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RECENSIONI

GIUNTA

CLAUDIO GIUNTA, UNA STERMINATA DOMENICA – IL MULINO, BOLOGNA 2013

Il titolo del volume è tratto da un verso di Vittorio Sereni, e l’ autore così giustifica la sua scelta: «Una sterminata domenica mi è sembrata una perfetta definizione dell’Italia: come se, seduti a cavalcioni delle Alpi, si guardasse verso sud, e l’intera penisola restituisse allo sguardo quest’immagine di placida, inerte ferialità».

Un’ Italia feriale, «irredimibile», quindi, quella raccontata – unClaudio Giunta po’ con rabbia e indignazione, un po’ con rassegnata ironia e divertita leggerezza – da a in questi dodici saggi, accomunati dalla prospettiva «di chi non guarda le cose dal di fuori ma è implicato in ciò di cui scrive: un osservatore partecipante». Interventi militanti, non tenuti insieme da una particolare unità tematica, ma accomunati dall’intenzione di descrivere aspetti non secondari, e comunque interessanti, della vita civile e intellettuale del nostro paese. Fatta eccezione per i due saggi finali, dedicati a visioni retrospettive sugli anni Settanta e Ottanta, gli altri corposi articoli affrontano di petto l’attualità italiana. A partire dalle considerazioni sui meetings di Comunione e Liberazione a Rimini: «un posto in cui tutti credono in Dio; … i cattolici di Cl sono un esempio da manuale di modernismo reazionario: diffidano della scienza, che contraddice a ogni passo le Sacre Scritture ed è muta quando si tratta di interpretare ‘ciò che è nascosto nel cuore dell’uomo’; ma venerano la tecnica. Sono spiriti attivi molto più che contemplativi».

Per passare poi alle amare constatazioni sullo stato delle biblioteche italiane, e scegliere in seguito alcune icone di successo dell’immaginario collettivo da sezionare con impareggiabile acume (Fantozzi e Luciano Moggi), in due brani giustamente molto citati dai critici e dai blogger. Particolare e nuova, nel panorama della saggistica nazionale che esplora la contemporaneità, è l’attenzione che Claudio Giunta riserva alla cultura pop («il pop  -canzoni, film, TV-  è la principale riserva di gioia a buon mercato»), con l’esaltazione di eventi mediatici come Radio Deejay («è stata la via Panisperna della radio-televisione italiana»), di Fabio Volo («mi trovo d’accordo con lui praticamente su tutto»), di Elio e le Storie Tese («hanno un radar per gli aspetti grotteschi della realtà»): in una forse eccessivamente entusiastica fenomenologia dell’effimero di stampo umbertoechiano. Ovviamente non potevano mancare le considerazioni sulla Weltanschauung di Matteo Renzi («Renzi non trema… Ha un’illimitata fiducia in sé… Sembra non avere psiche»). Eppure tra questi capitoli, tutti assolutamente godibili, pungenti, dissacranti, quello che mi è parso più polemicamente stimolante è il secondo, dedicato all’eruzione del vulcano islandese dal nome impronunciabile, avvenuta nel 2010. In queste pagine Giunta riesce a coniugare un’esauriente e oggettiva descrizione del fenomeno naturale, e dei vistosissimi danni economici che ha provocato, con riflessioni eticamente risentite sull’incontenibile dabbenaggine e credulità umana («superstizioni da Medioevo, melassa di irrazionalità New Age, religione, fantascienza, balle contagiose scodellate da internet»), sul ruolo addomesticato quando non servile della stampa e delle comunicazioni in generale («faccenda così mediaticamente perfetta da sembrare studiata a tavolino da un creativo di Endemol»), e sulla falsa coscienza di numerosi intellettuali, laudatores temporis acti, inclini a «nostalgie premoderne… proiezioni narcisistiche… interpretazioni paranoiche». Una corrente di radicato buon senso materialista, di moderato sarcasmo, di non prona ma tutto sommato indulgente consapevolezza attraversa questi dodici «viaggi nella tragicommedia italiana»: tragicommedia di cui Claudio Giunta si rivela contemporaneamente interprete, fustigatore, e affettuoso seguace.

