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RECENSIONI

GEZZI

MASSIMO GEZZI, IL NUMERO DEI VIVI – DONZELLI, ROMA 2015

Massimo Gezzi (1976), marchigiano residente oggi in Ticino, pubblica da Donzelli questo volume di poesie fortemente connotate da una severa esigenza etica, e dalla volontà di aderire al reale, anche quando esso si proponga a noi nelle sue imperfezioni, nelle sue distratte ambivalenze. C’è un continuo interrogarsi, in questi versi, su cosa si debba intendere per esistenza, anzi per coesistenza con se stessi e con gli altri, nella vita familiare e sociale, nella contingenza quotidiana: «Mentre sei qui che respiri e guardi i boschi…». E da questo assillante rimettersi in discussione, Gezzi fa derivare propositi e indicazioni di comportamento, suggerimenti morali, in una tensione didascalica che forse niente ha da spartire col cristianesimo, o con l’impegno politico, ma senz’altro rimane un richiamo potente alla solidarietà e alla comprensione umana: «Difendi questa luce, se sei un nulla / come tutti. Difendi questo nulla / che non smette di essere. Smetti di tirare / righe scure, di cancellare. Tocca il tavolo, la carta. / Impara un’altra volta a fare di conto: / non sottrarre allo zero, aggiungi uno».

Troviamo nella scansione delle sezioni e nella disposizione delle poesie quasi un’ossessione aritmetica, che partendo dallo zero definisce titoli e successioni secondo i numeri cardinali, nell’auspicio di una crescita di consapevolezza e di generosità. Ma sempre con la discrezione di chi non ha certezze, non ama imporsi, nutre in sé più interrogativi che affermazioni: «Non hai torto, non hai ragione»; «c’erano tutte le risposte, / non ce ne sarebbero state mai».
L’osservazione del mondo è attenta e partecipe: ambienti, oggetti, luoghi, corpi (con una particolare sensibilità verso persone sofferenti, malate, anziane) vengono raccontati con diligente scrupolo documentaristico, esprimendo un intenso gusto visivo per i colori, gli interni delle case e la natura.
Da insegnante, Gezzi sembra prediligere il rapporto con i giovani, dentro e fuori la scuola, soprattutto quando li avverte indifesi e spaesati. Da padre, dedica tre belle poesie alla sua bambina, già immaginandola in un domani che potrebbe delinearsi sia roseo sia problematico, ma comunque sempre arricchente e simbiotico: «Ogni giorno ti indovino in qualcuna, / ti spio nel futuro, ti proietto / negli spazi che saranno solo tuoi. / Quando non ti vedo, e ho paura che non arrivi, / butto un libro lì vicino, / tengo un posto per te».

Da poeta, sembra cercare un timbro maggiormente sicuro e personale, essendo forse consapevole della propria originalità più contenutistica che formale, e riconoscendo un debito evidente verso la tradizione italiana (si avvertono echi di Luzi, e della musicalità minimalista di Pusterla) e francese (Jaccottet e Bonnefoy). Massimo Gezzi conserva, come molti altri poeti a lui coetanei, una sorta di manierismo descrittivo, concretizzato spesso in elenchi tripartiti di sostantivi che danno un ritmo cadenzato al verso: «Pareti, porte chiuse, fiumi che si disperdono»; «i libri, / le cornici, le piante tese»; «scheletri / composti, tibie, crani fracassati»; «arcate, muri, / volte di granai»; «due orecchie, due gambe, due polmoni»; «le pentole, / lo zucchero, le piante del balcone»; «la pazienza, la nascita, l’istante dell’amore». E sottolinea coerentemente la sua scelta di mettere una sordina espressiva a toni e modi, optando per una delicatezza del sentire che non risulti mai coercitiva, ma sappia suggerire «il bene delle cose che esistono»… «sperando che il bene sia più ubiquo del male».

 

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www.sololibri.net/Il-numero-dei-vivi-Massimo-Gezzi.html       2 settembre 2015

 

RECENSIONI

GEZZI

MASSIMO GEZZI, UNO DI NESSUNO – CASAGRANDE, BELLINZONA 2016

Il poeta marchigiano Massimo Gezzi, che da anni vive e insegna in Ticino, ha pubblicato presso l’editore bellinzonese Casagrande un poemetto in undici stanze, ripercorrendo la vita e l’opera tragica di Giovanni Antonelli. Le ricerche, pazienti e accurate, sul “poeta pazzo” suo concittadino (Antonelli nacque a Sant’Elpidio a Mare nel 1848, e morì ad Ancona nel 1918) hanno occupato Massimo Gezzi per più di due anni, dando infine luogo a questa pubblicazione, consistente in una ricostruzione in versi delle vicende biografiche del protagonista, e nella successiva scansione in note illustrative delle poesie. Le quali, in un tono pacatamente narrativo, scevro di qualsiasi lusinga o espediente linguistico-formale, ripercorrono in prima persona l’esistenza raminga e infelice di “uno” appartenuto solo a se stesso, Uno di nessuno, appunto, in esilio perenne e straziato. “Più mastino che uomo”, “erba avvelenata che crebbe / disprezzata come ortica del fosso”

