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RECENSIONI

GARCIA MARQUEZ

GABRIEL GARCIA MARQUEZ, DODICI RACCONTI RAMINGHI – MILANO, MONDADORI 2005

Questi splendidi  Dodici racconti raminghi (Mondadori, 2005) sono stati chiamati così perché scritti e pubblicati dal Nobel colombiano Gabriel Garcia Marquez in epoche e luoghi diversi, lontani tra loro, e concepiti per motivi occasionali, traendo ispirazione in genere da fatti di cronaca in seguito rivisitati e nobilitati con una prosa asciutta ed elegante, e un’empatia ironica e insieme commossa.
Distanti da un certo compiaciuto barocchismo sudamericano che talvolta trapela dalle pagine dei romanzi maggiori, qui Garcia Marquez riesce a trovare un equilibrio perfetto tra distacco del narratore e coinvolgimento emotivo dello spettatore, evitando sempre qualsiasi retorica, qualsiasi pedanteria descrittiva.
I racconti sono del tutto disomogenei per gli ambienti e le località rappresentate, e questo forse ne sottolinea la particolare originalità: ci troviamo i Grand Hotels delle capitali europee come i bastimenti degli emigranti, l’aristocrazia intellettuale e il più umile proletariato suburbano, giornalisti e ambasciatori accanto a ruffiani, ladri e prostitute.
Così ci intenerisce la struggente storia della vecchia puttana comunista che insegna al suo cagnolino la strada per la tomba dove si farà seppellire sapendo che sarà l’unico a visitarla con rimpianto; ci turba la fine tragica e inaspettata della giovane, ricca e bellissima sposina durante il suo favoloso viaggio di nozze; ci sorprende la conclusione dell’estate fuori dagli schemi di una rigida istitutrice tedesca raccontata dai due turbolenti ragazzini che le sono affidati; ci angoscia l’equivoco pazzesco che condanna alla reclusione manicomiale una donna affacciatasi all’istituto «solo per telefonare».

Marquez è come sempre maestro nel fare delle vicende individuali dei suoi protagonisti un affresco corale, e nel trovare nelle abitudini locali di paesi diversi quello che li rende universalmente comuni: amore e morte, fede e superstizione, ingenuità e cattiveria. Perennemente in balia dell’imprevedibilità del caso o della crudeltà dei fenomeni naturali.

 

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26 febbraio 2016

RECENSIONI

GARDINI

NICOLA GARDINI, TRADURRE E’UN BACIO – GIULIANO LADOLFI, BORGOMANERO 2015

«Tradurre è cucinare…Tradurre è una corrente…Tradurre è uscire dal contorno…Tradurre è lasciar dire…Tradurre, infatti, è capire…Tradurre è fare rima…Tradurre è un atto critico…Tradurre è un atto mitico…Tradurre è un’alchimia…Tradurre è un’armonia…La traduzione è danza…La traduzione è sogno…La traduzione è un bacio…».

Sono alcune definizione che Nicola Gardini (poeta, narratore, critico, pittore, professore di letteratura comparata a Oxford e, appunto, traduttore) dà di quest’arte trascurata, mal pagata, contestata, che è la traduzione. Arte di per sé umilissima, perché mette il sordina la voce personale di chi la esercita dando invece voce a un altro da sé: «(La traduzione è un bacio. / E’ avere nella bocca / Non una, ma due lingue / Contemporaneamente)», e insieme superbamente presuntuosa, perché pretende di interpretare stili e sentimenti che non le appartengono: «(Tradurre per avere un solo punto / Da cui tenere tutto, / Suddiviso e congiunto. / Ricostruire l’ordine distrutto)».

Gardini ha scritto un centinaio di poesie (Tradurre è un bacio, edito da Giuliano Ladolfi) nell’arco di un mese, all’inizio del 2015, pressato dall’esigenza di comporre un omaggio in versi, e in qualche modo anche un pamphlet saggistico, in onore e difesa non solo della traduzione, ma anche del traduttore. Nella nota finale così argomenta la sua arringa poetica: «Tradurre si fa, è possibile, e va capito nella sua complessità umana, artistica e civile, e nella sua bellezza. Non ci sono, per me, schemi, griglie, ipotesi, ma solo prassi e stupori, e una molteplicità di punti di vista»,

Si traduce per amore, per volontà di conoscenza, con meraviglia nei riguardi della bellezza: «Io non ho lingua, io sto all’erta, / A bocca aperta, / Come i bambini quando nevica / O come il pesce»; «Non c’è, per quanto scaltra, / Parola sufficiente. / Può vincere sul niente / Se vive per un’altra». Si traduce per riempire i propri vuoti, per colmare le mancanze, per arricchirsi emotivamente: «Proprio non so la sete di cui vive / Questo mio cuore vuoto e, come il bruco / Che ha già finito il filo, ecco, traduco».

