Mostra: 581 - 590 of 1.319 RISULTATI
RECENSIONI

GUARDINI

ROMANO GUARDINI, RITRATTO DELLA MALINCONIA – MORCELLIANA, BRESCIA 2022

Un breve testo prezioso, questo Ritratto della malinconia di Romano Guardini, pubblicato in Germania nel 1928 e tradotto in Italia dalla casa editrice Morcelliana nel 1952, riproposto quindi in diverse edizioni fino alla più recente del 2022. Mantiene ancora oggi tutto il suo fascino di riflessione filosofica profonda, di scrittura elegante e sensibile, nell’affrontare un tema spesso indagato sia artisticamente sia psicanaliticamente, ma trascurato nella sua più elevata dimensione metafisica.

Teologo, filosofo e sacerdote, nato a Verona nel 1885 ma vissuto in Germania fino alla morte nel 1965, Guardini fu titolare di cattedre universitarie a Berlino, Tubinga e Monaco: perseguitato dai nazisti dovette a più riprese sospendere l’insegnamento. La sua vastissima produzione – che esprime una fine sensibilità artistica oltre che una forte ispirazione religiosa – è tutta intesa a prospettare, senza intenti sistematici, una concezione cattolica del mondo direttamente impegnata di fronte alle problematiche sociali ed esistenziali della vita moderna.

L’incipit del saggio non conosce addolcimenti retorici o diplomatici: “Troppo dolorosa è la malinconia e troppo a fondo spinge le sue radici nel nostro essere di uomini, perché la si debba abbandonare nelle mani degli psichiatri”.

Il riferimento obbligato è già dalle prime pagine quello al filosofo danese Sören Kierkegaard, alla sua “nostalgia divorante… vaga e informe”, immotivata, inspiegabile in un giovane uomo amato in famiglia e dagli amici, stimato intellettualmente, privo di inquietudini economiche o problemi di salute, ma in uno stato di perenne angoscia, incapace di cercare conforto e aiuto negli altri, di comprendere il mondo e sé stesso, consegnandosi alla gioia.

Secondo Guardini, nella malinconia “più che altrove si manifesta la criticità della nostra condizione umana”; essa nasce da una particolare vulnerabilità e sensibilità che rende indifesi rispetto alla spietatezza stessa dell’esistenza, alla sofferenza diffusa ovunque, tra gli uomini e nella natura. Nel malinconico esiste una sproporzione tra le cause di circostanze effettivamente negative e l’effetto che esse producono nell’animo: “Il male non sta nelle occasioni e nei conflitti esteriori, sta proprio nell’intimo; in una specie di affinità elettiva con tutto quello che può ferire”. In genere la malinconia si associa a una disistima di sé, a una scarsa consapevolezza del proprio valore che provoca timidezza e imbarazzo nelle frequentazioni sociali, nonostante l’aspirazione ad affermarsi e al riconoscimento avvertiti acutamente. Ciò porta a uno stato di insoddisfazione e di continuo auto-tormento, che induce a desiderare il proprio totale fallimento o addirittura la morte. Intuire la grandezza dei valori positivi, anziché produrre entusiasmo e desiderio di agire, può avere effetti disgreganti, soprattutto negli artisti che aspirano a ottenere la perfezione nelle loro opere, o nei religiosi che mirano alla santità: il senso di inadeguatezza e di colpa che derivano dal non raggiungimento degli obiettivi assume contorni autodistruttivi, costringendo il soggetto al nascondimento, alla solitudine.

Eppure, questo stato d’animo di “oscura tristezza” nasconde spesso tesori di profondità intellettuale, di volontà di raccoglimento, di indifferenza verso la superficialità e l’esteriorità, di attitudine alla gentilezza e alla benevolenza: segretamente vi si cela un desiderio inappagato di amore e bellezza, la nostalgia del bene e dell’eterno. Ma tale aspirazione all’assoluto si scontra con la consapevolezza della vanità e della transitorietà delle cose.

Medici e psicologi danno spiegazioni limitate e oggettive riguardo all’incapacità del malinconico di adeguarsi al reale, insistendo soprattutto su complessi relativi alla sessualità o a traumi infantili. Per Romano Guardini, uomo di fede e grande interprete di testi poetici, “la malinconia è l’inquietudine dell’uomo che avverte la vicinanza dell’infinito. Beatitudine e minaccia a un tempo”. E suggerisce un rimedio per guarirne: radicarsi nella realtà, accettarla nei suoi limiti, accogliendo senza preclusioni la propria esistenza di confine tra materia e spirito, di creatura vincolata dalla propria condizione umana.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net           5 giugno 2024

RECENSIONI

GUARINELLI

STEFANO GUARINELLI, LA GENTE MORMORA – EDIZIONI PAOLINE, MILANO 2014
 L’autore di La gente mormora – Psicologia del pettegolezzo, Stefano Guarinelli, è un religioso, stimato psicologo e teologo, docente in diverse università italiane e straniere. La sua riflessione sul pettegolezzo come “tic psicosociale”, sulla sua funzione di coesione comunitaria, sulle sue motivazioni psicologiche e caratteriali, sulle cause scatenanti da cui prende avvio, e sugli effetti spesso devastanti che produce nell’ambiente in cui agisce, non si caratterizza solo scientificamente (basandosi cioè su eccellenti documentazioni bibliografiche, ricerche mediche, collaudati test di laboratorio, questionari, inchieste), ma si avvale di una sorta di messinscena narrativa innestata sulla sua (si suppone sofferta) esperienza personale.