Giovanni Antonelli venne al mondo nella primavera del 1848, nell’anno delle rivoluzioni che sconvolsero Italia ed Europa, e fu da subito egli stesso segnato da un’inquietudine ribelle (“Provai subito sdegno del pantano / natale”) che lo spinse a imbarcarsi come mozzo a tredici anni. Violentato sessualmente, picchiato, schernito da ciurma e ufficiali, spesso segregato in una cella di rigore, si congedò dalla marina dopo dodici anni di sofferenze e soprusi. Diventò adulto tra fame e malattie, ricoveri e latitanze, fughe e peregrinazioni a piedi attraverso varie regioni, in un perpetuo “dolore da braccato”, rifiutato dalla famiglia e dal paese d’origine.
Più volte incarcerato, e ancora più spesso rinchiuso in vari manicomi, la sua violenta polemica contro la società si incancrenì in reiterate azioni di prepotenza e rivolta furente contro cose e persone, che riusciva a placare solo attraverso la scrittura di poesie e di diari autobiografici, la cui stesura talvolta gli venne consigliata e commissionata dagli stessi medici che l’avevano in cura. Si esibiva anche in letture pubbliche, raramente con successo, più spesso incontrando nel pubblico derisione o compatimento. “Ciabattini, sicari, rettili, zerbini, / raccogliete le monete che avete speso / per ascoltarmi. Non avrete le mie ossa, / non serberò il vostro ricordo”, “Andate, parole, calmate le mie angosce. / Evadete dalle carceri, ribellatevi a chi vi arresta, / lasciatemi l’illusione che qualcuno saprà / veramente chi siamo, se io sono / Antonelli e voi tutti siete me”.

La sua aspirazione a un riconoscimento tardivo si è realizzata solo recentemente, con la pubblicazione de “Il libro di un pazzo” presso gli editori Giometti & Antonello di Macerata, e con questo omaggio in versi di Massimo Gezzi.

 

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www.sololibri.net/Uno-di-nessuno-Massimo-Gezzi.html       21 novembre 2016

 

 

RECENSIONI

GHENO

VERA GHENO, CHIAMAMI COSÌ. NORMALITÀ, DIVERSITÀ E TUTTE LE PAROLE NEL MEZZO

IL MARGINE, TRENTO 2022

 

Vera Gheno (1975) è un’accademica, sociolinguista e traduttrice italo-ungherese. Si occupa prevalentemente di comunicazione digitale, e nei suoi numerosi interventi sulla stampa e nei seguitissimi social sostiene l’inclusività del linguaggio scritto e orale, contro ogni discriminazione di genere o etnia. In quest’ultima pubblicazione, Chiamami così (che riporta come esplicativo sottotitolo Normalità, diversità e tutte le parole nel mezzo), muove dalla considerazione che “Una realtà in trasformazione richiede pensieri e parole mutevoli, che si aggiornino in base alle esigenze delle varie componenti della società”: assodato quindi che il mondo in cui agiamo si sta trasformando continuamente e velocemente, soprattutto per impulso della globalizzazione e dell’avvento dei nuovi media, ne deriva che anche il nostro modo di esprimerci debba adeguarsi alla sua evoluzione.

In cinque brevi e stimolanti capitoli, Vera Gheno sottolinea la necessità non procrastinabile di riflettere, soprattutto nell’ambito della formazione – scolastica e non –, sulla rappresentatività sociale e linguistica, relativizzando punti di vista a lungo considerati come universali e riconsiderando in particolare i concetti di diversità e normalità. Quali e quante sono le caratteristiche peculiari che riteniamo ci differenzino all’interno di una comunità? Tra le altre, senz’altro il sesso biologico e l’orientamento sessuale, l’etnia e la provenienza geografica, la religione, l’istruzione, la disabilità, la neuro- diversità, l’età, il corpo, l’indole, le abitudini culturali, le possibilità economiche. Da ognuna di queste nasce una possibile discriminazione, classificabile con un nome: misoginia, omofobia, body-shaming, ageismo, xenofobia, ecc.

“Discriminare significa, letteralmente, operare una distinzione: va da sé che essa può avere un valore neutro, oppure produrre una differenza che va a discapito di una categoria, sancendo chi è «dentro» e chi è «fuori» da una norma”. Se consideriamo la diversità come uno scarto dalla normalità, e non nel senso più appropriato di varietà arricchente, finiamo per imporre artificialmente la nostra identità maggioritaria come modello assoluto a tutte le minoranze, rifiutando loro il diritto di autorappresentarsi. Viviamo infatti in una società normocentrica, che impone i suoi modelli canonici di bellezza fisica e prestigio economico-sociale, da raggiungere a tutti i costi per poter rientrare nell’agognata cerchia dei cosiddetti “normali”. Viviamo inoltre in una società androcentrica, in cui ogni tipo di potere è stato per millenni gestito da maschi, costringendo le donne a ruoli subalterni e ghettizzanti, continuamente ribaditi dalle parole che si utilizzano per abitudine, pigrizia, superficialità (“Ho sempre detto così!”).

Per cambiare questo stato di cose, per trasformare la mentalità pigramente imperante, dobbiamo agire in primo luogo mutando le nostre ossidate abitudini linguistiche. La maggior parte delle persone, tradizionalmente ostile alle novità, si trova in imbarazzo o manifesta fastidio verso i nomi femminili professionali: dire avvocata, sindaca, direttora, ministra, questora, crea disagio, mentre non provoca nessuno sconcerto dire infermiera, maestra, cuoca. Forse perché alcuni ruoli apicali sono appannaggio quasi esclusivamente maschile? Per favorire e incoraggiare la presenza sociale della donna in ogni campo lavorativo, si dovrebbe evitare di usare il maschile sovraesteso quando ci si rivolge a una moltitudine mista: se cambia la composizione della società, la lingua si deve evolvere di conseguenza. La linguistica, come l’architettura, la medicina e altre arti e discipline sono costruite secondo un’ottica assolutamente patriarcale, che mira a tenere divise e in stato di conflittualità tra loro le minoranze, in modo da poterle manovrare con maggiore facilità.

