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GIUDICI

GIOVANNI GIUDICI, IL RISTORANTE DEI MORTI – MONDADORI, MILANO 1981

Quattro anni fa, recensendo per il Quotidiano dei Lavoratori Il male dei creditori di Giovanni Giudici, osservavo come l’aspirazione dello scrittore a farsi voce di una coscienza collettiva (particolarmente vivace e in tensione nel ’77) non si realizzasse, soccombendo di fronte a un privato totalizzante e accecante, e negavo a quel libro la possibilità di una lettura in chiave politica. Il volume appena uscito da Mondadori invece si offre anche a una interpretazione critica di questo tipo, perché si pone in una prospettiva diversa: se i temi sono quelli soliti di Giudici – la donna, il ricordo, l’Altro -,
mutato è l’approccio nell’affrontarli: meno indulgente, a volte addirittura risentito. Il titolo di una sezione della raccolta (L’ordine) doveva essere, in un primo tempo, il titolo del libro stesso; l’ordine che ci costruiamo addosso ma anche l’ordine in cui ci murano gli altri, difesa e condanna, costrizione che ci salva: «Mi guardo nell’ordine edificato / Con voglia di sbatterlo all’aria – purché / Un’evenienza intervenga per me. / Ma quale altro in suo luogo? / Avere avuto così / Fretta di chiudersi in cornice per paura».

Molto più felice è la scelta definitiva,  Il ristorante dei morti, da cui, al di là della prima infondata impressione beckettiana che può suscitare, si possono ricavare molte delle tematiche del libro. Il ristorante, intanto, è luogo di incontro e di comunicazione: ma Giudici non ci vede il convivio pagano, quanto piuttosto la “tavola” cristiana, l’eticità espressa dal momento ecumenico del nutrirsi insieme. In una delle ultime poesie, prendendo come spunto una colazione con Elvio Fachinelli «esploratore e scienziato del dentro», Giudici rievoca un passato personale che è diventato storia di tutti: nello stesso ristorante, vent’anni prima, aveva cenato con due personaggi ora scomparsi, Giacomo Noventa e Don Milani. In tutta la poesia si avverte questa interazione tra interno ed esterno, tra privato e politico: «Quanto di storia mi è transitato addosso / A me che sono un privato». E’ un incoraggiamento a credere nella nostra immersione, anche involontaria e inconsapevole, ma sempre inevitabile, nel flusso della storia. Ma in questa storia, di adesso, Giudici si sente isolato, aggrappato a un’idea di paleocomunismo che non trova con chi confrontarsi, legato sentimentalmente a un passato politico in cui i ruoli da giocare erano più definiti: si trova, insomma, a dialogare con i morti. C’è un’epigrafe a  Temporis acti (la più esplicita fra le poesie politiche) tratta da Stevenson: «Noi siamo tra vecchi amici; e non vivremo abbastanza, ormai, per averne dei nuovi», che sembra suggerire un’interpretazione generazionale di questo amore del passato: «Ma essere / Nell’attesa di vivere o in quella di finire / E’ una capitale differenza: / Come fra la ingorda visione giovanile / E il tardo orecchio che incolpa / L’epoca barbara e sorda – laddove / E’ la generazione che mostra la corda».

Per chi attende di finire, la tentazione di abbandonarsi al qualunquismo è forte: Giudici mette tutti insieme in un’isteria e in una crudeltà collettiva che non salva nessuno (P38, pentiti, Craxi, il papa), ma soprattutto condanna il compagno intellettuale, grillo parlante che «ha fottuto l’immaginazione». «Dove sono gli intelligenti mentre inizia / L’inventario degli assenti?». A uno in particolare di questi intelligenti dedica «Da un banco in fondo alla classe», poemetto provocatorio sia nella forma (20 strofe di ottave in versi ottonari, a cui il duplice accento ritmico dà un vago sapore retrò, ironico se non parodistico), sia nel contenuto. Si tratta di una lunga arringa che si trasforma man mano in requisitoria, rivolta a un intellettuale in cui si può facilmente riconoscere un importante teorico della nuova sinistra, che agli occhi di giudici riveste il ruolo di primo della classe, di coscienza pungolante e perciò anche di severo censore. L’antipatia del lettore viene indirizzata verso questo «Genio giustiziere» che tiene conto con pedantesca pignoleria e muta riprovazione di ogni vizio e di ogni passo falso dell’inquisito. Davanti a tale «infallibile Cadì» Giudici si prostra «giuggiolevole» in una autoflagellazione ostentata dei suoi patetici errori, ripercorrendo il suo cammino in discesa («morbido cliname»), lontano dalla strada maestra, dalle prime colpe infantili ai grandi tradimenti dell’adulto:«Prono al cenno del potente / Sempre in posa genuflesso / Riverisco il presidente / Faccio vento alla contessa Marionetta appesa al chiodo / Seduttore un po’ codardo / Impiegato già in ritardo //…Non gattopardo, ma gatto /…nel male resto agli inizi».

Que sto “mea culpa” ammiccante di chi tutto sommato si sente dalla parte «della decenza e dell’umile intelligenza», di chi invoca a propria giustificazione l’essere «un brusio in fondo alla classe», «uno che porta pesi e paga le tasse», uno come tutti, finisce per sembrare una excusatio non petita, rivolta con un certo risentimento a una coerenza morale e di pensiero che un po’ si vuol prendere in giro ma in realtà si invidia. Nel poemetto si intuisce la sofferenza cattolica di chi si sente in colpa e non vorrebbe, e tenta di risolvere in ironia il complesso non superato, fallendo perché l’ironia che ne deriva è pesante, quasi acidula. Per questo, le cose più belle del volume sono da cercare altrove, ad esempio nelle due sezioni Persona femminile e Toledo, dove il rapporto con la donna è finalmente sciolto, abbandonato in una solidarietà che è ricerca comune di risposte, di punti fermi, e insieme scoperta reciproca, adorazione del corpo che ha qualcosa di religioso. Colpisce anche l’ultima sezione, Pascoli, nella quale, partendo da un’affettuosa identificazione con il poeta romagnolo, Giudici approda a un autobiografismo più controllato, che lascia spazio a un “fuori”, a un “altrui” da sempre latenti e in attesa nella sua poesia.

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 19 giugno 1981

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GIOVANNI GIUDICI, LUME DEI TUOI MISTERI – MONDADORI, MILANO  1984

Tra i poeti ritenuti più importanti oggi in Italia – Bertolucci, Caproni, Luzi, Zanzotto e Giovanni Giudici – solo quest’ultimo sembra tenersi ostinatamente lontano da quella metafisica della parola o del pensiero che appare invece il tratto dominante negli altri. Poeta “fisico” e immerso nella fisicità, Giudici si è conquistato una sua posizione insolita nella nostra letteratura, pressoché unico cantore del reale, del corpo, della “cosa” entro i cui limiti sa ridurre tutto (anche la storia, che non esiste se non in quanto fatta di azioni particolari, di personaggi particolari). Negando metafisicità anche a Dio, Giudici fa dell’accadimento e dell’accidente la nostra unica, complice e crudele, divinità. E per questa sua lunga e fedele dichiarazione d’amore alla concretezza dell’esistente, Giudici ha scelto oggetti emblematici (la donna, la quotidianità), uno stile narrativo e dialogante, alcuni vezzi linguistici quali l’abolizione quasi totale del congiuntivo – modo della supposizione e della possibilità – a favore dell’indicativo, modo della realtà. Lume dei tuoi misteri, l’ultimo volume uscito nella collana dello Specchio, ribadisce questa indubbia e originale scelta di campo per il reale, riproponendo, ma con una nuova scioltezza e con una rappacificata naturalezza (non lontana, a volte, da un divertito autocompiacimento) i temi più tipici e consueti della sua poesia, da O beatrice in poi, costringendo, in una fusione che ha del profetico e del maledetto, anima e carne, peccato e salvezza. “Il lume” di questo titolo, che sa di gotico e di litania, è appunto la salvezza che si lascia intravedere per poi subito scomparire, mentre i misteri si diradano o si infittiscono, manovrati dall’unica presenza in grado di suggerire una risposta. Più che mai in questi versi, infatti, è una figura femminile a essere strumento e attore, soggetto e oggetto concreto della poesia. In questo libro, una supposta Emma, nome privilegiato già dalla raccolta La Bovary c’est moi, ma qui Emma-donna, Emma-mamma, Emma auf einer Treppe (e quante madonne sulle scale che dagli uomini portano a Dio!). Come sempre nelle poesie di Giudici, la donna è insomma la “parusia” più vicina ed esemplare per arrivare ad altro, in un’incertezza tormentante tra il possesso e la contemplazione. Apre il libro una significativa poesia, Amparo, che in spagnolo significa rifugio-soccorso, ed è insieme il nome dato a una lei che tra cosce e sospiri («Amparo of your thighs / sighs»), offre il suo corpo alla mani dell’amante-adorante, bruciante di passione mistica («Vista e sapore e umore portarmi via / Tutta stamparmi addosso»), nello stesso tempo escludendole, queste mani, che vorrebbero penetrarlo nelle carezze e farsi altro da sé: costringendole all’aria (ancora in Sembiante: «Ma le mie mani erano aria / Non ti potevano tenere»; e in Madrigale: «Afferrata alla sua annaspante mano»). Fare l’amore è comunicarsi con il tutto, in un’allegoria blasfema e sacra insieme del sacramento dell’eucarestia («Premi ogni mia parola al tuo palato»), è un rituale di adorazione («e in posizione / Di orante orizzontale intento / Io all’orizzonte della sua biforcazione // Dove un segreto sole e oro / Si annida»), un modo di cancellarsi per rinascere («Infossarsi al suo bel tondo», «Insinuandosi al dischiuso / Orto del santuario», «Emma mia sola madrefiglia // Di chiari crini viva / A quel raggio fenditura»), come attraverso un battesimo. Ma sembra essere la confessione il sacramento cattolico di cui Giudici sente più nostalgia, ondeggiando tra la tentazione di inabissarsi nel baratro del peccato, nella «foresta» dei sensi, e quella di risollevarsi attraverso il miracolo della redenzione («La quasi santità / Del nostro unico peccato», «Nella virtuosa perversione», «Perdona la mia paura / Mio solo grande peccato», «assassina / Era l’anima mia se non la mano», «Alzami al punto alto dov’è futuro / Il salto al più rischioso vero»), in un’ansia continua di autoaccusa e bisogno di assoluzione («E in fondo che male ha fatto in fondo non è sua / La colpa è tutta di quella troia»). Talmente ossessiva è questa ricerca di assoluto, e talmente limitato e castrante il mezzo impiegato (questa lei che non è mai del tutto all’altezza dell’impegno che le si richiede: sfugge, recalcitra, tradisce…), che per forza di cose Giudici rasenta l’eresia, si riconosce “diverso” fino a supporre un’originaria ascendenza ebraica, che giustifichi questa sua esclusione-autoesclusione dalla “coscienza pulita” degli altri. L’indagine, la riflessione sulla storia diventa allora ricerca di individuazione, recupero del proprio passato, con una predilezione particolare per gli anni dell’anteguerra e della guerra, della sua infanzia e giovinezza. Il filmino riproiettato dalla memoria viene bloccato su alcune inquadrature che riproducono un nome (il campione ciclista Pola, nel ’33), un gesto (la bandiera rossa issata sul regio incrociatore Trento da un operaio comunista, sempre nel ’33, o la sigaretta del giovane nazista recuperata da un Giudici partigiano, che si inteneriva sulla sorte dei prigionieri), mai un’idea. Così di tutto il processo maoista in Cina, ciò che rimane e importa nella poesia di Giudici è il metodo usato per sterminare i passeri, «flagello dei raccolti»: i contadini li costringevano a non posarsi mai, finché gli scoppiasse il cuore. Cose che, da un punto di vista poetico, poco si concilia con la rivoluzione: «Benché per comunismo a più d’un comunista / Il cuore era già scoppiato».