Quindi nel testo sono frequenti, e un po’ fastidiosi, gli inserimenti ammiccanti alla sua vicenda esistenziale, che evidenziano talvolta supponenza, falsa umiltà e sottili rancori: «Credo di sì, ma non perché… lo dico io; Chi mi conosce, sa bene che non sto mentendo; Ora sia chiaro, non intendo dirimere la questione; Vi ho annoiato, vero? Me ne rendo conto».

Stefano Guarinelli sceglie come sfondo al suo libro il minuscolo paesino di Ponna, sulle montagne del comasco: dei suoi non troppo illuminati abitanti (la  Novi, il Guido, il Claudio, la Rosa, solertissimi nello spiare, nell’inventare, nell’infiorare, nel condannare, nel distruggere la reputazione degli altri) fa le cavie inconsapevoli ma assolutamente inscusabili della sua indagine psicologica.Chi è il pettegolo, perché chiacchiera e calunnia, in che modo il pettegolezzo si autopropaga, con quale fine, qual è la sua necessità sociale: considerazioni stimolanti sul controllo, l’autodifesa e la terapia conservativa del gruppo, sull’esclusione del “diverso”, sul bisogno di compensazione (affettivo, sessuale, culturale, professionale) del pettegolo frustrato.
L’autore giustamente non dimentica tra i diffusori di malignità e panzane preti, suore, parrocchie (a cui si potrebbero aggiungere senz’altro anche qualche cardinale o monaco mediatico).

 

© Riproduzione riservata        

www.sololibri.net/La-gente-mormora-Guarinelli.html       31 maggio 2016

RECENSIONI

GUAZZOTTI-ODDERA

PAOLA GUAZZOTTI-MARIA FEDERICA ODDERA, IL MINI DIZIONARIO DEI PROVERBI  ZANICHELLI, BOLOGNA 2008

I proverbi, espressione di un’ideologia, di una tradizione e di un’antica sapienza popolare, sono presenti in moltissimi documenti letterari, già a partire dalla nascita del volgare. Hanno accompagnato la formazione e la crescita culturale del nostro paese, divenendo patrimonio soprattutto delle classi contadine e degli strati di popolazione più emarginati, che li tramandavano di generazione in generazione.
Oggi riconosciamo in essi un substrato ideologico perlopiù conservatore, misogino e legato a valori obsoleti, quando non decisamente reazionari: snobbati dai giovani, ridicolizzati dai media, mantengono tuttavia una loro rilevanza dal punto di vista antropologico e di testimonianza storico-geografica.

Paola Guazzotti e Maria Federica Oddera hanno catalogato e raccolto circa 6000 proverbi, organizzandoli secondo parole chiave, in un mini-dizionario tascabile di 700 pagine, illustrato dai disegni di Giuseppe Maria Mitelli inseriti in una pubblicazione del 1678: Il mini dizionario dei Proverbi.

Alcuni di questi sono di dominio comune, ancora oggi usati sebbene con intenti spesso canzonatori; altri caduti in disuso o del tutto dimenticati. Rimane comunque divertente sfogliare queste pagine, anche per constatare quanto la mentalità contemporanea si sia liberata da superstizioni e pregiudizi arcaici.
Qualche esempio?

Vicino alla chiesa, lontano da Dio.
Donna adorna, tardi esce e tardi torna.
La donna il fuoco e il mare fan l’uomo pericolare.
Peggio è l’invidia dell’amico che l’insidia del nemico.
Chi vuol vivere e star sano, dai parenti stia lontano.
Tarda è la vendetta, guai a chi l’aspetta.
Finché l’uom ha dente in bocca, non sa mai quel che gli tocca.
Dio manda il freddo secondo i panni.

Eccetera, eccetera…

 

© Riproduzione riservata

www.sololibri.net/mini-dizionario-proverbi-Guazzotta-Oddera.html;    16 marzo 2017

RECENSIONI

GUENON

RENÉ GUÉNON, LA METAFISICA ORIENTALE – ADELPHI, MILANO 2022

Il filosofo ed esoterista francese René Guénon (1886-1951) conosciuto anche come Shaykh ‘Abd al-Wahid Yahya dopo la sua conversione all’Islam, scrisse ventisette libri e numerosi interventi su rivista, esplorando con un linguaggio accessibile il concetto di metafisica così come si presenta in tutte le forme tradizionali della spiritualità e delle religioni mondiali, dal paganesimo al sufismo al cristianesimo, attraverso le loro specifiche ritualità e credenze. Ammirato e contestato, considerato un rigoroso storico delle tradizioni religiose oppure un superficiale adattatore di teorie personali, Guénon è stato tradotto in moltissime lingue, e ancora oggi ispira la ricerca di alcune comunità musulmane esistenti sul nostro territorio.

Il breve saggio pubblicato da Adelphi, La metafisica orientale, trascrizione di una conferenza tenuta alla Sorbona il 17 dicembre 1925, chiarisce già alle prime battute che la metafisica è – aldilà di ogni contingenza storica e geografica –, universale, poiché la verità che aspira a raggiungere è una, e solo le forme esteriori di cui si riveste per esigenze espositive possono essere orientali od occidentali. Tuttavia, mentre nell’Occidente moderno (che non ritiene indagabile ciò che esula dall’ambito scientifico e razionale) essa è trascurata, banalizzata, addirittura sepolta, in Oriente rimane “oggetto di una conoscenza effettiva… vera, assoluta, infinita e suprema”.

