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RECENSIONI

GRASSO

SILVANA GRASSO, SOLO SE C’E’ LA LUNA – MARSILIO, VENEZIA 2017

«Notte di lunapiena era stata, e un incendio di luce albina, spaventosa, magnifica, aveva furiosamente rovistato tra rami di ciliegio maturi, anche loro ormai prossimi al parto. Ma i ciliegi non soffrivano come le femmine, quando partorivano». Così l’incipit di questo intenso romanzo di Silvana Grasso, scrittrice siciliana tra le più originali delle nostre lettere, indagante con coraggiosa e inventiva caparbietà nelle pieghe e nelle piaghe sociali, morali e linguistiche della sua isola. Sul parto doloroso e difficile della giovane Gelsomina si apre la narrazione, da subito testimoniante una scrittura corposa e carnale, densa di metafore spiazzanti, che sempre accomunano gesti ed espressioni umane alla fisicità di una natura pulsante, viva e crudele nella sua vegetazione e nei suoi animali. Facce che sembrano alberi, mani che si trasformano in zampe, cieli arsi da un sole vendicativo o illividiti in costellazioni glaciali.

Gelsomina Caltabellotta, contadina semianalfabeta e poco intelligente, con l’unica ossessione dell’intaglio e della scultura, è costretta dal padre a sposarsi sedicenne con il cinquantenne Girolamo Franzò, tornato ricco in paese dopo un’emigrazione trentennale in America. Personaggio a tutto tondo, questo Girolamo che si fa chiamare Gerri, e imbastisce il suo dialetto siculo di americanismi ridicoli nella loro spavalda presunzione: bisinès, marketinghi, fastifud, oddogghi,  coctèl, fifti fifti, unisecsi, occhèi. Senza dimenticare tuttavia la sua imbastardita lingua madre (furrìa, alluppiato, majarìa…) che infarcisce di frequentissimi “figli di buttana!” e “cazzo!”, coerente con la sua statura di volgare vanesio, “esaltato quanto coglione”, convinto di potersi comperare il mondo intero: parenti, dipendenti, donne, chiesa e politici compresi. Di ritorno da Chicago, dove era emigrato da bracciante affamato e rabbioso, e dove aveva fatto fortuna, Gerri Franzò crea un impero economico, un enorme bisnès di fabbriche di saponi e prodotti cosmetici (la “Gerri Soap”), abbagliando il suo arretrato paese, rassegnato a un immobilismo secolare e ignorante, con lo sfarzo di un lusso esibito e sfrontato. Disprezza familiari e compaesani («Qui sono ancora all’antidiluvio, qui vivono come capre, non c’è volontà d’emanciparsi, di conoscere cos’altro c’è oltre la terra, gli ulivi, le vigne, i conigli, le galline, le vacche»), ma cerca la sua rivalsa nel matrimonio con una ragazzina vergine e ingenua, nella speranza di ricavarne dedizione, gratitudine e prole vigorosa. Rimane deluso e scornato: la moglie è «scimunita ritardata rancorosa», chiusa in un mutismo superstizioso; l’erede sperato è purtroppo femmina, un «pezzo di lacerto di manzo, una bambola di panno lenci, colore del cuore di coniglio… una serpicina di carne stitica, bianchiccia… che di bello aveva solo il nome della luna, ‘Luna’». La bambina oltretutto è malata di una sindrome rarissima e incurabile, che la costringerà a vivere al buio per tutta la vita, protetta da qualsiasi raggio di luce che potrebbe scatenarle allergie dermatologiche e respiratorie letali: può uscire di casa solo la notte, Solo se c’è la luna. Crescendo, pallida e superba, tra lei e l’astro celeste si creerà un’empatia sentimentale e culturale condivisa solo con l’amica che il padre le impone come custodia fraterna, Gioiella: una ragazza orfana, bellissima e sensuale, ma ruvida e altera.

La seconda parte del romanzo racconta il legame morboso e ribelle che si instaura tra le due ragazze, imbastito di erotismo, talvolta eccessivamente ostentato, con un turpiloquio esuberante e insistito. Il sesso rifiutato sdegnosamente da Gioiella, ed esplorato con avidità da Luna, si impone con tutto il suo brutale e prepotente giogo, finendo per assoggettare tragicamente le due amiche in uno spietato destino di autodistruzione. Rimarrà a ricordarle il vecchio Gerri, con la sua boria post-americana, facendo costruire pacchiani mausolei in memoria, e progettando nuovi prodotti di bellezza  battezzati “Luna”, per una nuova e vincente strategia di marketinghi.

 

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www.sololibri.net/Solo-se-c-e-la-luna-Grasso.html     7 gennaio 2017

 

 

 

RECENSIONI

GRIFFERO

TONINO GRIFFERO, QUASI-COSE – BRUNO MONDADORI, MILANO 2013

Seguendo i suggerimenti fenomenologici di Hermann Schmitz, Tonino Griffero dedica questo suo stimolante e documentatissimo volume a “cose” che propriamente cose non sono: Quasi-cose, semi-cose, che ci circondano e pervadono le nostre esistenze, modificandole, condizionandole.
Suggestioni variabili ed effimere, vaghe e fluide, private e pubbliche: atmosfere, e sentimenti. “Le quasi-cose hanno un’esistenza intermittente… sono più attive delle cose… generano un irresistibile coinvolgimento affettivo… ci aggrediscono improvvisamente dall’esterno”.

Come, meteorologicamente, l’aria e il vento. Oppure come la luce, lo sguardo, il dolore, la vergogna. Tonino Griffero afferma provocatoriamente che forse non è sempre inevitabile identificare i sentimenti con i processi neurali: si può addirittura supporre che essi giungano all’uomo da “fuori” e non da “dentro”. Questa sua strategia di esternalizzazione tende a “depsicologizzare atmosferologicamente l’intera sfera emozionale, facendo cioè dei sentimenti delle affezioni (…) non circoscritte ai confini del corpo (…) ma effuse in uno spazio ‘vissuto’”.

