Mostra: 581 - 590 of 1.347 RISULTATI
RECENSIONI

GOV

ANAT GOV, OH DIO MIO! – GIUNTINA, FIRENZE 2016

Una delle più interessanti drammaturghe israeliane, Anat Gov (1953-2012) portò sulle scene nel 2008 Oh Dio mio!, questo testo teatrale ironico, paradossale, inquietante che ora l’editore Giuntina ha riproposto, riscuotendo interesse e successo di vendite. Protagonista è Ella, psicologa e madre single di un ragazzino autistico, che riceve su appuntamento i suoi clienti, sviscerandone e curandone turbe e complessi secondo un tariffario di un certo spessore.

Interpellata telefonicamente da un misterioso e angosciato signor D., accetta di riceverlo con urgenza, e si trova davanti a un omone incappottato, sussiegoso e imponente, che esita a darle informazioni su di sé. Afferma dopo incalzanti pressioni da parte della psicanalista di avere 5766 anni, di essere artista e famoso, orfano dalla nascita e in preda a una secolare depressione: conosce presente-passato-futuro di Ella, sa tutto delle sue difficoltà familiari, sa che è atea, laica e femminista. Pare l’abbia scelta per questo.
Lui è Dio. E pretende di essere aiutato da lei, in un’ora di terapia, a guarire la sua incolmabile tristezza, la sua rabbia secolare, la delusione nei confronti del mondo.
Il dialogo serrato e divertente che si svolge tra i due induce non solo a un sorriso più amaro che rasserenato, ma anche a molte riflessioni.
Il signor D. scoppia a piangere, rivela il suo desiderio di morire, di non essere più l’Onnipotente, e acconsente a ripercorrere sotto la guida di Ella una sorta di anamnesi del suo male oscuro. “Non sento più niente. Non voglio niente. Non mi aspetto niente. Niente mi interessa, non mi curo di niente”.

All’inizio della creazione, Dio era stato preso da un entusiasmo e da un’esaltazione euforica: inventare il sole, la prima alba, la luna, gli alberi, la coccinella (e anche le zanzare!) l’aveva riempito di incredibile gioia e di orgogliosa soddisfazione. Ma avrebbe dovuto fermarsi al quinto giorno, perché la balzana idea di dare vita all’uomo – di venerdì! – finì inevitabilmente per distruggere la sua pace. “Che scemo, idiota, fesso, babbeo, imbecille! Che mondo meraviglioso era finché non siete arrivati voi. Un vasto, tranquillo parco safari”.

Con la sagacia puntuta della migliore tradizione yiddish, Anat Gov conduce il confronto tra analista e paziente rivisitando sia il talmud sia gli insegnamenti freudiani, rileggendo ironicamente la Genesi (il tradimento di Adamo, il fratricidio di Caino, l’ubriacatura di Noè…), e poi l’Esodo con i dieci comandamenti, e il libro di Giobbe, per portare a galla le paure di Dio: in primo luogo il suo sentirsi abbandonato, solo, dimenticato da un genere umano ingrato e indifferente. In questo l’autrice si fa eco delle più recenti tesi teologiche, che ripropongono un Dio impotente di fronte al male, un dio che patisce e com-patisce, più vicino alla terra che alle sfere celesti. Ma lo fa sogghignando, un po’ sadicamente, soprattutto quando mette in bocca alla psicanalista una dura requisitoria contro la crudeltà divina nei confronti dell’umanità, e in particolare del popolo eletto: solo riscoprendo in se stesso la propria fragilità, solo umanizzandosi e riconoscendo le sue angosce, la sua sete d’amore, i suoi sensi di colpa, il Padre Eterno potrebbe guarire, e recuperare un rapporto positivo con le sue creature.
Il finale buonista, che si apre a un miracolo insperato – con il signor D. che esce di scena rappacificato e Ella più vacillante nel suo ateismo, ma professionalmente vittoriosa – cede un po’ della sua verve scoppiettante e ironica: continuando tuttavia a pungolare il lettore con interrogativi coinvolgenti.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/Oh-Dio-mio-Anat-Gov.html     30 agosto 2016

RECENSIONI

GOZZANO

GUIDO GOZZANO, I COLLOQUI – INTERNO POESIA, LATIANO (BR) 2020

L’abbiamo amato un po’ tutti, imbattendoci nelle sue poesie sull’antologia dell’ultimo anno di liceo. Così lontano dal roboante Carducci, dall’intenerito Pascoli, dal superbo D’Annunzio, e invece così inaspettatamente vicino alla nostra sensibilità di ansiosi e mordaci adolescenti. Arrivava lui, avvocatino piemontese consumato dalla tisi, beffardo e commosso, malinconico e ilare, sentimentale e prosastico. Con i suoi amori ancillari, l’estenuata sensualità, le signorine quasi brutte, gli eleganti caffè cittadini, le passeggiate in collina.

Ecco quindi che la riedizione de I Colloqui gozzaniani da parte dell’editore pugliese Interno Poesia offre ai lettori in primo luogo la possibilità di un recupero dalle memorie giovanili di un poeta ancora suscettibile di nuove interpretazioni, e secondariamente il piacere di venire avviati in questa riscoperta dall’introduzione acutamente empatica di un altro poeta, Alessandro Fo. Nella nota iniziale, Fo definisce le sue “affettuose linee di accompagnamento” ai versi di Guido Gozzano come “un’innamorata flânerie”, libera da eccessive preoccupazioni critiche testuali. E in effetti la sua presentazione non risulta solo puntualmente concentrata, ma soprattutto vicina a una premura immedesimante, nella volontà di comprensione mimetica delle intenzioni affettive e letterarie dell’autore commentato.

