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RECENSIONI

FOSSE

JON FOSSE, ASCOLTERÒ GLI ANGELI ARRIVARE – CROCETTI, MILANO 2024

Nella motivazione del Premio Nobel assegnato a Jon Fosse nel 2023, leggiamo: “per i suoi drammi e la prosa innovativi che danno voce all’indicibile”. Nato nel 1959 a Haugesund, Fosse crebbe a Strandebarm, un piccolo villaggio adagiato lungo il maestoso fiordo Hardanger, in una famiglia di fede pietista. L’intera sua opera rimane ancorata al Vestland, la costa orientale della Norvegia, al suo clima freddo e grigio, ai paesaggi incontaminati, al mare e alle campagne aperte, alla vegetazione.

Se la sua produzione più nota è quella narrativa e teatrale, anche alla poesia sono stati riservati spazi creativi che hanno accompagnato costantemente la sua scrittura, a partire dal 1986 fino al 2016, con un totale di nove raccolte. L’editore Crocetti ha pertanto ritenuto opportuno illuminare questo suo lato creativo rimasto un po’ in ombra, soprattutto in Italia, pubblicando un’antologia di liriche con il titolo Ascolterò gli angeli arrivare.

Secondo Andrea Romanzi, che scrive un’intensa prefazione al libro ricostruendo le varie fasi della carriera letteraria di Fosse, l’autore norvegese ha sempre insistito nell’esperienza paradossale e faticosa di voler “comunicare l’incomunicabile”. Incomunicabile e indicibile si possono intuire solo uscendo da sé, sospendendo il proprio io in una dimensione trascendentale, capace di attivare risonanze emotive non rilevabili razionalmente, che vengono fatte emergere da insondabili alterità. Presenze angeliche, forse? Jon Fosse ci spera, o meglio, ci crede.

La sua versificazione, nel corso di decenni, non è mutata nella forma: rimane scarna, priva di punteggiatura, franta in continue pause sottolineate da spazi bianchi, segnata dalla ripetizione costante di parole o intere frasi. Invece è cambiata molto nei contenuti, che si scorporizzano, smaterializzandosi in atmosfere oniriche, non sempre rasserenanti, sospese in una progressiva riduzione di significati.

Nelle prime raccolte, fino all’inizio del nuovo secolo, prevalgono le memorie dell’infanzia, visualizzate concretamente in immagini oggettive di cose, ambienti, facce, gesti con una prevalenza di particolari realistici e di un linguaggio quotidiano che spesso mima i refrain delle canzoni: “Mia madre ha / il vento in secchi di plastica arancioni. Lava / il pavimento con movimenti esperti. Mio padre / tiene la testa sotto il braccio e fischietta / alle stelle”, “Fiori morti in un vaso sbeccato / sul davanzale della finestra. Mosche / morte contro vernice bianca sfogliata // Una donna anziana è seduta su una sedia da campeggio / e lavora a maglia, con indosso un grembiule a fiori // Un motore fuoribordo sfreccia tra le grida dei gabbiani”, “Cammina e cammina / e tutti i morti sono con noi / anche i morti camminano e camminano / dentro di noi / cammina e cammina”.

Assolutamente diverso è il clima in cui si muovono le poesie più recenti, che vedono l’autore interrogarsi sulla propria funzione e addirittura sulla stessa esistenza, sua e del mondo, mentre la realtà intorno sfuma, sottraendosi a ogni rappresentazione fattuale: “se sono io che scrivo / allora c’è un io che, ogni singola volta, è diverso, perché / nei movimenti della scrittura c’è sempre / un io che scrive e questo io / non sono io oppure forse sono io / ma questo io è così diverso di volta in volta / da non poter essere io”, “È così che penso // E poi penso / che / quando io sono / e quando non sono / allora sono qui / e allora non sono qui / E finora non sono stato qui”.

Prevale la lingua dell’inconscio, che segnala un’ incapacità espressiva, una mancanza di fiducia nella possibilità di farsi capire: domina allora l’indicibile rimarcato dai giurati del Nobel, il tentativo di raccontare l’assenza, l’ombra, il silenzio, ciò che rimane doppo la morte, l’impalpabile presenza dei defunti o di messaggeri incorporei: “Camminano // Sanno qualcosa / e non possono dire agli altri che cosa sanno //  Camminano / e si fermano raramente // Chi sono / nessuno può dirlo / ma camminano / e camminano”, “tutto era semplicemente presente / chiaro e luminoso / come un giorno senza notte / come una vita senza sonno”, “Nella vita ha conosciuto la morte / e nella morte ha conosciuto l’eterno / sorrideva mentre noi piangevamo / e poi non c’era più // l’anima bella è adesso un cielo”.

L’immagine del camminare verso l’ignoto, che tuttavia si prefigura luminoso, viene ribadita ossessivamente (“E camminiamo / fieri / nell’oscurità reciproca / luminosi come angeli / in ognuno di noi un angelo doppio / immobile nella sua scissione / ed evidente / come luce nera”), in una auspicabile trasformazione, o levitazione, spirituale: “Ma gli angeli mi traggono ogni giorno fuori / dalla mia pietrificazione / nello splendore e nella pietrificazione / Il mio movimento / non è minaccioso / La gioia è senza gioia // Per tutto posso ringraziare gli angeli”.

Se queste composizioni non raggiungono il livello espressivo e stilistico della produzione in prosa di Jon Fosse, tuttavia aiutano il lettore a meglio comprendere il suo mondo interiore, e bene ha fatto dunque Crocetti ad antologizzarle per il pubblico italiano.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 20 marzo 2025

 

 

 

 

 

RECENSIONI

FRABOTTA

BIANCAMARIA FRABOTTA, DA MANI MORTALI – MONDADORI, MILANO 2012

In un suo recente articolo uscito sul sito dell’editore Lietocolle, Biancamaria Frabotta ha scritto: «Ciò che non si può spiegare è spesso solo il sintomo di un fallimento, di una scorciatoia che l’anima prende di fronte ai rischi della semplicità. La semplicità, dice Pasternak in una poesia esemplare, «più d’ogni cosa è necessaria agli uomini / ma essi intendono meglio ciò che è complesso».

