 2012

L’ideologia sottesa a questa antologia di poesia contemporanea curata dalla giovane studiosa Rossella Frollà non tenta in nessun modo di mascherarsi o di annacquarsi in diplomatiche posizioni di comodo, ma si rende orgogliosamente esplicita sia nell’introduzione, sia nelle approfondite ed esaustive presentazioni di ogni autore. Privilegiando una «poesia come spazio individuale e soggettivo nelle sue diverse linee e curvature che simboleggiano l’Essere», Frollà dichiara apertamente il suo credo, più etico che estetico, in affermazioni sparse e diffuse in tutto il volume, talvolta fraintendendo o decisamente violentando l’intenzionalità stessa dei poeti presi in esame: «La tenacia dell’uomo, la sua vitalità è nello Spirito che non tiene in alcun conto il suo involucro, il corpo, e contrappone a questo guscio custode della precarietà della vita l’immanenza di quell’amoroso senso che è la parola ultima dei sentimenti, delle emozioni e delle pulsioni che mai abbandonano l’uomo. Eterni galleggiano a fior d’acqua sopra il tempo eros e amore, gioia e dolore, fatica e passione (pag.121)».

La parola poetica viene quindi esaltata nel suo significato assoluto ed epifanico, di mistica rivelazione della misteriosa e tragica bellezza dell’esistente: «Il miracolo che si compie col suono e con la parola è quello di rendere l’ordinario o un qualsiasi evento un qualcosa di prodigioso e di straordinario che ci riconsegna il valore ultimo delle cose» (pag.15). Quindi la terminologia utilizzata dall’autrice rivela senza equivoci la sua evidente propensione ad una interpretazione spirituale della realtà e della letteratura: levità, autenticità, ricerca, anima, luminosità, prodigio, incanto, quiete, saggezza, miracolo, vulnerabilità, stupore, sorpresa, bellezza, natura, pensiero, sono i vocaboli che più si rincorrono in queste pagine. Con una presenza quasi ossessiva del sostantivo francese «rêverie». Sottolineando un polemico distanziamento dal «nulla di un gusto medio livellato da una cultura commerciale mediatica di massa», Rossella Frollà ignora volutamente tutta la ricerca sperimentale della poesia contemporanea che privilegia il significante sul significato, ma anche la poesia e la critica che più si compromettono sul fronte dell’impegno sociale e politico, del giudizio morale sulla storia e sulla cronaca, o che al contrario utilizzano giocosamente il divertissement e l’ironia. Una scelta di campo e di fede precisa, la sua, che si concretizza nella presentazione selezionata di dieci nomi, offerti ai lettori con un’ampia antologia di versi editi e inediti, prefati da dense, ammirate e affettuose pagine di critica. Si va quindi da Franco Loi, il più anziano («tonalità prorompente con sonorità popolari mescidate a un Io lirico quieto e delicato, di vena espressionista e dantesca»), attraverso il compianto Fabio Doplicher e alla «geografia del mito» di Umberto Piersanti, percorrendo «l’amore faticoso della vita… in un dettato lirico asciutto e chiaro» di Maurizio Cucchi, e «la ricerca spasmodica e rovente della perfezione» di Milo De Angelis, per approdare alla poesia «giocosa e scalza, fiorita, … lineare come il chicco di grano» di Claudio Damiani e «alla lirica presente al suo tempo… che gode di una spontaneità mai troppo fantastica, ma si posa come rosa fresca sulla strada» di Davide Rondoni. Il volume si chiude con i versi del più giovane Alessandro Moscé (Ancona 1969), «un sognatore che afferma la propria esistenza attraverso immagini oneste», ma si sofferma anche sull’unica presenza femminile antologizzata, Giovanna Rosadini. Di lei si riporta una bella poesia dedicata ai figli («Eccoli, nei loro giorni che si mangiano/ i nostri, luminosi e levigati come anche noi/ siamo stati…»), con altri versi segnati dalla sofferenza fisica dovuta a un tragico incidente («Ma perché io, mio dio, perché a me, proprio io?»), fino a prove inedite, foriere di un auspicabile sviluppo futuro, dedicate al mondo e al linguaggio ebraico. E forse la scelta più originale, nelle proposte di Rossella Frollà, è quella di un poeta riservato e sottovalutato, quale Giancarlo Pontiggia, di cui si sottolinea «il verso lontano da ogni contaminazione contemporanea…colto e raffinato, di matrice aristocratica», ben evidenziato in proposte di alta resa stilistica come questa: «Niente è più arduo di ciò che appare / semplice, affondando in un ginocchio / che sanguina, o nella polvere di un viottolo / che si curva per sempre, verso // un altro confine, quando / un fumo indiano sale, nell’aria / spessa e odorosa, e già diviene potenza / di una nuvola sposa».