Ma c’è un rifugio? Un tentato colloquio con «Guido Gozzano», si intitola con corretta perspicacia la prefazione di Fo, che subito mette in luce quali siano stati i due binari su cui ha viaggiato la lirica gozzaniana: amore e morte, entrambe illusorie tentatrici, entrambe infedeli adescatrici: “…reduce dall’Amore e dalla Morte / gli hanno mentito le due cose belle…”

L’amore, quindi, anzi l’Amore con la maiuscola, proposito-aspirazione-meta da raggiungere, che sempre si è rivelato ingannevole e deludente per la “cosa vivente detta guidogozzano”: amore rincorso, tradito, infine schernito con irridente autoironia (“Amore no! Amore no! Non seppi / il vero Amor per cui si ride e piange: / Amore non mi tanse e non mi tange; / invan m’offersi alle catene e ai ceppi”, “Non amo che le rose / che non colsi. Non amo che le cose / che potevano essere e non sono / state…”, “Ah! Se potessi amare! Ah! Se potessi / amare, canterei sì novamente! Ma l’anima corrosa / sogghigna nelle sue gelide sere… / Amanti! Miserere, / miserere di questa mia giocosa / aridità larvata di chimere!”, “Egli sognò per anni l’Amore che non venne”). Al sentimento amoroso Gozzano sembrava avvicinarsi con timore e desiderio, con sospetto e sarcasmo, confessando sia la sua tormentosa sensualità, sia i suoi infidi corteggiamenti, con i conseguenti rimorsi di seduttore impenitente: “Avevo un cattivo sorriso: / eppure non sono cattivo, / non sono cattivo, se qui / mi piange nel cuore disfatto / la voce: «Che male t’ho fatto / o Guido per farmi così?»”, “Un mio gioco di sillabe t’illuse. Tu verrai nella mia casa deserta: lo stuolo accrescerai delle deluse. // … Sotto il verso che sai, tenero e gaio, arido è il cuore, stridulo di scherno”.

Inventandosi uno sminuito e fallimentare alter-ego nella figura di Totò Merumeni (“tempra sdegnosa, / molta cultura e gusto in opere d’inchiostro, / scarso cervello, scarsa morale, spaventosa / chiaroveggenza… // … Egli sognò per anni l’Amore che non venne, / sognò pel suo martirio attrici e principesse, / ed oggi ha per amante la cuoca diciottenne”), Gozzano accarezzava languidamente l’idea della morte: “Totò opra in disparte, sorride, e meglio aspetta. / E vive. Un giorno è nato. Un giorno morirà”.

Appunto “la Signora vestita di nulla”, “l’Eguagliatrice”, assediava il pensiero presago del giovane poeta malato (Torino, 1883-1919): “Respinto dalla Vita, Guido ha corteggiato la Morte, o piuttosto ne è stato corteggiato”, commenta Alessandro Fo. Scisso tra tenerezza e corporeità, cielo e terra, vita e fine della vita, Gozzano trovò nella poesia la via del rifugio (come recita il titolo della sua prima raccolta del 1907): l’unica dama con cui poter instaurare un colloquio sincero, rigenerando nei versi ogni malinconico pessimismo.

La “fede letteraria” di cui spesso minimizzava il valore (“Musa maldestra”, “arte fatta di parole”, “pochi giochi di sillaba e di rima”, “vender parolette”), lo induceva a osare accostamenti sonori provocatori (Nietzsche/camicie, edifici/dentifrici, yacht/cocottes), e a burlarsi delle proprie ambizioni artistiche: “Buon Dio, e puro conserva / questo mio stile che pare / lo stile d’uno scolare / corretto un po’ da una serva”. In realtà, questo programmato e proclamato porsi dei limiti culturali, restringersi in una quotidianità piccolo-borghese – celebrando “la semplice vita” fatta di affetti modesti, ambienti dall’ “arredo squallido e severo”, frequentazioni rassicuranti –, non era studiata dissimulazione, né compiaciuto scetticismo. Piuttosto, con la schietta familiarità e l’indulgente sottigliezza del suo sguardo sul mondo, Guido Gozzano seppe introdurre nel panorama letterario italiano temi e tonalità lontani dalla retorica del sublime, dell’esotico, del patetico.

Il volume edito da Interno Poesia propone a un prezzo conveniente, oltre a I colloqui, una scelta delle poesie più famose, un ricco apparato di note e un’accurata ricostruzione biobibliografica.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 27 novembre 2020

 

 

 

RECENSIONI

GRACQ

JULIEN GRACQ, ACQUE STRETTE ‒ L’ORMA, ROMA 2018

Trascurato da noi, ma celebrato in patria (tradotto in una trentina di lingue, e pubblicato ancora in vita nella Bibliothèque de la Pléiade) Julien Gracq negli ultimi anni è stato meritoriamente riproposto ai lettori italiani dalle giovani ed eleganti edizioni romane de L’orma.   Nato in una cittadina della Loira nel 1910, dopo la laurea si iscrisse al Partito Comunista Francese, e nel corso della seconda guerra mondiale partecipò alla battaglia di Dunkerque, finendo imprigionato in Slesia per più di un anno. Tornato alla vita civile, si dedicò all’insegnamento nei licei parigini. Fortemente influenzato dal surrealismo, e refrattario alla letteratura d’impegno esistenzialista, rifiutò il Premio Goncourt assegnato nel 1951 al suo romanzo La rivage des Syrtes, in polemica con la scena culturale francese. Scrisse di teatro, di poesia e di critica, ma il suo nome rimane legato alla produzione narrativa, segnata da una profonda sensibilità simbolica e metafisica, ricca di riferimenti culturali lontani dalle ideologie contemporanee, stilisticamente raffinata e rigorosa. Morì novantasettenne nel 2007 ad Angers, nella regione nativa dove si era ritirato dopo il pensionamento.

Acque strette (1976) è il resoconto di un’escursione in barca sull’Evre, affluente della Loira. Una gita priva di avvenimenti o novità esteriori, che l’autore ha più volte ripetuto nel corso degli anni, senza attendersi particolari sorprese o rivelazioni, ma abbandonandosi sempre al piacere gratuito delle associazioni mentali, delle fantasticherie, delle memorie letterarie.

«Per quale motivo si è presto radicata in me la sensazione che, se soltanto il viaggio – il viaggio che non preveda l’idea di un ritorno – è in grado di aprirci le porte e cambiarci davvero l’esistenza, un altro tipo di sortilegio, più nascosto, come originato da una bacchetta magica, si leghi invece alla passeggiata prediletta fra tutte, all’escursione senza avventure né imprevisti che dopo poche ore ci riconduce all’attracco da cui partimmo, alla cinta familiare di casa?» Una passeggiata, quindi, un’immersione nell’ambiente e nel paesaggio come ne abbiamo lette altre nella letteratura mondiale: da Petrarca a Rousseau, da Schiller a Stendhal, da Nerval a Thoureau, da Walser a Benjamin, da Handke ai nostri Dino Campana e Gianni Rodari.  Non un viaggio iniziatico,  non la scoperta dell’ignoto o la sfida ai propri limiti materiali: piuttosto un dialogo sommesso con l’interiorità, il recupero visionario di ricordi e sensazioni legate al passato e innescate da rievocazioni di pagine amate.