Una dichiarazione di intenti, quasi a prendere le distanze da quello che è stato finora il procedere poetico di quest’autrice, finalizzato soprattutto alla ricerca e alla sperimentazione linguistica – talvolta anche provocatoria, comunque sempre innovativa, e di non facile interpretazione. In quest’ultimo libro, in effetti, la complessità dello stile e l’oscurità formale si sciolgono in una discorsività più piana e comunicativa, benché il dettato dei versi non si possa definire “semplice”. Ma è il contenuto, il messaggio che ora balza in primo piano, più che il gioco e il collaudo sulla lingua: un interesse più partecipe a ciò che ci circonda, alla natura, agli uomini, alle cose. Ed è proprio nella prima sezione del volume che la poetessa tocca il vertice più alto della sua scrittura, in questo rapporto riscoperto con la vegetazione, osservata con ammirato stupore, quasi con religiosa contemplazione e solidarietà: «una foglia / pende ancora a lato del legno, trema, / si rimette al vento con l’astuzia dei deboli», «udire il mormorio della terra che dorme / quando sibila la sofferenza delle piante. / Potessi, ospite impensierita, dal pietrisco salvare la salvia /…accorrere dove il ramerino implora una sponda…».

Allora la missione del poeta diventa quella di guardare la vita dal basso (biancospini, ortaggi, molluschi, chiocciole..), collaborando con la misteriosa divinità positiva che protegge e recupera l’innocenza delle sue creature («il fieno / dorme senza diffidenza»), opponendosi all’artificiosità cittadina e metropolitana, alla freddezza delle sue convenzioni. Ed è proprio alla voce dei poeti («acquattati nel pelo del mondo… // scovarli, stanarli / dai loro nascondigli / i pochi (troppo pochi!) poeti») che Biancamaria Frabotta demanda il compito di uno sguardo più puro e salvifico sull’esistente: li nomina, li ringrazia, i suoi amici poeti, se ne circonda nelle pagine e nella vita. Dall’amato Giorgio Caproni che sembra sorvegliare dall’alto una sua irriconoscibile Genova («le gallerie di colpo senza / golfi, seni azzurranti, rive / mancate come ragazze viziate»), alla compianta Giovanna Sicari, ricordata nel martirio della sua malattia, ad altri raccontati nei loro incontri-scontri, nelle frequentazioni reciproche. Le esistenze private, gli amori, i gesti quotidiani comuni a tutti si ripetono come le stagioni, i cicli lunari, in un avvicendarsi di giorni e notti, di sonno e veglia, di vita e morte : «Alzarsi nel buio, strisciare nell’obbligata trincea / lungo le pareti, senza centro, né gravità, arrancare / prendere un po’ d’acqua, perderne altrettanta».

Personale e politico si intrecciano: cronache cittadine e storia ufficiale (dagli echi del declino di un impero romano corrotto alla visita di G.W.Bush in Italia), siccità naturali e terremoti distruttivi, citazioni omeriche e ritratti severi del mondo intellettuale e politico, versi d’occasione e poemetti-testimonianza, con l’unico rischio che al lettore vengano presentati troppi stimoli, troppe circostanze e immagini diverse, troppe emozioni da rielaborare. E se nelle ultime sezioni del volume Biancamaria Frabotta presta la sua voce a un dio umano, eccessivamente umano, anche nella sua impotente incapacità di opporsi al male e di soccorrere al bisogno («Sono le mie debolezze, le mie imperfezioni / a illuminare la mia oscura sintassi»), è forse in questa crudele e dolcissima metafora il significato più vero della sua scrittura: «A nord, lungo il filare dei cipressi / una trave di quercia lentamente / marciva nascosta fra le erbe. I tarli / hanno lavorato, ma il nocciolo è sano. / Certo sosteneva una casa in pericolo».

Ecco: perché la casa pericolante non crolli, può forse bastare la trave bagnata della poesia, la sua indistruttibile forza interiore.

«Leggendaria» n.106,  luglio 2014

RECENSIONI

FRABOTTA

BIANCAMARIA FRABOTTA, IL RUMORE BIANCO – FELTRINELLI, MILANO 1982

«Bianco» è una parola chiave per penetrare tra i rumori di questo libro di Biancamaria Frabotta, che si intitola appunto  Il rumore bianco. «Bianco»» non si dice, di solito, del silenzio? Non è al silenzio che colleghiamo il candore della neve, che cade senza produrre suono, che attutisce qualsiasi vibrazione acustica? E quale colore può avere il rumore, se non una tinta violenta (il nero, il rosso, un giallo fosforescente?). Un rumore bianco pare un’offesa al senso comune, anzi un’ipotesi di sospensione del senso, di attesa/sorpresa: in questo titolo c’è già poesia. Ma nell’intenzione che lo ispira c’è anche dell’altro: una motivazione più sottile, una provocazione più acuta. Nel linguaggio scientifico, rumore bianco viene definito il suono prodotto dalla collisione delle molecole immerse nel fluido della loro corsa. Un rumore che può essere assordante ma che il nostro orecchio non percepisce. Presente nell’aria intorno a noi, dentro di noi; possiamo chiamare rumore bianco anche quello della poesia, con i suoi suoni e i suoi silenzi. Alle parole dette, più che a quella letta in silenzio, la Frabotta affida il compito di comunicare poesia (vedi anche un suo interessante articolo, Il poeta in palcoscenico su Il Manifesto del 27 dicembre 1981): e i lettori sono immaginati «accecati…ammutoliti, …altro che come un orecchio / un ombroso orecchio guardone», un pubblico di ascoltatori. Queste poesie sono infatti da leggere a voce alta, sonore, nervose, asseverative. Ma di tanto in tanto la voce si concede, quasi a raccogliere respiro e dolcezza, la pausa riposante del più cantato dei versi, l’endecasillabo. E può essere un endecasillabo provocatorio, come una spallata data apposta («Spremi la resina il pimento il piscio»); è comunque una distrazione, una concessione all’orecchio desideroso di refrain. In queste pagine letteratissime, lontane dalla discorsività e da ogni spontaneismo, si è sorpresi da qualche arcaismo come da un vezzo (cui talvolta Frabotta indulge anche in prosa): l’aggettivo che precede il nome («la tua sudata pelle»), o l’avverbio che precede il verbo («per finalmente esserci», «sfrontatamente ridere»). Subito dopo si è magari costretti a sbrogliare i mille fili delle tecniche raffinate dell’inversione sintattica, dell’eliminazione della punteggiatura, della divisione delle parole a fine verso non giustificata da altro che dalla scansione metrica. Ancora una volta un omaggio alla voce, e non fa niente se è un’offesa all’occhio («Monade chiac / cherina», ««lenzuolo inzu / ppato»). Ci siamo abituati a leggere – o a scrivere- un certo tipo di poesia femminista, molto didascalica, a volte rancorosa, oppure privata in modo totalizzante. Questa della Frabotta è senz’altro poesia femminista, nei contenuti più che nella forma. Il linguaggio femminile, nonostante le molte teorizzazioni, sembra non riesca a inventarsi («Anche se oggi ti rendo l’onore delle armi / il fuoco sacro dell’imitazione»). Gli strumenti poetici sono sempre quelli, bisessuali, come li vuole chiamare Porta nell’introduzione al libro. E i temi sono quelli propri di una poesia femminista, ma né didascalica né rancorosa, semmai fiera, altera («Non come te poeta io sono / io sono poetessa e intera / non appartengo a nessuno»). Le altre, le donne, le sorelle sono presenze concretissime nelle due prime sezioni del volume, amate irrazionalmente ma anche razionalmente giudicate: «Prepolitiche / da sempre e scorrette agitano / l’ascia bipenne dei moicani e scuotono le piume. / Vi offriamo perline colorate per piombo. / Siamo già spaventate dall’urlo dei cani. / Cerchiamo di farvi paura».