E Nicola Gardini ha tradotto tanto, già dall’adolescenza, scrittori antichi e contemporanei, greci-latini-tedeschi-francesi e soprattutto anglosassoni, incontrando i suoi poeti nei libri e di persona, mettendosi in competizione con altri traduttori, rivendicando orgogliosamente la legittimità artistica dell’interpretazione soggettiva, difendendo l’artigianalità raffinata del suo lavoro dai boriosi criticismi accademici. Ma anche proponendo un aspetto ludico e leggero della traduzione (come nel divertissement quasi scialojano L’uomo, in cui si interroga sulla capacità traduttiva degli animali). Difendendo l’uso della tanto bistrattata rima («La rima innanzitutto. / Dovunque e purchessia, / Non solo in poesia»). E contestando il luogo comune dell’isolamento del traduttore: «La gente crede che tradurre / Sia un lavoro solitario: / Tu e il dizionario. / Ma se è il massimo della compagnia! / Uno che ti insegna a produrre, / Uno che ti fa fare una poesia».

Insomma, questi versi di Gardini recitano una dichiarazione d’amore a un mestiere ingrato e appagante, duro e generoso, ingordo e delicato, come risulta evidente da questo ultimo esempio: «Per certi il paradiso è luce, / Per altri leggere da mane a sera…/ Per me la beatitudine vera / È un posto dove si traduce».

 

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www.sololibri.net/Tradurre-e-un-bacio-Nicola-Gardini.html             20 febbraio 2016

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GARDINI

NICOLA GARDINI, IL LIBRO È QUELLA COSA – GARZANTI, MILANO 2020

Mi sono imbattuta nelle pagine de Il libro è quella cosa con tre anni di ritardo, e mi dispiace perché si tratta di un volumetto prezioso, da leggere e da regalare: ai bibliofili, anzi meglio, ai bibliomani. A tutte le persone che amano spiare nelle vetrine delle librerie, cercare le novità editoriali sui giornali, spulciare le recensioni, ascoltare le ormai rare trasmissioni radiofoniche e televisive che suggeriscono imperdibili tesori cartacei.

Nicola Gardini, nato nel 1965 in Molise ma cresciuto a Milano, professore di Letteratura Italiana all’Università di Oxford, autore di decine di volumi (poesia, narrativa, saggistica), ricercato traduttore dall’inglese e dal latino, appassionato sostenitore dell’importanza di studiare le lingue antiche, presidente della casa editrice Salani, e infine pittore, nutre un rapporto d’amore esclusivo, quasi ossessivo, forse addirittura feticistico per i libri. Si dichiara affascinato non solo dal loro contenuto, ma anche dalla loro forma esteriore: copertina, dorso, rilegatura, pagine, colore e odore. “Un libro è una cosa da avere; cosa con cui si abita e si viaggia, da cui magari alla fine ci toccherà separarci, ma che occorre far di tutto per conservare e tenere vicino”.

Gardini ammette di essere un acquirente compulsivo, attratto dai titoli, dalle immagini, e spinto al possesso dell’oggetto anche quando non gli è necessario. Confessa la sua dipendenza, quasi fosse una droga: “Quanti libri ho…? Io mi domando: quanti libri non ho?”. Senza nemmeno conoscere autori, argomenti e trame, compra e colleziona volumi, li accumula, li impila, se ne circonda ovunque, pur sapendo che mai arriverà a leggerli tutti. Diventano un alibi, un patto, una lusinga, un rammarico. “Il libro che si deve ancora leggere ci sta davanti con una promessa e con un rimprovero; e poi, se non ci decidiamo mai a leggerlo, con un rimpianto”. Perché ammassarli, allora, sapendo che non si arriverà nemmeno ad aprirli? “Che cosa ci fanno, infine, tutti quei libri sugli scaffali? Ci danno fiducia”. Viene da chiedersi cosa provochi la felicità di stringere tra le mani un volume appena acquistato, e perché tanta nostalgia per uno perduto, uno sulle cui pagine ci si è addormentati da bambini, un altro studiato con devozione al liceo. Gardini dà a sé stesso una spiegazione filosofica, ben sapendo quanto sia relativa: “un libro è l’unica cosa che non minacci di toglierci nulla”. Anzi, offre parole e insegnamenti, e accoglie le nostre annotazioni, date, sottolineature, ciò che verghiamo sulle sue pagine a matita, a penna, con l’evidenziatore, per farlo più decisamente nostro. Conserva all’interno bigliettini, cartoline, ricevute, fotografie dimenticate da anni: è un amico fedele, non butta via niente, ha una memoria di ferro e ricorda l’età in cui l’abbiamo letto. È uno specchio di noi, un diario implacabile.

Gardini racconta le relazioni che ha intrecciato con altre persone grazie ai libri: con la mamma che li nascondeva nell’armadio perché non si sciupassero, con il padre in pensione che glieli catalogava rimproverandogli lo spreco di denaro, con l’ex-insegnante malato terminale che svendeva la sua biblioteca per lasciare più soldi ai figli, con la cugina o i compagni di scuola che glieli prestavano. Lo scambio e il commento reciproco di letture crea una rete di rapporti che mette in comunicazione con la società, sopravvivendo anche alla messaggistica di internet e agli e-book, su cui il giudizio dell’autore è severo: “La comunicazione elettronica è rapida, distratta, imprecisa… estromette del tutto il ragionamento, la riflessione, il ripensamento, il piacere dell’immaginazione, la proiezione nell’altro, l’attesa, la considerazione di più possibilità, la sospensione fantastica”. Leggere è invece un’arte paziente, che si impara stando con le parole, innamorandosene, lasciandosi penetrare da esse, smarrendosi in loro, viaggiando con loro.