Quali strategie attuare per gestire correttamente le differenze? Parlare di inclusività è fuorviante perché indica un movimento non reciproco e sbilanciato tra chi include e chi viene incluso: meglio sarebbe agire con l’obiettivo di una convivenza delle differenze. “La diversità non deve essere ignorata ma celebrata, e nominata bene. Nominare in maniera corretta delle compagini della società che sono state fino a tempi recenti sottorappresentate linguisticamente fa sì che quelle minoranze acquisiscano una maggiore concretezza e diventino abituali agli occhi degli altri individui, ma anche ai propri stessi occhi…  Noi siamo tutti diversi, non tutti uguali, ed è giusto lasciare che la complessità della realtà modifichi la lingua”.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 22 luglio 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

GIGLIOLI

DANIELE GIGLIOLI, STATO DI MINORITA’ – LATERZA, BARI 2015

Daniele Giglioli, professore di Letterature comparate all’Università di Bergamo, ha dato alle stampe per Laterza questo interessante volume che coniuga insieme letteratura e sociologia, politica ed etica, cronaca e storia. In dodici capitoli, corredati da un essenziale apparato di note, l’autore si interroga, e ci interroga, sulla deriva democratica che stiamo vivendo, e a cui sembra ci siamo malinconicamente arresi, delegando ad altri (economisti, network, intelligence…) il diritto di agire, e di decidere delle nostre vite e delle sorti del mondo. Viviamo, quindi, in uno stato di minorità – come veniva definita da Kant, nel suo saggio sull’illuminismo, l’incapacità di valersi del proprio intelletto senza la guida di un altro -, e non ne siamo turbati. Se nel Novecento si lottava, anche sanguinosamente (guerre mondiali, terrorismi, attentati), presi da passioni, estremismi, faziosità partitiche, oggi – all’alba del terzo millennio – «la più cieca e insensata irrazionalità mercantile e finanziaria» ha spodestato il confronto politico tra gli individui, mentre l’interesse personale, la chiusura nel privato, la difesa egoistica del proprio benessere, il raggiungimento del successo spadroneggiano in ogni aspetto della vita pubblica e culturale. Giglioli avverte questa tendenza anche nella letteratura, italiana e internazionale, tesa a celebrare o rimpiangere il passato, in toni risentiti e amari; oppure a rispecchiare in maniera riduttiva scelte di vita individuali, spesso frustrate o sconfitte. E proprio alla letteratura l’autore si appella per meglio argomentare le sue tesi.
Lo fa appoggiandosi all’esegesi del romanzo-pamphlet di José Saramago Saggio sulla lucidità, del 2004. Seguendo le tracce narrative del Nobel portoghese, Giglioli analizza alcuni dei nodi centrali intorno a cui si avviluppa la riflessione contemporanea sull’essenza costitutiva del potere. Se l’allegoria di Saramago descriveva un’ipotetica città in cui gli abitanti votavano in massa scheda bianca alle elezioni, mettendo così in crisi tutto l’apparato amministrativo, e provocando una reazione quasi isterica da parte delle autorità, Daniele Giglioli respinge come inefficace qualsiasi posizione di puro rifiuto, e si chiede invece quale possa essere l’alternativa a una resa imbelle che inibisce le persone alla prassi, alla partecipazione politica attiva, lasciandole appagate della pura sopravvivenza materiale. L’aggressività, forse? O la fuga? Ovviamente, è da respingere qualsiasi soluzione violenta: «Il terrorismo è un delirio di onnipotenza cui sottende una condizione di impotenza radicale…Rappresentare i terroristi come dotati di un’incalcolabile potenza è una strategia retorica che serve a legittimare politiche securitarie, procedure di controllo, spionaggio generalizzato».

Se non si può e non si deve ricorrere all’insurrezione, altrettanto inefficace risulta l’atteggiamento rinunciatario, vittimistico, di evasione: «Non è tanto l’impotenza a garantire innocenza, ma la mancata assunzione di responsabilità per la propria inazione a generare il desiderio di sentirsi innocenti, cioè vittime».

Cosa suggerisce allora Giglioli (riprendendo molte tesi di Jan Spurk) per vincere l’apatia, la rassegnazione paralizzante a un’obbedienza di comodo a chi ci governa? Di tornare a essere partigiani, preferendo emotivamente il confronto anche conflittuale piuttosto che una concordia fasulla: affrontare il negativo, rendendolo produttivo. Ripartire, rinascere. «Senso di colpa per i passati errori e rimpianto per i passati splendori (le lotte, le conquiste, le vittorie anche se parziali) contribuiscono alla costruzione della gabbia che si tratterrebbe invece di rompere… Solo pensare l’azione sotto la specie della nascita – distacco, separazione, nuovo inizio – permette di essere di parte senza risentimento, se risentimento, come sapeva Nietzsche, è non perdonarsi che il passato sia andato come è andato». In una parola, uscire dallo stato di minorità, tornare a disporre della propria esistenza, individualmente e collettivamente.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/Stato-di-minorita-Daniele-Giglioli.html              4 ottobre 2015

RECENSIONI

GINZBURG

NATALIA GINZBURG, LA STRADA CHE VA IN CITTÀ – EINAUDI, TORINO 2018

“Aspro, pungente, pieno di sapori nuovi come un frutto appena un po’ acerbo, La strada che va in città è uno dei libri più belli di Natalia Ginzburg. È un libro senza rughe: non perde mai di freschezza, e mantiene intatta, a ogni rilettura, attraverso gli anni, la sua ruvidezza selvatica e adolescente”. Con queste parole Cesare Garboli presentò nel 1993 il romanzo da poco riedito nella collana economica ET di Einaudi. La Ginzburg l’aveva scritto a venticinque anni, durante il confino in un paesino abruzzese cui era stato condannato il marito Leone per antifascismo: si trattava del suo primo libro di ampio respiro, avendo in precedenza pubblicato solo racconti in rivista. Nel ’42 il romanzo uscì da Einaudi con lo pseudonimo di Alessandra Tornimparte. Giustamente Garboli sottolineava come in questa prima prova fossero già presenti i temi fondanti della narrativa successiva: la famiglia, con i suoi dissidi, scontri e incomprensioni: l’irrequietezza della protagonista femminile; le ambizioni di riscatto sociale; le delusioni sentimentali; il confronto città-campagna. Anche lo stile prelude a quello più collaudato e sicuro delle opere maggiormente note dell’autrice: dialoghi scarni e colloquiali, perlopiù intessuti di domande e risposte concise; scarse descrizioni dei luoghi e degli ambienti naturali, e invece rilievi attenti forniti ai visi, ai gesti, alle andature dei personaggi; linguaggio denotativo, che sembra voler rifuggire da qualsiasi commossa empatia, rifugiandosi nella stessa indifferente inerzia con cui vivono i protagonisti.