Avendo sostituito alla conoscenza una “teoria della conoscenza”, la filosofia occidentale ha ammesso la sua impotenza, e si è riconosciuta in grado di definire solo in via teorica l’essere in quanto tale, secondo metodi razionali, discorsivi, riflessi, sensibili, capaci di cogliere esclusivamente il mondo del mutamento e del divenire, cioè la natura, o piuttosto un’infima parte della natura. In Oriente invece, interpretando correttamente il significato etimologico del termine “metafisica” come studio di ciò che è aldilà e al di sopra della natura, definisce il “soprannaturale” come ciò che supera l’essere e le sue forme: è l’infinito, l’indefinibile, l’incomunicabile, a cui si può accedere solo attraverso uno sforzo strettamente personale, in maniera intuitiva e immediata, ma superando la propria individualità umana per cogliere i principi universali, eterni e immutabili, della conoscenza.

Quali sono, dunque, le tappe principali della realizzazione metafisica secondo gli insegnamenti comuni a tutte le dottrine orientali? L’essere umano, se utilizza i mezzi adatti alla sua condizione di creatura finita come punti di appoggio per arrivarvi (parole, segni simbolici, riti, procedure preparatorie, conoscenza teorica), deve servirsene come supporti puramente accidentali: quello che davvero gli è necessario per elevarsi alla conoscenza è la concentrazione, abitudine “assolutamente estranea, persino contraria, alle abitudini mentali dell’Occidente moderno, dove tutto tende alla dispersione e al cambiamento incessante”.

Primo stadio da cui partire è la modalità corporea, la padronanza e il controllo della propria fisicità per poi estendersi oltre l’ambito sensibile in altre direzioni, attuando lo “stato primordiale” dell’autenticità, affrancato dal tempo e dalla limitante successione degli accadimenti, per arrivare a una considerazione simultanea delle cose e degli eventi, fuori dalla temporalità, in un non-tempo che conduca al senso dell’eternità. In una seconda fase, si supera l’appartenenza al mondo delle forme e delle condizioni individuali: si arriva così alla negazione dei limiti che definiscono ogni esistenza nella sua relatività, ottenendo la Liberazione e l’Unione con il Principio Supremo. Solo allora l’essere “liberato” è veramente in possesso di tutte le sue potenzialità, essendosi svincolato da ogni costrizione negativa e da ogni illusione. Il risultato raggiunto sarà un’acquisizione permanente, perché basata sulla conoscenza che è perenne, a differenza dell’azione che è una modificazione momentanea dell’essere. Il dominio metafisico è del tutto al di fuori del mondo fenomenico, non riguarda la psicologia, non produce poteri speciali, non assicura nessuna evoluzione esteriore. È invece un’illuminazione interiore, che non si occupa di successi contingenti. L’Occidente, fondando le sue religioni su formule tradizionali ed esteriori, ha sviluppato la propria civiltà in senso puramente materiale, destinandosi a un declino spirituale che lo condannerà a perdersi.

 

© Riproduzione riservata      SoloLibri.net › La-metafisica-orientale-Guenon        13 aprile 2022

 

 