Tesi indubbiamente affascinante e originale, spesso contestata filosoficamente e scientificamente, ma di indubbia presa emotiva. Quindi le atmosfere sarebbero “enti” non solo intersoggettivi, ma quasi-oggettivi: gli esempi elencati (dalla morte di Lady Diana che sconvolse intere popolazioni, al tifo nello stadio, alla malinconia di fronte a certi paesaggi) inducono il lettore a pensarsi non più come un percipiente assolutamente unico e irripetibile.
Griffero ribadisce infatti “il carattere soprattutto esterno, straordinariamente invariante dei sentimenti”.

“Impariamo chi noi siamo più dal patire…che dall’agire”: dolore e vergogna ci insegnano moltissimo sulla nostra impotenza e fragilità, e “sugli aspetti, faticosamente rimossi, della nostra personalità”. Nostra, e di tutti.

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Quasi-cose-Tonino-Griffero.html     3 agosto 2016

RECENSIONI

GROSJEAN

JEAN GROSJEAN, IL MESSIA – QIQAJON, BOSE 2024

Le Messie di Jean Grosjean uscì in Francia nel 1974: oggi lo ripropone la casa editrice Qiqajon di Bose nella limpida traduzione di Emanuele Borsotti, con prefazione del Cardinale José Tolentino Mendonça e un’appendice composta da sette “spigolature” di Christian Bobin.

Poeta, scrittore, teologo e traduttore (Parigi 1912 – Versailles 2006), Jean Grosjean fu ordinato prete nel 1939, tornando allo stato laicale dieci anni dopo. Pubblicò numerose raccolte di versi, principalmente di ispirazione religiosa, e innovative rielaborazioni di episodi biblici. Si cimentò in traduzioni impegnative, dai tragici greci a Shakespeare, dal Nuovo Testamento al Corano, ma il suo nome viene ricordato soprattutto per le originali interpretazioni dei testi sacri, tendenti ad approfondire ed espandere il loro significato letterale, esaltandone allo stesso tempo il valore letterario e l’atmosfera poetica. Proprio sul gioco ermeneutico instaurato tra scrittura, riscrittura e lettura si sofferma l’acuta introduzione al testo di Tolentino Mendonça, mentre Bobin sottolinea il carattere profondamente meditativo di Grosjean, il cui “cuore di cristallo”, “cuore sovra-illuminato” sapeva coniugare la sapienza teologica con uno stile elegantemente essenziale.

Nel Messia lo scrittore immagina, prendendo spunto dal materiale neotestamentario, in che modo Gesù possa aver trascorso i quaranta giorni tra la resurrezione e l’ascensione, traendone una narrazione sul filo del fantastico e del prodigioso. L’icastico e surreale incipit del romanzo presenta il Risorto accompagnato da altri morti tornati a vivere nelle sembianze di fantasmi, per rivedere i cari che hanno lasciato:Gesù camminava sotto le stelle. Doveva essere guardingo per riabituarsi a vivere. Si limitava a frequentare le tombe e il suo passaggio ne risvegliava gli ospiti. Per insignificanti che fossero stati, avevano avuto la sua stessa esperienza di naufragio. Si alzavano, pronti a fargli da scorta, ma lui li congedava gentilmente, lasciandoli impacciati nella loro resurrezione”.

Gesù sollevatosi dal sonno della morte si mette a sedere nel sepolcro e si libera dalle bende che lo avvolgevano, scavalca i corpi addormentati delle guardie e si incammina nella notte, “meravigliosamente malsicuro”, cercando di riambientarsi alla vita. Cammina a piedi nudi sull’erba rugiadosa di inizio primavera, ascolta le tortore tubare tra i cespugli, poi torna al sepolcro per spiare le donne e i discepoli che cercano il suo cadavere sparito, osserva Maria Maddalena angosciata davanti alla tomba vuota, e le rivolge parole di consolazione nella lingua dialettale che li accomunava in vita. Poi si allontana, senza lasciarsi toccare dalla donna che, dopo sua madre, aveva più amato.

Tornare a esistere, a confondersi con la gente, a godere nuovamente di ogni respiro, prima creatura risorta dal momento della creazione, è un’impresa vertiginosa nella sua unicità, richiede coraggio e prudenza: implica la solitudine più assoluta, perché oscilla tra il vuoto della morte e il troppo pieno di una vita che non offre appigli a cui aggrapparsi. Sulla strada per Emmaus il Messia incontra due viaggiatori, li riconosce ma non viene riconosciuto; parla con loro, cerca di scuoterne l’ottuso torpore. Non appena un vago turbamento li sfiora, forse un sospetto di verità, allora riprende il suo cammino solitario, invaso dallo stupore per la bellezza di ogni cosa che vede: fiori, sabbia, uccelli, rettili. Bellezza sconfortante, la civetteria della natura! Qualcuno si nasconde dietro l’incanto del paesaggio come fosse un’esca. È forse il Padre? “Gesù era solo, fra un Dio dalle tracce sfuggenti e una terra dalle apparenze ingannevoli”. Intanto gli apostoli raccolti nel cenacolo da tre giorni, rancorosi, si accusano a vicenda di aver abbandonato Gesù: quando lui si ripresenta, avverte in loro più imbarazzo che gioia, più timidezza che adesione. Anch’egli li sopporta a fatica, e tornato ad avvolgersi nella notte, viene illuminato dai bagliori delle armature di una schiera di arcangeli, mandati dall’alto a vegliare sul suo cammino. Umana realtà o sogno sovrumano, la sua figura è sospesa tra carne e spirito, concreta e immateriale nello stesso tempo. Dio tace, il Padre non si mostra.