Una intensa dichiarazione d’amore espressa in paragrafi stringati, aforismi, citazioni, che Nicola Gardini rivolge a “quella cosa” che si chiama libro, in un’epoca come la nostra abituata a leggere poco e male, con superficialità e fretta, ignara della ricchezza a cui sta rinunciando.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 22 gennaio 2024

RECENSIONI

GARLAND

HAMLIN GARLAND, L’AMORE È UNA STRADA SECONDARIA – ELLIOT, ROMA 2017

Hamlin Garland (18601940), romanziere e saggista statunitense, Premio Pulitzer nel 1922, conobbe nella prima metà del ’900 grande notorietà per i suoi racconti e romanzi ambientati nelle fattorie e tra i cercatori d’oro del Midwest americano. Fu tra i più apprezzati esponenti del naturalismo statunitense, corrente letteraria caratterizzata dall’interesse scientifico verso l’ambiente, dall’empatia per le classi lavoratrici, da uno stile chiaro e discorsivo teso a riprodurre il lessico popolare e dall’attenzione realistica per i particolari. Il libro che lo rese famoso fu Strade maestre del 1891, e proprio da questo volume le edizioni Elliot hanno tratto un racconto proposto nell’elegante collana Lampi, e intitolato L’amore è una strada secondaria.

Si tratta di una storia suggestiva e romantica, ambientata nella campagna assolata degli States di fine ottocento, con i cieli tersi e luminosi attraversati da falchi, merli e ghiandaie, tra covoni di paglia dorata, sentieri polverosi e boschetti di aceri, pioppi, querce. Uno sfondo che sembra preludere alle narrazioni di Faulkner e Steinbeck, soprattutto per la descrizione dei caratteri burberi e talvolta violenti degli abitanti. Contadini rozzi, braccianti incolti, fattori esigenti: «Erano individui grossi, muscolosi, sudici ma sani, che si nutrivano come gli antichi norvegesi ed erano capaci di lavorare come demoni». Tra loro ma ben diverso da loro, si muove il giovane protagonista Will Hannan che lavora nei campi osservando incantato le bellezze della natura, e cita il latino di Giulio Cesare e l’evoluzionismo di Darwin da assiduo e appassionato studente liceale nelle scuole serali del paese, deciso a proseguire negli studi di legge. Il racconto si apre con la descrizione del ragazzo che, in una serena mattina di settembre, canta «un’arietta popolare… con voce chiara e melodiosa»: è allegro, soddisfatto di sé e innamorato. La sua ragazza Agnes è bionda, dolce, compiaciuta (ma senza civetteria) di vedersi circondata da un nugolo di esuberanti ammiratori. I due innamorati (“Romeo e Giulietta nel villaggio”, per citare il famoso romanzo di Gottfried Keller di ambientazione simile), sono invidiati e presi in giro dagli altri lavoratori, con scherzi e motteggi che Agnes sa accettare con ingenua e innocente familiarità, ma che fanno infuriare il gelosissimo Will, pronto a sfidare a pugni i pretendenti più sfacciati.

Hamlin Garland si dimostra perspicace psicologo nel tratteggiare gli incubi rabbiosi che tormentano il ragazzo, i suoi esagerati sospetti, le sue paure di tradimenti a abbandoni, «la ferocia del selvaggio medievale che era in lui». Per un malaugurato equivoco, i due fidanzati non si raggiungono a un appuntamento, e Will, sentendosi ingannato, fugge lontano dal paese, abbandonando il lavoro, la scuola e l’amata. «Nel turbine delle passioni che lo stordivano, aveva una sola idea chiara: andar via, andare all’ovest, sottrarsi agli schemi e alle risate dei vicini, e farla finita di soffrire per tutto ciò». A prezzo di pesanti sacrifici, otterrà di fare fortuna in un altro stato, senza però riuscire a dimenticare Agnes. Tornando dopo sette anni, ricco e indurito, la troverà sposata con l’ammiratore di allora, madre di un bambino e costretta a una vita di fatiche e umiliazioni. Sempre innamorato e caparbio, le farà una proposta temeraria, aspettandosi da lei una decisione altrettanto coraggiosa e aperta a un futuro di riscatto: «Vedi il sole che splende su quel campo di grano? È là che ti porterò… fuori, al sole». Il racconto di Hamlin Garland, a dispetto di qualche ridondanza retorica e ingenuità espressiva, si offre nella sua naturale luminosità a testimoniare l’immiserito ambiente sociale e il conformismo mentale degli abitanti della provincia americana a cavallo tra 800 e 900.