Se quindi Rossella Frollà ha l’onestà di rivendicare fieramente la propria visione ideologica, indicando esplicitamente quali sono i fini e i confini in cui secondo lei deve muoversi la poesia («I poeti presenti in questo libro sono animati da un dettato profondo e quasi totalizzante della vita, lo stesso che ha reso autentico il mio interesse verso la massima centralità del testo»), forse pecca per alcune ingenuità espressive e involuzioni sintattiche che spesso inficiano la credibilità della sua lettura critica, come ad esempio nelle pagine 268-271, in cui l’entusiasmo recensorio trascina l’autrice verso considerazioni scarsamente condivisibili, anche formalmente.

 

«criticaletteraria», 2 dicembre 2013

RECENSIONI

FROST

ROBERT FROST, FUOCO E GHIACCIO – ADELPHI, MILANO 2022

Fare i conti con la tradizione, in poesia, significa anche rileggere un classico del Novecento americano: Robert Frost, di cui Adelphi pubblica una corposa scelta di versi, in un volume curato dall’anglista Ottavio Fatica, intitolato Fuoco e Ghiaccio. Titolo che riprende, oltre che il componimento omonimo, una definizione dello stesso poeta: “Come un pezzo di ghiaccio su una stufa rovente, la poesia deve cavalcare il proprio scioglimento”. Fredda, nel senso di razionale e controllata, ma capace di incendiarsi e di incendiare, la poesia deve sapere poi anche sciogliersi, abdicando al proprio ruolo di visionarietà fulminante, per assumere una forma più liquida, arrendevole, indulgente. Chiarezza, compassione, gratitudine per il mistero dell’esserci, sono i tratti unificanti di questi versi, sospesi tra ansia metafisica e attenzione alla concretezza del reale, espressa nei volti e nelle azioni delle persone, nella fisicità dell’ambiente animale e vegetale.

Insignito per quattro volte del Premio Pulitzer, Robert Frost (1874-1963), nato in California, cresciuto nel New England e trasferitosi nella maturità nella campagna del Vermont, dove possedeva una fattoria, dedicò l’intera esistenza alla letteratura, all’insegnamento e all’amore per la vita agreste. Nonostante le numerose tragedie che colpirono la sua famiglia (lutti, suicidi, malattie psichiche, difficoltà economiche), la sua poetica mantenne sempre una serenità di fondo, complice una visione incantata della natura, di cui avvertiva (come Emily Dickinson) l’insita sacralità. Eppure, nella placidità del mondo bucolico rappresentato, non mancano atmosfere cupe, ostili, quasi stregonesche; morti violente, incidenti sanguinosi, cataclismi meteorologici e dissesti finanziari, che trovano però un riscatto e una strategica via di salvezza negli echeggiamenti delle saghe e delle ballate popolari.

Ottavio Fatica, poeta egli stesso e insigne traduttore, nella sua acuta e pungente postfazione, sottolinea quanto le opinioni della critica sulla produzione di Frost siano state ambivalenti, se non addirittura contrastanti. Dal rimprovero di essere il tardo “cantore di una vita rurale da rimpiangere”, autore di versi facilmente memorizzabili, oscillanti tra didascalismo e ridondanza, fino alle accuse di intemperanza, artificio e tendenza ad autocelebrarsi come poeta nazionale (i suoi viaggi come ambasciatore culturale all’estero, e la sua presenza all’insediamento di John Kennedy alla Casa Bianca gli vennero sempre rinfacciati), i critici ideologicamente più impegnati biasimavano la sua estraneità alle inquietudini contemporanee, il disinteresse verso la psicanalisi, l’economia e le conquiste scientifiche. Un po’ la stessa sorte era toccata al nostro Giovanni Pascoli, ritenuto un retorico celebratore degli affetti domestici che mirava a nascondere la sua vera natura di morboso e complessato sessuomane, nell’assurdo tentativo di sminuirne l’eccezionale statura di maestro della poesia italiana novecentesca.