In una prosa elegante, ricercata, sinuosa, a tratti compiaciuta di sé, quasi l’autore amasse ascoltare la propria voce confusa con lo sciacquio delle acque dell’Evre, siamo invitati ad abbandonarci alla sua sapiente guida in territori più familiari che esotici, e forse per questo più affascinanti. La narrazione della placida navigazione sul fiume riattiva in Gracq, come la madeleine proustiana, odori e sapori adolescenziali, e immagini di scampagnate domenicali (i tuffi, la pesca, i picnic sull’erba) in compagnia di vocianti coetanei, tra gli argini verdeggianti di frassini, pioppi, castagni e salici.
«Ci si imbarcava – lo si fa tuttora, immagino – ai piedi di una scalinata d’assi che ruzzolava per l’alta sponda argillosa; un intreccio di ramature incombeva sopra lo stretto canale d’acqua nera; si scivolava a un tratto in una zona di silenzio sottile, quasi in allerta, amico dell’acqua quanto la foschia, rotto soltanto dal piatto e liquido sgocciolare della pale sospese dei remi». Lo scafo era uno «scalcinato burchiello centenario, un barchino traballante, tarlato, scatramato, a volte anche privo di timone», scivolante sulla lenta corrente come il cigno del Lohengrin in un percorso «sovrannaturale», «attirato da una calamita invisibile». Il percorso sull’Evre, illustrato anche graficamente nel volume, si snoda dall’ormeggio presso il Mulino di Coulènes, affiancando il Castello della Guérinière fino al Ponte di pietra e alla Cattedrale du Marillais, in un itinerario che nasconde in sé qualcosa di magico, poiché del corso d’acqua non si raggiunge né la fonte né la foce, nascoste da cataste di sassi o vegetazione impenetrabile.

L’esperienza estetica vissuta da Gracq nel suo viaggio acquatico assume sfumature quasi di estasi mistica, attraverso l’immersione a volte lucente a volte tenebrosa nel silenzio, nella solitudine, nei colori della natura intorno, quasi il tempo sospendesse la sua corsa inclemente: «In queste lande non coltivate, senza memoria né sentieri, non vengo a cercare una qualche traccia di leggenda; piuttosto, a farsi leggenda, anonima e nebbiosa, è la vita stessa, che si scrolla di dosso gli ancoraggi e i riferimenti consueti». Il vagare della mente e della memoria in assoluta libertà associativa predispone un’emozionante esperienza affettiva, quando si sofferma su visi e parole amate, e sui versi, le descrizioni e le musiche che hanno nutrito le «costellazioni fisse» della formazione dell’autore: Nerval, Rimbaud, Balzac, Poe, Valery, Wagner, astri numinosi del suo percorso artistico.

È pura poesia, quella percepita in un cortocircuito emotivo che produce energia spirituale, resuscitando «fantasmi addormentati» capaci di far riaccadere tutto il vissuto: «le care e  a lungo oscurate immagini – tutte le immagini – si infiammano e si riaccendono l’un l’altra; un tracciato pirotecnico zigzaga come un lampo attraverso il mondo assopito, ne segue le segrete fenditure, gli spigoli, le crepe, tutte la fratture che, anno dopo anno – da un’esperienza all’altra, da una lettura all’altra, da un incontro fondamentale all’altro ‒ l’hanno solcato per me rendendolo irrimediabilmente mio. È questa la virtù dell’unico, vero, ritrovato contatto con ciò che un tempo mi ha in qualche maniera avvinto, rapito: rianimare, risvegliare e congiungere attraverso un percorso di fulmine tutto ciò che ho mai amato». Poesia dell’occhio e dell’anima, miracolo inspiegabile su cui nessuna interpretazione critica, nessuna analisi filologica e semiologica può gettare alcuna luce,  se presume di limitare il valore del testo a puri meccanismi di costruzione linguistica, quando invece ciò che vediamo, sentiamo e leggiamo genera «una sorta di tranquilla eccedenza; niente più di quanto può pacificamente traboccare dopo essersi riempiti di una giornata senza nubi».

Un plauso agli editori de L’orma, che ci regalano libri importanti e sapientemente curati, belli tutti, dalle copertine alla grafica, e un elogio alla traduzione sensibile e intelligente di Lorenzo Flabbi.

 

© Riproduzione riservata                           «Il Pickwick», 19 novembre 2018

RECENSIONI

GRASS

GÜNTER GRASS, IL MIO SECOLO – EINAUDI, TORINO 1999

Günter Grass (Danzica, 1927-Lubecca, 2015) premio Nobel per la letteratura nel 1991 – meritato riconoscimento alla sua lunga attività di narratore, drammaturgo, poeta e saggista -, si è sempre confrontato in maniera critica con la tormentata storia della Germania. Ne Il mio secolo, apparso nel 1999, ha riunito cento brevi racconti che ricostruiscono anno per anno la storia del ’900. Il volume, oggi difficilmente recuperabile, si spera possa venire ristampato e messo in commercio da qualche encomiabile piccolo editore. Ne varrebbe la pena, perché le vicende narrate sono godibili, oltreché interessanti, ed espresse con una concisione e leggerezza che le rende più abbordabili rispetto alla gravità dei corposi romanzi (Il tamburo di latta, Anni di cani, Il rombo, È una lunga storia).

Provocatorio, sarcastico com’è nelle sue corde, ma anche lieve e intenerito in alcune descrizioni di interni ambientali e privati, Grass riesce qui a comporre un mosaico di avvenimenti storici in cui si compenetrano tragedie collettive con esperienze e memorie personali, collegando eventi lontani ad altri più recenti, laddove violenza, sfruttamento, ingiustizia presentano sempre lo stesso profilo sopraffattore. L’io narrante confonde quindi la sua voce con quella corale o individuale di protagonisti e testimoni della cronaca ufficiale, in un vivace caleidoscopio di atmosfere, linguaggi, personalità differenti.