La storia è semplice: Delia è una ragazza diciassettenne che vive in un paesino lontano alcuni chilometri dalla città capoluogo. La sua è una famiglia modesta, composta dalla madre sarta, dal padre elettricista “stanco e rabbioso”, cinque fratelli e un cugino: “Si dice che una casa dove ci sono molti figli è allegra, ma io non trovavo niente di allegro nella nostra casa… Odiavo la nostra casa. Odiavo la minestra verde e amara che mia madre ci metteva davanti ogni sera e odiavo mia madre”. L’insofferenza che la giovane prova nei riguardi dei familiari rasenta l’odio, la non sopportazione, e la spinge ad allontanarsi quotidianamente dal paese per raggiungere a piedi la città vicina, dove passa il tempo a passeggiare nel corso, guardando le vetrine o visitando la sorella maggiore Azelia, sposata con un uomo che non ama e che tradisce senza alcun senso di colpa, abbandonandosi spesso a relazioni inconcludenti. Delia vorrebbe fare come lei, sposarsi per allontanarsi dalla famiglia che detesta e di cui si vergogna. Probabilmente ama ed è riamata dal cugino Nini, un operaio sensibile e colto, dedito all’alcol, ma per noia o disperazione si lascia sedurre e mettere incinta da Giulio, figlio del medico del paese. Costretta a nascondersi per evitare pettegolezzi e cattiverie, viene ospitata da una zia, in attesa del matrimonio riparatore continuamente rimandato, vivendo la gravidanza con un sentimento di estraneità e di esibito fastidio. Anche quando alla fine si sposa e partorisce, Delia non esce dal suo torpore, e la nuova esistenza in città, col marito e il bambino in un appartamento elegante, le rimane comunque indifferente: “Passavo le giornate a letto e verso sera mi alzavo, mi dipingevo il viso e uscivo fuori, con la volpe buttata sulla spalla. Camminando mi guardavo intorno e sorridevo con impertinenza”.

La bravura di una Natalia Ginzburg così giovane risiede essenzialmente nell’aver saputo rendere l’apatia sentimentale della protagonista, che di ciò che ha vissuto e vive in ambienti e con persone diverse sembra non comprendere e assimilare nulla, preferendo lasciarsi scivolare addosso gioie e dolori con la stessa noncurante insensibilità.

 

© Riproduzione riservata     

https://www.sololibri.net/La-strada-che-va-in-citta-Ginzburg.html            5 ottobre 2018

RECENSIONI

GIOVANNETTI

PAOLO GIOVANNETTI, LETTORE – LUCA SOSSELLA EDITORE, BOLOGNA 2019

In cinque succinti, ma densi e non facili capitoli, Paolo Giovannetti (Milano, 1958), professore ordinario di letteratura italiana contemporanea allo Iulm, illustra quale sia la morfologia e la funzione del lettore nel processo fruitivo della pagina scritta. Lettore, appunto, è il titolo di questo saggio, che si apre con la considerazione – ahimè, abbastanza risaputa – che il numero dei lettori (anche di quelli cosiddetti “deboli”, che non affrontano più di un libro l’anno) si sta progressivamente riducendo, in Italia e non solo. E che la metodologia di lettura si va trasformando in modo rapido, con l’avvento dei nuovi mezzi di comunicazione e di diversi supporti editoriali. Alla lettura profonda si è sostituita quella superficiale e veloce, basata su una ricerca ipertestuale di informazioni specifiche e dettagliate: notizie, riferimenti bibliografici, riassunti, mini-recensioni… I contenuti non vengono approfonditi o ampliati, ma scremati nella loro essenzialità, con un processo che in inglese viene chiamato skimming, e che secondo i più recenti studi neurologici pare produca una reale perdita di funzioni cerebrali. La lettura intesa come passione o godimento interiore, di cui parlava Proust nel 1905, non viene quasi più praticata, nemmeno per ciò che riguarda la narrativa (tanto meno quindi per la saggistica o la poesia), sostituita sempre più spesso da altre forme di intrattenimento visivo, o ibridata nei social con l’intervento scritto istantaneo, di risposta immediata al messaggio testuale recepito.

Paolo Giovannetti, che si occupa in particolare di transmedialità dell’esperienza sia narrativa sia poetica, indaga quale sia il rapporto tra comunicazione scritta e visiva. Il testo narrativo racconta qualcosa che si anima sotto i nostri occhi, attivando emozioni, producendo immagini, comunicando anche i pensieri e il mondo interiore dei personaggi narrati, che il lettore fa suoi, diventando di fatto co-autore: “il lettore vive un’esperienza emozionalmente intensa, cioè ‘immersiva’, separata dalla propria vita”. Roland Barthes sottolineava proprio questo ruolo attivo di chi legge: “Per restituire alla scrittura il suo avvenire, bisogna rovesciarne il mito: prezzo della nascita del lettore non può essere che la morte dell’Autore”.