 

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www.sololibri.net/amore-strada-secondaria-Garland.html                  4 maggio 2017

 

 

 

RECENSIONI

GATES-FRANCO

BILL GATES-MASSIMO FRANCO, SONO UN OTTIMISTA GLOBALE

IL SAGGIATORE, MILANO 2017

Le sei fotografie poste a conclusione del volume-intervista che Massimo Franco dedica a Bill Gates sembrano voler confermare le veridicità del titolo, Sono un ottimista globale: tutte ritraggono infatti l’ultramiliardario sempre sorridente, già da quella segnaletica scattatagli dalla polizia nel 1977 per violazione del codice della strada, fino all’ultima che lo immortala mentre il presidente Obama gli cinge al collo la Medal of Freedom nel novembre dell’anno scorso.
Un vincente assoluto, il ceo di Microsoft, che ama definirsi “innovatore radicale” nel colloquio avuto mesi fa con il giornalista del Corriere all’hotel parigino Four Season: né imperatore né rivoluzionario, ma intellettuale organico della globalizzazione, capitalista filantropo, campione della positività. Massimo Franco, nell’introduzione che riassume e commenta puntualmente l’ora di conversazione tenuta con l’uomo più ricco del mondo (novanta miliardi di dollari di patrimonio), ci dà di lui una descrizione accurata ed empatica: di una semplicità disarmante, vestito senza ricercatezza, concentratissimo in ogni risposta, schematico e preciso nell’esporre con voce metallica le sue tesi, oscillante sulla sedia in un dondolio continuo, abitudine che pare appartenergli dalla prima infanzia.
Bill Gates è nato a Seattle nel 1955 da una facoltosa famiglia di avvocati, ha abbandonato ventenne gli studi di legge ad Harvard per creare una propria società di produzione di software per computer, la Microsoft, che in breve tempo è divenuta leader mondiale nel campo dell’informatica. Nel 1994 ha sposato la sua collaboratrice Melinda French, da cui ha avuto tre figli: con lei ha fondato nel 2000 un’associazione benefica che si occupa di aiutare le popolazioni più svantaggiate del mondo. Nell’intervista concessa a Franco ripercorre le tappe significative della sua vita e tratteggia la propria visione ottimista e propositiva del periodo che stiamo vivendo, sottolineando il dovere che tutti abbiamo di guardare al futuro in modo costruttivo e fiducioso. Secondo Gates, negli ultimi vent’anni l’umanità ha compiuto progressi giganteschi nel combattere povertà, fame, analfabetismo, malattie, sfruttamento e schiavitù anche nei paesi sottosviluppati, e deve continuare a coordinare capitali e talenti intellettuali per progredire ulteriormente in questo senso, aiutata proprio dalla diffusione capillare della cultura digitale. Nella sua visione utopistica del futuro, non saranno le guerre diffuse ma controllabili, né l’immigrazione selvaggia (che se organizzata può anzi costituire un incredibile vantaggio per le nazioni occidentali avanzate) a costituire un pericolo universale, quanto piuttosto l’imprevedibile e poco arginabile propagarsi di epidemie, di virus e infezioni letali. Proprio per combattere questo pericolo, l’imprenditore ha deciso di investire in beneficienza (attraverso la Bill & Melinda Gates Foundation e il Global Fund) il 95 % del suo patrimonio, con l’obiettivo di sconfiggere malattie quali l’AIDS, la malaria e la tubercolosi, attraverso infrastrutture sanitarie adeguate e una corretta educazione sanitaria. Solo accelerando l’innovazione tecnologica, incrementando le tecniche agricole, ottimizzando l’istruzione si possono arginare i flussi migratori verso l’Occidente e convincere singoli e famiglie non abbandonare il loro paese d’origine. Gates confessa a Massimo Franco di essere rimasto traumatizzato nel 1993, durante un viaggio in Africa Orientale, dalla visione dell’estrema povertà di quelle terre, e di avere deciso allora di volersi dedicare all’encomiabile scopo di aiutare il terzo e quarto mondo a uscire dal suo stato endemico di deprivazione: supportato in questa sua decisione non solo dalla moglie, dai collaboratori e da altri generosi magnati americani, ma anche dalla lettura di libri illuminanti come quelli dello psicologo Steven Pinker, o di economisti, scienziati e mental trainer. Cambiare in senso positivo il proprio approccio alla quotidianità, impegnarsi con disciplina a migliorare se stessi, sforzarsi razionalmente e con volontà di raggiungere mete sempre più ambiziose, aiuta ad arricchire non solo la nostra individualità, ma anche il mondo che ci circonda.

 

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www.sololibri.net/Sono-un-ottimista-globale-Gates.html        18 aprile 2017
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GENET

JEAN GENET, POESIE – GUANDA, MILANO 2018

Su Jean Genet si è scritto di tutto. Lui stesso ha scritto di tutto sulla sua vita memorabile, oscena, truffaldina, illegale, blasfema, autodistruttiva, vagabonda, fuori controllo. Nato a Parigi da padre ignoto nel 1910, affidato dapprima all’assistenza pubblica, quindi adottato da una famiglia contadina premurosa e attenta, già dall’infanzia manifestò atteggiamenti antisociali e ribelli, macchiandosi di piccoli furti ed esibendo provocatoriamente la sua attrazione per uomini più adulti, specialmente se violenti o emarginati. I frequenti arresti e la detenzione in diverse prigioni, cristallizzarono in lui sia le inclinazioni omosessuali, sia una morbosa fascinazione verso le manifestazioni di brutalità fisica.  Arruolatosi nella Legione Straniera, furono i paesaggi africani e mediorientali, e l’indigenza dei popoli oppressi dal colonialismo occidentale, ad acuire il suo già risentito disagio verso la civiltà e i costumi francesi. Tornato a Parigi, si avvicinò a posizioni filonaziste e collaborazioniste, diventando l’amante di un SS, e continuando a vivere di stratagemmi e di furti, soprattutto a danni di biblioteche, musei e negozi di antiquariato.