Oppure: «Amiche che così identiche vi fa uniche / il guerriero pudore declinante / l’irragionevolezza del passo». Il rapporto con loro è tormentato («E’ la vita che vi debbo o / il suo estinguersi per sempre?», «Lasciami / correre a nascondermi fra le macerie / per paura e vergogna delle sorelle che / ci rapano la testa come a donne di partigiano / incinte di seme tedesco»), ma basato sulle certezze di una sorellanza: «Insinui perché la tua razza così ti vuole. / Lei invece mi dà già la sua solidarietà. / La vedi? Là, dall’altro marciapiede».

Anche il privato entra in questa poesia, ma in maniera pudica e riservata, «Un bambino che di parlare non ne vuole sapere». Un privato chiuso, che non rivela niente di sé, che potrebbe essere il privato di tutti: ci sono le altre, c’è un lui, una lei. Un privato che irrompe con un “tu” personalizzato, subito però dirottato sul piano dell’oggettività, dell’impersonale, del pubblico; dal tu al lei/lui al loro, nella stessa poesia, lo sguardo interno può diventare occhiata esterna. Il rapporto con l’altro non è mai abbandonato, ma sempre vigile, ostile: il maschio è appunto il lui, oggetto di indagine, in definitiva estraneo. Non c’è un uomo in particolare, nessuna storia o relazione personale è privilegiata: di questi corpi virili si vedono sempre e solo i fianchi, le spalle, girati dall’altra parte, in una loro chiusa indifferenza. Delle loro menti si intuisce una comune abilità nel tessere inganni di parole, nel sezionare argomenti con logica angusta. Questa logica maschile è incomprensibile, temuta perché vincente seppure povera, condannata dalla sua rigidità. E’ la severità di Abelardo, «disperso» nelle sue trame di pensiero, «idee intricate», la cui «sapienza non vale misurare l’ardore di vegetale» rispetto al coraggio, alla voglia di vivere di Eloisa. Se filosoficamente domina Abelardo, è Eloisa la «morbosa, terragna» che ha il suo regno tra i meli, le foglie, i passeri, l’acqua, le alghe. L’eterno duello tra cultura e natura ha trovato i suoi emblemi, un Abelardo ascetico, un’Eloisa «prensile mobile radice», che preferisce «le corde di terra / e non una mongolfiera vuota di vento». Il verso finale di questo poemetto e del libro suggerisce una meta a chi scrive, donna, poesia di donna: «si emigra al sud, a ali spiegate».

«Produzione e cultura» n. 26/27, giugno 1982

RECENSIONI

FRANCK

DAN FRANCK, LA SEPARAZIONE – RIZZOLI, MILANO 1996

Uno scrittore di successo, sceneggiatore abituato alle luci della ribalta, ebreo di sinistra cresciuto nella scia del maggio ’68, approdato a un laicismo ecologico e tollerante, insomma un interessante quarantenne parigino, sicuro di sé e della sua vita, si rivela improvvisamente fragilissimo, sbandato, disperato, quando sua moglie decide di lasciarlo, portandosi via i due bambini, di cinque anni e otto mesi. Torna ad essere, allora, il più tradizionale dei mariti, geloso, ricattatore, infantile. Capace di studiare e di mettere in atto ogni pratica di seduzione e convincimento, pur di trattenerla. Scritto in terza persona, con uno stile conciso, a volte sincopato, quasi a seguire i pensieri e i sentimenti altalenanti, a singhiozzo, dell’autore, il romanzo  La separazione di Dan Franck ha ottenuto nel ’91
il Premio Renadout, ed è stato trasposto sugli schermi con l’interpretazione di Isabelle Huppert e Daniel Auteuil. Si apre con la descrizione di una serata a teatro, in cui lui («Lui») tenta di prendere la mano di lei («Lei») che gli è seduta accanto, «distante e tesa», e non risponde alla sua stretta, o si ritrae. Lui insiste, le preme la spalla, le accarezza un ginocchio, e lei si irrigidisce, si scosta, infastidita. Al ritorno, in moto, non si appoggia alla sua schiena, non gli cinge i fianchi. A casa lo schiva, esce dalle stanze quando lui entra. Alle domande incalzanti del marito oppone annoiata resistenza («Non so, non mi capisco, sarà lo stress, saranno i bambini»). Però si cura di più, si veste con maggiore ricercatezza, a momenti è radiosa: altrimenti soprappensiero, malinconica, via da tutto. Fino a quando confessa di amare un altro, di vederlo regolarmente, di desiderarlo. Un altro («l’Altro»), non meglio precisato, mai descritto, ma onnipresente. Per un mese, dopo la rivelazione, non succede niente: i due si sorvegliano, scaramucciano, tormentandosi con sadismo. Poi lei sta fuori una notte, e lui crolla, impazzisce. Non mangia più, tenta improvvisi recuperi, la ricatta con la rivisitazione degli anni passati insieme, o con la sofferenza dei bambini, verso cui si accorge solo ora di nutrire un affetto morboso. Insieme vanno alla deriva, non hanno più gesti o parole in comune, non si chiamano nemmeno più per nome («Ehi!»); coinvolgono nella loro storia decine di vecchi amici, e parenti, tutti alle esequie di un amore, maledicenti o complici. Infine, la separazione arriva come il minore dei mali, i bambini rimangono a lei, lui pian piano si rassegna a una solitudine riempita di espedienti, non più rancoroso ma senz’altro sconfitto,e convinto che la moglie e i figli, anche se ormai lontani, in una casa che non è la sua, «quei tre resteranno per sempre i suoi».