Così, il romanzo modernista che sopprime la figura del narratore, diventando impersonale (Joyce, Kafka, Woolf, Faulkner…) e mettendo in primo piano la coscienza autonoma dei personaggi (soprattutto attraverso i monologhi interiori) si apparenta al linguaggio cinematografico, in grado di manipolare la realtà con un uso sapiente del montaggio che enfatizza i vuoti, l’ellissi, il sovrapporsi di scene e azioni. Nella narrativa moderna come nel cinema e nei videogiochi, l’utente-lettore-spettatore coopera alla costruzione della storia, addirittura la ri-costruisce, immergendosi nello svolgimento di una realtà fittizia, accedendo a un mondo altro, in cui si confonde “perdendo almeno in parte coscienza della propria vita”. La voce-guida dell’autore non appare più come necessaria, e il fruitore del messaggio integra la sua esperienza nella finzione cui partecipa, collaborandovi cognitivamente.

Chi è, in questa prospettiva, il lettore per Giovannetti, e quale funzione assolve nel suo approcciarsi a un testo? In primo luogo, bisogna rilevare l’assoluta necessità dell’attività di lettura, senza di cui anche l’opera più straordinaria finisce per non esistere. Secondariamente, è essenziale distinguere tra lettore reale, in carne e ossa, e lettore virtuale, teorico o “implicito”, “postulato dal testo in quanto garanzia del suo adeguato funzionamento”. Il primo può essere quantificato e studiato con dati empirici (ricerche di mercato, storiche, bibliografiche). Il secondo agisce in maniera meno decifrabile, ma indispensabile alla resa dello scritto letterario, proprio con l’adesione o mancata adesione ad esso. Un romanzo o una poesia producono in chi legge qualcosa che li eccede, conseguenze non sempre previste o volute da chi li ha scritti. “Il testo non esiste senza il lettore; ma, più profondamente, il testo prende la sua vera forma se il lettore ‘mette’ nel testo qualcosa che il testo non possiede, non manifesta in maniera esplicita o si limita ad accennare in maniera sommaria”.

A proposito della produzione poetica, Giovannetti scrive che esistono fondamentali differenze tra la sua ricezione e quella della narrativa: il ritmo e la sonorità dei versi la inseriscono in una dimensione di lettura prevalentemente orale, in cui la decifrazione del senso è secondaria rispetto alla fruizione eufonica. Inoltre, la sua natura lirica tende a esprimere emozioni soggettive e private, che producono nel lettore/ascoltatore echi complessi e sfuggenti, cali e picchi di attenzione, intermittenze e distrazioni, richiedendogli specifiche competenze interpretative e una costante rielaborazione personale.

In conclusione, la pratica della lettura si dirige verso approdi poco prevedibili, che possono annunciarne il tramonto definitivo o una improvvisa rinascita, con requisiti totalmente diversi da quelli tradizionali: in un’interazione fluida e corale con il mondo creativo della Rete, attraverso differenti supporti materiali e una transmedialità che potrebbe portare sia a una dipendenza superficiale, sia a un rivitalizzante arricchimento.

 

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/Lettore/Giovannetti.html        4 settembre 2019

 

 

 

 

 

RECENSIONI

GIRARD

RENÉ GIRARD, ANORESSIA E DESIDERIO MIMETICO – LINDAU, TORINO 2009

Il pensiero di René Girard (Avignone 1923) si è sempre originalmente situato, sia nella critica letteraria sia nell’antropologia, in vivace e coraggiosa polemica contro tutti gli “ismi” della filosofia contemporanea (dal freudismo al lacanismo, dallo strutturalismo al neomarxismo, dal femminismo al postmodernismo…), assumendo radicalmente una prospettiva cristiana di riflessione sulla società e sulla cultura. Tutta la sua opera ruota intorno a due perni concettuali, che sono il desiderio mimetico e il ruolo della vittima, intesa come capro espiatorio. Anche in questo piccolo volume, dedicato ai disturbi alimentari sempre più diffusi e contagiosamente dilaganti nel mondo occidentale, Girard assume una posizione caustica e minoritaria. Anoressia e bulimia non sarebbero secondo lui determinate da motivazioni inconsce (disturbi psichici, sessuali o relazionali), quanto invece da un desiderio mimetico suggerito o addirittura imposto dal pervasivo e ipnotizzante contesto sociale. La ricerca ossessiva di magrezza avrebbe pertanto un carattere eminentemente mimetico, indotto dall’imitazione dei modelli mediatici imperanti: esso produce, soprattutto nei giovani (ma non solo! esilaranti sono le pagine dedicate alle pratiche infernali dello jogging e della palestra tra gli adulti…) una sorta di temibile rivalità alla ricerca di un patologico primato di perfezione fisica. In “questo nostro stupido mondo” l’immaginario collettivo è dominato dall’obbligo di dimagrire, da “una fobia universale nei confronti delle calorie” che risucchia le persone nel vortice diabolico della futilità mimetica, facendone delle vittime, assoggettate alla feroce divinità dell’apparenza. “La nostra cultura assomiglia sempre più a una cospirazione permanente per impedirci di raggiungere gli stessi obiettivi che pervicacemente ci incita a perseguire”: siate magri, belli, vincenti. E soprattutto, infelici.