Negli anni 40-50, iniziò a pubblicare, spesso in forma anonima e clandestina, poesie (Il Condannato a Morte, 1942), romanzi (Il miracolo della rosa, 1944; Nostra Signora dei Fiori, 1946; Querelle de Brest, 1947; Diario di un ladro, 1949), opere teatrali (Le serve, 1947; I negri, 1958): testi ritenuti pornografici e iconoclastici, che gli procurarono successo e pesanti critiche, censure e prestigio. Apprezzati in particolare dall’intellettualità francese più impegnata, vennero celebrati per il loro ingenuo ma eversivo primitivismo da Jean Cocteau, Simone de Beauvoir e Jean-Paul Sartre. Proprio a quest’ultimo Genet dovette la sua consacrazione letteraria, determinata dalla pubblicazione del saggio Santo Genet. Commediante e martire, del 1952. In esso, Sartre innalzava a paradigma l’intera esistenza dello scrittore capace di trovare nella bassezza e nell’abbrutimento un’ascesi verso la libertà del pensiero e della creazione, persino contraffacendo la sua stessa biografia, in un camuffamento trasgressivo del guitto che brama fare di sé una leggenda vivente, un mito, e appunto un santo. Gli ultimi anni di Jean Genet furono votati alla lotta politica in favore dei movimenti progressisti e rivoluzionari: le Pantere Nere negli USA, i Palestinesi dell’Olp, la Rote Armee Fraktion, gli sfruttati e i diseredati. Visse deliberatamente ai margini della società, alloggiando in alberghi di quart’ordine, o facendosi ospitare da compagni di lotta in giro per il mondo: infine, debilitato dall’abuso di droghe e psicofarmaci, morì di cancro in un hotel parigino nel 1986 e fu sepolto per suo volere a Larache, in Marocco.

Il libro di poesie recentemente pubblicato da Guanda, con testo francese a fronte, raccoglie versi che si riallacciano ai temi della produzione narrativa e teatrale, fortemente ideologizzati in senso antiborghese e anarchico. La critica totale al sistema sociale dell’Occidente trova qui una corrispondenza formale sia nel recupero di toni classicheggianti, quasi barocchi, sia nell’approdo all’oniricità fantastica del surrealismo. La tensione provocatoria si esprime nella scelta di un linguaggio crudo, di. termini gergali, di descrizioni che rasentano l’oscenità: i sei poemetti presentati, quasi tutti in quartine regolari, spaziano nei contenuti dalle esperienze carcerarie all’amore, dalle descrizioni dei bassifondi al rifiuto di ogni convenzione sociale. Il primo poemetto, forse il più noto, è Il Condannato a Morte, del 1942, dedicato a un giovane e affascinante compagno di prigione, giustiziato nel ’39 nel carcere di Saint-Brieuc. L’attacco manifesta una luminosa e inquieta visionarietà, che spesso ritorna, con metafore ispirate soprattutto alla natura, nei versi successivi: «Il vento che trascina un cuore sul lastrico delle corti; / Un angelo che singhiozza impigliato su un albero, / La colonna azzurra inquadrata dal marmo, attorcigliata, / Nella mia notte fanno aprire uscite di sicurezza». Ma i momenti idilliaci vengono subito corretti da insistite metafore erotiche, da esplicite esaltazioni di genitali maschili, da descrizioni di amplessi violenti: «Adora in ginocchio, come alla gogna sacra, / Il mio torso tatuato, adora fino alle lacrime / Il mio sesso che urta colpendoti come un’arma, / Adora il mio bastone che adesso ti penetra».

La traduzione meditatamente intensa del curatore Giancarlo Pavanello ha scelto di rendere in maniera sobria ed equilibrata l’alessandrino molto ritmato e rimato dell’originale francese, che invece evidenzia una cadenza quasi ossessiva, come ossessivamente tornano immagini e concetti legati al desiderio sessuale, all’esplorazione dei corpi, alla volontà di possesso, nel dominio e nella sottomissione. Genet, nella costrizione di una cella, esplode in inni panici alla libertà e alla fisicità negate, con una sensualità rabbiosa e irrefrenabile: «Divaga, mia Follia, per la mia gioia partorisci / Un consolante inferno popolato di bei soldati, / Nudi fino alla cintola, in braghe resèda, / Butta i pesanti fiori il cui odore mi folgora. // Strappa da non si sa dove i gesti più folli. / Rapisci giovanetti, inventa torture, / Mutila la Bellezza, sfregia i volti, / E ai ragazzi da’ appuntamento alla Guyana»; «Incolla il corpo estasiato sul mio che muore / D’inculare la più tenera e dolce canaglia. / Palpando incantato i rotondi biondi coglioni, / Il piolo di marmo nero ti entra fino al cuore».