 

«L’Arena», 21 giugno 1996

RECENSIONI

FRANZOSINI

EDGARDO FRANZOSINI, SOTTO IL NOME DEL CARDINALE – ADELPHI, MILANO 2013

Edgardo Franzosini, scrittore e traduttore lombardo, alla sua terza pubblicazione da Adelphi, affronta ancora una volta la vita di un personaggio storico, la cui vicenda biografica -non immediatamente e universalmente nota, ma nemmeno del tutto sconosciuta- assume nelle sue luci e nelle sue ombre, nei riconoscimenti meritati e nelle ingiustizie patite, un valore paradigmatico, esigendo un riscatto postumo. Quindi, dopo aver raccontato di Raymond Isidore e Bela Lugosi, l’autore ricostruisce qui la tormentata storia del sacerdote Giuseppe Ripamonti, nato nel 1577 e morto il 14 agosto 1643 (e non è forse casuale che il giorno del suo decesso coincida con il compleanno di Franzosini, così come il luogo della sua morte -Rovagnate in Brianza- sia il paese natale del nostro autore: se queste coincidenze possono in qualche modo giustificare il coinvolgimento emotivo di chi scrive nei riguardi dell’oggetto del suo studio…). Ripamonti fu uno storico utilizzato come fonte da Alessandro Manzoni sia nei Promessi Sposi sia nella Storia della colonna infame, e da lui molto apprezzato per la documentata puntigliosità descrittiva, e per l’eleganza del suo latino «rigorosamente modellato sui grandi autori classici». Franzosini ripercorre l’esistenza del personaggio a partire dalle origini contadine, dagli studi in seminario e dai primi impieghi come precettore, fino all’ordinazione sacerdotale avvenuta nel 1605, mettendone in luce soprattutto il carattere: «Riservato, introverso, suscettibile, con la precisa consapevolezza della propria superiorità intellettuale, arso dal fuoco dell’ambizione… istintivamente insofferente verso alcune regole di disciplina».

L’indole geniale e ribelle di Giuseppe Ripamonti venne ben presto a scontrarsi con quella, altrettanto «viva e risentita… calda e collerica», per quanto mascherata da una «pacatezza imperturbabile», del suo superiore e mentore, Cardinale Federico Borromeo, di cui Manzoni ci ha lasciato un ritratto monumentale. Dopo aver nominato Ripamonti «istoriografo» nel Collegio dei nove Dottori della Biblioteca Ambrosiana, e averlo accolto nel suo stesso palazzo arcivescovile per sottrarlo all’invidia velenosa degli altri studiosi, e dopo avergli affidato l’incarico prestigioso di redigere una Historiarum Ecclesiae Mediolanensis, Borromeo diede inizio a una sistematica persecuzione del suo sottoposto, che sfociò in un arresto, in vari e lunghi processi, in una condanna dell’Inquisizione e infine nella prigionia durata quattro anni.
Scandagliando documenti d’archivio, lettere autografe, cronache dell’epoca e posteriori, Franzosini riesce a offrirci un’esauriente ricostruzione dell’ambiente della curia ambrosiana del 1600, dei suoi intrighi, delle faziosità culturali, delle falsità ufficiali e delle verità ufficiose, principalmente in fatto di ortodossia ed eresie religiose. Ma soprattutto indaga nei meandri dell’inconscio e del rimosso, che possono portare anche anime fulgide e personaggi in odore di santità a manifestazioni di puerile fragilità, di insospettabili e meschine ripicche. Le accuse terribili, mai del tutto provate, che condussero Giuseppe Ripamonti in carcere (insubordinazione, tradimento, stregoneria, forse sodomia) potevano essere frutto di un risentimento personale, dovuto a gelosia intellettuale? Edgardo Franzosini ci descrive un Cardinale Federico Borromeo tormentato da una «irresistibile vocazione letteraria» e insieme bloccato da un impedimento paralizzante che lo rendeva complessato sia nei confronti dell’inarrivabile modello – il cugino San Carlo- , sia verso altri letterati contemporanei. Con uno stile rigoroso e classico, e offrendo al lettore un ricco apparato di note e una puntuale bibliografia, Franzosini ha saputo restituirci un ritratto convincente di due personalità di grande spessore, legate in vita e in morte da un contrastato rapporto di stima-disistima, amore e odio. Rapporto ipocritamente edulcorato nell’epigrafe incisa sulla lapide apposta alla casa natale di Ripamonti a fine ‘800: «espiò duramente in se stesso l’invidia altrui e le proprie stranezze solo confortato dal patrocinio dell’immortale Federico Borromeo».