© Riproduzione riservata    www.sololibri.net/Anoressia-desiderio-mimetico-Girard.html        27 agosto 2017

RECENSIONI

GIRAUDOUX

JEAN GIRAUDOUX, LA LETTERA ANONIMA– VIA DEL VENTO EDIZIONI, PISTOIA 2021

Via del vento è una piccola e raffinata casa editrice di Pistoia, fondata nel 1991 dal pittore Fabrizio Zollo, che da allora è riuscito non solo a pubblicare importanti testi di narrativa e poesia di autori internazionali, costruendo un catalogo ricco e originale, aperto alla collaborazione di autorevoli studiosi e traduttori, ma anche a stimolare la vita culturale cittadina con molteplici iniziative: mostre, concorsi, dibattiti. I libri che vengono offerti ai lettori hanno la particolarità di essere costituiti di poche pagine, in genere non più di cinquanta: sono libriccini curati, eleganti, che propongono nomi rilevanti del nostro 900, soprattutto toscani (Bigongiari, Parronchi, Viani, Luzi, Manzini, Malaparte…), ma anche scrittori notissimi a livello mondiale e tuttavia lontani dalle mode imperanti e imposte dai media nazionali (Bousquet, Cendrars, Ramuz, MoNtero, Bonnard, Akutagawa…). I volumetti sono corredati da una breve postfazione critica e da una nota biografica sull’autore, e il loro prezzo non supera mai i quattro euro. Per inaugurare il trentesimo anno di vita delle sue edizioni, Fabrizio Zollo ha scelto cinque racconti brevi di Jean Giraudoux, pubblicati per la prima volta in Italia con il titolo La lettera anonima, traduzione e postfazione di Stefano Serri.

Jean Giraudoux (1882-1944), uno dei più rilevanti intellettuali francesi tra le due guerre, autore di romanzi, prose varie, testi teatrali e sceneggiature cinematografiche, è stato anche un importante diplomatico, rappresentante della borghesia laica e illuminata, impegnato nella difesa dei diritti umani. Con una scrittura elegante e ironica affrontò temi sociali e politici, non tralasciando di rielaborare i miti classici, trasposti in ambientazioni contemporanee e caricati di inquietudini psicologiche moderne, indagando con particolare finezza i caratteri femminili.

Le cinque novelle qui presentate (La panchinaGuiguitte e PouletLa lettera anonimaAl miglior offerente e L’equivoco) hanno come protagonisti uomini e donne che affrontano l’esistenza lottando contro un destino avverso (povertà, sfortuna, solitudine, pregiudizi) e contro la propria inettitudine, che li induce a perseverare sempre negli stessi errori. Quindi ci imbattiamo in mendicanti che si contendono furiosamente il posto su una panchina, in un aspirante suicida contrastato nella sua scelta di morte, in due fidanzati reciprocamente ignari della loro attività furfantesca, in un bigamo che si smaschera da solo per distrazione e in un uomo irresoluto perseguitato da lettere anonime, menzognere ma forse profetiche.

Giraudoux, con leggerezza e ironia, riesce a delimitare i confini dell’infelicità dei suoi personaggi in un ambito di rassegnata e paziente consapevolezza di ciò che è comune a tutti gli esseri umani. Convinto che la sofferenza sia inevitabile, prevedibile, scontata, suggerisce di accettarla, con umiltà e sottomissione. Non c’è violenza nei protagonisti delle sue storie, né ribellione contro le ingiustizie sociali: semmai un’arrendevole constatazione che la vita segue proprie regole, spesso casuali o inspiegabili.

Stefano Serri, nel suo conciso ma acuto commento, definisce giustamente l’autore “uno scienziato del sorriso”, per la sua stringente capacità di analisi, addolcita da una saggia e garbata clemenza.

Emozioni e passioni controllate con eleganza, contraddizioni comportamentali giustificate con generosità, soprusi pubblici e legali scherniti con saggio umorismo testimoniano la volontà, quasi l’ostinazione, di ribaltare il lato tragico della vita mostrando una sconfinata pietà per l’uomo, per le sue debolezze e le sue sciocche illusioni”.  Il distacco, la fine di un rapporto o di un’esperienza esistenziale, la stessa morte, sono considerate elemento ineluttabile e prestabilito del destino umano: ad essi ci si deve adattare, senza sconforto o inutile ferocia. Jean Giraudoux lo asserisce in una prosa scorrevole e raffinata, sorridendo.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 15 ottobre 2021

 

 

RECENSIONI

GIUDICI

GIOVANNI GIUDICI, FRAU DOKTOR – MONDADORI, MILANO 1989
PROVE DI TEATRO – EINAUDI, TORINO 1989

Credo sia capitato a tutti noi di provare un inconfondibile struggimento nel riascoltare una musica che ha segnato un momento particolare della nostra vita. Le note si portano dietro una frase, un amore, una città: e se non è detto che il ricordo sia sempre felice, la commozione è comunque intensa, ci fa per un attimo tacere se stavamo parlando, rallentare se in macchina correvamo. Per chi come me guada “nel mezzo del cammin”, saranno le canzoni dei Beatles o di Lucio Battisti a creare l’atmosfera da magone, per i più anziani Edith Piaf o Sinatra: tremo al pensiero che i nostri figli possano provare le stesse emozioni riascoltando Jovanotti o l’acid music. Tristi gli anni non segnati da canzoni, anni muti, forse anche di sentimenti, oltre che di note. I miei anni silenziosi sono stati quelli dell’università, troppo zitti forse perché troppo seri, e pieni di cose, di avvenimenti, di rabbie: dovessi nominare un cantante o un gruppo in auge intorno al 75, non me ne verrebbe in mente uno. Fumo nelle aule magne, tatzebao, manifestazioni e volantini, Capanna col megafono; ma nessuna canzone. Eppure, ad addolcirmi labbra mente e cuore in tanto impegno esaltato e frustrante, se non c’è stata musica, ci sono stati dei versi. Sì, per alcuni anni mi alzavo, vivevo, andavo a dormire ritmando il mio tempo sul leit motiv di qualche poesia. Avevo già letto e imparato a memoria molte cose di Saba, di Penna, di Caproni, e ciascuno di loro mi aveva lasciato un’eredità particolare. Ma è stato l’incontro con la poesia di Giovanni Giudici che ha cambiato il mio rapporto con la quotidianità, facendomi scoprire la poesia nelle-delle cose.