 

INEDITO                      © Riproduzione riservata

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GIUDICI

GIOVANNI GIUDICI, ANDARE IN CINA A PIEDI – MILANO, LEDIZIONI 2017

Nel 1992 Giovanni Giudici (1924-2011), già allora poeta molto noto e pluripremiato, pubblicava presso le Edizioni e/o un volumetto di interventi – brevi saggi, articoli di giornale, appunti, riflessioni – dedicati alla musa da lui più frequentata. “Racconto sulla poesia” è infatti il sottotitolo del libro da poco ripropostoci dalla casa editrice milanese Ledizioni: Andare in Cina a piedi.

In queste pagine Giudici raccontava, con la consueta (sapida e insieme bonaria) ironia, di cui sapeva fare magistralmente uso anche nei versi, le disavventure esistenziali di chi avesse deciso di dedicare la sua vita alla scrittura poetica: la più misconosciuta, marginale, gratuita e povera tra le attività letterarie. Si rivolgeva qui a se stesso, in una autobiografia reinventata ad uso di vicini e lontani, contemporanei e posteri, con una sorta di rievocazione diaristica dei suoi esordi, degli incontri con importanti personalità della cultura, delle difficoltà professionali e familiari in cui si dibatteva nell’esistenza quotidiana. Si rivolgeva anche agli apprendisti poeti, illustrando il labor limae necessario e imprescindibile per chi voglia scrivere: la scintilla inventiva da cui prende avvio una composizione, la strutturazione stilistica, l’uso della rima e del ritmo, il valore della traduzione. Dava indicazioni su come avvicinarsi a un testo poetico, con quali accorgimenti leggerlo, in che modo ampliarne il senso, dove recuperarne gli echi. «Ogni poesia è generalmente offerta al Lettore che è libero di farne ciò che vuole, di usarla e ri-usarla come gli conviene, essendo la lettura di essa un fatto altrettanto privato che la sua scrittura».

Il confronto assiduo, arrovellante, tormentoso con la lingua («miniera dell’esprimibile») e in particolare con la lingua poetica («non è soltanto ciò che significa, ma significa ciò che è»), il fastidio per le approssimazioni e le disinvolture di troppi mestieranti, per gli atteggiamenti istrionici o ieratici di molti sedicenti artisti, venivano sottolineati con un forte richiamo etico al rispetto della parola. Un rispetto che si traduceva quasi in reverenza, al punto da spingersi a sconsigliare formule abusate, ridondanti, eccessive o semplicemente stonate (no ai termini ad effetto, ai sentimenti gridati, alle specificazioni dettagliate, ai troppi avversativi o disgiuntivi; sì all’uso intelligente di litoti, chiasmi, allitterazioni, anastrofi e rime, che esprimono una cura attenta del suono). Con l’umile consapevolezza, però, che nella poesia gli autori sono sempre due: il poeta e la poesia stessa «che probabilmente pre-esiste, nel magmatico profondo della lingua, alla nostra stessa occasione/intenzione di scrittura». Nei versi nati da un’attesa durata magari anni o decenni possono confluire dati remoti e trascurabili, letture e incontri sepolti nella memoria, che improvvisamente si impongono da soli sulla pagina, dopo un viaggio lunghissimo, a volte faticoso, arricchente. Come andare in Cina a piedi.

Se per Giovanni Giudici il rapporto culturale e affettivo con altri poeti (gli amati Saba e Noventa, soprattutto) sono stati fondamentali, vorrei accennare brevemente ai quattro incontri che ho avuto con lui, nei miei lontani anni universitari a Milano. Tre all’Olivetti dove dirigeva il settore pubblicitario: tremante gli avevo sottoposto sia un mio saggio sulle figure femminili nella sua poesia, sia alcune mie composizioni, che lui aveva gentilmente letto e paternamente corretto, accompagnandomi in seguito in una libreria per farmi dono di un volume su Parmenide. Una volta mi aveva invece invitato a casa sua, presentandomi la moglie e i due figli, in occasione di un’intervista per il Quotidiano dei Lavoratori, il cui direttore aveva poi preteso che convertissi il mio riguardoso “lei” nel “tu” che si deve dare a un “compagno”. Negli anni successivi mi fece arrivare tutti i suoi libri, con dedica, addirittura a Zurigo dove mi ero trasferita: a testimonianza di quanto per lui contasse la poesia non solo intellettualmente, ma anche come tramite di conoscenza con la realtà circostante e col prossimo. Cosa che chiunque voglia leggere il volume qui recensito avrà modo di verificare, traendone insegnamenti vitali, privi di qualsiasi supponenza o pedanteria.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Andare-Cina-piedi-Giudici.html     7 febbraio 2017

 

 

 

 

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GIUDICI

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LE FIGURE FEMMINILI NELLA POESIA DI GIOVANNI GIUDICI – 1984

Se è vero che Giudici si è impegnato nelle ultime produzioni in un lavoro formale di elaborazione linguistica del verso, rimane vero anche che continua a confidare nella poesia come comunicazione, sia pure attraverso la proclamata “gestione ironica”, attraverso gli specchi deformanti del sogno/incubo, della confessione/sconfessione autobiologica-biografica.
Ed è altrettanto vero che Giudici è un intellettuale che potremmo definire impegnato, di parte: cattolico approdato al comunismo, progressista (scrive su L’Unità e su Rinascita; ha pubblicato per Mondadori e per gli Editori Riuniti), funzionario all’Olivetti con tutte le contraddizioni che un tale ruolo implica, fa ottime traduzioni di ottimi poeti, scrive presentazioni, recensioni, critiche. Giudici mi è sembrato insomma oltre che un buon poeta da leggere, anche un intellettuale tipo su cui poter svolgere un’analisi critica che, prescindendo dai risultati formali, possa appuntarsi soprattutto sui contenuti.
Quindi questo mio studio affronta coscientemente due rischi: il primo, di rivelarsi “a tesi”, di forzare cioè il testo stesso per dimostrare un assunto discutibile; in secondo luogo, che il suo taglio contenutistico scinda il testo poetico, violentandolo, con l’escluderne l’indagine formale.
Nonostante questi pericoli, mi è sembrato valesse la pena di scrivere sull’effettiva rilevanza delle figure femminili nella poesia di Giudici, perché la donna (la femmina, l’altro da sé) è in essa interlocutore privilegiato, proprio come sconosciuto o inconoscibile che da sempre è destinato a sfuggire e a tentare, a perdere e a possedere.
Dalla ormai datata raccolta L’intelligenza col nemico, in cui appare in tutta la sua fragilità una figura di donna che in tinte montaliane assume in sé ogni indifesa certezza dei vinti (1), l’universo poetico di Giudici è sempre più costellato da meteore o stelle fisse femminili: la moglie, la madre, amiche, prostitute, donne ideali, tanto che ogni evoluzione o sconfitta ideologica finisce per passare attraverso il rapporto con l’altro sesso.
In L’educazione cattolica (2) esistono già tutti gli elementi per comprendere lo sviluppo di una morale che il poeta vivrà sempre scissa tra ubbidienza (allineamento, regola, paura dello scarto) e disubbidienza (eresia ma anche liberazione); di tale scissione, già da questa raccolta, la donna è l’interprete-vittima principale, perché l’ubbidienza – come modestia, rispetto, accettazione cattolica – si identifica, si personalizza nelle figure della madre e della moglie, la disubbidienza invece è il rapporto con le altre, la tentazione della carne (in termini cristiani) ma anche la fusione assoluta con “ciò che è altro”, proprio della tradizione misticheggiante.
Come vedremo meglio poi, sia l’amore sensuale sia questa ansia quasi religiosa (platonica) di unione totale con la donna, di cancellazione nella donna, sono per Giudici sintomi di diversità, di anormalità, vissuti quindi con senso di colpa.
Ad entrambi i desideri “assolutizzanti” si oppone il sano senso comune, che è insieme alibi che salva dall’abisso ma anche mediocrità riconosciuta e ironicamente accettata: così alla fine “il corpo” e “l’anima” sono entrambi voragini in cui ci si perde e ci si annulla (3), e da cui è bene difendersi con la razionalità e con le istituzioni (4). Esemplare a questo riguardo è

Sottomissione e riconoscimento:
Cerco di ridurti / A mia immagine – ma fossi / Tu la pace che è il tuo corpo / Quando «fammi il mare» ti supplico / Sotto o sopra la pancia / – Non si sa bene che dei due / E’ acqua o barca // Cerco di rivoltarti / Stringerti – ma cosa chiedo / Ai tuoi occhi / Un te stessa invisibile benché / Ti tocco pezzo per pezzo mi ripeto «sei qui» / Ti misuro nel chiuso delle mie mani // … E ore e ore battere / Le tue peregrinazioni – parlare / Tuoi pensieri – a un immaginario telefono di legno / Un tuo segno sperare – nel mio / Essere certo imprigionarti / Sconosciuta come Dio // Quando ti dico – vita / Del mio morire // Un tempo era lui che assorbiva tutte le mie cogitazioni / La sua camminata misurava ogni passo della mia / E per questo nessuno o nessun’altra poteva / Abitare nel mio cuore che per lui solo batteva // Il che potrebbe spiegarsi con un mio antico bisogno / Di colpa di confessione e di servitù / Esso rimane e passano persone sulla scena / Dov’era lui – ci sei tu
(Il male dei creditori, vv. 1-12; 19-34) (5)