Il Messia fa altri incontri, va in cerca di chi aveva preso parte alla sua vita terrena (Lazzaro con le sorelle Marta e Maria), ripete i miracoli che aveva compiuto durante i tre anni di missione pubblica, rivive la trasfigurazione sul monte Ermon, il rinnegamento di Pietro, lo strazio dell’abbandono nel Getsemani, rimmergendosi nel passato: “Così, senza mangiare né dormire, Gesù frequentava in segreto i luoghi che erano stati suoi e dove pensava di ritrovare il cammino verso il suo Dio, quel cammino che era stato doppiamente offuscato dai tormenti della morte e dalle sorprese della resurrezione”.

Grosjean inserisce nella topografia dei luoghi attraversati dal Risorto i nomi di piccole località della Borgogna (Montussaint, Crénu, Puessans), dove a lungo aveva abitato con la moglie, nel paese di Avant-lès-Marcilly, e introduce oggetti, architetture, suoni, cerimonie e personaggi sia novecenteschi sia di epoche lontane (il condottiero cartaginese Annibale, l’imperatore Tiberio), a significare che la Resurrezione è evento che si produce e rimane al di là del tempo e dello spazio. Infine, davanti a una piccola folla di proseliti, viene assorbito da una nube, sollevandosi da terra, mentre il paesaggio si fa sempre più lontano e il cielo si avvicina. Raggiunge finalmente il Padre, si pone alla sua destra, e insieme si incamminano “nella grande frescura degli spazi”.

Il Gesù di Jean Grosjean ci appare umanissimo e divino, nella sua fragilità di creatura risvegliata dalla morte e nella forza luminosa di una rinascita destinata a durare in eterno.

 

© Riproduzione riservata     «La Poesia e lo Spirito», 6 aprile 2024

 

 

RECENSIONI

GRUENBEIN

DURS GRÜNBEIN, STROFE PER DOPODOMANI – EINAUDI, TORINO 2011

Quando la poesia ha davvero qualcosa da dire, da raccontare, allora trova sempre le parole più giuste per farlo. E sono parole oneste, ricche di echi interiori, e insieme specchi di vita concreta, reale, carica di pensiero ed emozione. Così sono i versi di questo volume di Durs Grünbein, sintesi di due raccolte pubblicate in Germania, tradotto con fedele originalità da Anna Maria Carpi: si tratta di un poeta che vivaddio non si vergogna di scrivere ancora poesia civile, di parlare della storia di tutti e della sua personale immersa però in quella del mondo, di celebrare l’amore senza retorica ma anche senza stanchezza, di tentare persino una definizione estetica della poesia: «Filosofia in metrica, musica / d’allegri salti / da parola a cosa. // La miglior guida, al momento dell’esodo da questa / notte umana». E tuttavia la scrittura rimane solo un surrogato della vita vera: «Fratelli, lo sapete, anche se a volte prende il volo un verso, / subito atterra. E nulla contiene la fossetta del mento. / Si dà per qualche istante che un cervello si stringa a un altro – / ma che c’è nelle sillabe se non io sono, io sono?» Eppure questo “io” del poeta sa farsi voce universale, sia quando racconta dei suoi nonni proletari, o delle sue vacanze sentimentali in un’Italia antica ed eterna («Se non era amore quello, noi non siamo mai esistiti»), o del parto difficile della sua bambina («Die so sehr Gewollte – la voluta tanto»). Ma soprattutto se narra, lui nato a Dresda nella DDR, e oggi residente a Berlino, dell’epocale trasformazione politica vissuta dal suo paese: «Com’era bello vivere quand’era tutto male, / case in rovina, sotto le betulle materassi a bollire. / Un’infanzia fuori Dresda fino all’occupazione di Praga… / E il sogno restaurava quel che fuori mancava. // Polvere o foschia o fuliggine – l’animo presto oppresso / dal paesaggio intorno, caratteri di piombo, stampa in grigio».

Un’infanzia bigia, in trappola, con ribellioni sognate in periferie operaie rassegnate e impaurite, senza dei e con scarse utopie «Che soluzione? Qualche trucco sì, si sapeva. / Poi passarono gli anni. Dell’umano restò l’idea, / non metà, non intero, una frazione», «Pesante l’aria, in compenso si stava più vicini. / Si mangiava male e abbondante». Era un universo, quello comunista di «dogmi arrugginiti»: «Be’ certo, gli affitti erano bassissimi». Ma adesso, nella Germania capitalistica e multiculturale, libera e impietosa? «La raccolta rifiuti è puntuale. Sia lode al sistema, / ora lo sciopero si chiama sciatteria. La città mette su pancia». Eccola, allora, «Berlino, questo mostro», «quest’alito di metropoli che desta compassione»: il poeta Gruenbein diventa «il testimone non richiesto», il «sopravvissuto» che afferma «A ogni rovescio mi è più familiare il mondo». Per cui il futuro si materializza in un dopodomani minaccioso quanto il passato, o addirittura irreale: «E’ il 40 d’aprile, un giovedì. / Compagno, il tempo è pazzo, / la paura ti attanaglia». I contorni del mondo si fanno incomprensibili, il suo progredire nel tempo imprevedibile e irreparabile, prendono piede il «distacco da me e da tutti gli altri», la moderata disperazione, l’aggrapparsi alle storie del mito, o all’incredibile leggerezza delle risate infantili. Perché noi, gli adulti, che ci illudiamo di fare la storia, di creare cultura, «dentro pesiamo come bolle di sapone», e il nostro io è ormai diviso. «Non parte da lui una crepa che attraversa il mondo?». Eppure il peso di queste lucide parole resta. La loro verità, anche se relativa, salva ancora. E hanno coraggio di continuare a pronunciarla, magari con meno ottimismo, ma con tenace ostinazione.