Il volume si apre sulla rivolta dei Boxer in Cina, espressione paradigmatica del volto aggressivo del colonialismo di ogni epoca: tutte le potenze europee alleate nello sterminio efferato degli asiatici ostili al nascente capitalismo occidentale. La prima guerra mondiale è poi presentata originalmente attraverso l’ottica inconciliabile di due scrittori tedeschi che l’avevano combattuta in prima persona, il “pacifista irriducibile” Eric Maria Remarque e l’interventista anarchico Ernst Jünger, di cui si ipotizza un incontro postumo avvenuto in territorio neutrale, a Zurigo. Quindi la terribile inflazione del primo dopoguerra, seguita dall’ascesa di Hitler nel 1933 raccontata dalla voce di un gallerista ebreo che mette al sicuro alcuni quadri di arte “degenerata”; l’istituzione dei campi di lavoro, la guerra civile spagnola, la notte dei cristalli del 1938.

Diversi cammei sono dedicati a partite di calcio o a gare ciclistiche, all’inaugurazione di gallerie ferroviarie, alla stampa di francobolli celebrativi, all’incisione dei primi dischi (“con il grammofono il mondo si reinventa da capo”), all’invenzione della radio a galena, alla trasvolata atlantica dello Zeppelin 126: avvenimenti che annunciavano trionfalmente il progresso, osservati attraverso gli occhi di donne e uomini comuni, di coloro insomma che “si ritirano volentieri nelle retrovie”.

Il punto di vista di questo osservatorio politico è soprattutto, ma non solo, tedesco: mai di parte, tuttavia, e critico nei riguardi della volontà suprematista della Germania. In particolare dal 1927, anno di nascita di Grass, coincidente con la pubblicazione del capolavoro di Heidegger Essere e tempo, la voce dell’autore si fa sentire più spesso in prima persona, a commentare con giudizi taglienti sia le vicende più tragiche del suo paese, sia costumi sociali, scelte politiche, tendenze ideologiche poco condivisibili. Dalle atrocità del secondo conflitto mondiale, con il conseguente senso di colpa che ha tormentato la popolazione tedesca per decenni, alla divisione tra Germania Est e Ovest, fino alla caduta del muro di Berlino (“ho gridato ‘pazzesco!’, per la gioia e lo spavento, ‘ma è pazzesco!’”), e poi alla riunificazione, considerata artificiosa e ingannevole nella sua pretesa democraticità egualitaria. La cultura non viene ignorata, nello scandire del tempo che si rincorre anno per anno. Si citano in modo irriverente gli emuli dell’oscurantismo linguistico di Heidegger, il gigantesco Mann, il nebuloso Celan, l’impegno di Bertolt Brecht e Gottfried Benn.

Günter Grass si mette poi direttamente in gioco quando ricorda il rapporto con la prima moglie Anna (“avevamo sempre meno da dirci”), con le figlie, e nell’ultima pagina del 1999, nella commossa rievocazione della madre morta di cancro dopo un’esistenza tormentata da miseria, guerre e persecuzioni etniche, e ora tornata viva nella memoria de figlio: “Il ragazzaccio ha superato i settanta e si è fatto un nome già da un pezzo. Ma non riesce a smetterla, con le sue storie…”.

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 27 agosto 2022

RECENSIONI

GRASSO

SILVANA GRASSO, SOLO SE C’E’ LA LUNA – MARSILIO, VENEZIA 2017

«Notte di lunapiena era stata, e un incendio di luce albina, spaventosa, magnifica, aveva furiosamente rovistato tra rami di ciliegio maturi, anche loro ormai prossimi al parto. Ma i ciliegi non soffrivano come le femmine, quando partorivano». Così l’incipit di questo intenso romanzo di Silvana Grasso, scrittrice siciliana tra le più originali delle nostre lettere, indagante con coraggiosa e inventiva caparbietà nelle pieghe e nelle piaghe sociali, morali e linguistiche della sua isola. Sul parto doloroso e difficile della giovane Gelsomina si apre la narrazione, da subito testimoniante una scrittura corposa e carnale, densa di metafore spiazzanti, che sempre accomunano gesti ed espressioni umane alla fisicità di una natura pulsante, viva e crudele nella sua vegetazione e nei suoi animali. Facce che sembrano alberi, mani che si trasformano in zampe, cieli arsi da un sole vendicativo o illividiti in costellazioni glaciali.

Gelsomina Caltabellotta, contadina semianalfabeta e poco intelligente, con l’unica ossessione dell’intaglio e della scultura, è costretta dal padre a sposarsi sedicenne con il cinquantenne Girolamo Franzò, tornato ricco in paese dopo un’emigrazione trentennale in America. Personaggio a tutto tondo, questo Girolamo che si fa chiamare Gerri, e imbastisce il suo dialetto siculo di americanismi ridicoli nella loro spavalda presunzione: bisinès, marketinghi, fastifud, oddogghi,  coctèl, fifti fifti, unisecsi, occhèi. Senza dimenticare tuttavia la sua imbastardita lingua madre (furrìa, alluppiato, majarìa…) che infarcisce di frequentissimi “figli di buttana!” e “cazzo!”, coerente con la sua statura di volgare vanesio, “esaltato quanto coglione”, convinto di potersi comperare il mondo intero: parenti, dipendenti, donne, chiesa e politici compresi. Di ritorno da Chicago, dove era emigrato da bracciante affamato e rabbioso, e dove aveva fatto fortuna, Gerri Franzò crea un impero economico, un enorme bisnès di fabbriche di saponi e prodotti cosmetici (la “Gerri Soap”), abbagliando il suo arretrato paese, rassegnato a un immobilismo secolare e ignorante, con lo sfarzo di un lusso esibito e sfrontato. Disprezza familiari e compaesani («Qui sono ancora all’antidiluvio, qui vivono come capre, non c’è volontà d’emanciparsi, di conoscere cos’altro c’è oltre la terra, gli ulivi, le vigne, i conigli, le galline, le vacche»), ma cerca la sua rivalsa nel matrimonio con una ragazzina vergine e ingenua, nella speranza di ricavarne dedizione, gratitudine e prole vigorosa. Rimane deluso e scornato: la moglie è «scimunita ritardata rancorosa», chiusa in un mutismo superstizioso; l’erede sperato è purtroppo femmina, un «pezzo di lacerto di manzo, una bambola di panno lenci, colore del cuore di coniglio… una serpicina di carne stitica, bianchiccia… che di bello aveva solo il nome della luna, ‘Luna’». La bambina oltretutto è malata di una sindrome rarissima e incurabile, che la costringerà a vivere al buio per tutta la vita, protetta da qualsiasi raggio di luce che potrebbe scatenarle allergie dermatologiche e respiratorie letali: può uscire di casa solo la notte, Solo se c’è la luna. Crescendo, pallida e superba, tra lei e l’astro celeste si creerà un’empatia sentimentale e culturale condivisa solo con l’amica che il padre le impone come custodia fraterna, Gioiella: una ragazza orfana, bellissima e sensuale, ma ruvida e altera.