C’è sadismo e terrore, brama e cupio dissolvi, in queste poesie, che mantengono evidenti reminiscenze di Villon, Sade, Rimbaud, Artaud. Muri, passaggi sotterranei, brande, cancellate, sbarre sono gli elementi oggettivi degli interni, insieme al buio, al tanfo, alla nausea: l’esterno è parimenti minaccioso, con i cieli in tempesta, nubi, folate fredde di vento e il richiamo imperioso del mare. Nel terzo poemetto, La Galera, quello di Genet è tuttavia un mare letterario e antico, che ricorda molto Coleridge, popolato da velieri e ciurme, masnadieri e galee, stive e furfanteschi mozzi, nella memoria mai sopita di amplessi giovanili con esuberanti marittimi, già celebrati in Querelle de Brest (1947), mito omoerotico portato sullo schermo da Fassbinder nel 1982: «Un ragazzotto  ben piantato fra onda e vento / Con la bocca scheggiata dove spesso vedevo / Impigliarsi la pipa alle mie femminee sottane / Questo mino passava terribile fra le orifiamme… La testa mi si impantanava fetida, solitaria, / Nel fondo del mare del letto del sogno degli odori / Fino a non so quale assurda profondità».

Il fascino seduttivo dell’acqua torna nell’ultima composizione, Il pescatore del Suquet, dialogo amoroso dedicato all’innocenza impudica di un ragazzo posseduto tra i canneti di una spiaggia: «Intorno a lui il tempo, l’aria, il paesaggio divenivano incerti. Steso sulla sabbia, ciò che scorgevo fra i rami divaricati delle gambe nude tremolava. La sabbia conservava la traccia dei suoi piedi, ma conservava anche la traccia di un sesso commosso dal calore e dal turbamento della sera. Luccicavano i cristalli… Da quella notte amo il fanciullo malizioso, leggero, lunatico e vigoroso il cui corpo fa fremere, avvicinandosi, l’acqua, il cielo, gli scogli, le case, i ragazzi e le ragazze. E la pagina sulla quale scrivo». Poeta del corpo e della fame feroce di corpi, Jean Genet ha trovato la sua santità nella celebrazione del male, come scrisse Sartre, a cui abbandonarsi senza coscienza e senza resistenza. Voluttà di perdersi perfettamente espressa negli ultimi versi di questo libro: «Perché scorro via diventando palude / Dove la notte va a illividire i fuochi fatui / Lingua di fuoco che veglia il mio passaggio».

 

© Riproduzione riservata                        «Il Pickwick», 11 settembre 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

GENNA

GIUSEPPE GENNA, LA VITA UMANA SUL PIANETA TERRA – MONDADORI, MILANO 2015

Seguendo le indicazioni impartitegli dall’ «editore più importante dell’Italia… vestito al solito, un completo antracite argenteo… l’orologio massiccio di Rolex», Giuseppe Genna avrebbe dovuto scrivere un “thriller, azione, spy-story… un cazzo di storia semplice e leggibile” per rappresentare il male, quello che la gente vuole vedere e leggere, in cui ama riconoscersi.
Quale male più autentico, allora, di quello impersonato dal nazi-stragista norvegese Anders Behring Breivik, che il 22 luglio 2011 in poche ore sterminò 77 persone, di cui 69 adolescenti? Ma secondo Genna «Breivik non è il male. E’ il vuoto». E raccontare il vuoto non è facile.
In La vita umana sul pianeta terra, Genna cerca di delinearne i contorni, descrivendolo, recuperando anche cronachisticamente, con puntuali ricerche investigative, l’accaduto, e le sue inspiegabili spiegazioni. Ricostruire, quindi, l’infanzia anaffettiva e disturbata del mostro, l’adolescenza con i suoi complessi e le passioni, la sessualità morbosa, le letture fanatiche, le droghe, i rapporti con tutti gli estremismi di destra mondiali, i traumi. Ma «Qualunque trauma è secondario. Qualunque trauma non ha la forza di giustificare nulla».

Giuseppe Genna incastra il vuoto psichico ed esistenziale di Breivik nel vuoto sociale di tutto l’Occidente contemporaneo, lo confronta con il proprio vuoto, intercalando la vicenda biografica del nazista con la sua, confrontando la periferia di Oslo a quella milanese, il disagio delle masse giovanili norvegesi a quello dei ragazzi italiani. Indaga le proprie ansie, il proprio «terrore di vivere e di morire», scoprendosi «unico e interrotto», sperduto come tutti, come tutti su questo nostro pianeta Terra riecheggiante «l’urlo della scimmia antenata».
Breivik alias Hitler, sterminatori di vittime che non sanno nemmeno più dichiararsi innocenti, e vagano come fantasmi muti implorando giustizia o vendetta. Ma «Questa è l’epoca. Non è follia. E’ seriale. Ogni mito è muto… Senza niente se non questo niente».