 

«Poesia» n. 268, febbraio 2012

RECENSIONI

GRUENBEIN

DURS GRÜNBEIN, I BAR DI ATLANTIDE – EINAUDI, TORINO 2018

Dei quindici saggi compresi in questo volume einaudiano, alcuni sono direttamente autobiografici: in essi Durs Grünbein non utilizza pretesti narrativi per parlare di sé e della sua produzione in versi, ma racconta semplicemente come è nata la sua vocazione di scrittore, negli anni «grigio cenere» dell’adolescenza a Dresda, quando si imbatté per caso in Novalis e Hōlderlin. O ancora prima, quando bambino imparava dal nonno, valente enigmista, «l’appetibilità che hanno le parole». Nella conclusiva Postilla su me stesso offre poi ai lettori una lucida decifrazione del senso e della funzione della scrittura poetica. «Scrivere poesie è anzitutto un esercizio di radicale autoesplorazione»: da questo assiduo e severo scandaglio interiore, ogni poeta, «eremita in mezzo alla società», impara «a essere solo, non conforme, senza obblighi verso nessuno, ‒ verso nessun potere esterno, verso nessun principio superiore (religioso o filosofico), neppure verso una corrente letteraria predominante». Purché la poesia non si riveli puramente ornamentale o cerimoniosa, ma sappia mostrare «i propri muscoli, il proprio ghigno irriverente, la dolcezza che si prova nel distruggere le forme», allertandosi nell’osservazione dell’attimo rivelatore, dei dettagli sparsi nelle «piccole cose tragiche come pure nelle grandi cose comiche della vita». Fedele a questa intuizione, descrive allegrie e naufragi, disastri e trionfi della storia e della natura, nel modo in cui la poesia universale ce li ha tramandati. Sia che parli con entusiastica ammirazione delle teorie evoluzionistiche di Darwin, o con turbamento dell’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., o ancora dell’utilità della citazione in grado di ispirare il processo creativo; sia che rappresenti come metafora letteraria il mondo sottomarino da lui esplorato nello sport subacqueo, o commenti in maniera puntuale ed empatica La Giostra di Rilke, o illustri la meraviglia di un diorama zoologico, Grünbein riesce sempre a mettere in collegamento qualsiasi acquisizione culturale (sua personale o dell’umanità intera) con il prodigio dell’invenzione poetica. Il processo mentale che conduce alla composizione di una lirica viene smontato nei suoi labirintici e arcani percorsi, dalla genesi alle scelte formali fino al risultato conclusivo. Particolarmente in un saggio, Il mio cervello bionico, l’autore utilizza gli ultimi risultati della neurobiologia e della fisiologia per approfondire i meccanismi che determinano le opzioni stilistiche di chi scrive in versi. «Il poetare comincia come stratificazione di stadi della coscienza dapprima del tutto senza senso che il singolo deve attraversare a fatica o a passo di danza, senza curarsi di causalità e cronologie». In modo frammentario, a salti, «in balia dei suoi attacchi improvvisi», recuperando memorie, immagini, esperienze, passioni amorose o politiche, il poeta trasforma gli stimoli più vari e confusi in visione, sincronizzando «in un atto di immaginazione fulminea» la sua percezione personale con il pensiero di tutti, al fine di organizzare «nello spazio più esiguo il massimo dei riferimenti». Perché il poeta è, e deve continuare a essere, anche filosofo, in grado di conciliare cielo e terra, l’ideale con il concreto, producendo nei suoi versi «una mescolanza di amore per l’aldiqua e di curiosità per la metafisica»: fenomenologo che lavora per arricchire l’immaginario di ciascuno di noi.

 

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https://www.sololibri.net/I-bar-di-Atlantide-Grunbein.html               10 luglio 2019

RECENSIONI

GRUENBEIN

DURS GRÜNBEIN, DELLA NEVE, OVVERO CARTESIO IN GERMANIA – EINAUDI, TORINO 2005

Il poeta che in Europa si è più avvicinato al pensiero scientifico, esplorando le conquiste della neurobiologia, del cognitivismo, della psicanalisi, della fisiologia, è senz’altro il tedesco Durs Grünbein, nato a Dresda nel 1962, e oggi residente a Berlino. Il suo approccio positivista (anzi, decisamente materialista) alla scrittura, non gli ha impedito di produrre versi di profonda risonanza emotiva, sia nella ricostruzione della propria storia familiare e sentimentale, sia nelle coraggiose prese di posizione politiche, animate da una vivace vena sarcastica e da un generoso, sebbene risentito, slancio utopistico. Di questo originale e difficile percorso intellettuale, sospeso tra ricerca, meditazione, denuncia, sogno, elaborazione formale, è testimonianza il primo libro pubblicato sempre da Einaudi nel 2005, a cura di Anna Maria Carpi: Della neve, ovvero Cartesio in Germania.

In quarantadue canti e duemila versi, Durs Grünbein narra la nascita del razionalismo attraverso la figura di Cartesio, primo interprete filosofico della modernità. La scelta del matematico, astronomo e filosofo francese fu determinata senz’altro dal ruolo fondamentale da lui giocato nella storia del pensiero occidentale, ma probabilmente ebbe anche un rilievo la memoria del poemetto pubblicato da Samuel Beckett nel 1930, Whoroscope, in cui il drammaturgo irlandese tratteggiava un Cartesio superstizioso ed esoterico alle prese con dilemmi metafisici e culinari, mentre affida al suo servo Gillot la cottura di un uovo, esibendosi poi in un’esposizione erudita sul concetto di tempo, tra citazioni colte e provocazioni blasfeme e scurrili.