RECENSIONI

GUERRI-MAGLI

GIORDANO BRUNO GUERRI, POVERA SANTA, POVERO ASSASSINO – MONDADORI,
MILANO 1993

IDA MAGLI, SULLA DIGNITA’ DELLA DONNA – GUANDA, MILANO 1993

Meritano un’unica riflessione due libri usciti quest’anno, uno prima dell’estate, l’altro poche settimane fa. Libri di diversa mole, diverso impianto formale e concettuale, diverso autore: Giordano Bruno Guerri, storico-polemista-studioso del costume, ha ripubblicato una sua ricerca sulla santità di Maria Goretti che aveva fatto scandalo otto anni fa; Ida Magli, docente universitaria-giornalista-antropologa (quindi dotata del riconosciuto diritto a esprimersi con indiscutibile competenza su tutto: uomo donna sesso scienza religione, e chi più ne ha più ne metta) ha rielaborato alcune sue recenti prese di posizione sulla violenza perpetrata sulle donne dal pensiero cattolico. Questi due volumi hanno il comune denominatore di parlare di donne (e pertanto di sesso: i due termini sono ormai diventati su qualsiasi pulpito un’endiadi indissolubile), ma mirando soprattutto a colpire la coercizione culturale, la violenza sociale, lo sfruttamento ideologico messo in atto dalla gerarchia ecclesiastica nei riguardi del mondo femminile. Giordano Bruno Guerri ha condotto un’operazione a nostro parere legittima già nella sua contestatissima edizione dell’85, compiendo ricerche, effettuando rilievi, dibattendo teorie riguardo alla morte e alla successiva santificazione di Maria Goretti. Il suo era, allora come ora, un libro a tesi, intento a dimostrare che «esibita come martire della purezza, fu invece martire della miseria e dell’ignoranza, come il suo assassino. Perché Maria non ha mai contato, non ha mai voluto o potuto, in vita e in morte, prodotto e vittima di sistemi a lei misteriosi». Opinabile, se si vuole, tuttavia legittimamente perseguita e dimostrata: per contrastare le tesi di Guerri, Giovanni Paolo II istituì una Commissione di studio che riscontrò nella narrazione ben 79 errori di documentazione o falsificazioni. A tale analisi ora Guerri risponde ripubblicando il libro senza alcuna variazione, ma aggiungendo alla fine un capitoletto in cui si difende da ogni confutazione degli esperti, e così compiendo un’operazione editoriale scaltra e meditata, perché il suo lavoro, anche se può infastidire per quel tanto di pruriginoso che si avverte tra le righe, è comunque un buono scoop giornalistico, vivace e coinvolgente.
Ben altra è la portata del libro di Ida Magli, che si presenta, già dalla lettera aperta di prefazione, più violento, duro, ideologicamente motivato e armato del pamphlet di Guerri. Anche lo stile è diverso: asseverativo, perentorio, aggressivo, molto molto più “virile” di quello, addirittura impositivo. L’obiettivo dichiarato è, anche qui, la difesa della donna, anzi delle donne come soggetti storici: in realtà il sesso femminile è un pretesto, che appare solo nella seconda parte del volume, per un attacco feroce e mirato al pontificato di Wojtyla. Ida Magli discute, contesta, affronta polemicamente, con le armi della dottrina e dell’ideologia, ma soprattutto con quelle più caustiche e inusuali (visto l’oggetto della polemica) del sarcasmo, dello sfottò cattivo, il Papa polacco, criticato non solo nel suo ruolo e nel suo carisma, ma anche come figura umana («Wojtyla è un vincente… un uomo autoritario che non ammette il minimo dissenso… un uomo terribile, un capo assoluto, totalitario…»). Il Papa è inchiodato a un cliché vignettistico, in cui i tratti che più lo delineano sono la potenza, la virilità, il delirio di onnipotenza, la “polonità” come destino di sacrificio, sofferenza ed eroismo, che secondo la Magli lo avvicina nello spirito a Chopin: questi genio, Wojtyla eroe di una stessa idea mitica della Polonia. La studiosa in queste pagine animate da una ferocia spropositata, di cui forse solo lei capirà le motivazioni più profonde, arriva a scrivere banalità sconcertanti per convalidare delle affermazioni su cui siamo tutti d’accordo: che la Chiesa cattolica sia malata di misoginia (ma non più di tutte le altre religioni mondiali), che la donna sia tuttora ridotta alla sua funzione biologica, e valutata in base all’uso che fa del suo sesso (e purtroppo non solo dalla Chiesa, ma anche dallo Stato, dalla società civile laica e rampante, ecc.), che la corporeità sia erroneamente e ossessivamente appiattita nella funzione copulatoria…Si tratta di considerazioni talmente vere e risapute, che non si capisce perché la Magli ci si accanisca con tanto fervore. Sulla posizione contestata e difficilmente condivisibile di Wojtyla riguardo agli stupri delle donne bosniache, abbiamo letto pagine sottili e più convincenti nella loro correttezza, di quanto non siano i parossismi della Magli. Giustamente l’autrice dedica la prima parte del libro a una dotta dissertazione sul potere che, da sempre, trova la sua giustificazione e la sua radice nel sacro (inteso come codificazione del controllo, dell’autorità, espresso «con norme coercitive e sacrificali»): ma tale non è solo il potere religioso, quanto tutti i poteri, politici, economici, militari e, perché no, della cultura accademica o giornalistica, quando si paluda di sacro per mantenersi inaccessibile, incontestabile… Non solo la Chiesa, quindi, non solo Wojtyla usano il sacro – e il potere – contro le donne. Baudelaire, immaginoso, rivoluzionario, grande poeta dell’800, scriveva in  Mon coeur mis a nu  questa stupidissima frase: «Mi sono sempre stupito che si permettesse alle donne di entrare nelle chiese. Che conversazione possono mai avere con Dio?» Ridiamo di questa idiozia di uno spirito sublime, e leggiamoci le conversazioni con Dio di un’altra grande, Simone Weil, donna, ebrea, quasi convertita al cattolicesimo. Baudelaire ha scritto ancora: «I miscredenti se non temessero nulla, riderebbero. Se si arrabbiano, è perché temono». Ida Magli è troppo arrabbiata.

«L’Arena», 9 dicembre 1993

RECENSIONI

GUIDACCI

MARGHERITA GUIDACCI, POESIA COME UN ALBERO – MARIETTI 1820, MILANO 2010

Vorrei con questo articolo rendere omaggio a una poetessa ingiustamente dimenticata, Margherita Guidacci (Firenze,1921-Roma,1992), presenza appartata e coerente nella letteratura del nostro ’900. Profondamente religiosa, ma di una fede interrogante e non bigotta, capace di indagare senza fariseismi il mistero della morte, della grazia e della resurrezione, già da giovane iniziò a interessarsi di poesia, traducendo John Donne, Eliot e la Dickinson, a cui si sentiva accomunata da una stessa profonda sensibilità spirituale. Il suo primo volume, La sabbia e l’angelo del ’46, esprimeva in senso severamente oracolare una consapevole dipendenza dal versetto biblico, orizzontalmente disteso in lunghezza: «Chi grida sull’alto spartiacque è udito da entrambe le valli. / Perciò la voce dei poeti intendono i viventi e i morti». Altri titoli successivi rivelano un uguale interesse per temi tratti dal Nuovo e Vecchio Testamento: Morte del ricco, Giorno dei Santi, Promessa di Adamo, Ismaele, Caino e Abele, Poiché tu sei eterno. A volte ricalcavano la forma dell’oratorio medievale, altre volte si facevano portavoce di un sentimento di fede ingenuo e corale.