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Vita-umana-terra-Genna.html    16 maggio 2016

RECENSIONI

GENNA

GIUSEPPE GENNA, ITALIA DE PROFUNDIS – MINIMUM FAX, ROMA 2014

Basterebbero da sole le paginette introduttive, il “Non inizio”, per convincere il lettore del livello non solo stilistico, ma anche emotivo e culturale della prosa di Giuseppe Genna. “Italia de profundis” è un romanzo caleidoscopico, in cui si trova di tutto: a partire dall’analisi lucidissima e sconfortata dei miti e dei riti di questo nostro Paese, sempre più involgarito e incapace di rigenerarsi (l’autore non salva niente in questa sua discesa negli inferi quotidiani della pancia molle italiana: politica, religione, istruzione, editoria, mondo mediatico, moda, rapporti interpersonali, amore, famiglia…).
Ma troviamo anche pagine di spaesato turbamento, di buio terrore nella descrizione della morte del padre, figura preziosamente simbolica di pulizia morale e sconfitta sociale, che torna ripetutamente a riflettere la sua ombra nelle giornate del figlio.
Troviamo l’amore perso perché eccessivo, non dominabile, e non comunicabile.
Troviamo “quattro storie di merda” da non ricordare, con esperienze disperanti di utilizzo di droga, o squallidamente oscene di prostituzione transessuale, o sofferte nel coinvolgimento in un episodio di eutanasia.
E questo continuo, micidiale, impietoso scorticamento del proprio io psichico: l’analisi morbosa e autopunitiva dei propri fallimenti, dei complessi, delle viltà, insieme al compiacimento esibito della propria intelligenza, e all’esaltazione dei rari momenti di successo mondano.
Un’ironia che diventa spesso scherno sogghignante (ma anche amarissimo) di fronte ai comportamenti più conformistici e beoti della massa, come nelle esilaranti pagine finali su una vacanza in un villaggio turistico in Sicilia. Mai nessuna indulgenza, verso di sé e verso gli altri; mai un sorriso, una carezza. Sempre, invece, l’ansia divorante di vivere tutto, di essere tutto, e poi di annullarsi. Burroughs e Plotino, Eliot e i Kraftwerk, sciamanesimo e David Linch. Soprattutto troviamo una straordinaria abilità di scrittura.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Italia-De-Profundis-Genna.html;     23 marzo 2017

 

RECENSIONI

GENNA

GIUSEPPE GENNA, HISTORY – MONDADORI, MILANO 2017

Questo nuovo romanzo di Giuseppe Genna (che si conferma essere il più funambolico, metafisico e carnale, politico e antipolitico, dei nostri narratori) si intitola History, a suggerire l’ambizioso progetto di una scrittura capace di fondere insieme passato e presente, vicenda individuale e destini universali, mito-scienza-cronaca-religione in una scrittura onnivora, lampeggiante, complessa. Un libro di grande rilievo, quindi, come a me sono sempre parsi tutti quelli scritti da questo autore di origini siciliane, nato a Milano nel 1969, che sa spaziare dal pamphlet alla giallistica, dalla biografia storica alla fantascienza, dalla critica sociale a quella letteraria.

Il primo dei sei capitoli in cui si suddivide il corposo volume si apre sull’agonia del nonno novantenne del protagonista bambino, nell’atmosfera morbosa e lugubre di uno squallido appartamento in un caseggiato popolare della periferia milanese. Il vecchio fatica a morire, i parenti riuniti intorno a vegliarlo sembrano insofferenti (se adulti), spaventati o ipnotizzati dalla rivoltante fisicità della malattia, se ragazzini («Perché siamo nei corpi, o dio padre?»). Il terrore e lo schifo del nipotino si mescola all’osservazione minuziosa dello scrittore adulto, nella descrizione dei volti, degli atteggiamenti e dell’arredamento fatiscente, insieme a slabbrati e rabbiosi ricordi infantili, a squarci di cronache lontane (Alfredino Rampi, Aldo Moro, Manuela Orlandi…), che sempre insistono sulla violenza fatta a chi non può difendersi. Allora l’hinterland proletario diventa teatro della millenaria sopraffazione dei ricchi sui poveri, e si anima di “un assolutismo di desolazione”, di “sconsolatezza” nel grigiore degli ospizi per vecchi, degli uffici comunali, dei giardinetti spelacchiati, delle architetture fasciste, delle parrocchie deserte; ma anche nella sordida brutalità del macello comunale, nella disperazione dei tossici o nella minaccia costante del pedofilo del quartiere. L’infanzia è mitizzata solo in quanto appartiene al passato, e perché «crescere significa diventare cadaveri a metà». Una volta divenuti adulti, falsi e colpevoli sempre, «siamo qualunque cosa, siamo una cosa qualunque».

Su questa intercambiabilità e interdipendenza dei destini umani, proiettati nei capitoli successivi in un’attualità e in un futuro sinistramente indecifrabili, si interroga Giuseppe Genna. Dopo lo straordinario ANTEFATTO introduttivo, la sua scrittura s’incunea feroce nel presente di questa nostra Italia malata e insoddisfatta, che arranca dietro ai modelli mondiali di un progresso disumano, fantascientifico, distopico. Dal ritratto esilarante del Ministro della Cultura, inadeguato al suo ruolo e insulsamente enfatico, si passa alla spietata disamina dei miti contemporanei della supermassa, imbottigliata nelle autostrade e negli autogrill, cementata in grattacieli iperbolici dai giardini pensili, mimeticamente rimbambita dalla «festa macabra euforica» di Halloween: robotizzata, disanimata, omogeneizzata, spiata, corrotta, controllata da droni e computer e finanza marcia. «Il denaro ha raggiunto una tale estensione e intensità, scomparendo dietro quinte poste dietro quinte che stanno dietro quinte, indefinitamente, il denaro ha raggiunto un tale stadio evolutivo che: non esiste più».