Gillot è anche il co-protagonista del libro di Grünbein: giovane servo e allievo di René Descartes, sua controparte ingenua e impulsiva, destinato a rappresentare il sano buon senso popolare e la fisica concretezza rispetto all’astrazione concettuale del maestro-padrone. Il primo canto si apre appunto con Gillot che sollecita con insistenza Cartesio ad alzarsi dal letto, per approfittare della gelida giornata nevosa, particolarmente adatta a un produttivo lavoro di riflessione e scrittura: «Destatevi, Monsieur. Tutta notte che nevica. / Fin dove arriva l’occhio è bianca la pianura, / è tutta un cono bianco. Sono gli alberi / che il grande arrangiatore con invernale mano ha ingentilito. // … Forse la neve aiuta – a capire cos’è la percezione. // … Placato ogni pensiero, un invito a studiare».

È l’inverno del 1619. Il giovane René passa alcuni mesi in una cittadina della Baviera, sommersa dalla neve e insanguinata dalla Guerra dei Trent’anni: massacri, saccheggi, incendi, stupri, ruberie. «Guerra e furia di lupi ‒ / L’artiglio del demonio attraversa l’Europa». Costretto all’inazione, si mette a riflettere su alcuni problemi di algebra e di geometria, prendendo in considerazione tutto ciò che vede e sente, senza mai prescindere dai suoi fondamentali processi cerebrali. Il cogito cartesiano ha infatti la prevalenza su qualsiasi altro argomento: «Io mai fantastico. // …Io sono un realista. //… Non mi serve l’esterno. Ho da guardarmi dentro. // … Io sono solo spirito. // … Io sono – sì. Ma cosa? / Tengo in pugno soltanto – ciò che ho pensato io, io convenuto. // … A me va contre coeur ogni fuga dal mondo». Il mondo e la mente, essere e pensare.

Senza mai prescindere dalla fisicità del corpo, steso nel bianco del letto, mentre fuori è tutto candido di neve, gelo e silenzio. Un corpo che ha necessità materiali e sessuali, che mangia e piscia, si ammala e delira, rimanendo tuttavia un inciampo nell’attività preminente dell’elucubrazione mentale («Banale è questo corpo. / Il cervello è al coperto – però i bisogni chiamano»). La regola che dà ordine al caos si afferma sovrana («In tutto regna numero e rapporto. Felicità: di essere impregnati / di coerenza»), e manifesta la sua gratitudine a chi ha indicato al mondo la strada della ragione: Euclide, Archimede, Copernico, Keplero, Galileo – il più grande, che per motivi di sicurezza va nominato con lo pseudonimo di Stephanus, onde evitare censure ecclesiastiche.

Gli aneddoti della tediosa esistenza condotta in Germania da Cartesio rivelano in lui sfumature di carattere oscillanti tra empatia e insensibilità: se Gillot piange per amore, lo scienziato disserta sulla composizione chimica delle lacrime; se il servo si confessa impietosito dalla sofferenza degli animali, subito il padrone sottolinea la loro natura sub-umana; se musica, luce e pittura appaiono miracoli ai sensi, ecco che vanno ridimensionati alla loro struttura materiale. L’osservazione della luna è ridotta ad abbagli ottici, una noce sgusciata viene paragonata alla dissezione del cervello, il rogo di Giordano Bruno contraddice ogni spiritualità cristiana. Spietato, il razionalista francese non concede a sé e agli altri la minima indulgenza verso credenze consolatorie.

Durs Grünbein, sulla base di fonti storiche, dei diari e degli appunti di René Descartes, ne ha ricostruito la biografia a partire dai mesi trascorsi a Neuburg fino agli anni vissuti alla corte svedese della regina Cristina, dove morì di polmonite nel 1649, circondato dal seguito protocollare di striscianti e ottusi leccapiedi (intense e commoventi le pagine finali sull’agonia: «E il mondo intorno è neve»). Da una neve all’altra, da un ghiaccio all’altro.

Anna Maria Carpi nella postfazione giustamente suggerisce che l’inverno rappresenta qui una metafora della condizione moderna, inaugurata proprio con la separazione cartesiana fra res cogitans e res extensa: «Muovendo dalla ‘tabula rasa’ dell’inverno, sentieri sublimi della conoscenza razionale portano al progressivo raffreddarsi dei rapporti dell’uomo con se stesso e coi suoi simili». Nella sua versione, la curatrice rende il verso alessandrino del poeta tedesco, elasticamente classicheggiante, con diverse aggregazioni di settenari, quinari ed endecasillabi, al fine di mantenerne il ritmo incalzante. Compito non facile, tradurre Grünbein, perché in lui all’indubbia maestria formale, si aggiunge una rara competenza scientifica, e un abbagliante enciclopedismo, alleggerito dall’arguzia e dall’ironia.