 

«incroci on line», 23 giugno 2014

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FRANZOSINI

EDGARDO FRANZOSINI, QUESTA VITA TUTTAVIA MI PESA MOLTO – ADELPHI, MILANO 2015 –

Edgardo Franzosini (1952) è uno scrittore lombardo molto apprezzato dalla critica, ma non conosciuto dal pubblico quanto dovrebbe. Gode del privilegio, piuttosto raro nella nostra narrativa contemporanea, di saper raccontare con sobria eleganza e scrupolo documentaristico le vite particolari di personaggi poco noti, ma realmente esistiti, che hanno lasciato traccia di sé nella storia, nell’arte, nella cultura europea. Dopo aver illustrato le biografie di Raymond Isidore (costruttore di una cattedrale fatta di detriti), di Bela Lugosi (il più famoso interprete cinematografico di Dracula) e di Giuseppe Ripamonti (sacerdote e storiografo), in questo volume – sempre pubblicato da Adelphi – si sofferma sulle vicende biografiche di Rembrandt Bugatti, uno scultore animalista il cui nome risulta pressoché ignoto ai più. Essendo un ottimo narratore, Franzosini ci introduce nelle giornate del suo protagonista descrivendone dapprima sommari tratti fisici (“E’ alto ed è vestito in modo elegante, ma ha le spalle curve e l’andatura rigida e impacciata…dai tratti del viso malinconici e taglienti, se non proprio severi, e abbigliato con uno stile che, come minimo, potrebbe essere definito sottilmente bizzarro o oscuramente provocatorio”), quindi gli incontri quotidiani più banali, e poi via via la storia della sua originale e facoltosa famiglia, le amicizie influenti, per arrivare all’unica, fondamentale passione della sua vita: gli animali. «Rembrandt si sente a proprio agio solo in mezzo agli animali, solo a contatto con quella comunità senza parole».

Non sono gli animali domestici ad affascinarlo, ma quelli esotici, selvatici, provenienti da terre lontane: davanti alle loro gabbie, negli zoo di Parigi e di Anversa (le due città in cui risiede abitualmente) passa ore, settimane, mesi. Li osserva nei loro movimenti che mantengono ancora qualche traccia di aggressività («Bestie a cui è stato tolto il piacere del sangue, il gusto di sbranare»), mentre si nutrono, o si azzuffano, o dormono. Li disegna, li modella con la plastilina, ne ricava dei calchi e poi delle sculture che presto lo rendono celebre e gli valgono il titolo della Legion d’ Honeur. Afflitto dalla sordità e dalla tisi, Rembrandt Bugatti è un giovane uomo solitario e aristocratico, conteso dai salotti parigini, ma costretto dall’indigenza a farsi mantenere dall’amatissimo fratello Ettore, fondatore della rinomata casa automobilistica. Sensibilissimo, profondamente religioso, è sconvolto dalla tragedia della grande guerra, dall’invasione tedesca del Belgio, dalle crudeltà prussiane contro i cittadini inermi (magistralmente descritte da Franzosini in pagine di rara efficacia): ma soprattutto dalla feroce esecuzione di tutti gli animali dello Zoo Antwerpen di Anversa, imposta dalle autorità belghe per ragioni di sicurezza. Rembrandt patisce la sua estraneità a un mondo sempre più feroce, indifferente all’arte, spietato verso il prossimo: lontano da parenti e amici, privato del suo lavoro e dell’ affettuosa frequentazione dei prediletti quadrupedi, si uccide nel gennaio del 1916. La vita, come aveva scritto al fratello pochi mesi prima, era diventata per lui un peso insopportabile.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/Questa-vita-tuttavia-mi-pesa-molto.html      8 ottobre 2015

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FRANZOSINI

EDGARDO FRANZOSINI, RIMBAUD E LA VEDOVA – SKIRA, MILANO 2018

Nella primavera del 1875 il ventunenne Arthur Rimbaud visse per quasi un mese a Milano, ospite di un’anziana vedova, in un appartamento affacciato su Piazza del Duomo. Proprio in quei giorni prese la decisione di abbandonare la scrittura, dando inizio a una nuova esistenza, sempre avventurosa e anticonvenzionale, ma non più votata al demone dell’arte. Edgardo Franzosini, scrittore lombardo nato nel 1952, ricostruisce minuziosamente quelle fatidiche giornate milanesi in cui il poeta che definiva sé stesso «ladro di fuoco», «fanciullo sfiorato dal dito della Musa», «veggente mediante un lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi», decise di trasformarsi in «qualcuno che era stato lui, ma che non lo era più, in nessun modo» (secondo le parole di Mallarmé), diventando mercante d’armi in Abissinia, dopo aver lavorato come inserviente di un circo, soldato mercenario, caposquadra in un cantiere e venditore di caffè e avorio in Europa, in Africa e in Medio Oriente

Franzosini è uno dei più originali scrittori italiani, ex bancario e oggi stimato autore Adelphi molto tradotto all’estero: ha scelto di indagare la vita misteriosa di personaggi più o meno noti, ma le cui vicende esistenziali sono rimaste avvolte in un velo di nebbia, oscurate da silenzi, calunnie, pregiudizi, persecuzioni. Come Bela Lugosi, interprete di film horror su Dracula; o l’avventuriero inglese Johann Ernst Biren, mangiatore di carta stampata; oppure il religioso Giuseppe Ripamonti, che scriveva i discorsi del Cardinale Federico Borromeo e venne da lui accusato di eresia e fatto imprigionare; o Raymond Isidore, costruttore di una cattedrale fatta di detriti e sporcizia; o ancora Rembrandt Bugatti, straordinario scultore di animali in bronzo e fratello infelice del fondatore di un prestigioso marchio automobilistico… Personaggi stravaganti e ai margini, a cui rendere dignità sulla pagina, attraverso un minuzioso lavoro di ricerche negli archivi, approfondite letture, precise ricostruzioni d’ambiente.