Ovviamente, non si può chiedere a Pascoli di non essere Pascoli, né a Frost di non essere Frost. Robert Frost scriveva “sentimentalmente”, avvicinandosi all’oggetto della poesia con una soggettività interpretativa forse eccedente, naturalmente candida – come ritengono alcuni –, astuta e costruita, come ipotizzano altri. Era questa, tuttavia, la sua maniera di intendere non solo la poesia, ma anche la realtà materiale e spirituale ad essa sottesa. “Il bello sta nel modo in cui lo dici”, affermava, e il suo concetto di bello formale coincideva con l’armonia del dettato, da raggiungere attraverso una spontanea musicalità dei versi. Nella sua copiosa produzione, utilizzava formule tradizionali, senza ricorrere a sperimentalismi linguistici o ad astrusi stravolgimenti sintattici: le rime come elemento strutturale determinante; la metrica abilmente sorvegliata e altrettanto sagacemente tradita; un lessico puntiglioso, concreto, eppure mai appesantito; il parlato svelto e colloquiale; l’immagine precisa ma non pedantemente minuziosa. L’estrema abilità compositiva rende le sue pagine godibilmente fruibili, evitando pedanterie e sfoggi di perizia stilistica, e mantenendo un’immediata freschezza di rappresentazione.

Gli estesi poemetti di impianto teatrale, siano essi monologhi o dialoghi, introducono chi legge in situazioni di forte impatto drammatico: esemplare Morte di un bracciante, in cui marito e moglie discutono animatamente se mantener a loro servizio un vecchio operaio, malato e non più produttivo, che infine viene ritrovato cadavere nella stalla. Oppure il doloroso fronteggiarsi di una coppia che ha perso il bambino, e ne osserva la tomba da lontano, rinfacciando l’indifferenza dell’uno alla sproporzionata afflizione dell’altra. O ancora la lunga confessione di una serva che, dopo aver abbandonato la disgraziata famiglia d’origine, si ritrova in una situazione di sfruttamento ben peggiore; o i due amanti che affrontano di notte l’arrivo minaccioso di uno sconosciuto.

Assumendo di volta in volta prospettive e ruoli narrativi differenti (donna e uomo, giovane e vecchio, padrone e subalterno), Frost regala al lettore squarci di notevole intensità emotiva, in un’atmosfera che rimane sospesa, tra amarezza e ironia, fino a conclusioni inaspettate. In queste composizioni dal respiro più ampio, la traduzione di Silvia Bre, puntuale e riflessiva, accompagna scrupolosamente il testo, animandolo con empatica adesione. Nelle poesie più brevi e liricamente abbandonate, si fa invece razionalizzante e spigolosa, quasi a voler correggere con più sobrietà il cantato dell’originale, attualizzandone la terminologia ed evitando l’esuberanza delle rime ricorrenti. Che invece nella versione di Giovanni Giudici, pubblicata in un Oscar Mondadori del 1988, aveva trovato una rilassata e quasi compiaciuta rispondenza.

La pacata saggezza che ancora oggi ritroviamo nei versi di Robert Frost, più o meno consapevolmente si traduce in un ammonimento morale, a volte esplicito, più spesso velato da allusiva ironia, che la limpidezza e la trasparenza del linguaggio riesce a rendere non colpevolizzante. In uno dei suoi testi più antologizzati, reso famoso dalla voce recitante di Robin Williams nel film L’attimo fuggente, l’indicazione è appunto solo suggerita: “Two roads diverged in a wood, and I – / I took the one less traveled by, / And that has made all the difference”. La differenza che viene proposta da un’arte poco frequentata, marginale, come appunto la poesia.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 22 febbraio 2022

 

 