Potremmo per prima cosa notare come siano due i destinatari di questa poesia d’amore: una donna e questo lui sconosciuto e divino che continuamente si sovrappongono, oscillanti, indefiniti e indefinibili, sfuggenti alla ricerca del poeta che vorrebbe, attraverso loro, definirsi. In secondo luogo mi sembra interessante anche l’atmosfera religiosa («ridurti a mia immagine», «un tuo segno sperare», «vita del mio morire»), che deriva probabilmente anche da una certa assiduità con la lettura dei mistici.
Questo motivo di platonizzazione della donna, di spiritualizzazione del corpo, o di possesso materiale dello spirito (vedi appunto il mito del Simposio), ritorna spessissimo in tutte le opere di Giudici, è una costante che permane aldilà delle evoluzioni e delle involuzioni.
Ma per tornare a L’educazione cattolica, già in queste 18 composizioni poi assorbite ne La vita in versi (6), la colpa, il peccato è cristianamente tutto riconducibile al sesso, al minimo non stare al passo coi precetti della Chiesa. E’ qui che la donna si configura per prima come nemica, o meglio come minaccia in qualche modo misteriosa:

agitava il bastone tutta rauca di vino //… – non la vidi mai da vicino / nella sua faccia di gesso. (7)
(VV, L’avico, vv. 8; 11-12)

Le responsabilità di una parrocchiale educazione cattolica sono ormai riconosciute e stigmatizzate:

scrivere versi cristiani in cui si mostri / che mi distrusse ragazzo l’educazione dei preti
(VV, Una sera come tante, vv. 11-12)

Evidente è ormai da cosa fu provocata questa paura della donna e del sesso; l’iter è quello solito, dalla proibizione drastica delle prime esperienze infantili:

era soltanto un gioco / diverso un poco dagli altri – ma lì entrando / la sua sorella più grande alzò la coperta ci vide / gridò corse a chiamare venne gente
(VV, La ragazzetta che voleva mostrarmi una cosa, vv. 5-7) (8)

alle confessioni comunque estorte:

Ma quante volte quel niente / io l’ho confessato.
(VV, Ruber, vv. 15-16)

ai divieti catechistici:

Ma non altrettanto chiaro il vizio della lussuria: / accanto a una finestra – TRISTI EFFETTI / una nota ammoniva.
(VV, Il catechismo illustrato, vv. 7-9)

Questi imperativi terroristici producono a livello conscio il primo peccato di disubbidienza, la prima scissione ubbidienza-paura/disubbidienza-coraggio, per cui la volontaria trasgressione del tabù esaspera i suoi contorni, diventa ribellione contro tutti e provoca il relativo ricadere nei sensi di colpa:

Volevo sparire – aspettavo / che mi gridasse per primo: / “pagate i debiti invece di andare al casino!”
(VV, L’educazione cattolica XIV, vv. 20-23)

Inconsciamente questa scissione si traduce in un’altra, equivalente, per quello che riguarda la donna: la donna istituzione, vissuta come dovere-condanna, limitazione; la donna “diversa”, liberante, sentita come peccato e insieme tentazione totalizzante. Donna moglie/madre da una parte; donna puttana/assoluto in cui perdersi dall’altra.
Tentare di conciliare i due aspetti risulta impossibile, la contraddizione sembra irrisolvibile:

Con lei era difficile. Ma non rimpiangere / il giugno lontano, la parola cuore, / i denti come perle dure sul bacio inesperto, / la mano timorosa, il contemplato pudore. // A ripensarci, lei era poco più d’una sciocca, / oggi diresti che la mette giù dura, / e molto meno ti chiede colei che ripete: / cinquemila in albergo e in macchina due, con la bocca.
(VV, Con lei, vv. 1-8)

Dove è esplicita la contrapposizione dei due tipi tra cui il poeta oscilla, ma si intuisce anche la volontà di esorcizzare un’attrazione che ancora spaventa con il sovrapporvi un’immagine volutamente involgarita. E formalmente la contrapposizione è altrettanto evidente: se la prima quartina si scioglie in frasi tenere di collaudata tradizione amorosa, la seconda è del tutto prosaica e diretta.
Questo metodo di vietarsi la commozione con un’irruzione di concretezza, magari un po’ sporca; questo correggere il lirismo con una sterzata ironica, evitare l’abbandono, è usato spesso:

Né altro amore che questa liturgia copulatoria
(OB, Noi, v. 11) (9)

Tu giusta sorte / Della mia e tua morte // Pancia piena di merda / Pancia piena di dolore.
(OB, Pancia I, vv. 27-30)

C’è poco da ventilare, / sardonica tagliauccelli con un risolino di gola
(A, Cosanesai, vv. 12-13) (10)

La bella ti chiese permesso./ Tu la lasciasti passare. / Un culo è sempre un culo e il duce è un fesso.
(VV, L’educazione cattolica XII, vv. 7-9)

Se come abbiamo visto nel rapporto amoroso-sentimentale interviene il riferimento sessuale con scopo censorio a impedire che il lirismo si trasformi in retorica, d’altra parte anche il desiderio fisico non arriva mai a travolgere del tutto, bloccato questa volta dal procedimento inverso. In questi casi, infatti, sarà un meditato accenno nostalgico, una velata difesa intellettuale a evitare che l’irrazionale prevalga:

– un giro non durò perché rotolammo / a gola piena sull’impiantito di legno, / era meglio far subito l’amore, / al diavolo i preamboli, su questo concordammo // – quando lei, improvvisamente patetica…
(VV, L’educazione cattolica XVII, vv. 11-15)

Ma precisiamo: non è stata paura / del sesto comandamento o di che diavolo vuoi / – mancare di rispetto alla ragazzina pura / o il ricatto che quello non sia vero amore
(VV, Postuma, vv. 5-8)

– è la maglia di lana / nera e stretta che sparla di te. // E la bocca ride agra: / ma come ti morde il cuore / sa chi t’ ha vista magra / farti le trecce per fare l’amore.
(VV, Tanto giovane, vv. 3-8 )

Così il sesso non è mai cantato con pienezza, mai trascinante, mai “corposo”: semmai gli si strizza l’occhio come a una tentazione cui però si fa la guardia (11), oppure più spesso lo si coglie in brevissimi flash, lo si ridicolizza, lo si esorcizza:

Peccati veniali di pudende / Appena immaginate se una passa!
(OB, Neoplasie, vv. 31-32)

Ah come tutto l’adulta voglia involgarisce. // …tu fosti la mia / giovanile occasione, / sprecata da coglione!
(A, Euridice, vv. 5; 8-10)

Nel tuo sabbatico paradiso / Che ti circonda ghignante di voglie //… Che ti spogliavano a forza ti fotografavano di culo.
(MC, Omaggio a Baudelaire, vv. 23-24; 27)

E’ ancora la colpa in senso cattolico che non permette a questa «coscienza golosamente peccaminosa d’uno spirito controriformista di questo secolo, in cui il peccato stenta a conquistare la sua gloria» (12) di fisicizzare il sentimento nella stessa maniera in cui sa invece spiritualizzare il corpo. Ed esempi di questa sublimazione, misticizzazione dell’elemento fisico, materiale, sono davvero molti e percorrono tutta l’opera di Giudici:

Tu che per darti non puoi non bruciarti.// …Corpo – che in altro corpo si verifica / e in esso è bramoso di specchiarsi, / di stamparsi con un’impronta di tremore.
(OB, Corpo, vv. 17; 22-23)

Tutte eravate l’ultimo dei miei pensieri / Mentre pensavo l’Amore.
(OB, Viaggiando in treno, vv. 7-8)

E giù dentro quel suolo ancora più profondamente / Frugando un grembo assoluto, un buio definitivo
(OB, Micromandra, vv. 4-5)

Dal mio nobile assunto / di stringere l’amore nell’amore, / il punto nel punto.
(OB, Il mio desiderio di morire, vv. 40-43)

Maria – assenza toccabile / e presenza invulnerabile.
(OB, Ode a una misteriosa dama, vv. 19-20)

A te sale e ti osa, Maria de las angustias, / Ti chiama presenza/assenza, essenza miracolante.
(MC, Maria de las angustias, vv. 7-8)

E’, come si vede, soprattutto in O beatrice che l’amore umano, fisico, assume connotati e terminologie propri dell’amore religioso, mistico; e viceversa:

Beatrice ultimo gioco. / Beatrice salto nel fuoco. //…Beatrice fiato e voce / dell’inchiodato in croce.
(OB, O beatrice, vv. 7-8; 11-12)

Orsù ammettiamo / l’infedeltà obiettiva al grande amore supremo / che fu solo per non (ma non abbiamo / prove da addurre ) essere / umanamente da meno / verso un più umano amore che potrebbe / rivelarsi tuttavia superiore
(OB, Teoria della verità, vv. 36-42)

E io che passeggio con te. / Io che posso prenderti per mano. / Io che mi brucio di te / nel corpo, nella mente.
(OB, Ciao, Sublime, vv. 35-38)

Tu, che su e giù / lieviti come un diavoletto di Cartesio //…Tu che fino a lei tendi il mio corpo / e del corpo di lei porti a me le notizie, // …Perché a un sole così tremendo / mi porgi la spugna di fiele?
( OB, Tu, vv. 8-9; 31-32; 48-49)

E in te mi riconosco, / Chiusa forma in cui discendo, / Quiete e luce, caldo odore, / Amnio e mare del bel grembo.
(MC, Intermezzo teatrale, vv. 17-20)

Per Giudici l’amore fisico è rimasto una sottospecie dell’amore vero, che è in fondo quello supremo (cfr. le poesie religiose de L’intelligenza col nemico), quindi un tradimento: ma può essere anche mezzo di elevazione, scala a Dio (13), e in questo senso aspirazione all’assoluto, superamento del dato fisico, sconfinamento dai propri confini. Perciò gratuità, garanzia di libertà, di generosità di fronte al meschino rappresentato dall’ubbidienza, dall’istituzione.
E appunto nell’istituzione per eccellenza, Giudici si riconosce come tanti, come tutti, condannato a una serie di comportamenti inautentici, che allontanano dal vero ma difendono dal vero (14). Sicurezza, insomma, che addormenta e rassicura:

Dopo cenato amare, poi dormire, / questa è la via più facile: va da sé / lo stomaco anche se il vino era un po’ grosso. / Ti rigiri, al massimo straparli. // Ma chi ti sente? – lei dorme più di te, / viaggia verso domani a un vecchio inganno: / la sveglia sulle sette, un rutto, un goccettino / – e tutto ricomincia – amaro di caffè.
(VV, Tempo libero, vv. 1-8)

Ma sicurezza anche come alibi, e alla fine prigione, abitudine, paura (di nuovo!) di ribellarsi:

Una sera come tante, e nuovamente / noi qui, chissà per quanto ancora, al nostro / settimo piano, dopo i soliti urli / i bambini si sono addormentati //… Una sera come tante, ed è la mia vecchia impostura / che dice: domani, domani… pur sapendo / che il nostro domani era già ieri da sempre. / La verità chiedeva assai più semplici tempre. / Ride il tranquillo despota che lo sa: / mi calcola fra i suoi lungo la strada che scendo. / C’è più onore in tradire che in essere fedeli a metà.
(VV, Una sera come tante, vv. 1-4; 43-49)

Ma nella guasta coscienza io so / io dubito che altrove o nel frattempo / un altro è il colore del mondo, altro / l’amore a cui mi nascondo.
(VV, Le giornate bianche, vv. 51-54)

Quest’ultimo verso, « altro / l’amore a cui mi nascondo», è rivelatore di due cose accennate in precedenza: da una parte la tensione a un amore con connotati quasi sovrumani (pensiamo anche alla frase finale di Viaggiando in treno una notte del 66), dall’altra la paura di quest’amore, che ci riporta alla scissione cattolica disubbidienza-ubbidienza postulata all’inizio dello studio.
Il matrimonio è quindi una trappola borghese, la cui esperienza smaschera la bugia cattolica dell’amore eterno:

insieme io e te, per qualche anno felici / dentro gli occhi e nel sesso
(VV, Una casa a Milano, vv. 5-6)

E attraverso la consapevolezza della falsità dell’istituzione cattolica passa anche la crisi politico-ideologica, per cui la “tentazione” socialista corrisponde alla liberazione dal matrimonio:

Il presente è con te che non m’ascolti / e nel mio vivere scruti l’impostura / della fede che affermo: la più vera / è la norma non scelta, la subita bandiera, // questa, del mondo a cui costretto vivo / contraddizione – e in cambio essa mi nutre / mentre pensando a distruggerlo scrivo; / mondo che ossequio – dove finirò.
(VV, Il socialismo non è inevitabile, vv. 9-16)

Infatti nuove poesie d’amore si scrivono, guarda caso proprio a Praga (cioè, in una maniera o nell’altra, in un universo, forse socialista, dove impera un’altra chiesa, dove il sesso può essere innocente):

Ma sgattaiolando sempre più tranquillamente / Dalla norma dalla colpa / Non presentandosi all’udienza del processo / Dire di no senza nascondere la testa sottoterra / Sgattaiolando da niente.
(A, Pantomime di Praga: Sgattaiolando, vv. 16-20)

Ideologicamente, quindi, la colpa non è più nemmeno riconosciuta come tale; ma emotivamente la paura e la vergogna rimangono. (15)
Ci vorrebbe perciò il coraggio di un atto decisivo, invece l’ambiguità permane, sia a livello sentimentale sia a livello politico:

perché / la volontà non basta, occorre il fuoco // per non morire
(VV, Autocritica, vv. 43-45)

Il fatto è che non si ha / Coraggio di camminare/ Sull’acqua senza paura / Di sprofondare
(MC, L’Etica di Bonhoeffer, vv. 12-15)

è troppo triste, non va su e giù per la sua gabbia / come me che mi gratto a queste sbarre sperando / che la mia pelle duri di più della mia scabbia.
(OB, Ragionamenti, vv. 18-20)

Questa incapacità di scegliere, questo continuo mediare un compromesso tra assoluto e contingente, diventa agli occhi stessi del poeta mediocrità e finzione. Ma l’alibi delle proprie incertezze è fornito dalla meschinità, dall’ottusità domestica della donna in questione, la moglie:

Tu no – pianifichi, innovi, / continui a modificare, non fai / differenza fra il quanto desideri / e il quando l’otterrai – tu che ti senti immutabile!
(A, Il futuro semplificato, vv. 36-39)

Ma come si ostina la tua volontà di riforma / a correggere! // …Incidente domestico è per te il male / del mondo – scarpa che riga della sua tinta / il pavimento specchio, federa che si strappa, / l’ora non rispettata, l’incauto acquisto / o di altri disperata allegrezza / con la tua fuori tempo – ah il giardino / calvinista del tuo progetto si guasta! //…Al nulla di futuro che richiedi un infinito / passato rotola addosso! Ordina, ordina, / grida i ripari – a chi? – corrucciata attivista! / Nemmeno un canarino che ti risponda.
(A, La volontà di riforma, vv. 15-16; 22-28; 36-38)

Il processo di liberazione che comunque si innesta, si attua in tre diverse direzioni:
1) Ideologicamente, con il passaggio da un cattolicesimo inquieto, già venato da istanze sociali, a un riformismo socialista e, più tardi, al comunismo.
2) Eticamente, riconoscendo falsa e parrocchialmente retorica la serena modestia degli obiettivi iniziali (la casa in città, la famiglia, il lavoro, lo scrivere versi).
3) Poeticamente, abbandonando un tipo di lirica in qualche modo consolatoria (ancora predominante in La vita in versi (16), per un’altra di registro ironico-paradossale, se pure ancora autobiografica. (17)
Possiamo dire che di tutte queste evoluzioni, la donna è strumento-fine essenziale; molte cose sono mediate attraverso di lei. Alla donna si demanda da una parte la rivoluzione da fare nel personale, dall’altra la tradizione da salvare; deve quindi rinnovare il ruolo di Eva (seduttrice, tentatrice) che spinge all’eresia, al passo falso, allo sdrucciolamento, ma deve anche aspettare, proteggere, rimanere madre.
L’esemplificazione più evidente di quanto ho scritto è in La strologa:

Basta, strologa, con la devota impostura! / Scatta i begli occhi di gelo celeste lama! / Apri le piccole griglie dei denti aguzzi! / Strologa seduziosa streghina! // …Ma – e la promessa rivoluzione cristiana? / E la domestica virtù quotidiana? / E l’esemplare famiglia italiana? / E il pio rossore della parola puttana?// …Mia non-strega non-maga di molte non-sere / e di te balenata speranza / che per un minimo di salvezza scusabile / all’impostura condanni il probabile!
(OB, La strologa, vv. 25-32; 41-44)

E chiamandoti ad un futuro di penuria / io chiedo la tua insania perché la mia abbia forza / perché si possa dire che è una cosa reale / quella che due distinte persone vedono identica.
(OB, Alcuni, vv. 45-48)

Alzati e cammina – proviamo ancora una volta. / Alzati e cammina – all’amore sgraziato. / Al fiore maltrattato. Al voler essere. / Al voler essere stato.
(OB, Alzati e cammina, vv. 21-24)

C’è un senso di morte scelto per vigliaccheria (più che martirio, quindi, masochismo) nel non tentare, nel non aver osato, nell’aspettare. In questo perdersi nella donna e recuperarsi (rinascere) nella donna: in una stessa poesia il corpo femminile può essere minaccia e riparo materno:

Pancia – sulla quale / poso la guancia / Tuo tepore / al mio timore //…Tuo asilo / al mio respiro
(OB, Pancia I, vv. 1-4; 23-24)

Pancia – dentro la quale / io voglio tornare.
(OB, Pancia II, vv. 9-10)

Nella maniera più classica lo interpreta G.C. Ferretti:
C’è qui una fuga nella beatitudine, amorosa e “fetale” al tempo stesso; ma anche un desiderio di rinascere per tentare tutto da capo. C’è un bisogno infantile di protezione; ma anche un proposito di annientamento della propria individualità, che si sente irrimediabilmente compromessa. (18)

La donna materna però non è un mito, non è la donna madre il riferimento costante di Giudici, quanto semmai la donna/schermo (sogno, strumento ad altro): e in una poesia come Richiesta di assistenza in un’ipotesi di suicidio, la vicinanza e la protezione della donna amata (che potrebbe richiamare la figura materna) è subito contrastata da quella della donna-rivale-cattiva, che si allontana indifferente:

E senza perdere d’occhio i periti settori / Raccattanti i pezzi del mio corpo / Aspetta con un pretesto ti prego di controllare / Tu stessa personalmente prima di andartene / Via per sempre.
(MC, Richiesta di assistenza, vv. 26-30)

Anche la madre vera, cui dedica peraltro parecchie poesie (alcune sezioni de L’amore che mia madre, in Autobiologia o in O beatrice), non è una figura dominante come quella paterna, ma mite, quasi mai in primo piano, vive sempre di luce riflessa, attraverso il marito (soprattutto ne Il male dei creditori), attraverso i figli o un amore solo sognato. Già dall’infanzia vissuta, sentita, come depositaria di giudizio, pazienza, modestia, la madre incarna tutte o quasi le virtù cristiane: in questo molto più noiosa del padre, più ristretta, più piccola.
La scissione cattolica tra ubbidienza e scarto si concretizza nelle due figure rivisitate del padre (dissacratore, infedele, inquieto: quindi pagano, sensuale) e della madre (fedele, timorosa di scandali, spirituale). Ed è senz’altro la madre che rappresenta la regola, il limite, la tradizione ricattante: mentre il padre è la tentazione, il diverso, l’istrione, ma anche l’ironia, il lampo di genio.
La colpa di Giudici è dunque quella paterna, quella della disubbidienza rispetto alla consuetudine, del tradimento di una norma accettata dai più. Così l’eresia, anche a livello ideologico (di fede, intendo dire, e di credo politico), mantiene un suo fascino, un suo potere di attrazione, cui emotivamente è concesso di abbandonarsi, ma che razionalmente viene respinto in nome dell’adesione e della compartecipazione alle scelte di tutti. Nell’ortodossia, perciò, c’è salvezza (è ancora il concetto di “comunità” cristiana che sta alla base del comunismo di Giudici), al di fuori dell’ortodossia c’è spazio solo per l’errore e la condanna.