La seconda parte del romanzo racconta il legame morboso e ribelle che si instaura tra le due ragazze, imbastito di erotismo, talvolta eccessivamente ostentato, con un turpiloquio esuberante e insistito. Il sesso rifiutato sdegnosamente da Gioiella, ed esplorato con avidità da Luna, si impone con tutto il suo brutale e prepotente giogo, finendo per assoggettare tragicamente le due amiche in uno spietato destino di autodistruzione. Rimarrà a ricordarle il vecchio Gerri, con la sua boria post-americana, facendo costruire pacchiani mausolei in memoria, e progettando nuovi prodotti di bellezza  battezzati “Luna”, per una nuova e vincente strategia di marketinghi.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Solo-se-c-e-la-luna-Grasso.html     7 gennaio 2017

 

 

 

RECENSIONI

GRIFFERO

TONINO GRIFFERO, QUASI-COSE – BRUNO MONDADORI, MILANO 2013

Seguendo i suggerimenti fenomenologici di Hermann Schmitz, Tonino Griffero dedica questo suo stimolante e documentatissimo volume a “cose” che propriamente cose non sono: Quasi-cose, semi-cose, che ci circondano e pervadono le nostre esistenze, modificandole, condizionandole.
Suggestioni variabili ed effimere, vaghe e fluide, private e pubbliche: atmosfere, e sentimenti. “Le quasi-cose hanno un’esistenza intermittente… sono più attive delle cose… generano un irresistibile coinvolgimento affettivo… ci aggrediscono improvvisamente dall’esterno”.

Come, meteorologicamente, l’aria e il vento. Oppure come la luce, lo sguardo, il dolore, la vergogna. Tonino Griffero afferma provocatoriamente che forse non è sempre inevitabile identificare i sentimenti con i processi neurali: si può addirittura supporre che essi giungano all’uomo da “fuori” e non da “dentro”. Questa sua strategia di esternalizzazione tende a “depsicologizzare atmosferologicamente l’intera sfera emozionale, facendo cioè dei sentimenti delle affezioni (…) non circoscritte ai confini del corpo (…) ma effuse in uno spazio ‘vissuto’”.

Tesi indubbiamente affascinante e originale, spesso contestata filosoficamente e scientificamente, ma di indubbia presa emotiva. Quindi le atmosfere sarebbero “enti” non solo intersoggettivi, ma quasi-oggettivi: gli esempi elencati (dalla morte di Lady Diana che sconvolse intere popolazioni, al tifo nello stadio, alla malinconia di fronte a certi paesaggi) inducono il lettore a pensarsi non più come un percipiente assolutamente unico e irripetibile.
Griffero ribadisce infatti “il carattere soprattutto esterno, straordinariamente invariante dei sentimenti”.

“Impariamo chi noi siamo più dal patire…che dall’agire”: dolore e vergogna ci insegnano moltissimo sulla nostra impotenza e fragilità, e “sugli aspetti, faticosamente rimossi, della nostra personalità”. Nostra, e di tutti.

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Quasi-cose-Tonino-Griffero.html     3 agosto 2016

RECENSIONI

GROSJEAN

JEAN GROSJEAN, IL MESSIA – QIQAJON, BOSE 2024

Le Messie di Jean Grosjean uscì in Francia nel 1974: oggi lo ripropone la casa editrice Qiqajon di Bose nella limpida traduzione di Emanuele Borsotti, con prefazione del Cardinale José Tolentino Mendonça e un’appendice composta da sette “spigolature” di Christian Bobin.

Poeta, scrittore, teologo e traduttore (Parigi 1912 – Versailles 2006), Jean Grosjean fu ordinato prete nel 1939, tornando allo stato laicale dieci anni dopo. Pubblicò numerose raccolte di versi, principalmente di ispirazione religiosa, e innovative rielaborazioni di episodi biblici. Si cimentò in traduzioni impegnative, dai tragici greci a Shakespeare, dal Nuovo Testamento al Corano, ma il suo nome viene ricordato soprattutto per le originali interpretazioni dei testi sacri, tendenti ad approfondire ed espandere il loro significato letterale, esaltandone allo stesso tempo il valore letterario e l’atmosfera poetica. Proprio sul gioco ermeneutico instaurato tra scrittura, riscrittura e lettura si sofferma l’acuta introduzione al testo di Tolentino Mendonça, mentre Bobin sottolinea il carattere profondamente meditativo di Grosjean, il cui “cuore di cristallo”, “cuore sovra-illuminato” sapeva coniugare la sapienza teologica con uno stile elegantemente essenziale.

Nel Messia lo scrittore immagina, prendendo spunto dal materiale neotestamentario, in che modo Gesù possa aver trascorso i quaranta giorni tra la resurrezione e l’ascensione, traendone una narrazione sul filo del fantastico e del prodigioso. L’icastico e surreale incipit del romanzo presenta il Risorto accompagnato da altri morti tornati a vivere nelle sembianze di fantasmi, per rivedere i cari che hanno lasciato:Gesù camminava sotto le stelle. Doveva essere guardingo per riabituarsi a vivere. Si limitava a frequentare le tombe e il suo passaggio ne risvegliava gli ospiti. Per insignificanti che fossero stati, avevano avuto la sua stessa esperienza di naufragio. Si alzavano, pronti a fargli da scorta, ma lui li congedava gentilmente, lasciandoli impacciati nella loro resurrezione”.