RECENSIONI

FRUGONI

CHIARA FRUGONI, UOMINI E ANIMALI NEL MEDIOEVO – IL MULINO, BOLOGNA 2018

Chiara Frugoni (Pisa 1940), medievista e storica della Chiesa, ha insegnato in diverse università italiane, collaborando attivamente a quotidiani e programmi televisivi e radiofonici. Il suo metodo di ricerca tiene nella stessa considerazione sia i testi sia le immagini, nella convinzione che ogni raffigurazione pittorica apporti importanti elementi documentali all’analisi di un periodo storico. Il principale campo di ricerca della studiosa ruota intorno alla figura di Francesco d’Assisi, e ai difficili rapporti da lui intrecciati con le istituzioni ecclesiastiche. Nel 2011, Chiara Frugoni ha individuato in uno degli affreschi attribuiti a Giotto nella Basilica Superiore di Assisi un profilo di diavolo tracciato tra le nuvole, particolare mai indagato in precedenza: tale scoperta ha rimesso in discussione alcune consolidate teorie di storia dell’arte, riscuotendo interesse da parte della critica internazionale.

Il volume recentemente pubblicato da Il Mulino, Uomini e animali nel Medioevo, ribadisce il convincimento dell’autrice sulla rilevanza e il peso dell’iconografia nell’analisi storica: riccamente illustrato, riproduce affreschi e miniature, mappe e arazzi, mosaici e sculture, miranti a convalidare ogni ipotesi e interpretazione documentaria.

Tantissimo è cambiato dall’anno Mille ad oggi nel rapporto che l’umanità ha instaurato con gli animali, salvo il fatto che loro non hanno bisogno di noi quanto noi ne abbiamo di loro. E se nelle abitudini e nel lessico contemporaneo gli animali patiscono pregiudizi, incomprensioni e crudeltà manifeste, la relazione che avevano col mondo circostante nel Medioevo era senz’altro più intensa e radicata, ancorché spesso associata a ignoranza, paure, superstizioni, efferatezze, fantasticherie. Di ciò si occupa Chiara Frugoni nella sua minuziosa ricerca, nutrita di tutto l’immaginario biblico e cattolico, a partire dal Genesi, in cui Dio modella con la sabbia “tutti gli esseri viventi della terra e tutti gli uccelli del cielo”, incaricando poi Adamo di individuare un nome per ciascuno di loro. Proprio su questa funzione denominatrice e catalogatrice di Adamo, in qualche modo collegata al progetto di creazione divina, si intrattiene a lungo l’autrice del libro, commentando decine di miniature e affreschi che tra l’XI e il XV secolo rappresentano il primo uomo nell’incontro solenne e umanissimo con gli animali: immagini tratte dai bestiari e dai codici più celebri, o esposti in gallerie, cattedrali e musei.

Pur nel suo dichiarato ateismo, Chiara Frugoni dimostra grande competenza teologica e profonda conoscenza dei testi sacri, al punto da dissertare su alcuni dogmi e problemi rilevanti, dibattuti in vari Concili ed encicliche: dal doppio racconto della Creazione in Genesi I e II, alla localizzazione geografica e temporale del paradiso terrestre, alla vexata quaestio del peccato originale, talvolta esibendo qualche dubbiosa puntualizzazione, garbatamente ironica.

Nell’Antico Testamento vengono nominati non solo gli abitanti del suolo, del cielo e delle acque, domestici e selvatici, bensì anche creature leggendarie come draghi, basilischi e unicorni, messaggeri di un regno sovrannaturale, dai connotati minacciosi o dal mandato salvifico e purificatore, talora ambiguamente erotizzanti: generalmente inoffensivi proprio perché esotici e indefinibili. Altri erano gli esemplari da cui gli uomini e le donne del Medioevo dovevano difendersi, servendosi di armi spesso inadeguate: orsi, cinghiali, lupi. Dopo la cacciata dall’Eden, la supremazia umana sul regno animale non sussisteva più, e anche i più santi tra i monaci, i predicatori e i padri del deserto testimoniavano di incontri spaventosi con bestie feroci, personificazioni del demonio tentatore, contro cui capitava si imbattessero, in allucinazioni e incubi generati dalla solitudine e dagli stenti. «Che per certo sappi e credi come cosa vera quello che io ti dirò: un altro converso ce ne fu che andando una mattina presso d’uno fossato vide un drago terribile bere, e disse che gli pareva che fusse tutto pieno di specchi, per la qual cosa tornò a casa e pe lla paura morì, overo per veleno che ’l dragone gli gittasse», scriveva nel 1374 fra’ Giovanni dalle Celle di Vallombrosa a un devoto.
Se non draghi, erano tuttavia numerose le belve feroci che popolavano boschi e foreste medievali, spingendosi fin dentro ai villaggi e alle città, singolarmente o in branchi, depredando ovili stalle e pollai, azzannando o addirittura divorando esseri umani: lupi, soprattutto, ma anche orsi, cinghiali, maiali selvatici contro cui si doveva mettere in campo ogni tipo di difesa, materiale e spirituale (bastoni, lance, pugnali, catene, e poi giaculatorie, immagini sacre, esorcismi, e infine processi, torture e plateali esecuzioni pubbliche). Forse solo la persona di San Francesco seppe incarnare all’epoca un ruolo innovativo nel rapporto con il mondo animale, basato sulla pietà, la comprensione e il rispetto, in sintonia e fratellanza con tutto il creato.