Ma l’orizzonte della poesia di Margherita Guidacci non fu limitato esclusivamente alla meditazione religiosa. Molti suoi versi sono dedicati agli amici e agli affetti familiari, all’amore per il marito e per i tre figli, come questi scritti per la terzogenita Elisa: «Che dirti, amore mio, che dirti? / Le parole hanno un senso / Soltanto se le nutre la memoria. / Ma tu non hai ricordo di stagioni, / Tanto meno ricordo di ricordi: / Sei nuova e fresca, intatta dal declino / Che rattrista lo sguardo di tua madre / Mentre fissi serena / Questo tuo primo autunno». Né le era estranea la corda dell’impegno politico e civile, che manifestò in alcune intense composizioni dedicate alla guerra, allo sfruttamento del proletariato, alla morte di Allende, alla strage della stazione di Bologna del 1980. Della sua poesia, che aveva radici abbarbicate nel terreno ma poi si slanciava verso l’alto con rami e foglie (l’antologia che si trova ancora in commercio, curata da Giovanna Fozzer, si intitola appropriatamente Poesia come un albero), lei stessa scrisse: «Io cercavo una conoscenza, e quindi uno dei miei capisaldi è stata la chiarezza, perché la conoscenza mira a raggiungere una sua interna chiarezza e a trasmettersi con chiarezza». E ancora: «Meglio scrivere un libro importante nel deserto / … che diventare celebre per equivoco», «Mio Dio, salvami dalla parola condotta in parata come un vitello nel giorno di fiera…».

Un’istanza etica fortissima, quindi, animava la scrittura di Margherita Guidacci, forse proprio per il suo terso rigore così raramente compresa. Negli anni ’60 la poetessa soffrì di una profonda crisi psicofisica e spirituale, che la portò ad essere ricoverata in una clinica neurologica: da questa dolorosa esperienza nacquero i versi tormentati di Neurosuite, in cui le immagini della natura assumono un aspetto deturpato e minaccioso, sullo sfondo angosciante del silenzio di Dio e del mondo circostante: «Questo nodo di pietra, questa città murata! / La medesima ansia fa cercare una porta / a chi è dentro, a chi è fuori. / Ma se appena potessero vedere / di là dal muro, pregherebbero forse, / gli uni e gli altri, di non trovarla mai».

Il ritorno alla vita e alla salute fu celebrato anni dopo nelle pagine di Inno alla gioia, in cui l’amore ritrovato, insieme alla pienezza di una felicità riconquistata, viene così salutato: «Il nostro è amore d’anima. / E noi siamo più grandi / di tutto quello che ci può accadere». La poesia come ricerca e scavo interiore si è rivelata quindi per Margherita Guidacci anche un fondamentale esercizio di catarsi, di sfrondamento dell’inessenziale per recuperare la parte più vera di sé: «Non ho scelto di essere poeta. Lo sono stata perché tale è la mia natura […]. La poesia non è un atto di volontà, è un atto di vita, e come la vita, contiene in sé motivazione e gioia sufficienti».

 

© Riproduzione riservata          

www.sololibri.net/Poesia-come-un-albero Guidacci.html      18 aprile 2017

 

RECENSIONI

GUIDACCI

MARGHERITA GUIDACCI, PROSE E INTERVISTE – C.R.T., PISTOIA 1999

Il volume, curato e presentato da Ilaria Rabatti, si compone di due sezioni. Nella prima parte sono raccolte prose varie, interventi critici e articoli della poetessa fiorentina pubblicati tra il 1948 e il 1989. Si tratta di descrizioni paesaggistiche, di riflessioni ambientalistiche e architettoniche sul contrasto tra città e campagna, di considerazioni sulla letteratura nel suo rapporto con la società e la religione, di memorie familiari e di ritratti di personalità della cultura: Clemente Rebora, Giovanni Papini, Nicola Lisi – cugino materno della Guidacci – Giuseppe De Robertis ed Eugenio Montale. Di quest’ultimo venivano date definizioni tranchant: “specchio senza consolazione”, “poeta di un mondo che finisce”, soprattutto elogiando “l’evidenza fisica” della scrittura negli “Ossi di seppia”: “Mi restavano negli occhi i suoi paesaggi abbaglianti, quei vasti cieli veleggiati da nuvole o remigati da uccelli, e la terra immobile ma percorsa da fremiti, e il cammino scavato dal vento sul mare o tra le piante, verso un’abrupta fine”. Nella seconda parte del libro, la curatrice raccoglie interviste e autopresentazioni di Margherita Guidacci, poetessa sobria ed elegante, ingiustamente dimenticata, che di sé scriveva “io sono sempre affamata e assetata di silenzio”, e nelle risposte si rivelava lapidaria e sincera al limite della brutalità, al punto di rifiutarsi di soddisfare alle domande quando non erano poste con la dovuta trasparenza. La sua esigenza di eticità nella scrittura era ribadita con fermezza, sia nei giudizi severi dati sulle mode letterarie e sul pressapochismo dei critici, sia nel dovere che ogni poeta dovrebbe sentire nei confronti del lettore, instaurando un dialogo (e non un monologo autoreferenziale), basato su tre punti essenziali: avere qualcosa di interessante da dire, dirlo in modo chiaro, confrontarsi con la reazione di chi legge.