Gesù sollevatosi dal sonno della morte si mette a sedere nel sepolcro e si libera dalle bende che lo avvolgevano, scavalca i corpi addormentati delle guardie e si incammina nella notte, “meravigliosamente malsicuro”, cercando di riambientarsi alla vita. Cammina a piedi nudi sull’erba rugiadosa di inizio primavera, ascolta le tortore tubare tra i cespugli, poi torna al sepolcro per spiare le donne e i discepoli che cercano il suo cadavere sparito, osserva Maria Maddalena angosciata davanti alla tomba vuota, e le rivolge parole di consolazione nella lingua dialettale che li accomunava in vita. Poi si allontana, senza lasciarsi toccare dalla donna che, dopo sua madre, aveva più amato.

Tornare a esistere, a confondersi con la gente, a godere nuovamente di ogni respiro, prima creatura risorta dal momento della creazione, è un’impresa vertiginosa nella sua unicità, richiede coraggio e prudenza: implica la solitudine più assoluta, perché oscilla tra il vuoto della morte e il troppo pieno di una vita che non offre appigli a cui aggrapparsi. Sulla strada per Emmaus il Messia incontra due viaggiatori, li riconosce ma non viene riconosciuto; parla con loro, cerca di scuoterne l’ottuso torpore. Non appena un vago turbamento li sfiora, forse un sospetto di verità, allora riprende il suo cammino solitario, invaso dallo stupore per la bellezza di ogni cosa che vede: fiori, sabbia, uccelli, rettili. Bellezza sconfortante, la civetteria della natura! Qualcuno si nasconde dietro l’incanto del paesaggio come fosse un’esca. È forse il Padre? “Gesù era solo, fra un Dio dalle tracce sfuggenti e una terra dalle apparenze ingannevoli”. Intanto gli apostoli raccolti nel cenacolo da tre giorni, rancorosi, si accusano a vicenda di aver abbandonato Gesù: quando lui si ripresenta, avverte in loro più imbarazzo che gioia, più timidezza che adesione. Anch’egli li sopporta a fatica, e tornato ad avvolgersi nella notte, viene illuminato dai bagliori delle armature di una schiera di arcangeli, mandati dall’alto a vegliare sul suo cammino. Umana realtà o sogno sovrumano, la sua figura è sospesa tra carne e spirito, concreta e immateriale nello stesso tempo. Dio tace, il Padre non si mostra.

Il Messia fa altri incontri, va in cerca di chi aveva preso parte alla sua vita terrena (Lazzaro con le sorelle Marta e Maria), ripete i miracoli che aveva compiuto durante i tre anni di missione pubblica, rivive la trasfigurazione sul monte Ermon, il rinnegamento di Pietro, lo strazio dell’abbandono nel Getsemani, rimmergendosi nel passato: “Così, senza mangiare né dormire, Gesù frequentava in segreto i luoghi che erano stati suoi e dove pensava di ritrovare il cammino verso il suo Dio, quel cammino che era stato doppiamente offuscato dai tormenti della morte e dalle sorprese della resurrezione”.

Grosjean inserisce nella topografia dei luoghi attraversati dal Risorto i nomi di piccole località della Borgogna (Montussaint, Crénu, Puessans), dove a lungo aveva abitato con la moglie, nel paese di Avant-lès-Marcilly, e introduce oggetti, architetture, suoni, cerimonie e personaggi sia novecenteschi sia di epoche lontane (il condottiero cartaginese Annibale, l’imperatore Tiberio), a significare che la Resurrezione è evento che si produce e rimane al di là del tempo e dello spazio. Infine, davanti a una piccola folla di proseliti, viene assorbito da una nube, sollevandosi da terra, mentre il paesaggio si fa sempre più lontano e il cielo si avvicina. Raggiunge finalmente il Padre, si pone alla sua destra, e insieme si incamminano “nella grande frescura degli spazi”.

Il Gesù di Jean Grosjean ci appare umanissimo e divino, nella sua fragilità di creatura risvegliata dalla morte e nella forza luminosa di una rinascita destinata a durare in eterno.

 

© Riproduzione riservata     «La Poesia e lo Spirito», 6 aprile 2024

 

 

RECENSIONI

GRUENBEIN

DURS GRÜNBEIN, STROFE PER DOPODOMANI – EINAUDI, TORINO 2011

Quando la poesia ha davvero qualcosa da dire, da raccontare, allora trova sempre le parole più giuste per farlo. E sono parole oneste, ricche di echi interiori, e insieme specchi di vita concreta, reale, carica di pensiero ed emozione. Così sono i versi di questo volume di Durs Grünbein, sintesi di due raccolte pubblicate in Germania, tradotto con fedele originalità da Anna Maria Carpi: si tratta di un poeta che vivaddio non si vergogna di scrivere ancora poesia civile, di parlare della storia di tutti e della sua personale immersa però in quella del mondo, di celebrare l’amore senza retorica ma anche senza stanchezza, di tentare persino una definizione estetica della poesia: «Filosofia in metrica, musica / d’allegri salti / da parola a cosa. // La miglior guida, al momento dell’esodo da questa / notte umana». E tuttavia la scrittura rimane solo un surrogato della vita vera: «Fratelli, lo sapete, anche se a volte prende il volo un verso, / subito atterra. E nulla contiene la fossetta del mento. / Si dà per qualche istante che un cervello si stringa a un altro – / ma che c’è nelle sillabe se non io sono, io sono?» Eppure questo “io” del poeta sa farsi voce universale, sia quando racconta dei suoi nonni proletari, o delle sue vacanze sentimentali in un’Italia antica ed eterna («Se non era amore quello, noi non siamo mai esistiti»), o del parto difficile della sua bambina («Die so sehr Gewollte – la voluta tanto»). Ma soprattutto se narra, lui nato a Dresda nella DDR, e oggi residente a Berlino, dell’epocale trasformazione politica vissuta dal suo paese: «Com’era bello vivere quand’era tutto male, / case in rovina, sotto le betulle materassi a bollire. / Un’infanzia fuori Dresda fino all’occupazione di Praga… / E il sogno restaurava quel che fuori mancava. // Polvere o foschia o fuliggine – l’animo presto oppresso / dal paesaggio intorno, caratteri di piombo, stampa in grigio».