In questo quadro desolante di umanità sorvegliata ed eterodiretta nemmeno l’arte si salva, e anche la coscienza dell’intellettuale si riduce al ruolo di grillo parlante, di vox clamans fagocitata dal potere. L’autore viene reclutato dal grande editore che non è più interessato alla sua opera, ma solo a controllare la sua mente, esattamente come controlla la mente di tutti. L’incontro deflagrante e rivelatore avviene inaspettatamente con una bambina autistica, History, figlia di un tycoon dell’economia meneghina, che oppone l’impenetrabilità sofferente del suo cervello alla permeabilità empatica altrettanto sofferente dello scrittore. I due, entrambi vittime di un esperimento scientifico che li sovrasta e finisce per annullarli in una reciproca dipendenza, scoprono una solidarietà quasi fisica, animalesca, che si oppone alla macchina incaricata di decifrare i loro linguaggi, decodificandoli e ricomponendoli, modificandoli per renderli innocui. Malattia e disagio diventano l’unica resistenza possibile contro la civiltà dei tecnopoli ideati dal capitale finanziario, e le poche individualità che tentano una ribellione (un parroco profetico, una sensibile psichiatra, un figlio disperato) sono alla fine ridotte al silenzio.

Giuseppe Genna, maestro nel rappresentare soprattutto la morsa del dolore per cui non esiste consolazione, è consapevole di avere scritto pagine su «lastre di oro mentale», in uno stile caleidoscopico che sembra voler sbranare se stesso, trafelato, corrosivo, sarcastico, poetico, osceno e puro, violento e delicato, ansimante in termini sempre più specialistici – tecnologici, medici, filosofici – e in anglicismi, quasi ad indicare uno spossessamento incontrollato della sua stessa scrittura. Ma quello che gli preme è fare arrivare al lettore un messaggio terrorizzato e terrorizzante riguardo al futuro che ci aspetta, fagocitante, per annullarci come individui: «Non siamo più niente! Più niente!»

 

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www.sololibri.net/History-Giuseppe-Genna.html          5 ottobre 2017

 

 

RECENSIONI

GERMANI

MAURO GERMANI, VOCE INTERROTTA – ITALIC PEQUOD, ANCONA 2016

Mauro Germani, nato a Milano nel 1954, ha fondato e diretto per un decennio la rivista Margo, e ha pubblicato diversi saggi di letteratura, insieme a numerosi volumi di narrativa e poesia.
Con questo libro di versi, Voce interrotta, si situa nella corrente della produzione elegiaca, intimistica, assolutamente sentimentale, dedicata alle intermittenze del cuore e della memoria, al recupero del passato, alla nostalgia impalpabile per tutto ciò che si è perduto.

La sua è infatti una scrittura segnata da una perdita, da una ferita che si teme non rimarginabile: da trattare, quindi, con estrema delicatezza, con attenzione protettiva.
Lo scenario che fa da sfondo a queste poesie è quello, urbano e indifferente, di una Milano impenetrabile, da percorrere a piedi o con i mezzi pubblici, cercando di ritrovare se stessi o un’eco solidale in qualche presenza umana: «Mi sono dimenticato / sul tram / e adesso non so / dove andrò», «case / senza nessuno», «la fine dentro l’asfalto», «quella voce che giurava la notte / e decideva nei palazzi / vuoti».

L’autore patisce un’assoluta e incomunicabile solitudine, rassegnato alla non speranza più che alla disperazione («Sarò alla vita / come un nome sbagliato»), metaforizzata in immagini negative di fulmini, buio, crolli improvvisi, incendi, frane. E lentamente si fa strada nel lettore l’intuizione che questo dolore rappreso sia dovuto a una mancanza incolmabile, a un lutto familiare mai del tutto esplicitato: «adesso che sei nostro / e ci ami, / ci ami ancora / come un bambino», «attese / di nebbia e di nulla», «Di chi questo volto / assalito dall’ombra, / questo sguardo / d’abisso / fuggito dal mondo?», «Da troppo tempo siamo vivi / e lontani, da troppo / nomi perduti / in bocca alla notte».

Una notte che ingoia presenze amate e non più recuperabili, rimpianti, dialoghi supposti che si riducono a monologhi amari, nel rincorrere «passi / quasi a mezz’aria, / senza più carne». Alle prime tre sezioni di  Voce interrotta, raccolte sotto il titolo allusivo Dissolvenze, segue un Poemetto delle verità presunte o degli osservatori osservati, in cui Mauro Germani sembra cedere all’incubo dello sdoppiamento, del giudizio implacabile di un tribunale, in un crudele gioco degli specchi che lo vede artefice e vittima allo stesso tempo, accusatore e accusato, in un’atmosfera kafkiana di misteriosa persecuzione: «io spio loro / che spiano me», «mi maledicono / sempre, mi / tengono appeso / nel vuoto, / mi promettono una vita / di nomi innocenti / di assassini sicuri», «mi nascondo sempre / eppure mi guardano».

 

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www.sololibri.net/Voce-interrotta-Mauro-Germani.html      6 luglio 2016