 

© Riproduzione riservata                  «Il Pickwick», 13 dicembre 2019

 

RECENSIONI

GUALTIERI

MARIANGELA GUALTIERI, BESTIA DI GIOIA – EINAUDI, TORINO 2010

Dopo tanta poesia edulcorata, cerebrale, o semplicemente noiosa, ecco finalmente un libro che si impone di forza, potente, vitale: orgoglioso di sé già dal titolo, quasi aggressivo, felicemente concreto. Bestia di gioia è il quarto volume di versi di Mariangela Gualtieri, scrittrice arrivata tardi alla poesia, dopo una lunga militanza nel teatro.
Le cinque sezioni che lo compongono sono tutte animate da un’urgenza morale prima che estetica, pur nella sapienza della forma, nel consapevole utilizzo della tradizione letteraria, e nella meditata capacità di piegare tale tradizione ai propri fini, che sono assolutamente (e necessariamente) contenutistici.
Gli incipit delle poesie sembrano spesso stagliarsi sulla pagina con convinzione quasi declamatoria: «Non c’è scatto nel cielo», «Che forza insolente hanno i fiori», «Andiamo mie ossa», «Piove dritto dritto», «Sii dolce con me. Sii gentile». E tuttavia subito dopo sono seguiti da improvvise richieste (al lettore? alla poesia stessa?) di aiuto, di rassicurazione, di confidenza. Come fuochi accesi e luminosissimi che chiedessero a volte di ardere, a volte di essere placati e spenti da un poco d’acqua: «Ma guarda ora – che pace».Tutto il volume è pervaso dallo stupore meravigliato e riconoscente di fronte al miracolo della bellezza naturale («Ecco la gemma. Ecco la foglia. / Ecco un volo perfetto di ala», «La nuvola piuttosto adoreremo / che è maestra di scorrere per il cielo / e di alta impermanenza, e di esistenza / senza peso»), con un’attenzione partecipe, ammirata e grata a ogni processo della vita, dalla nascita dell’universo fino alle sue espressioni più minute: le ragnatele e i fiori, la pioggia o il vapore che esce dalla pentola sul fuoco. Gli alberi, ad esempio, manifestano una confortante sicurezza nel rimanere tranquilli testimoni delle nostre inquietudini e malinconie («Certi alberi vicini alle case / sostano in una pace inclinata / come indicando come chiamando / noi, gli inquieti, i distratti / abitatori del mondo. Certi alberi / stanno parzialmente»). O le stelle, che ci rimandano ad altro, a qualcosa di più alto ed eterno che appartiene anche agli esseri umani e a ciascuna piccolissima cosa («le stelle / sono talmente risolute nel dirci / che c’è altra luce / che c’è lontano un fuoco / per il coraggioso»). O ancora il ciclo inarrestabile di nascita-morte nella natura: che è sempre e comunque esaltazione di vita («C’è solo vita / niente altro. Solo vita») Quello che importa è farsi partecipe del tutto, immergersi nella creazione, aderire all’esistente: «Stare bene profondo. / Essere ogni cosa».
Quasi sempre, quindi, la poesia di Mariangela Gualtieri riesce a diventare un vero inno alla gioia, alla potenza del creato in ogni sua manifestazione, anche quando arrivi ad essere apocalittica o distruttiva: «Ciò che non muta / io canto / la nuvola la cima il gambo / l’offerta il dono la rovina / apparente d’acqua che tracima / di tempesta e di onde». E sa opporre lo splendore della natura alla dittatura della superficialità, della grettezza e della povertà che ci ammannisce quotidianamente la cultura contemporanea («battagliati fra le catene / d’una dittatura che impera. / Noi non adoreremo le sue merci. / Non piegheremo la schiena / alla sua greppia»). In questo sembra consistere il compito del poeta: interprete e divulgatore della bellezza, della forza redentrice di tutto ciò che respira, o semplicemente è («e la mano che scrive è così lieta ora / che pensa ‘offro questa pace / a chi è dentro una pena grande.’ // Una preghiera pare tutto / il cielo. Una preghiera il verde / delle piante»).
Ci troviamo di fronte a uno spirito di profonda religiosità, non legata a istituzioni o riti, verrebbe da dire quasi paganeggiante, che arriva a ringraziare e a esaltare la divinità che ha creato i fiori («Quale cuore mancante / così traboccante di mancanza // quale giocondissima mente / è esplosa al suo centro / in colorati frammenti di sé / di sé stessa pensante»), o a celebrare la preghiera laica ed altissima della nuotatrice nel cloro della piscina comunale, nella poesia più commovente di tutto il volume.
Ma il richiamo civile e severo a tutte le chiese, di fede e politica, non ha nulla di falsamente devoto; è un invito deciso a non affidarsi a finzioni, giubilei, condoni, inchini: «Perdoniamo invece».
C’è inoltre un continuo offrirsi, quasi vittima sacrificale, a riscattare la sofferenza del mondo attraverso il potere salvifico dei versi: il suo «eccomi», di reminiscenza biblica, la sua generosa oblazione di poeta che paga, nell’eccesso di sensibilità, per il male e il bene di tutti: «Anche in questa brutta città appare chiaro / sopra i rumorosissimi bar / lo spettro luminoso della gioia».
Ecco quindi spiegata la gioia «bestiale» del titolo, che riesce a superare e a coprire qualsiasi bruttura.
Ogni aspetto della vita viene esaltato: il viaggio come il riposo (alcune poesie sono un omaggio al sonno, perso-bramato-ritrovato, allo sprofondare in un’incoscienza ristoratrice, per poi riemergere vivi e attenti alla nuova luce del giorno, «quando l’imperatore comanda / che sia luce»), l’amore come fusione totale con l’amato, come nostalgia di quando si era un’unicità indistinta. E persino la morte, intesa sì come caducità e perdita, ma anche come ritorno all’eterno, alla leggerezza della non appartenenza: «Presto la mano diventerà rametto / bianco fra le radici. Presto saremo / fuori di qui», «e il morire dei corpi non è / che l’entrare fuori misura. / Senza chili, senza metri, senza / particelle. Alleluiare».
Quindi la risposta poetica di Mariangela Gualtieri è l’obbedienza alle leggi imperscrutabili della fisica e della materia («C’è obbedienza nel regno»), la sua docile e gioiosa accettazione: in questo aderire al ciclo della vita e della morte, che ingloba cielo e terra, uomini animali e piante. E’ l’unica, terrena, palpabile felicità possibile, che la poesia ha la capacità e il dovere di comunicare agli altri.