In questo volume pubblicato da Skira, Edgardo Franzosini si occupa invece di un artista famosissimo, genio precoce dalla vita girovaga e sregolata, che aveva scritto il Bateau ivre a diciassette anni e, nel giro di poco tempo, altri due capolavori: Une saison en enfer e le Illuminations. Ricostruisce la città che accolse il giovane Arthur utilizzando diverse fonti documentarie: giornali d’epoca, locandine teatrali, antiche guide turistiche, resoconti di fatti di cronaca e di vicende politiche. Una laboriosa Milano di 280.000 abitanti, che verosimilmente non rappresentava per il poeta la meta finale del viaggio, bensì una tappa intermedia, prima di raggiungere Civitavecchia o Brindisi per imbarcarsi verso la Spagna o le Isole Cicladi, nel suo errabondo e inquieto vagare in cerca di lavoro e di una sistemazione abitativa. Sappiamo da una lettera che mal sopportava la sua cittadina nelle Ardenne («La mia città natale è superlativamente idiota fra tutte le cittadine di provincia»), la borghesia ottusa e convenzionale che vi abitava, i familiari meschini e ignoranti. Come era arrivato a Milano? Camminando dal confine tedesco fino al Canton Ticino, attraverso il passo del San Gottardo; e poi da Airolo a Milano, per 200 chilometri, ancora a piedi (agile e resistente marciatore qual era), oppure in treno, ma clandestinamente, poiché del tutto sprovvisto di soldi. Del suo soggiorno nel capoluogo lombardo sono rimaste «impronte lievissime». In pratica, solo la copia di un biglietto da visita che riportava a caratteri di stampa il suo nome, a cui era stato aggiunto a penna un indirizzo: «39. Piazza del Duomo. Terzo piano. Milano». Ne diede testimonianza Ardengo Soffici in un saggio critico sul poeta francese, con dedica «Alla ignota Signora milanese che soccorse e forse amò Rimbaud, affamato vagabondo per l’Italia».

Basandosi su queste labili tracce, Edgardo Franzosini ha fabbricato un racconto sospeso tra realtà e leggenda, supposizioni e aneddoti. Chi era la dama che lo ospitò per quasi un mese nella sua casa in Piazza del Duomo? Era esistita veramente, come suggeriva con qualche morbosità Verlaine (che nel 1873, pazzo di gelosia, aveva sparato all’amante due colpi di pistola, finendo per questo in carcere)? L’adorato Paul scriveva: «Coso è a Milano, in attesa di denaro per la Spagna», alludendo poi a due episodi di amore eterosessuale dell’amico, uno a Londra e uno «con una vedova molto civile in quel di Milano». Anche il critico Ernest Delahaye citò «una signora caritatevole… una buona milanese», di cui era venuto a conoscenza attraverso una lettera di Arthur. La sorella di Rimbaud, Isabelle, e il marito di lei, strenui difensori dell’immagine rispettabile e virtuosa del poeta, a più riprese smentirono la frequentazione con una donna italiana, affermando che il loro caro viaggiava esclusivamente per impratichirsi nelle lingue straniere, a cui era portato per naturale e felice disposizione mentale. Se l’ospitale signora fosse vedova inconsolabile o no, se affittasse camere sul sagrato della cattedrale a turisti bisognosi, se si fosse fatta ricompensare in qualche curioso modo dal ragazzo, probabilmente non si verrà mai a sapere: alcune composizioni rimbaudiane, sulla cui paternità si nutrono tuttavia dei dubbi, sembrano riferirsi a un rapporto con una imprecisata “madame”, che potrebbe però essere una figura di fantasia. Non esistono documenti ufficiali sul soggiorno milanese di Arthur, né segnalazioni di vagabondaggio che lo riguardassero, o incontri con esponenti del mondo letterario. È attestata solo una sua spedizione dalla Regia Posta Centrale di Via Larga, ma non sembra che in quel periodo abbia richiesto denaro alla famiglia, come aveva fatto in altri frangenti: perlomeno non rimangono documentazioni epistolari di tal sorta.

Franzosini si sofferma sulle testimonianze scritte che alludono ai rari rapporti che Rimbaud ebbe con le donne, in particolare con la Mariam di Harar, che forse lo rese padre. Lo descrive poi fisicamente, nelle grandi mani arrossate e nodose e negli occhi di un azzurro imbarazzante. Accenna agli eccessi comportamentali dettati dal suo carattere violento, arrogante e sfrontato: «insopportabile perché tutto gli era insopportabile». Ciò che risulta davvero fondamentale, al di là della relazione avuta con la misteriosa signora, è che nelle settimane in questione Arthur Rimbaud decise di non scrivere più, di lasciar perdere ogni interesse letterario, arrivando addirittura a cestinare inviti e omaggi da parte di editori ed estimatori: scelta «logica, onesta, necessaria», secondo il parere di Verlaine. Il «silenzio poetico», su cui tanto hanno indagato i critici, pare abbia coinciso con un «silenzio erotico» e con un «silenzio dell’ebbrezza» da alcol e droghe. Una rinuncia e un disconoscimento dell’esistenza fino ad allora vissuta, che già si era espressa in una giovanile dichiarazione di dissociazione da sé stesso («Io è un altro, Je est un autre»), e nel sogno di sconfinamento manifestato nel Bateau ivre, con il rifiuto di far galleggiare la sua folle navicella in una pozzanghera «noire et froide», quale avvertiva fosse allora l’Europa, portandola invece a veleggiare verso altri lidi.

 

«Il Pickwick», 17 maggio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

FRATUS

TIZIANO FRATUS, LETTERE A UNA SEQUOIA – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2023

Un albero pensa? Ci osserva e ci giudica? Conosce il significato della vita e della morte, prova sentimenti benevoli od ostili nei confronti dell’ambiente in cui affonda le sue radici? Tiziano Fratus (Bergamo 1975) ha fatto della sua passione per gli alberi una missione e una professione. Scrittore, poeta, fotografo, pubblicista, ha pubblicato numerosi volumi di versi, narrativa, saggistica e viaggi, dedicandosi anche alla letteratura per l’infanzia e collaborando con vari quotidiani e programmi tele-radiofonici. Dichiaratamente buddista, infaticabile viaggiatore nel mondo, ha coniato i concetti di “uomo/donna radice”, “dendrosofia” e “alberografia”, utilizzati nelle sue opere legate al mondo vegetale, tradotte in varie lingue.

Il suo ultimo volume, Lettere a una sequoia, uscito per le edizioni pugliesi di AnimaMundi e illustrato dalle foto che ha scattato nelle sue peregrinazioni, raccoglie dodici messaggi rivolti a una sequoia, in un colloquio epistolare che si evolve via via in confessione, sostegno reciproco, senso di fratellanza, riflessione sull’esistenza.