 

AMAZON,  21 maggio 2017

RECENSIONI

GUIDINETTI

ELDA GUIDINETTI, IL CORTILE INTERNO ESTERNO – CASAGRANDE, BELLINZONA 1988

Il cortile interno esterno è il titolo del primo dei dieci racconti di Elda Guidinetti pubblicati dalle Edizioni Casagrande di Bellinzona, ed è anche il titolo del volume stesso, a suggerire una condizione essenziale di scrittura, un occhio volto a esplorare tutte le possibilità di implosione-esplosione narrative. Dieci storie, quindi, ma non dieci trame. Siamo di fronte, più che altro, a situazioni immobili, a stasi, analizzate da diversi punti di vista. Lo stesso oggetto, lo stesso personaggio viene inquadrato sotto differenti ottiche, attraverso lo spostamento di un fascio luminoso che lo inonda facendolo muovere magari solo millimetricamente. La tecnica pare essere quella cinematografica: campo lungo, mezzo campo, primo piano. Il risultato a cui tende l’autrice è la totale oggettivazione dell’ episodio, l’esclusione di qualsiasi interpretazione soggettiva: si lasciano parlare le cose. Frasi ripetute ossessivamente, oggetti ingranditi fino a confonderne i contorni oppure analizzati minuziosamente, catalogazione asettica del reale: tutto sembra voler ribadire l’estraneità di ogni fenomeno alla comprensione umana. Un esempio emblematico di questo stile è il racconto Solo se giovane e bella, storia di una addio tra amici, di un abbraccio esaminato al replay visto da lui, visto da lei, visto dall’altra, visto dal gruppo. Gesti rallentati, ripetuti, sovraccaricati e improvvisamente svuotati di ogni simbologia. Non c’è altro. Non c’è un prima, non c’è un dopo. Dei personaggi intuiamo solo il movimento, spesso senza comprenderlo: prendiamo atto di quello che fanno, di quello che dicono, che è in genere qualcosa di inessenziale. Un altro racconto molto bello e indicativo è Quel mongoloide, in cui il protagonista è introdotto quasi casualmente in scena (mentre figure che sembrano di primo piano e invece poi risultano di sfondo giocano a spruzzarsi nella piscina di un albergo, e altri ospiti prendono il sole, chiacchierano); il mongoloide compie una serie di gesti meccanici, assurdi: si spoglia, ripiega e stira varie volte i pantaloni, si riveste, va a giocare -lui ventottenne- con dei bambini a “regina reginella”, viene preso in giro, si arrabbia. Ancora, nel racconto che dà il titolo al libro, in un cortile interno a un muro, ma esterno rispetto al ristorante cui sta di fronte, avventori diversi, a gruppi o isolati, che sembrano ignorarsi a vicenda (se non fosse per l’occhio dell’impietosa telecamera che li inchioda), sono accomunati dalle loro reazioni di differente intensità, ma ugualmente imbarazzate, davanti all’accoppiamento di due gatti, stizzosi e miagolanti. La storia a mio parere migliore del volume sottolinea un carattere costantemente presente anche negli altri: l’estraneità, l’impossibilità di capirsi tra i due sessi, insieme con una violenta attrazione fisica, impastata però da un pesante disprezzo intellettuale, per cui la donna è oggetto di desiderio carnale e insieme di avversione. In Latin lover, dunque, una coppia –forse ticinese- invitata a casa da un’amica nordica, assiste incredula ma indifferente al rituale di umiliazione cui un latin lover locale costringe l’ospite amante, presa in giro per la sua scarsa conoscenza della lingua, ridotta a puro oggetto di piacere, mortificata in un ruolo in cui è solo pedina. Usando una tecnica molto vicina a quella dell’ école du regard (lo sguardo impassibile rivolto agli oggetti, e l’annullamento del personaggio ricorda il Robbe-Grillet di Nel labirinto), Elda Guidinetti è maestra nel creare inquietudine e malessere nel lettore, con questa sua straordinaria capacità di abolire la storia, di trascinare il tempo della narrazione in un presente assoluto, verso una meta irraggiungibile, un luogo assente; la «fine senza inizio», per dirla con un suo titolo, metafora di un assurdo vissuto quotidianamente.

 

«Agorà»(Svizzera), 15 marzo 1989

RECENSIONI

GUIDONI – MATTEO

GUIDONI-MATTEO, LA VERTIGINE DEL LIMITE – IL MARGINE, TRENTO 2016

Umberto Guidoni (noto al pubblico non solo come astronauta e scienziato, ma anche come divulgatore, presenza qualificata in numerose trasmissioni televisive) e il teologo Armando Matteo (professore all’Università Urbaniana di Roma) si confrontano, ne La vertigine del limite della casa editrice trentina Il Margine, sui problemi etici e culturali relativi alla conoscenza e all’azione umana. Fino a che limite possiamo spingere la nostra ricerca scientifica, il desiderio di sfidare le leggi naturali, la volontà di metterci alla prova: quando è giusto arrenderci alla nostra inadeguatezza, rassegnandoci alla fragilità costitutiva del nostro essere?
Nella stimolante prefazione di Milena Mariani si sottolinea il duplice significato dato alla parola “limite”, che può essere interpretata negativamente o positivamente, nel senso di proibizione, sbarramento oppure di confine, soglia da varcare. Davanti a qualsiasi limite siamo presi da una sorta di vertigine, determinata da paura o dal fascino della trasgressione, dalla consapevolezza della nostra impotenza o dalla brama di onnipotenza. Si tratta di sensazioni ambivalenti che spesso coesistono in noi: ad esse danno voce i due interventi di Umberto Guidoni e Armando Matteo.