Ma dove vivevano, da quali zone estreme della terra provenivano gli animali che popolavano le campagne e le città medievali, e le fantasie dei loro abitanti? Secondo Chiara Frugoni «si incaricavano di mostrarlo le mappae mundi in pergamena in grandi carte geografiche esposte nelle chiese o nei monasteri, oppure in formato ridotto nelle pagine dei codici (o perfino distese in mosaici pavimentali). Permettevano viaggi immaginari; lo spazio rappresentato era riempito da disegni fittissimi di dettagli tratti dal repertorio geografico, storico, religioso e della mitologia pagana; edifici, città, animali e piante erano accompagnati da didascalie. Belve reali e animali immaginari, feroci anch’essi, vivevano soprattutto in Asia e in Africa, luoghi lontanissimi». Due di queste enciclopedie illustrate (di Ebstorf e di Hereford) sono riprodotte e commentate puntualmente nel quarto capitolo di questo volume (coloratissime, ricche di informazioni e allegorie, ritratti curiosi e mostruosità), insieme alla descrizione del mosaico pavimentale di Otranto, «immenso tappeto di pietra brulicante di mille figure». Immagini che fanno di questo libro prezioso un poliedrico strumento di consultazione, una tavolozza di tinte, sagome e paesaggi in cui immergersi, recuperando uno sfarzoso patrimonio di tesori trascurati.

 

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 7 gennaio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

FRUGONI

CHIARA FRUGONI, PARADISO VISTA INFERNO – IL MULINO, BOLOGNA 2019

La più nota e importante medievista italiana, Chiara Frugoni ‒ per anni titolare della cattedra di Storia Medievale nelle Università di Pisa e di Roma Tor Vergata ‒ ha sempre applicato alla sua ricerca (il cui fulcro verte intorno alla figura di Francesco d’Assisi) un metodo di lavoro in grado di tenere nello stesso conto testimonianze scritte e figurative, con la convinzione che “l’immagine parli”.

Anche in questo splendido volume edito da Il Mulino, Paradiso vista inferno, che reca come sottotitolo la dicitura Buon governo e tirannide nel Medioevo di Ambrogio Lorenzetti, il repertorio iconografico a colori assume un rilievo preponderante. Gli affreschi di Ambrogio Lorenzetti (Siena, 1290-1348) che decorano la Sala dei Nove nel Palazzo Pubblico di Siena, sono riprodotti nella loro interezza e nei particolari più significativi, e confrontati sia con le opere scultoree classiche da cui hanno tratto ispirazione, sia con l’arte coeva e posteriore (da Giotto a Simone Martini, Niccolò Gerini, Taddeo di Bartolo fino a Johann Ramboux).