 

«L’Immaginazione» n. 259, dicembre 2010

RECENSIONI

GUALTIERI

MARIANGELA GUALTIERI, LE GIOVANI PAROLE – EINAUDI, TORINO 2015

Quando leggo le intense poesie di Mariangela Gualtieri mi ritrovo sempre immersa nella stessa atmosfera che mi avvolge se affronto le pagine dei mistici renani: un’aria densa e sottile insieme, che sembra pulsare all’unisono con l’essere, con il tutto, con ciò che Meister Eckhart chiamava «il libero nulla». Anche in questo ultimo volume di versi, la dimensione spirituale (che è distacco dalle cose e da se stessi), il rapporto con l’eterno, si rispecchia e s’incarna nell’attenzione riconoscente a qualsiasi minima fibra dell’esistente: prende consistenza nell’ immedesimarsi con la vita fisica del mondo vegetale e animale, e addirittura degli oggetti. Non serve il movimento, non servono le parole. Nella sezione centrale Studio sullo stare fermi, il non agire, il wu-wei del taoismo trova la sua espressione in versi che mantengono la magia di un insegnamento filosofico, di un invito al raccoglimento meditativo: «Si può, sai, stando qui / stando molto fermi / sostenere una stella. Si può / dire alla foglia di cadere quando è ora / e il frutto pilotarlo alla maturazione .// Si fa un atto di fede, stando fermi. / Si dice: credo in ciò che non si vede…// E poi si fa concerto / col corpo planetare, con le sfere / celesti col musicale silenzio delle cose».

È una raccomandazione ribadita in tutta la prima parte della raccolta, intitolata programmaticamente Gemma dell’anno prossimo. Qui lo sguardo grato è rivolto essenzialmente ai fiori, agli alberi (viole, rose, giacinti, semi, bacche e frutti), «sosta d’altro mondo dentro il mondo; nostra consolazione; scrigno di perfezione». Solo l’adesione alla natura, il contatto con la terra insegna «quel mantra che contiene / l’antica vibrazione musicale / forse la prima, quando dal buio immoto / per traboccante felicità  / un gettito innescò la creazione». Mentre il paesaggio urbano, con i suoi traffici e rumori, le distrazioni e cupidigie, è marchiato da una perpetua insoddisfazione, da una condanna all’infelicità. L’innocenza degli elementi naturali (tra cui Mariangela Gualtieri sembra prediligere acqua e aria) insegna ad essere leggeri, a trasformare il finito nell’infinito, il relativo nell’assoluto, regalandoci quella “kindly light” di cui parlava John Henry Newman, e che chiamiamo grazia. La quale è anche rispettosa curiosità per il piccolo, per il dettaglio, per l’ala di una farfalla osservata in Esercizi al microscopio («Ogni granello. Ogni millimetro di foglia. / Ogni estremità di zampa d’ape / tutto ha siffatto marchio d’una cura / che lo sostiene»), e nella quasi-mimesi del francescano Cantico delle Creature nel poemetto Bello mondo: un ringraziamento per lo splendore del creato somigliante a una vera e propria lauda medievale. Ma grazia è anche ricordarsi della storia, quella dei popoli (e allora sarà da citare la sezione dedicata a Bruno Schulz e alla Prodigiosa visione de Le botteghe color cannella) e quella personale: Le giovani parole che hanno ammaliato gli anni adolescenziali della poetessa, con l’incanto della poesia, il turbinio di figure fantastiche, l’impenetrabilità misteriosa del silenzio («fatti un manto con quel suo niente / non precipitare nel boato / nel camposportivo del mondo»). E grazia è soprattutto compassione. Per la vita che si consuma, per la malattia, per il corpo che muore. Allora al lettore appare altissima, teatralmente agita, visivamente scolpita, la sezione dedicata alla madre malata (madre grande arca, forte nave, casa e guscio, larva buona, svaporata bella signora), in cui Mariangela Gualtieri allestisce «l’ultima scena» per la mamma immobilizzata e mentalmente indifesa, «accompagnando quel suo / disimparare il mondo», pregando perché muoia: «Muori ma’, / muori stanotte dolcemente, / fra un respiro, fra i sogni, / e non restare nella carne / non intrattenerti ora, non distrarti / da questo andare imminente / tu sorridente mia, tu dolce…// Non restare fra / gli spini del tempo. Muori senza dolore». Non solo respiro poetico, quindi, in questi versi; non solo abilità letteraria, visionarietà fantastica: ma soprattutto antica sapienza, conoscenza e riconoscenza del bene, condivisione di bellezza. E indulgente pietas.

 

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www.sololibri.net/Le-giovani-parole-Mariangela-Gualtieri.html        13 ottobre 2015