 

«incroci on line», 25 febbraio 2014

RECENSIONI

GIVONE

SERGIO GIVONE, STORIA DEL NULLA – LATERZA, BARI 1995

Scrivere un libro sul nulla, come concetto che percorre tutta la storia del pensiero occidentale, ha senso? Scrivere, cioè, proprio sul nulla assoluto, su ciò che non è, sul non-ente (e non sull’assenza, la mancanza, il nulla relativo; o su quel nulla particolare, storicizzato, che è il nichilismo): è possibile?
L’ha fatto il filosofo Sergio Givone, raccogliendo in  Storia del nulla (Laterza) saggi che spaziano dai presocratici ad Heidegger, da Leopardi a Celan, e indagano appunto ipotesi filosofiche e suggestioni letterarie riguardanti il non-essere.
La tesi di Givone (ripresa in parte da Severino, ma per giungere a conclusioni antitetiche) è che il concetto del nulla sia il grande rimosso della filosofia occidentale, quasi un fenomeno carsico che si affaccia alla riflessione teorica a distanza di secoli, là dove logica (che vieta di pensarlo) e metafisica (che lo nega) cessano di esorcizzarlo, cancellandolo come alternativa all’essere; mentre si ripropone nelle filosofie che ammettono il nulla come fondamento dell’essere, ed esplorano un’ontologia della libertà che da Plotino attraverso Schelling arriva al nostro Pareyson.
Il nulla indagato da Givone non è una forma di negatività opposta all’essere (non ricalca, quindi, la Grundfrage di Liebniz: «Perché l’ente anziché il niente?»), bensì il principio di libertà che permette all’essere la scelta fondamentale tra l’esistere e il non esistere.
Il nulla, dunque, come libertà estrema; luogo per eccellenza di tutto ciò che è possibile: un nulla che assomiglia non poco a Dio, «all’abisso della libertà» che alcuni chiamano Dio.
Questo «discorso temerario» mutuato da Luigi Pareyson, che approssima scandalosamente Dio al nulla, in un’esperienza vorticosa coniugante perdizione e salvezza, non è tanto interessato a un percorso di fede, o a un’attribuzione di verità al Dio cristiano piuttosto che al Dio della tragedia greca.
Scegliere Dio è scegliere il senso dell’essere, la libertà, e quindi il nulla che ne è il fondamento. Filosofia e religione accomunate dalle stesse emozioni (stupore, gioia, angoscia di perdita, orrore della fine) di fronte al miracolo dell’esistenza, combattono in Givone la stessa battaglia contro l’indifferenza del nichilismo, che oscura il senso dell’essere e condanna l’uomo all’assenza di scopo, alla pura apparenza.

 

«L’Arena», 20 maggio 1996

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GIVONE

SERGIO GIVONE, SULL’INFINITO – IL MULINO, BOLOGNA 2018

Nell’originale e stimolante collana “Icone” de Il Mulino, curata da Massimo Cacciari (sono già usciti due volumi, dello stesso Cacciari e di Paolo Legrenzi), ogni autore, partendo dal commento di un quadro famoso, allarga e nello stesso tempo focalizza la sua indagine filosofica e sociale su un argomento teoricamente rilevante nella storia del pensiero: la divinità, il corpo, la giustizia, o – nel caso di cui ci occupiamo ora – l’infinito. Sull’infinito si intitola appunto il saggio di Sergio Givone, professore emerito di Estetica all’Università di Firenze, che nei suoi testi scientifici e narrativi ha affrontato a più riprese i temi del nichilismo, del divino, della libertà e del nulla. Sulle copertine fronte-retro e all’interno del volume è riprodotto il famosissimo Viandante sul mare di nebbia che Caspar David Friedrich dipinse nel 1818, e che secondo Givone aprì «un nuovo capitolo della storia dell’arte occidentale» nella definizione dello sfondo e della prospettiva, dando ad essi una più rilevante impronta di ricerca interiore. «Se in un paesaggio non saprai vedere qualcosa che giace nel profondo della tua anima, non vedrai nulla», aveva scritto l’artista, animato da un’inquietudine religiosa e metafisica già impregnata di romanticismo.