 

LA BOVARY C’EST MOI e PERSONA FEMMINILE

Un paragrafo a parte meritano questi due poemetti (il primo uscito nel 1969 in Autobiologia, il secondo pubblicato nell’ Almanacco dello Specchio del ’77, e poi ne Il ristorante dei morti, Milano 1981): entrambi infatti presentano la particolare caratteristica di essere scritti “al femminile”, per una voce di donna alla quale «saranno concessi i registri lirici che solitamente il poeta si nega, o smonta e rimonta per renderli irriconoscibili». (19)
Queste due “sequenze poetiche” hanno inoltre la particolarità di essere composte di varie sezioni (sei in La Bovary c’est moi, nove in Persona femminile), di due strofe di dieci versi l’una, e di usare un linguaggio “parlato”, fitto di anafore e inversioni.
Le due protagoniste non sono solo idealmente la donna che il poeta ama o vorrebbe, ma rappresentano – e lo suggerisce uno dei due titoli, La Bovary c’est moi – la donna che il poeta è.
Si ha dunque un capovolgimento di situazione rispetto all’usuale, in cui la donna è destinataria di un messaggio (quindi “occasione”, spunto non necessario, nel momento in cui è il messaggio che assume più importanza), oppure è messaggio stesso, oggetto della poesia, donna scritta. Qui, invece, esso diventa soggetto: parla, o meglio, “recita”.
E lo sfasamento poetico è tutto in questa contraddizione, nella falsità del soggetto (donna che in realtà è uomo) e del destinatario (uomo che in realtà è donna).
Perciò in questi due “brani” poetici, la scissione non è più tra morale cattolica costrittiva e ideologia liberatoria del peccato, ma semmai tra due diversi piani di esistenza, quello del reale e quello del fantastico, immaginoso. Reale è infatti l’essere maschio di Giudici, immaginario il suo farsi femmina; e ambigui sono anche i confini tra vita e sogno, tra sincerità e finzione (20):

L’ho toccato / Con gli occhi del pensiero nel sonno che non inganna / Mentre faceva finta di essere un altro
(Persona femminile, I, Carta miracolosa vv. 2-4)

Il luogo era lo stesso, ma preso di peso e portato / Dove eravamo stati bene – //… L’ognigiorno del sogno aveva creato un altrove
(Persona femminile, II, Il luogo, vv. 1-2; 12)

Non posso esserci né arrivarci / E il nulla è tutto se non ci sei: / Quanto ti faccio peregrinare, / Quante avventure ti faccio passare
(Persona femminile, V, Bianco e grigio, vv. 11-14)

Tue parole: scappare in Canadà, non perdere di vista / La vita povero capello demodé / Nella minestra dove ci stanno rimestando.
(Persona femminile, VIII, Propositi, vv. 18-20 )

Potrei supporre di non sapere come sono / e che anche lui si domandi come è possibile che
(La Bovary c’est moi, I, vv. 11-12)

Non può essere la voce di uno che non è qui //…Gli posso far pensare ogni pensiero che voglio: / lei pensa che io penso – mi penserà.
(La Bovary c’est moi, II, vv. 3; 11-12)

la verità del dubbio che tu sia niente / pensiero della mia mente / ma veri i giorni gli anni che per sempre non ti avrò.
(La Bovary c’est moi, vv. 8-10)

Preso atto che la vita non è quale la si vorrebbe, rimane come rifugio la finzione, la recita, la pazzia: i due monologhi sono infatti teatralmente “agiti”, sceneggiati quasi, alla presenza di un immaginario pubblico da cui ci si deve difendere, davanti alle cui accuse ci si deve giustificare:

non nel vicolo / Fitto di facce da festa di streghe / Guardanti me, gli occhi / Che mi rovistano sotto i vestiti e la pelle / Per scoperchiare movimenti, discorsi / Fra te e me – hai poco da nasconderti, / Ammiccandomi – sappiamo tutto!
(Persona femminile, II, Il luogo, vv. 2-8)

Ma con grazia, con dolcezza, quasi fingendo / Che siamo qualcosa che non siamo
(Persona femminile, IV, Verrà il tempo, vv. 11-12)

noi che ci nascondiamo perfino / Nei minimi atti innocui – salire / Sull’autobus, in treno, scambiarci / Orari e attento bene ti raccomando / Che non svelino coincidenze
(Persona femminile, VIII, Propositi, vv. 3-7)

Una diavoleria ci vorrebbe – mentre ripeto / quasi che tu mi senta «le mie notizie / sono che adesso ho guardato la mia ombra»:
(La Bovary c’est moi, III, vv. 1-3)

Poi tutti a bocca aperta che uno come lui / con una come me che nemmeno col pensiero avrei osato.
(La Bovary c’est moi, I, vv. 6-7)

Se questi due aspetti (lo sfasamento realtà/finzione, e il recitare) sono nuovi rispetto alle altre poesie di Giudici in cui compaiono figure femminili, e si spiegano appunto con l’assunzione in prima persona del ruolo di donna (il senso di colpa c’è ancora, ma qui più che al sesso è legato al tradire il sogno – l’utopia – con la realtà), c’è invece ancora tutta una tematica propria delle poesie precedenti, cioè il mito della “fusione”, dell’unione mistica, del “farsi altro”, diventare l’altro:

Arriva da molto lontano il mio aspettarti. / Quanti anni si sono consumati inutilmente / Prima che tu arrivassi nel mondo//…Se manchi tu non c’è niente qui intorno / E di quel che appare io faccio il vuoto / Così com’era prima che tu ci fossi. / Tutte le cose aspettano te per esistere//…Tempo senza inizio di cui sei fine.
(Persona femminile, III, Esserci, vv. 1-3; 13-15; 20)

Io che per tenerti non posso che chiuderti / Nei confini stessi del mio corpo / E più in là non c’è spazio non c’è colore.
(Persona femminile, V, Bianco e grigio, vv. 15-17)

se almeno / potessi toccarti con l’ombra e questi minimi atti, / pèsca sotto i miei denti, muro contro i miei occhi,/ sotto i ginocchi pavimento, un taglio / sulla mano, negli orecchi la mia voce….
(La Bovary c’est moi, III, vv. 6-10)

E devo voltarmi a ogni socchiudersi di porta / se non sia tu – o trasalire allo squillo uguale / a ogni altro se mai non fosse la tua voce
(La Bovary c’est moi, V, vv. 2-4)

Vorrei poterti abolire abolendo me stessa / come abolendo te stesso tu mi potresti abolire
(La Bovary c’est moi, VI, vv. 16-17)

E ancora questo desiderio di “Amore” imbarazza per la temuta retoricità, e deve essere perciò corretto con la solita sterzata di ironia, con un ghigno di prosaicità normale, salutare:

Ma basta con questa confusione di favola, / Volevo dirti – un po’ di ordine finalmente / Anche per noi bianco e grigio del vivere.
(Persona femminile, V, Bianco e grigio, vv. 18-20)

Oppure che stupida storia è tutto questo / Che tengo in piedi per pura pietà di me. // … Guardare simultaneamente alla luna delle ore / Undici di sera? Sminuzzare un fiore.
(Persona femminile, IX; Memoria, vv. 11-12; 15-16)

m’ama non m’ama, / sentimentale peggio d’una puttana.
(La Bovary c’est moi, III, vv. 19-20)

per fare a tutti dire – di cosa mai parla / questa pazza senza pudore / senza il coraggio di morire per amore.
(La Bovary c’est moi, VI, vv. 18-20)

Ironia come arma di difesa, quindi, e non d’attacco. Per difendersi da un sogno (che è la donna, o l’amore, o Dio) che rende diversi, e assicurarsi il rientro nel gregge odiosamato (perché tanta è la paura e la colpa di esserne escluso).
Questi due poemetti sono sintesi e insieme superamento ideologico delle posizioni espresse sulla donna in altre poesie. Sintesi di motivi che abbiamo già visto: la donna come strumento ad altro, “accidente”, “occasione”. Superamento perché (nonostante una decina d’anni divida Persona femminile da La Bovary c’est moi), in entrambi c’è stata l’assunzione di un’ottica diversa: il poeta ha scritto, appunto, al femminile. E in quest’ottica è arrivato a relativizzare l’elemento di diversità tra i sessi, è approdato a una solidarietà fisica che non è più polemica, bensì è la scoperta del dato corporeo – femminile e maschile – quale unica realtà accettabile, verificabile.
L’animalità del corpo (la conoscenza reciproca nell’amore) è perciò una risposta e un punto fermo. Per quanto relativa e contingente (si pensi allo spettro dell’invecchiamento, alla morte come degradazione), essa è l’unico elemento su cui fondare la nostra illusione di immortalità:
Corpo – offeso e adorabile. / O puro spirito.
(OB, Corpo, vv. 37-38)

 

IL RISTORANTE DEI MORTI

L’ultimo volume di Giudici (21) segna un cambiamento sia nei contenuti sia nella forma rispetto ai precedenti: il privato, in esso, diventa meno totalizzante, esiste più interazione tra interno ed esterno, personale e politico. Lo stesso titolo, al di là della prima infondata impressione beckettiana che può suscitare, offre una chiave di lettura.
Il ristorante è infatti luogo di comunicazione e di incontro, e Giudici non ci vede il convivio pagano, quanto piuttosto la “tavola” cristiana, l’eticità espressa dal momento ecumenico del nutrirsi insieme. I morti, poi, non sono i soliti fantasmi dell’infanzia del poeta, ma rappresentano il simbolo di una memoria collettiva, il legame con il “prima” e “l’adesso” di tutti.
Anche se in questa storia, di oggi, si sente isolato, aggrappato a un’idea di paleocomunismo che non trova con chi confrontarsi e assomiglia sempre più a un cristianesimo delle origini, anche se insomma si trova a dialogare soprattutto con i morti, Giudici è comunque uscito da se stesso, approdando a un autobiografismo più controllato, che lascia spazio a un “fuori” e a un “altrui” prima censurati.