Un’infanzia bigia, in trappola, con ribellioni sognate in periferie operaie rassegnate e impaurite, senza dei e con scarse utopie «Che soluzione? Qualche trucco sì, si sapeva. / Poi passarono gli anni. Dell’umano restò l’idea, / non metà, non intero, una frazione», «Pesante l’aria, in compenso si stava più vicini. / Si mangiava male e abbondante». Era un universo, quello comunista di «dogmi arrugginiti»: «Be’ certo, gli affitti erano bassissimi». Ma adesso, nella Germania capitalistica e multiculturale, libera e impietosa? «La raccolta rifiuti è puntuale. Sia lode al sistema, / ora lo sciopero si chiama sciatteria. La città mette su pancia». Eccola, allora, «Berlino, questo mostro», «quest’alito di metropoli che desta compassione»: il poeta Gruenbein diventa «il testimone non richiesto», il «sopravvissuto» che afferma «A ogni rovescio mi è più familiare il mondo». Per cui il futuro si materializza in un dopodomani minaccioso quanto il passato, o addirittura irreale: «E’ il 40 d’aprile, un giovedì. / Compagno, il tempo è pazzo, / la paura ti attanaglia». I contorni del mondo si fanno incomprensibili, il suo progredire nel tempo imprevedibile e irreparabile, prendono piede il «distacco da me e da tutti gli altri», la moderata disperazione, l’aggrapparsi alle storie del mito, o all’incredibile leggerezza delle risate infantili. Perché noi, gli adulti, che ci illudiamo di fare la storia, di creare cultura, «dentro pesiamo come bolle di sapone», e il nostro io è ormai diviso. «Non parte da lui una crepa che attraversa il mondo?». Eppure il peso di queste lucide parole resta. La loro verità, anche se relativa, salva ancora. E hanno coraggio di continuare a pronunciarla, magari con meno ottimismo, ma con tenace ostinazione.

 

«Poesia» n. 268, febbraio 2012

RECENSIONI

GRUENBEIN

DURS GRÜNBEIN, I BAR DI ATLANTIDE – EINAUDI, TORINO 2018

Dei quindici saggi compresi in questo volume einaudiano, alcuni sono direttamente autobiografici: in essi Durs Grünbein non utilizza pretesti narrativi per parlare di sé e della sua produzione in versi, ma racconta semplicemente come è nata la sua vocazione di scrittore, negli anni «grigio cenere» dell’adolescenza a Dresda, quando si imbatté per caso in Novalis e Hōlderlin. O ancora prima, quando bambino imparava dal nonno, valente enigmista, «l’appetibilità che hanno le parole». Nella conclusiva Postilla su me stesso offre poi ai lettori una lucida decifrazione del senso e della funzione della scrittura poetica. «Scrivere poesie è anzitutto un esercizio di radicale autoesplorazione»: da questo assiduo e severo scandaglio interiore, ogni poeta, «eremita in mezzo alla società», impara «a essere solo, non conforme, senza obblighi verso nessuno, ‒ verso nessun potere esterno, verso nessun principio superiore (religioso o filosofico), neppure verso una corrente letteraria predominante». Purché la poesia non si riveli puramente ornamentale o cerimoniosa, ma sappia mostrare «i propri muscoli, il proprio ghigno irriverente, la dolcezza che si prova nel distruggere le forme», allertandosi nell’osservazione dell’attimo rivelatore, dei dettagli sparsi nelle «piccole cose tragiche come pure nelle grandi cose comiche della vita». Fedele a questa intuizione, descrive allegrie e naufragi, disastri e trionfi della storia e della natura, nel modo in cui la poesia universale ce li ha tramandati. Sia che parli con entusiastica ammirazione delle teorie evoluzionistiche di Darwin, o con turbamento dell’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C., o ancora dell’utilità della citazione in grado di ispirare il processo creativo; sia che rappresenti come metafora letteraria il mondo sottomarino da lui esplorato nello sport subacqueo, o commenti in maniera puntuale ed empatica La Giostra di Rilke, o illustri la meraviglia di un diorama zoologico, Grünbein riesce sempre a mettere in collegamento qualsiasi acquisizione culturale (sua personale o dell’umanità intera) con il prodigio dell’invenzione poetica. Il processo mentale che conduce alla composizione di una lirica viene smontato nei suoi labirintici e arcani percorsi, dalla genesi alle scelte formali fino al risultato conclusivo. Particolarmente in un saggio, Il mio cervello bionico, l’autore utilizza gli ultimi risultati della neurobiologia e della fisiologia per approfondire i meccanismi che determinano le opzioni stilistiche di chi scrive in versi. «Il poetare comincia come stratificazione di stadi della coscienza dapprima del tutto senza senso che il singolo deve attraversare a fatica o a passo di danza, senza curarsi di causalità e cronologie». In modo frammentario, a salti, «in balia dei suoi attacchi improvvisi», recuperando memorie, immagini, esperienze, passioni amorose o politiche, il poeta trasforma gli stimoli più vari e confusi in visione, sincronizzando «in un atto di immaginazione fulminea» la sua percezione personale con il pensiero di tutti, al fine di organizzare «nello spazio più esiguo il massimo dei riferimenti». Perché il poeta è, e deve continuare a essere, anche filosofo, in grado di conciliare cielo e terra, l’ideale con il concreto, producendo nei suoi versi «una mescolanza di amore per l’aldiqua e di curiosità per la metafisica»: fenomenologo che lavora per arricchire l’immaginario di ciascuno di noi.

 

© Riproduzione riservata                  

https://www.sololibri.net/I-bar-di-Atlantide-Grunbein.html               10 luglio 2019

RECENSIONI

GRUENBEIN

DURS GRÜNBEIN, DELLA NEVE, OVVERO CARTESIO IN GERMANIA – EINAUDI, TORINO 2005

Il poeta che in Europa si è più avvicinato al pensiero scientifico, esplorando le conquiste della neurobiologia, del cognitivismo, della psicanalisi, della fisiologia, è senz’altro il tedesco Durs Grünbein, nato a Dresda nel 1962, e oggi residente a Berlino. Il suo approccio positivista (anzi, decisamente materialista) alla scrittura, non gli ha impedito di produrre versi di profonda risonanza emotiva, sia nella ricostruzione della propria storia familiare e sentimentale, sia nelle coraggiose prese di posizione politiche, animate da una vivace vena sarcastica e da un generoso, sebbene risentito, slancio utopistico. Di questo originale e difficile percorso intellettuale, sospeso tra ricerca, meditazione, denuncia, sogno, elaborazione formale, è testimonianza il primo libro pubblicato sempre da Einaudi nel 2005, a cura di Anna Maria Carpi: Della neve, ovvero Cartesio in Germania.