Il primo ci comunica, in poche pagine di alta tensione e sensibilità poetica, le sue Emozioni di un viaggio oltre il limite: quando, nel 2001 partecipò a bordo della navetta Endeavour (“un colossale uccello bianco”) all’assemblaggio della Stazione Spaziale Internazionale, assaporando “una sensazione di libertà e leggerezza” nell’allontanarsi a velocità prodigiosa dalla terra, e osservando dal buio cosmico il nostro pianeta azzurro e lontanissimo, così fragile nella sua bellezza e unicità, di cui spesso non riusciamo a essere abbastanza consapevoli. Umberto Guidoni in poche righe finali comunica al lettore non solo il suo orgoglio di essere riuscito a superare un limite, sia come individuo sia come membro della collettività: ma anche la certezza che l’umanità sarà in grado nel prossimo futuro di padroneggiare tecnologie evolute che le permetteranno di dirigersi nell’esplorazione dell’infinito. Più ancorato Al limite, e non solo nel titolo, è il saggio del teologo Armando Matteo, convinto che l’uomo non abbia il diritto di arrogarsi il dominio della natura, lasciandosi attrarre dal mito della superabilità del già realizzato, della perpetua perfettibilità del progresso, dell’ansia di creare continuamente nuove opportunità di sviluppo. Così infatti perdiamo il senso del limite, varcando il confine della hybris che ci pone al di là dell’umano. Può essere solo la consapevolezza della vulnerabilità del nostro corpo a riportarci alla ragione: malattia, sofferenza, vecchiaia, handicap ci riconducono alla nostra condizione di creature finite, aiutandoci a superare il miraggio esteriore del successo, dell’efficientismo, della giovinezza eterna, della forma fisica. Inoltre, nella visione cristiana dell’esistenza che è propria di Armando Matteo, sarà la preghiera che può indurci ad accettare umilmente i nostri limiti: finitezza, precarietà, mancanze.

Il libro si conclude con un confronto, in cui i due autori vengono invitati a esprimersi su come il concetto di limite abbia inciso nella loro vita professionale, nelle loro scelte etiche, nei rapporti con l’ambiente e il prossimo. Essendo entrambi abituati a confrontarsi con le domande eterne sul destino e sui doveri dell’uomo, le loro riflessioni risultano meditate e arricchenti anche nelle differenti prospettive e motivazioni.

 

© Riproduzione riservata        

www.sololibri.net/vertigine-limite-Guidoni-Matteo.html     25 ottobre 2017

RECENSIONI

GUIDORIZZI

GIULIO GUIDORIZZI, PIETÀ E TERRORE. LA TRAGEDIA GRECA – EINAUDI, TORINO 2023

Agli inizi degli anni’70, noi iscritti alla Facoltà di Lettere Classiche all’Università Statale di Milano eravamo quattro gatti, perlopiù introversi e secchioni, quelli che oggi verrebbero definiti “nerd”. I nostri coetanei umanisti preferivano studiare filosofia o letterature moderne, ritenendole giustamente più aderenti alle inquietudini sociali dell’epoca. Per cui, in un manipolo di cinque sei studenti intenzionati a scrollarci di dosso l’accusa di elitarismo e anacronismo, avevamo fondato il CUB Lettere Classiche, guidati da una battagliera Renata. Proponemmo con velleitaria ingenuità ai nostri docenti di attualizzare l’insegnamento di latino e greco, per adeguarlo alla contemporaneità. Pressoché tutti gli accademici risposero con un sorriso di compatimento, tranne l’illustre grecista Prof. Dario Del Corno, che affidò a un suo giovane assistente il compito di organizzare per noi un seminario di storia degli studi classici, che esplorasse diacronicamente i diversi approcci ideologici con cui il mondo occidentale aveva indagato l’antichità. Questo volonteroso e preparato ricercatore si chiamava Giulio Guidorizzi (Bergamo 1948), e nei decenni successivi, diventato professore ordinario di Letteratura Greca presso l’Università di Torino, si è distinto come ellenista, traduttore, studioso di mitologia e di antropologia del mondo antico. Autore di importanti opere di saggistica e di manuali scolastici, ha pubblicato da Einaudi alcuni volumi divulgativi sulla cultura classica, l’ultimo dei quali si intitola Pietà e terrore. Diviso in due parti, nella prima sezione vengono definiti i caratteri fondamentali della tragedia greca, nella seconda si esaminano sedici delle trentatré tragedie che ci sono rimaste, approfondendone i tratti peculiari e reinterpretandole quasi romanzescamente.