Quanto di storia mi è transitato addosso / a me che sono un privato.
(RM, Il ristorante dei morti, v. 16 )

La storia è concretizzata in nomi, fatti, date, in cui anche i temi abituali (la colpa di sentirsi esclusi, diversi; il tradimento; la finzione e la recita; l’ordine in cui gli altri ci costringono) vengono trattati con meno autoindulgenza, con un’ironia e un’amarezza che talvolta sconfinano nel risentimento.
Che posto occupa la donna in un panorama poetico tanto mutato, in cui la metrica stessa è più rigorosa e la sintassi sembra voler eliminare progressivamente tutti i congiuntivi, per lasciar posto solo all’indicativo, tempo del reale?
Naturalmente, un posto più marginale: non è più il tema per eccellenza, ma diventa uno dei motivi che concorrono a formare il libro; inoltre le uniche due sezioni in cui compare una figura femminile sono tra le più datate, composte tra il ’76 e il ’78.
Sulla prima sezione, Persona femminile, mi sono già soffermata: giustamente viene riproposta qui, in un volume in cui l’autore si fa spettatore compassionevole e meno coinvolto della guerra tra i sessi.
Nelle seconda sezione, Toledo, verrebbe da dire che la donna non c’è, anche se vedremo come e quanto sia fisicamente, corporalmente, presente. Non c’è la donna strumento ad altro, non c’è la donna schermo, né l’angelo-la moglie-la puttana.
Non esiste un carattere, un’individualità femminile ben definita: lo scorporamento iniziato in Persona femminile, lo scambio dei ruoli, l’accettazione reciproca in virtù della propria fisicità, arriva alle estreme conseguenze.
I due amanti, «nel sogno che si chiama Toledo / ma non è la città,» (IV, vv. 18-19), vivono nella ricerca ansiosa dei loro corpi, illusi che il possesso sia per sempre e annulli le differenze (« Nel tuo corpo nel tuo pari / Perdo il segno del mio sesso», VIII, vv. 23-24); pronti a puntarsi come capricorni «Animali che l’uno all’altro scavano parole / Osate senza più orrore» (II, vv. 13-14) non appena il corpo non basta più; fino a diventare crudeli l’uno con l’altra, nel momento in cui si ricompone la loro diversità e separatezza: «e poi sempre più a fondo / Fino agli spruzzi di sangue ai tagli senza pietà» (I, vv. 14-15).
Cos’altro resta, a questo punto, se non inginocchiarsi davanti alla bontà di un sesso innocuo, alla bellezza dell’oggetto sessuale, disarmato, incapace di male?

Assaporo il tuo sapore / Madremare con più sale // Alle dita il tuo tepore / Liscio sguiscia umida seta.
(RM, Toledo, VIII, En honneur de, vv. 3-6)

Qui una litania profana e mistica insieme confonde una terminologia sessuale con quella più direttamente religiosa:

Che non sono più me stesso / E in te sola mi converto//…Nella pace del tuo altare / A cui prego genuflesso.
(RM, Toledo, VIII, En honeur de, vv. 21-22; 25-26)

Il corpo di una donna, non più la donna, è osservato con meraviglia e riverenza, amato con composta perizia: Giudici sembra porre in esso un limite ad quem, nella sua ascesa all’Altro, e un limite a quo, da cui partire per scoprire l’Altro. Ogni conoscenza è ridotta a questa essenziale e mai concludibile esplorazione, a questo «ti conosco mi conosco», «all’inventario dei corpi».
Su questa indifesa nudità, su questa purezza animale, Giudici stende un velo di poesia cristiana, di comprensione indulgente, di tenerezza:

Abbia il Signore clemenza dei nostri corpi, li unisca / In nome dell’ignoranza, delle reciproca / Volontà di conoscersi, del pensiero: / Infanti in viaggio verso un luogo senzanome
(RM, Toledo, I, Alba, vv. 17-20)

 

 

NOTE

1. A M. nel tunnel: «Sull’eco dei fragori / s’impenna la tua voce: è un aquilone / tremulo, a un breve vento. / Poi, ritorna lamento / nel silenzio, riottoso tuo soffrire, / allodola ferita in una fossa». Ne L’intelligenza col nemico (IN), Milano 1957.
2. L’educazione cattolica (EC), Milano 1963.
3. A proposito di questo duplice annullamento, fisico e spirituale, è oramai un topos nella poesia di Giudici la tentazione del suicidio come liberazione da sé e conseguimento di un’altra dimensione (Cfr. Il mio desiderio di morire, in O beatrice).
4. Torneremo spesso su questa esigenza di ordine e di rispetto formale per la consuetudine, come garanzia di sicurezza e di infallibilità.
5. Ne Il male dei creditori (MC), Milano 1977.
6. Ne La vita in versi (VV), Milano 1965.
7. Questa vecchiaccia-spettro dell’infanzia (ancora oggetto di una poesia in MC, L’avico e l’amico) diventa simbolo di una figura di donna che terrorizza, nella sua voracità e tirannia. Ne sono un esempio in La liberazione dell’uomo (MC) la moglie del protagonista, megera insopportabile, castratrice («rivolto alla pigra befana / Tutto il giorno a fumacchiare sdraiata / A far parole crociate o solitari di carte. / Aveva l’aria di non vederla un orrore / Ma anzi le sette beltà, la grazia.» vv. 13-16) e in Carnivoro (OB) la femmina dell’animale che, da padrona, si fa mantenere, ottusa e crudele («Il carnivoro addenta sulla radura erba / per la compagna immobile nella sua tana.//…Il carnivoro strappa alla radura erba / per la compagna che nella tana non lo guarda / non calcola il tempo né l’ora se tarda o prossima / non sa nominare la cosa chiamata angoscia» (vv. 1-2; 13-16).
8. Lo stesso senso di colpa davanti alle accuse degli altri si ha in Basta: «L’acquolina in fondo alla bocca / Che talvolta nei baci si potrà ritrovare / O il freddo dentro la schiena fin giù / O l’erezione del membriciattolo quando / Di te per ammicchi allusioni si stava parlando // Che mimetizzato nella piccola assemblea – addio / Adesso qua mi scoprono mi svergognano – tremavi / O perché no facendo finta d’impazzire / Già nudo al cospetto d’ognuno ti spogliavi» (MC, Basta, vv. 1-9). E ancora in La nudità: «…e paura / di scandalo //…dalla cintola in giù dietro la sponda / mia nudità da non vedere» (A, vv. 1-2; 31-32).
9. O beatrice (OB), Milano 1972.
10. Autobiologia (A), Milano 1969.
11. In alcune poesie, l’esaltazione del dato fisico, corporeo, del desiderio è limitata a pochi versi, per poi venire subito riportata a un’altra dimensione: «Sei fatta così bene, così bella / tu sei //… Calda rotonda e tesa – scarti il traffico / all’incrocio» (VV, Nel pomeriggio, vv. 1-2; 7-8); «la giovane magra / scura di pelle e ruvida, ma in giù / tenerissima e bianca» (VV, Autocritica, vv. 23-25); «Dagli occhi senza pentimento / Luce turchina luce ingorda» (MC, Storrs, Connecticut, vv. 7-8); «Mia charmeuse, mia encantadora: // Secoli di tratttati sull’erotismo / Non valgono la tua risata di gola» (MC, A una giovane sindacalista, vv. 6-8).
12. M. Picchi, Beatrice nell’alambicco, L’espresso, 18-6-1972.
13. Il concetto è ancora medievale. Eppure per Giudici la donna non è solo ponte a Dio, ma anche il tramite per cui si arriva a qualcos’altro, davanzale al mondo, legame – per quanto precario – con ciò che è fuori: «Beatrice sui tuoi seni io ci sto alla finestra //… Beatrice dunque di essi non devi andare superba//…i tuoi semplici beni di utilità strumentale / mi servono da davanzale» (OB, Alla beatrice, vv. 1; 27; 31-32).
14. Ancora una volta l’ortodossia, la regola e l’ordine diventano sinonimi di rispettabilità, quindi esigenza di adesione alla norma. E se questa norma pretende scelte non coerenti con la propria intuizione di verità, queste scelte vengono accettate appunto in nome della ragione dei più.
15. L’essere fuori dalla verità dei molti, uscire per un momento dall’esercito allineato, provoca incubi e terrore, paura di non poter tornare indietro: «ma oh quale voragine in quei brevi attimi fra me e voi / marcianti in fila anime candidate d’eroi / un traffico inesorabile //… e io lì bloccato sul marciapiede inesistente…// …è tardi per ritornare// …è tardi – ripetendo – non so più / come fare / per un piccolo sbaglio tutto che va alla malora:» (A, La scappata, vv. 23-25; 28; 34; 36-38); «Così per un piccolo sbaglio una vita intera / d’opere buone va in fumo per un peccato mortale.» (VV, L’educazione cattolica XIII, vv.16-17). Ancora, in una delle più recenti poesie, In regola, ritorna questa paura dell’isolamento e della scomunica: «Basta con questo ostinarti / A essere in regola al cento per cento. / Un minimo di scoperto ci sarà sempre. / Tanto se hanno deciso / A fabbricarti la colpa ci pensano loro://… Lo so che vorresti non nascondere nemmeno una virgola / E figurati se non ti capisco / Io che mi piacerebbe / Tutto limpido come l’acqua.» (RM, L’ordine, In regola, vv. 2-6; 9-12).
16. Proprio riguardo al matrimonio, c’era una atteggiamento di minore acredine, di comprensione illuminata in Le ore migliori (VV).
17. Questo “salto” di impostazione, questa ottica diversa è riscontrabile stilisticamente in una scrittura più meditata, che si fa il verso, che non si prende più troppo sul serio.
18. G.C. Ferretti, in Studi novecenteschi, luglio 1972.
19. F. Bandini, Introduzione, Oscar Mondadori, Milano 1975, pp. 16-20.
20. Da notare che “persona” in latino significa “maschera”.
21. Il ristorante dei morti, (RM), Milano 1981.

 

«Lunario nuovo», VI, 28, gennaio-febbraio 1984, pp. 52-67

RECENSIONI

GIUDICI, SERENI

GIOVANNI GIUDICI-VITTORIO SERENI, QUEI VERSI CHE RESTANO SEMPRE IN NOI 

ARCHINTO, MILANO 2021

La prima tra le quarantotto lettere raccolte nell’epistolario edito da Archinto, Quei versi che restano sempre in noi, era stata scritta da Vittorio Sereni a Giovanni Giudici nella primavera del 1955. L’ultima, sempre da Sereni, il 20 aprile 1982. Un carteggio durato quasi trent’anni, a cementare un’amicizia partita in sordina e in maniera piuttosto convenzionale (fino al 1960 i due poeti si diedero del lei, anzi, del “Lei”) e via via diventata sempre più solida, sincera, fraterna.