In quarantadue canti e duemila versi, Durs Grünbein narra la nascita del razionalismo attraverso la figura di Cartesio, primo interprete filosofico della modernità. La scelta del matematico, astronomo e filosofo francese fu determinata senz’altro dal ruolo fondamentale da lui giocato nella storia del pensiero occidentale, ma probabilmente ebbe anche un rilievo la memoria del poemetto pubblicato da Samuel Beckett nel 1930, Whoroscope, in cui il drammaturgo irlandese tratteggiava un Cartesio superstizioso ed esoterico alle prese con dilemmi metafisici e culinari, mentre affida al suo servo Gillot la cottura di un uovo, esibendosi poi in un’esposizione erudita sul concetto di tempo, tra citazioni colte e provocazioni blasfeme e scurrili.

Gillot è anche il co-protagonista del libro di Grünbein: giovane servo e allievo di René Descartes, sua controparte ingenua e impulsiva, destinato a rappresentare il sano buon senso popolare e la fisica concretezza rispetto all’astrazione concettuale del maestro-padrone. Il primo canto si apre appunto con Gillot che sollecita con insistenza Cartesio ad alzarsi dal letto, per approfittare della gelida giornata nevosa, particolarmente adatta a un produttivo lavoro di riflessione e scrittura: «Destatevi, Monsieur. Tutta notte che nevica. / Fin dove arriva l’occhio è bianca la pianura, / è tutta un cono bianco. Sono gli alberi / che il grande arrangiatore con invernale mano ha ingentilito. // … Forse la neve aiuta – a capire cos’è la percezione. // … Placato ogni pensiero, un invito a studiare».

È l’inverno del 1619. Il giovane René passa alcuni mesi in una cittadina della Baviera, sommersa dalla neve e insanguinata dalla Guerra dei Trent’anni: massacri, saccheggi, incendi, stupri, ruberie. «Guerra e furia di lupi ‒ / L’artiglio del demonio attraversa l’Europa». Costretto all’inazione, si mette a riflettere su alcuni problemi di algebra e di geometria, prendendo in considerazione tutto ciò che vede e sente, senza mai prescindere dai suoi fondamentali processi cerebrali. Il cogito cartesiano ha infatti la prevalenza su qualsiasi altro argomento: «Io mai fantastico. // …Io sono un realista. //… Non mi serve l’esterno. Ho da guardarmi dentro. // … Io sono solo spirito. // … Io sono – sì. Ma cosa? / Tengo in pugno soltanto – ciò che ho pensato io, io convenuto. // … A me va contre coeur ogni fuga dal mondo». Il mondo e la mente, essere e pensare.

Senza mai prescindere dalla fisicità del corpo, steso nel bianco del letto, mentre fuori è tutto candido di neve, gelo e silenzio. Un corpo che ha necessità materiali e sessuali, che mangia e piscia, si ammala e delira, rimanendo tuttavia un inciampo nell’attività preminente dell’elucubrazione mentale («Banale è questo corpo. / Il cervello è al coperto – però i bisogni chiamano»). La regola che dà ordine al caos si afferma sovrana («In tutto regna numero e rapporto. Felicità: di essere impregnati / di coerenza»), e manifesta la sua gratitudine a chi ha indicato al mondo la strada della ragione: Euclide, Archimede, Copernico, Keplero, Galileo – il più grande, che per motivi di sicurezza va nominato con lo pseudonimo di Stephanus, onde evitare censure ecclesiastiche.

Gli aneddoti della tediosa esistenza condotta in Germania da Cartesio rivelano in lui sfumature di carattere oscillanti tra empatia e insensibilità: se Gillot piange per amore, lo scienziato disserta sulla composizione chimica delle lacrime; se il servo si confessa impietosito dalla sofferenza degli animali, subito il padrone sottolinea la loro natura sub-umana; se musica, luce e pittura appaiono miracoli ai sensi, ecco che vanno ridimensionati alla loro struttura materiale. L’osservazione della luna è ridotta ad abbagli ottici, una noce sgusciata viene paragonata alla dissezione del cervello, il rogo di Giordano Bruno contraddice ogni spiritualità cristiana. Spietato, il razionalista francese non concede a sé e agli altri la minima indulgenza verso credenze consolatorie.

Durs Grünbein, sulla base di fonti storiche, dei diari e degli appunti di René Descartes, ne ha ricostruito la biografia a partire dai mesi trascorsi a Neuburg fino agli anni vissuti alla corte svedese della regina Cristina, dove morì di polmonite nel 1649, circondato dal seguito protocollare di striscianti e ottusi leccapiedi (intense e commoventi le pagine finali sull’agonia: «E il mondo intorno è neve»). Da una neve all’altra, da un ghiaccio all’altro.

Anna Maria Carpi nella postfazione giustamente suggerisce che l’inverno rappresenta qui una metafora della condizione moderna, inaugurata proprio con la separazione cartesiana fra res cogitans e res extensa: «Muovendo dalla ‘tabula rasa’ dell’inverno, sentieri sublimi della conoscenza razionale portano al progressivo raffreddarsi dei rapporti dell’uomo con se stesso e coi suoi simili». Nella sua versione, la curatrice rende il verso alessandrino del poeta tedesco, elasticamente classicheggiante, con diverse aggregazioni di settenari, quinari ed endecasillabi, al fine di mantenerne il ritmo incalzante. Compito non facile, tradurre Grünbein, perché in lui all’indubbia maestria formale, si aggiunge una rara competenza scientifica, e un abbagliante enciclopedismo, alleggerito dall’arguzia e dall’ironia.

 

© Riproduzione riservata                  «Il Pickwick», 13 dicembre 2019