RECENSIONI

GUALTIERI

MARIANGELA GUALTIERI, CAINO – EINAUDI, TORINO 2011

Mariangela Gualtieri è una delle voci più alte della poesia contemporanea: donna di teatro (“quel luogo pieno di avventura mistero arte e fatica…”) si cimenta in questo testo con la rappresentazione scenica della prima, tragica violenza della storia umana: l’uccisione di Abele da parte di suo fratello Caino. E lo fa con tutta la passione e l’empatia di chi riconosce in sé e nell’animo di tutti noi l’abbaglio improvviso dell’odio, della rabbia e dell’invidia, e poi l’assillo perenne del pentimento, della paura, della condanna. “Ci somiglia talmente Caino… Noi siamo soli quanto lui, distruggiamo la vita fuori e dentro di noi, siamo ormai senza un’idea di prossimo… tutti votati alla terrestreità”. Ma in realtà in questo dramma non parla solo la brutalità della carne assassina, del raptus sopraffattore: intorno al protagonista si muovono tanti altri personaggi, che incarnano sia il male sia il bene, alter ego o controcanto dell’omicida. “L’alato”, ad esempio, voce saggia e profetica, ingenua e visionaria; oppure “L’illusionista”, lucido, protervo, rancoroso; “Abele”, delicato e sorridente, “dentro una legge di pace”. E il coro, che commenta cangiante e ritmico, suggerisce una sua visione filosofica del mondo, accompagna danzando le voci degli attori principali. Ma su tutto aleggia poi lo spirito dell’ “animale chiamato Dio”, bellissimo luminoso infinito, oppure astioso ingiusto violento (“Tu comandi. Rintroni allaghi, secchi, stendi al suolo, / schiacci non perdoni”). Un testo forte, dunque, questo, scandito con parole dure e mai ambivalenti o falsamente prudenti: certo la sua resa scenica deve avere un rilievo che ovviamente la semplice lettura non rende del tutto nelle sue potenzialità, fatte anche di “movimenti ritmici e sonori… scatti e danze…”, e silenzi, e pause, che invitano alla riflessione, alla condivisione di sentimenti, alla pietà.

IBS, 9 febbraio 2012

RECENSIONI

GUALTIERI

MARIANGELA GUALTIERI, L’INCANTO FONICO. L’ARTE DI DIRE LA POESIA –EINAUDI, TORINO 2022

Di cosa è fatta la poesia? Ovviamente, di parole. Ma anche di silenzio. Silenzio che circonda le parole, ne attutisce o amplifica suono e significato. È fatta di caratteri neri stampati sulla pagina. E di bianco, di tanto spazio bianco lasciato intorno, di fianco, sotto ai versi. Che non dicano troppo, che non dicano tutto. Di quali altre cose, sentimenti, sottigliezze, si nutra la poesia ce lo rivela Mariangela Gualtieri nel suo ultimo libro, L’incanto fonico. Da attrice e fondatrice nel 1983 del Teatro Valdoca insieme a Cesare Ronconi, e da poetessa tra le più intense e apprezzate oggi in Italia, nel suo saggio composto di aforismi, meditazioni, suggerimenti, intuizioni e lampi rivelatori, sottolinea l’importanza della resa sonora del componimento poetico. È stata Amelia Rosselli a coniare l’espressione “incanto fonico”, e alla sua arte viene reso omaggio nel volume, insieme a quella di altri eccellenti maestri: Dante, Emily Dickinson, Mandel’štam, Rilke, Celan, Cristina Campo. Poeti che hanno saputo “dinamizzare il verso nella sua vitalità massima”.

Forte della propria quarantennale esperienza sul palcoscenico, l’autrice sa quale sia l’importanza di riconsegnare vocalmente veridicità e tremore alla lettura poetica, quale sia la magia che si instaura quando un pubblico attento e silenzioso viene immerso in un “bagno acustico”: gli astanti, in “stato umanissimo d’ascolto acuto”, diventano testimoni e nello stesso tempo partecipi dell’evento sonoro, vivendolo risonante. Disabituati ad ascoltare poesia, ne sono affamati: “Portano loro denutrizione su poltroncine, la mettono lì spalancata. Portano loro gigante aver fame, aver sete. Nessuno da tempo dava un boccone. Nessuna tetta allattava loro secca terra interiore”.

Attraverso una prosa ellittica, ispirata, sentenziosa e sapienziale, Mariangela Gualtieri ci introduce nel rito del dire e dell’ascoltare poesia, che è tenacemente e sempre costruita su ritmo, timbro, respiro, memoria, pensiero: “Musica è. Tutti i poteri della musica. Tutti li ha”. Costruzione melodica, quindi, e concreta fisicità: “Da pagina a voce… Da mente a corpo”, “La forma sonora del verso passa da intimo della gola, intimo del respiro, strofina corde vocali, aziona diaframma, muscoli tutti della fonazione, sensuale lingua, sensuali labbra e profondità di laringe”. La materialità del dire poesia viene aiutata (a teatro, nelle sale di registrazione, in radio o alla televisione: ovunque siano previsti auditori) dalla “sacra tecnologia” fornita da esperti tecnici, da fonici competenti cui va la riconoscenza dell’autrice, poiché riescono a tramutare la tonalità umana in qualcosa di ultraterreno o di bestialmente ancestrale.

Allora i versi diventano “formule magiche… formule mantriche”, “pezzi di esplosivo capaci di indurre a trasformazione interiore”, riconducendo il vissuto alla sua dimensione più elevata e trascendente. Come suggerisce nella sua ricca produzione poetica, anche in questo saggio Mariangela Gualtieri affida alla poesia un compito di rinascita spirituale: “Sue molte potenze. Esortazione. Illuminazione. Cortocircuiti. Svelamento. Scioglimento di ghiacci interiori. Potenza di affratellamento, comprensione e compassione, risveglio della pietà. Rivolta. Profezia. Eversione. Sanguinamento. Consolazione. Consonanza con l’umano. Con l’armonia ritmica del mondo, del cosmo, del tutto…”

Così, immergendosi in un “mondo aurale orale”, si impara a piangere e a ridere, ad ascoltare e ad ascoltarsi, a “non avere non essere non volere… a esserci pienamente presenti e non esserci… a diventare invisibili”. Questo insegna la voce che dice poesia: “Lasciare zavorra di pensieri. Lasciare desiderio di compimenti, di buon risultato. Rinuncia. Niente esito”. Ciò che si raggiunge è una liberazione, un’apertura: perdono, consolazione, rimedio. “Catarsi si chiama. Come quando la neve appare. Come, svoltato l’angolo, luna improvvisa piena”.

 

© Riproduzione riservata                         «Gli Stati Generali», 23 maggio 2022