Dico che arriverai da un lungo treno del mattino. / E devo voltarmi a ogni socchiudersi di porta se non sia tu- / o trasalire allo squillo uguale / a ogni altro se mai non fosse la tua voce / dall’altro capo a parlare, immaginarmi / rispondendo nel tenore convenuto che / a tutti indifferenza significhi e a te / invece: dove sei, mio amore, mio benvenuto? / Quale dei lunghi treni ti porterà? / Quale dei lunghi treni ti avrà portato?

Sono versi tratti da La Bovary c’est moi, una delle prove più alte di Giudici, che io scoprii nell’Oscar Mondadori a lui dedicato nel 74: libretto segnato dagli anni e dalle mie intemperanze di allora, pieno di sottolineature, conservato con la cura che si dedica agli amuleti preziosi. Ho riletto lo stesso brano recentemente, in un numero della rivista Poesia in cui si offriva ai lettori un’antologia del percorso poetico dell’autore, insieme ad alcune sue illuminanti considerazioni sul come fare poesia. E subito, come appunto succede con le canzoni, mi è galleggiata dentro un’atmosfera, insieme alla pregnanza della strofa successiva:

«Ho guardato l’ora all’orologio sul muro. / Ho aspettato lo squillo già / scusato come e perché non hai potuto chiamarmi, / ho pensato: e pensare che ero qui sola. / Brevi minuti ancora mi restano per supporre / il tempo che tu raggiunga la strada della mia casa / e un suono di citofono a questi miei inferi emerga / definitivo come un lieto annuncio di morte… / Ti scambieranno per uno come un altro – ho scherzato. / Arriverai domani se oggi non sei arrivato».

Cosa poteva esserci nei versi di questo poeta da attirare così violentemente me ventenne? In fondo erano anni letterariamente tutti conquistati allo sperimentalismo, o allo più sboccato populismo, e Giudici si proponeva come una figura discreta, vagamente ironica e anche autoironica, molto lontana sia dall’immagine dell’artista maledetto sia da quella del vate che parla cripticamente. Mi è parso subito uno dei pochi che tentasse di coniugare caparbiamente etica e poetica, deciso a non rinunciare a un impegno più morale che politico dello scrivere, realista in un’epoca di formalismo, capace di indignazioni ma anche di grandi utopie, come indicano questi versi (cristiani? comunisti? Giudici accomuna le due filosofie in un’ampia preghiera di salvezza):

Da quanti anni non vedo un fiume in piena? / Da quanto in questa viltà ci assicura / la nostra disciplina senza percosse? / Da quanto ha nome bontà la paura? // Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura / che dice: domani, domani…pur sapendo / che il nostro domani era già ieri da sempre. / La verità chiedeva assai più semplici tempre. / Ride il tranquillo despota che lo sa: / mi calcola fra i suoi lungo la strada che scendo. / C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà.

Parole sferzanti, che invitano a fare i conti con l’anima e col corpo, con l’assoluto e il compromesso, con il destino e con la storia. La poesia successiva di Giudici (da Il male dei creditori a Lume dei tuoi misteri, fino all’ultimo splendido libro Salutz) è diventata via via più controllata stilisticamente e nei toni, meno vibrante e più amara, ma comunque sempre ostinatamente lontana da quella metafisica delle parole e del pensiero che appare invece il tratto dominante negli altri poeti operanti oggi in Italia. Poeta “fisico” e immerso nella fisicità, Giudici si è mantenuto cantore del reale, del corpo, del sesso (adorato paganamente e religiosamente dissacrato): anche la riflessione sulla storia diventa per lui ricerca di individuazione, recupero del proprio passato, con una predilezione particolare per gli anni intorno alla seconda guerra mondiale, anni della sua giovinezza: «Quanto di storia mi è transitato addosso / A me che sono un privato».
Tutto questo lungo discorso vorrebbe essere un omaggio a Giudici, una mia dichiarazione di fede-fedeltà a un poeta che ho molto amato e mi ha dato molto, e insieme un invito, un incoraggiamento a chi leggesse queste note ad avvicinarsi alla sua poesia. Nella speranza che Mondadori si decida a pubblicare un’antologia completa di questo autore, potrebbero comunque servire da introduzione alla sua opera due volumi usciti da poco e quasi contemporaneamente: il primo (Frau Doktor, Mondadori) di prose varie, e il secondo (Prove di teatro, Einaudi) di versi. Entrambi prefati da pagine di acuta competenza e puntualità (l’uno da Edoardo Esposito, l’altro da Carlo Ossola), sono accomunati dal fatto di essere stati composti in un arco di tempo molto esteso, e di accompagnare quindi, scandendola, tutta la produzione “maggiore” di Giudici poeta. Sappiamo che l’autore è anche prolifico e apprezzato giornalista (recensore e commentatore de L’Espresso e de L’Unità), che si è occupato a lungo di pubblicità per l’Olivetti e che ha tradotto molti poeti dall’inglese e dalle lingue slave; in qualche modo tutto questo suo operare in maniera diversificata con la lingua scritta, gli ha fornito quella versatilità e concretezza che ben sono rappresentate dai due volumi sopra citati.
Frau Doktor si divide in due sezioni: Propositi di narrazione e Diari, itinerari, la prima più ambiziosa nel proporre testi di indubbio respiro narrativo, racconti complessi e stilisticamente elaborati, spesso non vincolati ad alcuna contingenza autobiografica; la seconda più legata a occasioni cronachistiche, a osservazioni di costume, a memorie di viaggio. Tutti questi testi si possono leggere, e forse si dovrebbero leggere, autonomamente, come episodi di una scrittura sempre brillante, sempre interessante: ma io non l’ho fatto, ho dato la preferenza a quei brani che in maggior misura mi rendevano echi di situazioni e ambienti conosciuti attraverso i versi. Quindi l’infanzia in Liguria, la giovinezza a Roma, un grande amore praghese, trattati con la stessa leggerezza e lo stesso incanto che in poesia. Il secondo volume, Prove di teatro, raccoglie tutti quei versi che, composti tra il 53 e l’88, dovevano far parte della raccolte maggiori e all’ultimo momento non sono stati compresi, per un eccesso di severità autocritica, per una sorta di censura stilistica, ed ora giustamente sono riproposti al pubblico come “prove” che contengono in nuce i motivi fondamentali della produzione già nota. Abbiamo perciò poesie d’amore e di memoria, poesie civili (come la splendida Di lontano, dedicata alla rivolta ungherese del 56, o la rabbiosa Anni affluenti), e poesie divertite e irridenti (Stopper). Troviamo anche qui versi memorabili, versi-talismani («Era sempre difficile trovarti, / lasciarti fu incredibile», «Per questa sola differenza che / c’è tra il vivere e l’essere costretti / a vivere»), attraverso cui la poesia svolge la sua funzione, che è quella di dare emozioni a chi la legge. Anche se oggi va di moda tormentarsi sulle parole, forse perché ad essere non si sa più affidare nessun messaggio.