Del Wanderer protagonista del quadro non conosciamo il volto. Lo vediamo ritratto di spalle, in elegante abito nero, appoggiato a un bastone da passeggio, sicuramente saldo sulle gambe in cima a uno sperone di roccia. Non sembra stanco, o reduce da una faticosa arrampicata. Intuiamo in lui un signore di città che si è spinto in vetta a una montagna e da lì osserva il “mare di nebbia”, fissando l’oltre e l’altro da sé (il chiarore dell’alba intuito tra le montagne, i sassi intorno, lo scenario indistinto nella foschia): forse è uno scienziato, un uomo di cultura, o un “turista dello spirito”. Certamente sta riflettendo su ciò che vede: un panorama né idilliaco né minaccioso, contraddistinto da luminosità e silenzio, che lo proietta in una «vertiginosa profondità» di sguardo, di pensiero, di sentimenti. La natura sconfinata, nei suoi elementi grandiosi e incontrollati, spaventa per la vastità e per la potenza; davanti ad essa l’uomo avverte la sua piccolezza e insignificanza: tale consapevolezza lo deprime e umilia, ma nello stesso tempo lo commuove ed esalta, perché pur cosciente della propria fragilità, si riconosce parte del mondo che osserva, e lo può comprendere. È, per dirla con Pascal, «uno stelo pensante»

L’analisi di Givone utilizza contributi di letterati (Goethe e Leopardi) e filosofi (da Anassimandro a Plotino, da Giordano Bruno a Kant, da Fichte a Hegel, e infine da Schopenhauer a Nietzsche), che nel corso dei secoli hanno negato o conferito realtà al concetto di infinito, di per sé indefinibile e irrappresentabile, non solo artisticamente, ma anche scientificamente. La contraddizione che sorge meditando su di esso «è quella tra una totalità chiusa, onnicomprensiva, e una totalità aperta, progressivamente aumentabile»; tra il mare del nulla in cui si lascia dolcemente naufragare Leopardi, e la concretezza di un universo reale che tutto comprende in sé, come lo definiva Hegel; tra «l’annichilimento nichilistico dell’io» e il suo «potenziamento dionisiaco». Il Viandante di Friedrich, di fronte allo spettacolo dell’infinito, sperimenta esteticamente il Sublime, senza annullarsi, senza esaltarsi, ma prendendo coscienza della propria capacità di pensarlo: «E che cosa vede, in sé stesso, se non il campo sconfinato e illimitato di tutte le esperienze possibili? L’anima non ha confini, aveva detto Eraclito l’oscuro…». L’essere umano possiede l’idea dell’inconoscibile, alla sua ragione «è dato di conoscere secondo verità e alla volontà di agire secondo verità», e prima di scoprire l’infinito fuori di sé deve averlo già scoperto in sé stesso. Ma dall’interiorizzazione si deve passare all’esteriorizzazione, dal dentro al fuori, dall’io al mondo, dall’infinito ideale all’infinito reale. Perché esistono, secondo Sergio Givone, due infiniti: uno negativo e uno positivo. Il primo, privo di significato e finalità, può produrre uno smarrimento metafisico e il dissolvimento di ogni valore, il secondo offre una pienezza di senso, una riappropriazione della vita, per cui «cessa di essere ipotesi mentale e diventa oggetto di esperienza».

Cambiando prospettiva, l’infinito si converte da «limite negativo a positivo illimite», da cifra del nulla e del vuoto, a volto di una realtà traboccante di presenze e tracce divine, capace di abbracciare «luce e buio, visibile e invisibile, terra e cielo». Allora il mare di nebbia osservato dal Viandante è il visibile più prossimo all’invisibile, illuminato da una luce di trascendenza che lascia irrompere l’infinito nel mondo, trasformandolo, liberando il tempo dal suo passato e dal suo futuro e tuffandolo nel mare dell’essere.