Fratus ci parla di sé, dell’amore che lo ha portato a girare l’Italia per studiare gli alberi, catalogarli e fotografarli, spinto da un’incontenibile ansia di conoscenza e raffronto, fino a farsi lui stesso Homo Radix, confondendosi nel verde, recuperando serenità nel loro silenzio “risorgivo e madornale”, trovando nell’habitat boschivo la sua casa, la famiglia accogliente e generosa che non ha avuto: “Ho girato tutte e venti le regioni, ho attraversato tutte le province, ho raggiunto alberi nostrani e alberi esotici, ho potuto abbandonarmi in parchi nazionali, parchi regionali, parchi naturali, giardini storici di proprietà privata e giardini storici di proprietà pubblica, boschi, foreste, montagne, isole, campagne e città”. Ha viaggiato dall’Italia fino in America e in Oriente, sempre sulle tracce di continui arricchimenti culturali e di una crescita spirituale, incoraggiata dai suoi frondosi maestri elettivi. Si dichiara tuttora scandalizzato dall’avidità e dall’incuria degli uomini, che tra il 1850 e il 1900 hanno distrutto il sistema forestale del mondo, abbattendone l’80%.

In particolare, sono state le sequoie a catalizzare il suo interesse, questi “dinosauri arborei” millenari che si trovano soprattutto in Nord America, con gli esemplari più giganteschi in California.

Le sequoie sono state importate anche da noi, se ne trovano in tutte le città italiane: a Torino, a Roma, in Sardegna, per “il nostro continuo prevaricare, la nostra mania persecutoria, se vogliamo anche gentile, anche agitata da un curioso amore possessivo, di andare e pretendere, di comprare e collezionare”.  Nel Comune di Pollone, un paesino in provincia di Biella, si possono ammirare cinque sequoie gemelle, piantate nel 1848 nel parco di Burcina.

“Tra i 12 miliardi di alberi presenti in Italia, un miliardo sono faggi e un altro miliardo o poco più querce, lecce e farnie anzitutto, e quindi roveri, roverelle, cerri, cerrosughere, sughere”. Le sequoie non sono moltissime, ma attraggono la curiosità di molti visitatori, colpiti dalla loro imponenza.

La sequoia più alta del mondo si trova nella Foresta gigante nel Parco nazionale di Sequoia, a est di Visalia in California; l’hanno chiamata Generale Sherman, in onore dell’eroe della guerra civile: ha circa 2500 anni, è alta 83 metri, pesa 1910 tonnellate e ha una circonferenza del tronco alla base di 31 metri. Un colosso buono, che si lascia osservare da centinaia di turisti ogni giorno, offrendosi mansueto ai loro selfie, insegnando la pazienza di esistere senza opporsi allo scorrere del tempo. Tiziano Fratus interroga gli alberi, consapevole che noi e loro abitiamo lo stesso respiro selvatico. Li vive nella loro naturale fisicità, interrogandosi su quali siano i pensieri, le emozioni, i rapporti che instaurano con la vegetazione circostante. “Mi chiedo se voi ragionate in termini di “io” o di “noi”, o di un “essi” onnipresente e onnisenzien te, o asenziente… Abitate i secoli, siete stabili, fate soltanto quel che vi occorre: è in queste geometrie chimiche che vi giocate tutto il senso della vita, senza perder tempo in agitazioni ipotetiche, forse voi non conoscete nemmeno il senso di un verbo come ‘provare’ … Voi vivete, non “provate” a vivere… Noi sì, invece, noi siamo creature che per eccellenza ‘provano’ a vivere”. Superiori a noi, migliori di noi, nella loro tranquilla, innocua, generosa imperturbabilità, gli alberi ci propongono esempi di saggezza, di non prevaricazione, in accordo con la natura-madre.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 9 luglio 2023

 

 

RECENSIONI

FRAZER

JAMES G. FRAZER, LA PAURA DEI MORTI – IL SAGGIATORE, MILANO 2016

James G. Frazer, nato a Glasgow nel 1854 e morto a Cambridge nel 1941, fu uno dei padri fondatori dell’antropologia moderna. La sua opera più famosa, Il ramo d’oro. Studi sulla magia e la religione, venne pubblicata nel 1890. Convinto seguace dell’evoluzionismo darwiniano, era persuaso che l’umanità si fosse sviluppata socialmente e culturalmente seguendo tre stadi fondamentali: dalla magia alla religione alla scienza.
In questo volume che la casa editrice milanese Il Saggiatore ha da poco presentato al pubblico, con la traduzione di Anna Malvezzi, sono raccolti due cicli di conferenze che Frazer tenne tra il 1932 e il 1933 al Trinity College di Cambridge: testi arricchiti da un cospicuo apparato di note e da un utilissimo indice analitico.
La tesi ribadita in questo La paura dei morti nel mondo primitivo è che «la credenza quasi universale nella sopravvivenza dello spirito umano» derivi dalla paura dei morti (del loro minaccioso riemergere dal buio dell’aldilà), più che dal timore della morte stessa: e che sia diffusa e radicata in tutte le civiltà e religioni, a partire dalle società primitive o che tuttora rimangono confinate in uno stadio di civiltà non evoluta. L’idea (lusinghiera e consolatoria) dell’immortalità dell’anima e della sopravvivenza dell’ individualità personale non trae dunque origine dai fondatori delle grandi religioni storiche, ma era già presente in epoche antichissime: a tale convinzione le varie fedi e chiese mondiali hanno poi attribuito un carattere etico e un messaggio di salvezza o di riscatto dalla sofferenza.
Frazer indaga miti e riti riguardanti le pratiche funerarie, le preghiere, gli esorcismi che presentano incredibili analogie in tutti i continenti e in tutte le epoche, e che dimostrano quanto l’umanità abbia sempre creduto, e in buona parte creda tuttora, che i trapassati possano influire (sia negativamente che positivamente) sull’esistenza dei viventi.
Ecco allora che il terrore degli spiriti poteva spingere i parenti a blandirli seppellendo i cadaveri in casa, gratificandoli con offerte di cibo e bevande, ammansendoli con canti o litanie; oppure al contrario li induceva ad allontanarli dall’abitato, a legarne le membra o a spezzarne le ossa perché non tornassero a pretendere qualcosa o a vendicarsi dei torti ricevuti. In genere le popolazioni primitive ritenevano che i morti mantenessero le abitudini e il carattere avuto in vita, con un aumento di potere tale da poter costituire sia una minaccia sia un aiuto per i vivi.
Qualcosa del genere rimane nelle usanze occidentali e contemporanee di celebrare la festa dei defunti, con visite collettive alle tombe, l’omaggio di fiori, l’oscuramento di porte e finestre, le benedizioni con incenso e le processioni popolari. Tuttora, poi, molte persone si recano dai medium o dai veggenti per cercare di comunicare con i trapassati, esattamente come in alcune popolazioni primitive e tribali si ricorreva agli stregoni o ai negromanti, che cadevano in trance, assumevano le voci degli spiriti evocati o utilizzavano oggetti particolari (ossa, pietre, amuleti) per perpetrarne il soccorso o renderne innocua l’influenza malevola.
L’atteggiamento che i popoli primitivi nutrivano verso i morti era insomma «un insieme di speranza e paura, di affetto e avversione, di attrazione e repulsione», ma in genere prevaleva l’idea che gli spiriti fossero pericolosi, e quindi dovessero essere allontanati con la forza o l’inganno, impedendo in qualsiasi modo il loro ritorno foriero di disgrazie per la comunità. E qui Frazer intrattiene il lettore raccontando dei più vari stratagemmi messi in atto per impedire ai fantasmi di uscire dalle tombe per rapire i bambini, tormentare le vedove, fare malefici sui campi o il bestiame: quindi barriere di fuoco, d’acqua, di fumo; trappole, mutilazioni e decapitazioni dei cadaveri, incenerimenti… Usanze e credenze che si ritrovano tuttora in alcuni paesi dell’Africa, dell’Australia e dell’Europa orientale, e che rivivono anche nei riti di purificazione e negli esorcismi messi in atto da molte chiese. A ribadire che l’umanità non è progredita granché, nei millenni.