«Agorà» (Svizzera), 20 settembre 1989

RECENSIONI

GIUDICI

GIOVANNI GIUDICI, IL MALE DEI CREDITORI – MONDADORI, MILANO 1977

Con il suo ultimo volume di versi, Il male dei creditori, Giovanni Giudici riprende il discorso iniziato in O Beatrice, accentuando qui una ricerca formale là ancora in embrione, ma lasciando pressoché inalterati i temi della precedente raccolta. La poesia di Giudici vive infatti sempre in dimensioni ristrette, quotidiane, che pur essendo esemplari di un’esperienza individuale, arrivano a rappresentare una realtà comune a molti. Ma definibile come propria di un solo ambiente, quello medio-borghese: quello, per spiegarci, della casa in città non proprio centro ma neanche periferia, del posto di lavoro di un certo prestigio ma alienante, dei party non disertati ma nemmeno amati. E queste nuove poesie sono ancora belle poesie borghesi che raccontano una vita borghese vissuta con contraddizioni borghesi. I temi sono sempre quelli, tipici, di Giudici: la morte come spettro e immagine persecutoria; la donna come tentazione e peccato, in primo luogo, ma anche come desiderio di pace, promessa mai mantenuta, ancora di salvezza; Dio come luce e riscatto; il corpo come fisicità animale ma anche come decadenza, invecchiamento, dissolvenza; il fantasma del padre, infine, che domina «lui dio re patria e duce calpestante». Ma ciascuno di questi “chiodi” non è che un aspetto di quello che, solo, spiega tutto Giudici, la sua angoscia: cioè il senso di colpa provocato da un peccato razionalmente riconosciuto e circoscritto, ammesso con ironia e giustificato, un peccato che è fondamentalmente di infedeltà. Da questo peccato non c’è pena che assolva, se anche con la penitenza sussiste il dubbio di sbrigarsela troppo facilmente. Se questo del peccato è il nodo centrale, la sofferenza più grossa che si intuisce alla base di queste poesie, a controbilanciare questa colpa sta appunto la presa di coscienza del tradimento, e il conseguente dibattersi in una penosa contraddizione: «Il fatto è che non si / ha coraggio di camminare / sull’acqua senza paura / di sprofondare». Ma il fatto è, soprattutto, che di fronte alle decisioni irrevocabili e ai tagli netti, Giudici preferisce scappare, rifugiarsi, nascondersi, oppure sfoderare l’arma, tagliente, dell’ironia, ritagliandosi un margine di vivibilità. Questo non voler radicalizzare, cercare un compromesso, è evidente anche da un punto di vista formale, poiché la poetica di Giudici concilia primo novecento e avanguardia, moduli addirittura stilnovisti e strutture tipiche del “parlato”, con risultati spesso egregi. Talvolta si notano delle forzature, delle cadute di ritmo, qualche verso decisamente brutto, ma si ha sempre l’impressione che tutto ciò sia voluto, corrisponda ad una precisa volontà di pungolare il lettore, di infastidirlo, o meglio di non corrisponderlo nelle sue aspettative. Un grande pregio di Giudici è quello di saper scherzare con la sua materia, ma in modo sottile, tanto che ce ne si accorge solo a una seconda o terza lettura: e si può sorriderne, cosa che succede raramente leggendo poesia. Un’ultima annotazione, riguardante la (non) politicità del testo: sulla copertina è scritto che questo libro ambisce a un significato collettivo, civile. Ma in realtà qui il collettivo è sentito come minaccia, a volte violenza, sopruso: e tutto è privato, è personale. Dove si potrebbe trovare un indizio di poesia civile (in due soli testi: Balducci e Immaginando Gramsci) abbiamo invece una trasfigurazione soggettiva di personaggi non più politici, ma colti in una loro individualità limitata: gag, macchiette. Il dovere di «dare un senso di società / alla privata eudaimonia» è vissuto in realtà come fastidioso rimorso, e a esso si rinuncia ancora in nome di una più totale aderenza alla storia privata, di una ricerca dell’isola felice (della poesia?): «O eccoli che farneticano talvolta / non si deve privatizzare / in queste ecatombe l’esistenza, / ma farsi parte di un progetto collettivo, / tuffarsi in quella stanza piena di fumo / dove il giusto o l’errore sono di molti…  / E tutto ciò per non dire che ha bisogno / di legittimità la povera bocca / quando resiste alla lingua ansiosa di rifugio».

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 29 aprile 1977