La curatrice del volume, Laura Massari, nella prefazione definisce in questo modo il sodalizio tra gli autori: “due poeti così diversi, che si trovano a vivere a Milano al principio degli anni Sessanta: sfuggente nella sua elegante e malinconica profondità l’uno, timido ma presente nella sua irruenza impegnata con la storia e con la vita, l’altro”. Sereni, nato a Luino nel 1913, e Giudici, nato a La Spezia nel 1924, avevano fatto di Milano la loro seconda casa. E proprio alla Milano dei poeti dedica la sua nota conclusiva il Professor Edoardo Esposito, sottolineando quanto il capoluogo lombardo si sia prestato nel dopoguerra ad accogliere e nutrire voci e scritture diverse, favorendo intensi momenti di aggregazione e collaborazione culturale, dibattiti e scontri ideologici accesi, opportunità di pubblicazione su importanti quotidiani e riviste letterarie, incarichi all’interno di case editrici piccole e grandi.

Sereni e Giudici avevano inaugurato la corrispondenza proprio in virtù di uno scambio di pareri sulle rispettive produzioni edite e inedite, offrendosi reciproche occasioni di commenti critici, recensioni e traduzioni, e manifestando sempre vicendevole stima e rispetto, pur nella diversa valutazione di cosa significasse scrivere in versi. Il più dibattuto tra i tanti argomenti affrontati dai due intellettuali era appunto il ruolo rivestito dalla poesia nella cultura e nel mercato librario, la sua origine e destinazione, la sua funzione e responsabilità sociale e politica. Più scettico Sereni riguardo a una finalità concreta e misurabile della parola poetica, più entusiasticamente convinto di un suo compito etico Giudici. Che così rispondeva al diffidente pessimismo dell’amico, ribadendo l’importanza “di una scelta ideologica, di una scelta morale preventiva”: “Se non mi sostenesse l’illusione che i miei versi riescano in qualche (vicino o lontano) momento a incidere nel corpo della storia, a mutare in misura infima la storia del mondo, avrei già smesso di scriverli…”.

Vittorio Sereni, più legato a una dimensione interiore della scrittura, temeva e rifiutava qualsiasi sua intenzionalità didascalica, volontaristica, edificante: “Non ho mai pensato che la poesia potesse aiutare a cambiare, tantomeno a cambiare, qualcosa attorno a noi. Penso al massimo che immetta qualcosa in te o in me o in un terzo, in una piccola folla di terzi; che aggiunga o tolga qualcosa nella vita emotiva di questo o quello”.

L’irrinunciabile sguardo che Giovanni Giudici volgeva, con ironia e autoironia, al reale, alla cronaca, alle motivazioni psicologiche del proprio agire, trovava nella disincantata amarezza, nella perplessa esitazione di Vittorio Sereni uno stimolante motivo di riflessione, che rinsaldava in entrambi la fiducia nella natura essenzialmente comunicativa della poesia, contro il contingente prevalere della neoavanguardia letteraria, concentrata su un estremizzato sperimentalismo linguistico. Tutti e due si dichiaravano determinati a difendere “il buon gusto in letteratura”, temendo di venire persuasi al silenzio, “ammutoliti di tristezza” dalla “babele dell’orda”, quando “fra qualche anno scrivere una bella poesia avrà (non solo praticamente, ma ahimè storicamente) ancor meno valore di oggi”, secondo l’amara profezia espressa da Giudici nella lettera del 24 febbraio 1963.

© Riproduzione riservata                        7 settembre 2021

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RECENSIONI

GIUNTA

CLAUDIO GIUNTA, UNA STERMINATA DOMENICA – IL MULINO, BOLOGNA 2013

Il titolo del volume è tratto da un verso di Vittorio Sereni, e l’ autore così giustifica la sua scelta: «Una sterminata domenica mi è sembrata una perfetta definizione dell’Italia: come se, seduti a cavalcioni delle Alpi, si guardasse verso sud, e l’intera penisola restituisse allo sguardo quest’immagine di placida, inerte ferialità».

Un’ Italia feriale, «irredimibile», quindi, quella raccontata – unClaudio Giunta po’ con rabbia e indignazione, un po’ con rassegnata ironia e divertita leggerezza – da a in questi dodici saggi, accomunati dalla prospettiva «di chi non guarda le cose dal di fuori ma è implicato in ciò di cui scrive: un osservatore partecipante». Interventi militanti, non tenuti insieme da una particolare unità tematica, ma accomunati dall’intenzione di descrivere aspetti non secondari, e comunque interessanti, della vita civile e intellettuale del nostro paese. Fatta eccezione per i due saggi finali, dedicati a visioni retrospettive sugli anni Settanta e Ottanta, gli altri corposi articoli affrontano di petto l’attualità italiana. A partire dalle considerazioni sui meetings di Comunione e Liberazione a Rimini: «un posto in cui tutti credono in Dio; … i cattolici di Cl sono un esempio da manuale di modernismo reazionario: diffidano della scienza, che contraddice a ogni passo le Sacre Scritture ed è muta quando si tratta di interpretare ‘ciò che è nascosto nel cuore dell’uomo’; ma venerano la tecnica. Sono spiriti attivi molto più che contemplativi».

Per passare poi alle amare constatazioni sullo stato delle biblioteche italiane, e scegliere in seguito alcune icone di successo dell’immaginario collettivo da sezionare con impareggiabile acume (Fantozzi e Luciano Moggi), in due brani giustamente molto citati dai critici e dai blogger. Particolare e nuova, nel panorama della saggistica nazionale che esplora la contemporaneità, è l’attenzione che Claudio Giunta riserva alla cultura pop («il pop  -canzoni, film, TV-  è la principale riserva di gioia a buon mercato»), con l’esaltazione di eventi mediatici come Radio Deejay («è stata la via Panisperna della radio-televisione italiana»), di Fabio Volo («mi trovo d’accordo con lui praticamente su tutto»), di Elio e le Storie Tese («hanno un radar per gli aspetti grotteschi della realtà»): in una forse eccessivamente entusiastica fenomenologia dell’effimero di stampo umbertoechiano. Ovviamente non potevano mancare le considerazioni sulla Weltanschauung di Matteo Renzi («Renzi non trema… Ha un’illimitata fiducia in sé… Sembra non avere psiche»). Eppure tra questi capitoli, tutti assolutamente godibili, pungenti, dissacranti, quello che mi è parso più polemicamente stimolante è il secondo, dedicato all’eruzione del vulcano islandese dal nome impronunciabile, avvenuta nel 2010. In queste pagine Giunta riesce a coniugare un’esauriente e oggettiva descrizione del fenomeno naturale, e dei vistosissimi danni economici che ha provocato, con riflessioni eticamente risentite sull’incontenibile dabbenaggine e credulità umana («superstizioni da Medioevo, melassa di irrazionalità New Age, religione, fantascienza, balle contagiose scodellate da internet»), sul ruolo addomesticato quando non servile della stampa e delle comunicazioni in generale («faccenda così mediaticamente perfetta da sembrare studiata a tavolino da un creativo di Endemol»), e sulla falsa coscienza di numerosi intellettuali, laudatores temporis acti, inclini a «nostalgie premoderne… proiezioni narcisistiche… interpretazioni paranoiche». Una corrente di radicato buon senso materialista, di moderato sarcasmo, di non prona ma tutto sommato indulgente consapevolezza attraversa questi dodici «viaggi nella tragicommedia italiana»: tragicommedia di cui Claudio Giunta si rivela contemporaneamente interprete, fustigatore, e affettuoso seguace.

 

«incroci on line», 25 febbraio 2014

RECENSIONI

GIVONE

SERGIO GIVONE, STORIA DEL NULLA – LATERZA, BARI 1995

Scrivere un libro sul nulla, come concetto che percorre tutta la storia del pensiero occidentale, ha senso? Scrivere, cioè, proprio sul nulla assoluto, su ciò che non è, sul non-ente (e non sull’assenza, la mancanza, il nulla relativo; o su quel nulla particolare, storicizzato, che è il nichilismo): è possibile?
L’ha fatto il filosofo Sergio Givone, raccogliendo in  Storia del nulla (Laterza) saggi che spaziano dai presocratici ad Heidegger, da Leopardi a Celan, e indagano appunto ipotesi filosofiche e suggestioni letterarie riguardanti il non-essere.
La tesi di Givone (ripresa in parte da Severino, ma per giungere a conclusioni antitetiche) è che il concetto del nulla sia il grande rimosso della filosofia occidentale, quasi un fenomeno carsico che si affaccia alla riflessione teorica a distanza di secoli, là dove logica (che vieta di pensarlo) e metafisica (che lo nega) cessano di esorcizzarlo, cancellandolo come alternativa all’essere; mentre si ripropone nelle filosofie che ammettono il nulla come fondamento dell’essere, ed esplorano un’ontologia della libertà che da Plotino attraverso Schelling arriva al nostro Pareyson.
Il nulla indagato da Givone non è una forma di negatività opposta all’essere (non ricalca, quindi, la Grundfrage di Liebniz: «Perché l’ente anziché il niente?»), bensì il principio di libertà che permette all’essere la scelta fondamentale tra l’esistere e il non esistere.
Il nulla, dunque, come libertà estrema; luogo per eccellenza di tutto ciò che è possibile: un nulla che assomiglia non poco a Dio, «all’abisso della libertà» che alcuni chiamano Dio.
Questo «discorso temerario» mutuato da Luigi Pareyson, che approssima scandalosamente Dio al nulla, in un’esperienza vorticosa coniugante perdizione e salvezza, non è tanto interessato a un percorso di fede, o a un’attribuzione di verità al Dio cristiano piuttosto che al Dio della tragedia greca.
Scegliere Dio è scegliere il senso dell’essere, la libertà, e quindi il nulla che ne è il fondamento. Filosofia e religione accomunate dalle stesse emozioni (stupore, gioia, angoscia di perdita, orrore della fine) di fronte al miracolo dell’esistenza, combattono in Givone la stessa battaglia contro l’indifferenza del nichilismo, che oscura il senso dell’essere e condanna l’uomo all’assenza di scopo, alla pura apparenza.

 

«L’Arena», 20 maggio 1996

RECENSIONI

GIVONE

SERGIO GIVONE, SULL’INFINITO – IL MULINO, BOLOGNA 2018

Nell’originale e stimolante collana “Icone” de Il Mulino, curata da Massimo Cacciari (sono già usciti due volumi, dello stesso Cacciari e di Paolo Legrenzi), ogni autore, partendo dal commento di un quadro famoso, allarga e nello stesso tempo focalizza la sua indagine filosofica e sociale su un argomento teoricamente rilevante nella storia del pensiero: la divinità, il corpo, la giustizia, o – nel caso di cui ci occupiamo ora – l’infinito. Sull’infinito si intitola appunto il saggio di Sergio Givone, professore emerito di Estetica all’Università di Firenze, che nei suoi testi scientifici e narrativi ha affrontato a più riprese i temi del nichilismo, del divino, della libertà e del nulla. Sulle copertine fronte-retro e all’interno del volume è riprodotto il famosissimo Viandante sul mare di nebbia che Caspar David Friedrich dipinse nel 1818, e che secondo Givone aprì «un nuovo capitolo della storia dell’arte occidentale» nella definizione dello sfondo e della prospettiva, dando ad essi una più rilevante impronta di ricerca interiore. «Se in un paesaggio non saprai vedere qualcosa che giace nel profondo della tua anima, non vedrai nulla», aveva scritto l’artista, animato da un’inquietudine religiosa e metafisica già impregnata di romanticismo.