Chiara Frugoni li commenta inquadrandoli storicamente e ideologicamente nel periodo in cui sono stati commissionati e dipinti, tra il 1338 e il 1339. Dispiegati su tre pareti, gli affreschi rappresentano le Allegorie del Buono e Cattivo Governo e dei loro Effetti in Città e in Campagna, esibendo una complessa simbologia che l’autrice del volume interpreta non solo dal punto di vista artistico, bensì soprattutto svelandone motivazioni e finalità politiche. Sulla parete più luminosa a nord è illustrata l’Allegoria del Buon Governo, in quella adiacente a est i benefici risultati di una corretta amministrazione nella città e nel contado, a ovest l’Allegoria del Cattivo Governo, con i suoi esiti nefasti. Il senso delle pitture è chiarito da una canzone posta a lato e sotto di esse, scritta in volgare per rendere eloquentemente accessibile ai visitatori il messaggio veicolato. La parete di fondo ritrae gli esponenti del potere saggio e provvidente (cittadini, soldati, funzionari), sui cui vegliano le figure della Sapienza e della Giustizia, le tre Virtù teologali e le quattro cardinali, accompagnate da allusioni mitologiche e bibliche. A destra è raffigurata la vita attiva e serena della città di Siena, con il Duomo e le mura, oltre le quali scorre placida e laboriosa l’esistenza dei contadini nei campi, raccontata con un’attenzione particolare ai minimi dettagli dell’esistenza quotidiana. A sinistra si concentra la visione negativa e demoniaca della Tirannide attorniata da sei Vizi, artefici di violenza, morte, devastazione, anarchia.

Il messaggio che l’artista volle affidare alla sua pittura era evidentemente di propaganda, e Chiara Frugoni lo ribadisce esplicitamente nel prologo: “Nel Medioevo il diritto ad essere rappresentati spettava abitualmente a protagonisti della storia della Chiesa oppure a laici di primo piano di cui conosciamo il nome e i fatti. La grande novità degli affreschi di Ambrogio Lorenzetti è che i rappresentati sono invece tutti anonimi, persone comuni che svolgono occupazioni comuni. Proprio uomini e donne senza storia per la prima volta sono i protagonisti ai quali è affidato il compito di illustrare la ridente vita assicurata dall’ottimo governo dei Nove, l’unico possibile. «Ridente»? Sappiamo, leggendo fonti, cronache, petizioni, trattati e poesie, che la realtà del tempo era ben diversa da quella affrescata: carestie, rivolte, violenza urbana, corruzione”. Le minuziose, estese e dottissime ricerche dell’autrice si sono basate su testimonianze contemporanee o di poco successive alla stesura dei dipinti: documenti di archivio, cronache locali, atti notarili, prediche e sermoni religiosi, trattati di arte.

All’epoca in cui i Nove (autorità municipale formata da esponenti dell’alta borghesia) commissionarono gli affreschi del Palazzo Pubblico, Siena viveva un periodo di grande inquietudine sociale, causata dalle lotte fra le famiglie più potenti, dal proliferare dell’usura e della corruzione dei costumi, dallo sfruttamento economico dei banchieri sugli artigiani e i commercianti, dallo stato di abbandono rurale e dalle continue risse tra i cittadini. Lorenzetti si incaricò di mostrare al più vasto pubblico possibile (in un’epoca in cui non esistevano i mezzi di comunicazione odierni) che il governo in carica era il migliore tra tutti, e che qualsiasi differente alternativa avrebbe provocato solo impoverimento e disordine. Il fine della sua opera doveva essere quello di sedare il malcontento e di rassicurare gli animi degli abitanti, esibendo attraverso scene urbane e agricole animate da personaggi operosi e felici, tutta l’opulenza e la produttività di un’intera comunità solidale nel cooperare al benessere collettivo, indicando altresì al pubblico, nell’affresco a ovest della sala, cupo e minaccioso, quali deleteri risultati sarebbero derivati dall’egemonia di un potere tirannico.

Firmando il suo capolavoro, Ambrogio era fieramente consapevole di aver tradotto visivamente le istanze politiche, giuridiche e religiose del ceto dominante in Siena, sulle basi filosofiche e dottrinali espresse da Aristotele e San Tommaso, subordinanti l’interesse privato a quello comunitario. E Chiara Frugoni, nel firmare a sua volta questo denso e autorevole commento all’opera del pittore senese, ha voluto sottolineare quanto sia fondamentale anche nei nostri tormentosi tempi attuali anteporre l’interesse pubblico, la giustizia e la pace al profitto individuale, alla sopraffazione, alla discordia. “Non so dire meglio che con le parole di Jean-Pierre Vernant le ragioni per le quali ho scritto questo libro: «noi poniamo all’oggetto dei nostri studi le domande che il presente pone a noi. È per questo che esiste una storia degli avvenimenti storici: ogni periodo li vede in maniera differente, perché si modifica l’orizzonte di riflessione»”.

 

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https://www.sololibri.net/Paradiso-vista-inferno-Frugoni.html             14 ottobre 2019