 

© Riproduzione riservata         

www.sololibri.net/La-paura-dei-morti-nelle-religioni.html        17 febbraio 2016

 

 

RECENSIONI

FRENE

GIOVANNA FRENE, IL NOTO, IL NUOVO – TRANSEUROPA, MASSA 2011

«Mi piace pensare a questo testo come a un’opera di poesia della storia», scrive Giovanna Frene a commento di questo suo denso, severo, impegnato contributo poetico. Poesia della storia e non sulla storia, quasi a mettere tra parentesi il suo ruolo di voce sola e celebrante, in favore di una testimonianza più collettiva di sdegno e denuncia. Un libro particolare, il suo, di un’originalità esibita e orgogliosa, non solo formale e contenutistica. Nella proposta editoriale, in primo luogo, della coraggiosa casa editrice Transeuropa, che affianca ai testi proposti nella collana  Inaudita  anche un allegato multimediale (in questo caso, un cd del gruppo POEMS). Nella veste grafica, che intervalla i versi con fotografie newyorkesi di Laura Callegaro, e accompagna ogni poesia con la traduzione in inglese. Nella prefazione di Paolo Zublena e nella postfazione di Silvia De March, entrambe dottissime ed esploranti tutti i collegamenti filosofici, psicologici e letterari interni al testo. Soprattutto poi nei rimandi culturali sottesi, stratificati in ogni pagina della plaquette, che richiamano i nomi basilari del pensiero novecentesco (Braudel, Deleuze, Arendt, Benjamin, fino al nostro Severino) e che rendono ogni parola poetica radicata nel terreno scabro, risentito e recettivo della coscienza civile e ideologica del secolo appena trascorso. Una poesia, questa di Giovanna Frene, assertiva, dura, compatta: concentrata sul tema del male, come si prospetta non solo metafisicamente, ma nel suo concreto operare storico. Il male come “skàndalon” intollerabile, e pure troppo spesso accettato pavidamente, non contrastato nell’operare quotidiano dei popoli e dei singoli. Un male che nei millenni si è fatto guerra, strage, terrorismo, pulizia etnica: quasi sempre senza capacità di redenzione e riscatto, senza prospettive di speranza e riparazione: «ma è mai esistito un tempo buono, inenarrabilmente / buono, aperto a conchiglia verso ogni futuribile possibilità che esista anche / solo un frammento diverso / attorno a cui germinare?».

Male che si è concretizzato nella storia «dal Giordano alla Vistola», dai lager nazisti a Ground Zero, lontano da ogni giustizia e giustificazione, che pesa con la sua crudele gratuità anche solo nella possibilità di nominarlo; il male provocato, ad esempio, dalle armate di Giovanni dalle Bande Nere, che poi si ritorce contro lui stesso, uccidendolo di cancrena a ventotto anni. Gli eccidi degli eserciti di ogni tempo sono «una piccola macelleria simulata / sopra un prato ridente e fuggitivo»: e l’ironia spiazzante dell’utilizzo di echi leopardiani diventa scherno, orrore esacerbato. Allora l’innocenza della natura, «il fruscio d’ali, va all’incontro con il marchio di esistere, / si interseca al vertiginoso concrescere botanico e sociale / per le chiare ragioni che non guarda negli occhi lo sguardo». Non sembra esserci salvezza, sollievo dal dolore, in questi versi che si rincorrono ansimanti, spezzati, lunghissimi e perentori. A volte chiusi in parentesi, in virgolette, in rettangoli che ne sottolineino la violenta icasticità. L’evento narrato non è mai grazia, illuminazione, riabilitazione: «l’occidente comune della morte non muta, tagliato / il fiume, il gesto bruciato, da flutti apparenti presto spento il fuori-posterità». Non c’è un dopo, in queste poesie di Giovanna Frene: tutto viene azzerato in una combustione immediata di senso e di immagini: «non è l’eccezione che si pensa, la schiuma che ingoia il mare. / non si scava la fossa, questo tornare irrevocabile, / inimmaginabile, calpestato, trito dai sassi…». E ancora, in un impotente grido di ribellione contro il moloch che ci assedia e deturpa tutti, e macina ogni storia: «forza, o carne di potere, o tutto-potere, o vita che deriva dalla vita; / da ciò deriva la simulazione, la nostra vera imposta fine».

 

«Leggendaria» n. 102, novembre 2013

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