Del Wanderer protagonista del quadro non conosciamo il volto. Lo vediamo ritratto di spalle, in elegante abito nero, appoggiato a un bastone da passeggio, sicuramente saldo sulle gambe in cima a uno sperone di roccia. Non sembra stanco, o reduce da una faticosa arrampicata. Intuiamo in lui un signore di città che si è spinto in vetta a una montagna e da lì osserva il “mare di nebbia”, fissando l’oltre e l’altro da sé (il chiarore dell’alba intuito tra le montagne, i sassi intorno, lo scenario indistinto nella foschia): forse è uno scienziato, un uomo di cultura, o un “turista dello spirito”. Certamente sta riflettendo su ciò che vede: un panorama né idilliaco né minaccioso, contraddistinto da luminosità e silenzio, che lo proietta in una «vertiginosa profondità» di sguardo, di pensiero, di sentimenti. La natura sconfinata, nei suoi elementi grandiosi e incontrollati, spaventa per la vastità e per la potenza; davanti ad essa l’uomo avverte la sua piccolezza e insignificanza: tale consapevolezza lo deprime e umilia, ma nello stesso tempo lo commuove ed esalta, perché pur cosciente della propria fragilità, si riconosce parte del mondo che osserva, e lo può comprendere. È, per dirla con Pascal, «uno stelo pensante»

L’analisi di Givone utilizza contributi di letterati (Goethe e Leopardi) e filosofi (da Anassimandro a Plotino, da Giordano Bruno a Kant, da Fichte a Hegel, e infine da Schopenhauer a Nietzsche), che nel corso dei secoli hanno negato o conferito realtà al concetto di infinito, di per sé indefinibile e irrappresentabile, non solo artisticamente, ma anche scientificamente. La contraddizione che sorge meditando su di esso «è quella tra una totalità chiusa, onnicomprensiva, e una totalità aperta, progressivamente aumentabile»; tra il mare del nulla in cui si lascia dolcemente naufragare Leopardi, e la concretezza di un universo reale che tutto comprende in sé, come lo definiva Hegel; tra «l’annichilimento nichilistico dell’io» e il suo «potenziamento dionisiaco». Il Viandante di Friedrich, di fronte allo spettacolo dell’infinito, sperimenta esteticamente il Sublime, senza annullarsi, senza esaltarsi, ma prendendo coscienza della propria capacità di pensarlo: «E che cosa vede, in sé stesso, se non il campo sconfinato e illimitato di tutte le esperienze possibili? L’anima non ha confini, aveva detto Eraclito l’oscuro…». L’essere umano possiede l’idea dell’inconoscibile, alla sua ragione «è dato di conoscere secondo verità e alla volontà di agire secondo verità», e prima di scoprire l’infinito fuori di sé deve averlo già scoperto in sé stesso. Ma dall’interiorizzazione si deve passare all’esteriorizzazione, dal dentro al fuori, dall’io al mondo, dall’infinito ideale all’infinito reale. Perché esistono, secondo Sergio Givone, due infiniti: uno negativo e uno positivo. Il primo, privo di significato e finalità, può produrre uno smarrimento metafisico e il dissolvimento di ogni valore, il secondo offre una pienezza di senso, una riappropriazione della vita, per cui «cessa di essere ipotesi mentale e diventa oggetto di esperienza».

Cambiando prospettiva, l’infinito si converte da «limite negativo a positivo illimite», da cifra del nulla e del vuoto, a volto di una realtà traboccante di presenze e tracce divine, capace di abbracciare «luce e buio, visibile e invisibile, terra e cielo». Allora il mare di nebbia osservato dal Viandante è il visibile più prossimo all’invisibile, illuminato da una luce di trascendenza che lascia irrompere l’infinito nel mondo, trasformandolo, liberando il tempo dal suo passato e dal suo futuro e tuffandolo nel mare dell’essere.

 

© Riproduzione riservata        «La poesia e lo spirito», 2 marzo 2018

 

 

RECENSIONI

GIVONE

SERGIO GIVONE, IL BENE DI VIVERE – MORCELLIANA, BRESCIA 2011

Il dialogo tra Sergio Givone e Francesca Nodari prende l’avvio dall’humus familiare in cui si è formato il filosofo piemontese, nato da una famiglia contadina nel 1944, e dalle sue prime letture, in un paesaggio dominato da brume e risaie. Anni non facili per una bambino meditativo qual era lui, intento a scoprire il mondo intorno a sè e sopra di sè, con un interesse precoce per Leopardi e Fogazzaro, ma anche per l’astronomia volgarizzata da Flammarion. Dopo il liceo classico, e la scoperta entusiasta dei tragici greci, furono gli studi universitari a Torino che incisero di più nella sua cultura: lettura dei capolavori russi e frequentazioni di ambienti teatrali e musicali, che per poco gli fecero balenare l’ipotesi di scegliere una carriera artistica. Ma poi la decisione irrevocabile di dedicarsi alla filosofia: “non la sovrastruttura, ma la struttura. Vale a dire: la sostanza, la vita, l’anima delle cose”. Alla scuola di Torino i due nomi più noti si fronteggiavano con indirizzi diversi, seppure entrambi rifacentesi all’esistenzialismo: Abbagnano e Pareyson. Il giovane studente che proveniva dalla campagna “avvertiva una tensione intellettuale, un fuoco… in grado di appiccare incendi”. Vicino a lui, assitenti che sarebbero diventati dei capiscuola del pensiero filosofico italiano. Partendo dall’ “ineliminabilità del momento platonico della filosofia”, il giovane Givone fu attratto dai temi fondanti del pensiero dai presocratici in poi: la verità, il bene, la religione. E poi la scienza che scopre e l’arte che inventa, attraverso i giganti della filosofia: da Plotino fino a Jonas, passando per Pascal a cui dedicò la sua tesi. L’esposizione di Givone approfondisce i nodi fondamentali della sua ricerca, che ha toccato soprattutto i temi dell’essere e del nulla, l’esistenza di Dio e della Provvidenza, il dolore innocente, la libertà, il male. E poi il tempo e la storia, il destino e la colpa. Sono pagine di profondo anelito verso la verità, che portano il lettore ad altezze inconsuete.

IBS, 27 maggio 2011

RECENSIONI

GIVONE-BODEI

SERGIO GIVONE-REMO BODEI, BEATI I MITI PERCHÉ AVRANNO IN EREDITÀ LA TERRA

LINDAU, TORINO 2013

Due filosofi, Sergio Givone e Remo Bodei, il primo credente il secondo ateo, affrontano il tema della mitezza sotto il profilo filologico, teologico e storico. Commentando il brano di Matteo 5,5 che pone questa dote al terzo posto nella scala delle Beatitudini (“Beati i miti perché erediteranno la terra”), entrambi i due autori concordano nel ritenere l’essere miti un valore, anziché un difetto o una debolezza, come oggi viene prevalentemente intesa dalla maggioranza delle persone, e dall’ideologia politica e sociale dominante.

Givone definisce il mite “colui che sopporta non per rassegnazione, ma per convinzione… non dispera neppure di fronte alle difficoltà più gravi e quando tutto sembra perduto… sa essere comprensivo, benevolo, ospitale nei confronti del suo prossimo e perfino del suo nemico: in una parola caritatevole”. La mitezza è un dono dello spirito, la più alta delle virtù, la meno compromessa con le tentazioni del mondo e la più vicina al cuore di Dio: essa si manifesta in atteggiamenti non aggressivi, pazienti, aperti al confronto, tolleranti. Mite per eccellenza è Gesù, l’Agnello che porta su di sé i mali e i peccati degli uomini, giusto e insieme indulgente, umile, semplice, puro. Se nel Medioevo si predicava la mitezza nella sua accezione ascetica e mistica, oggi la si interpreta soprattutto in chiave etico-politica, in ubbidienza alla teoria e alla pratica della nonviolenza, con riferimenti al pensiero di Tolstoj e di Gandhi. Tra i filosofi novecenteschi che più si avvicinano a tale visione di impegno morale, Hans Jonas contrappone il “principio responsabilità” al “principio disperazione”, indicando nell’azione umana tesa a preservare l’ambiente e la vita il comportamento più responsabile e generoso nei confronti delle generazioni future. Givone ritiene che la ricompensa evangelica fatta ai miti di ereditare la terra, non sia ovviamente una promessa di vantaggio materiale, ma denoti invece la prospettiva di abitare la casa di Dio nella pace, facendosi carico di ciò che l’esistenza terrena è, in totale accoglienza e totale consenso con il prossimo e con il Signore.

Remo Bodei, offre al lettore un’interpretazione laica della mitezza, insistendo sulla forza e l’audacia di tale valore, che rende chi lo incarna capace di controllare le proprie passioni, di resistere al male con fermezza e senza scoraggiarsi, rinunciando all’ira, alla violenza e alla vendetta. “I miti sono le persone pazienti, quelli che non chiedono niente per sé… che non si credono importanti e non si gloriano di sé stessi, che sono capaci di superare ogni difficoltà e che proprio per questo erediteranno la terra”. Bodei indaga l’etimologia del termine greco praous (mite) così come viene usato nei Vangeli, in Aristotele, nello stoicismo, nella teologia, per cui la mitezza non ha il significato negativo che le attribuiscono i moderni: di passività, apatia, rassegnazione imbelle. È invece consapevolezza sicura di sé, serenità, autodisciplina, moderazione, discrezione. Tra i pensatori del ’900 che più hanno rivalutato questa virtù cita Schweitzer, Bonhoeffer, Bobbio, Giuliano Pontara e Gustavo Zagrebelsky, ciascuno dei quali ha dato una sua definizione della scelta attiva e propositiva della mitezza.

Tra le tante proposte, quella che personalmente preferisco è “lasciare che l’altro sia sé stesso”.

 

© Riproduzione riservata      4 novembre 2019

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