Il teatro greco nacque ufficialmente nell’anno 535 a.C., quando il tiranno ateniese Pisistrato introdusse all’interno delle feste pubbliche un nuovo tipo di spettacolo per celebrare l’inizio della primavera e Dioniso, dio della natura vegetale, del vino, della sfrenatezza dei sensi. Momento rituale, quindi, in cui la città intera veniva coinvolta nella finzione scenica, mettendosi in gioco attraverso le parole del poeta. Questa dimensione sociale del teatro greco è resa evidente dal fatto che l’azione si svolgeva all’aperto, in uno spazio pubblico, alla presenza di spettatori che si appassionavano, si commuovevano e indignavano davanti alla rappresentazione dei loro miti e valori culturali.

La tragedia (etimologicamente “canto del capro”, perché proprio un ovino era consegnato in premio al vincitore del concorso teatrale), rispetto all’epica che l’ha preceduta, non è semplicemente una narrazione di avvenimenti esterni, ma è un’azione che mette in scena una serie di eventi che travolgono i personaggi, di volta in volta vittime del caso, di un destino malefico, di una scelta sbagliata, di un impulso irragionevole o bestiale. Non prevede il trionfo del bene, né alcuna ricompensa alla sofferenza, o qualsiasi redenzione futura: ciò che accade non si perpetua nell’eternità, ma rimane circoscritto nel ‘qui e ora’ di un tempo breve, spesso nell’arco di una sola giornata. Rappresenta il passaggio repentino da una condizione all’altra, dalla gioia alla sofferenza, precipitando verso la catastrofe. L’esistenza delle persone è inspiegabilmente sottoposta “al travaglio del tempo e al furore di altri uomini”, o determinata da una forza cieca interiore, da un “male oscuro” che afferra il protagonista quando si trova all’apice della gloria o della felicità: “Io so che sto per compiere una cosa terribile, – dice Medea poco prima di uccidere i suoi figli –, ma il mio impulso è più forte della mia volontà”.

Il destino misterioso (la mòira omerica) colpisce sotto le sembianze di un incontro, di un oracolo, di una caduta, di una pestilenza. Gli umani non ricavano alcun beneficio dalla loro sofferenza, ma imparano a conoscersi, a valutare le proprie resistenze e cedimenti: “Il contributo principale alla storia del pensiero occidentale – oltre che, naturalmente, a quella della letteratura – è la scoperta del mondo interiore. Completamente nuovo è il modo in cui la tragedia racconta il ‘dentro’ dell’uomo, l’impasto di impulsi ed emozioni che portano un essere umano ad agire contro ogni ragione e persino ad autodistruggersi: Aiace a suicidarsi, Edipo a cavarsi gli occhi, Antigone e immolarsi, Fedra ad amare follemente l’uomo che poco dopo trascinerà nella sua rovina insieme a sé”.

I personaggi tragici (quelli monolitici di Eschilo, quelli sfuggenti di Sofocle, quelli contraddittori di Euripide) conoscono il bene eppure compiono il male, disubbidendo agli insegnamenti morali della filosofia: per questo Platone condannava la tragedia, scorgendo in essa il trionfo dell’irrazionale, delle passioni irrefrenabili che conducono ineluttabilmente ad azioni colpevoli, violando il limite imposto dalla legge con un atto di hýbris. Accade spesso che ad agire sovvertendo l’ordine siano le donne, sia quando incarnano un dramma sentimentale privato, sia perché simboleggiano il conflitto antropologico del sistema politico ateniese, tra città e clan famigliare, tra cultura e natura, tra ragione e istinto. Le donne, più ancora degli uomini, comunicano “pietà e terrore, due pulsioni opposte perché la pietà avvicina e il terrore allontana”. Attraverso le emozioni forti dei protagonisti, agisce la catarsi, che coinvolge non solo gli attori ma tutto il pubblico, liberando e purificando dalle esperienze traumatizzanti e dai conflitti vissuti in prima persona o ritrovati sulla scena.

La seconda parte del volume di Giulio Guidorizzi, ben più corposa della prima, è dedicata all’esposizione e alla ricostruzione narrativa di sedici tragedie: cinque di Eschilo, cinque di Sofocle, sei di Euripide. L’autore rievoca miti ed episodi storici del passato, ripercorre i poemi omerici, ricostruisce ambienti, inventa monologhi e dialoghi, dà voce a protagonisti e comparse, componendo un grande affresco della cultura e della civiltà democratica greca del V secolo. In tutte le opere rivisitate esplodono passioni incoercibili (vendette, tradimenti, amori, risentimenti, rancori, gelosie), si succedono omicidi, suicidi e stragi, e sebbene le scene di sangue e violenza non vengano mai mostrate, ma raccontate da qualche messaggero o testimone oculare (parenti, servi, nutrici), o direttamente dal coro e da divinità in sembianze umane, l’effetto raggiunto coinvolge sempre, terrificante o commovente che sia. Valga per tutti l’esempio dell’Edipo re di Sofocle, il cui protagonista vive in una continua tensione tra sapere e non sapere, dire e nascondere, temere e sperare, fino allo svelamento finale del parricidio e dell’incesto, alla rovina che si compie in un giorno solo. Tragedia perfetta secondo Aristotele, “guida per penetrare nei meandri dell’inconscio” secondo Freud, che ne ricavò il nome per descrivere il complesso che lo rese famoso.

Il volume di Giulio Guidorizzi rappresenta senz’altro un’utile introduzione alla conoscenza dell’antica Grecia per i neofiti dell’argomento, e una piacevole e avvincente lettura per chi voglia recuperare memorie scolastiche colpevolmente trascurate.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 21 maggio 2023