 

© Riproduzione riservata        «La poesia e lo spirito», 2 marzo 2018

 

 

RECENSIONI

GIVONE

SERGIO GIVONE, IL BENE DI VIVERE – MORCELLIANA, BRESCIA 2011

Il dialogo tra Sergio Givone e Francesca Nodari prende l’avvio dall’humus familiare in cui si è formato il filosofo piemontese, nato da una famiglia contadina nel 1944, e dalle sue prime letture, in un paesaggio dominato da brume e risaie. Anni non facili per una bambino meditativo qual era lui, intento a scoprire il mondo intorno a sè e sopra di sè, con un interesse precoce per Leopardi e Fogazzaro, ma anche per l’astronomia volgarizzata da Flammarion. Dopo il liceo classico, e la scoperta entusiasta dei tragici greci, furono gli studi universitari a Torino che incisero di più nella sua cultura: lettura dei capolavori russi e frequentazioni di ambienti teatrali e musicali, che per poco gli fecero balenare l’ipotesi di scegliere una carriera artistica. Ma poi la decisione irrevocabile di dedicarsi alla filosofia: “non la sovrastruttura, ma la struttura. Vale a dire: la sostanza, la vita, l’anima delle cose”. Alla scuola di Torino i due nomi più noti si fronteggiavano con indirizzi diversi, seppure entrambi rifacentesi all’esistenzialismo: Abbagnano e Pareyson. Il giovane studente che proveniva dalla campagna “avvertiva una tensione intellettuale, un fuoco… in grado di appiccare incendi”. Vicino a lui, assitenti che sarebbero diventati dei capiscuola del pensiero filosofico italiano. Partendo dall’ “ineliminabilità del momento platonico della filosofia”, il giovane Givone fu attratto dai temi fondanti del pensiero dai presocratici in poi: la verità, il bene, la religione. E poi la scienza che scopre e l’arte che inventa, attraverso i giganti della filosofia: da Plotino fino a Jonas, passando per Pascal a cui dedicò la sua tesi. L’esposizione di Givone approfondisce i nodi fondamentali della sua ricerca, che ha toccato soprattutto i temi dell’essere e del nulla, l’esistenza di Dio e della Provvidenza, il dolore innocente, la libertà, il male. E poi il tempo e la storia, il destino e la colpa. Sono pagine di profondo anelito verso la verità, che portano il lettore ad altezze inconsuete.

IBS, 27 maggio 2011

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GIVONE

SERGIO GIVONE, LA RAGIONEVOLE SPERANZA –SOLFERINO, MILANO 2025

In sette capitoli e in un documentato repertorio di note, il filosofo e romanziere Sergio Givone (Buronzo, 1944) affronta il tema del dopo-morte, e lo fa riprendendo argomenti che gli sono cari (cfr. Storia del nulla, Favola delle cose ultime, Non c’è più tempo, Sull’infinito), però qui con un diverso stile aforistico, dal tono ansante, ispirato, rapito nell’immersione di un’idea.

La ragionevole speranza, si intitola il suo ultimo libro pubblicato da Solferino, indicando un’esplicita posizione teorica: di per sé, la speranza non si posa sulla ragione, ma si affida a un moto del sentimento, che in quanto tale è irrazionale; l’autore alterna l’attributo definendola a più riprese sia ragionevole sia illusoria, o addirittura disperata. Sperare cosa, quindi? Di sopravvivere, di permanere nell’essenza (nella coscienza) individuale dopo la morte, questione su cui da millenni si interroga il pensiero filosofico, insieme alla letteratura, all’arte, alla musica.

Le pagine del volume si aprono descrivendo la cerimonia funebre del fumettista Sergio Staino, avvenuta al Palazzo Vecchio di Firenze nel 2023, in cui tutti i presenti auguravano all’amico defunto un “buon viaggio” in compagnia dei sorrisi che aveva saputo dispensare in vita attraverso lo spirito caustico del suo eroe Bobo. Si può ridere della morte, di questo evento “impenetrabile come una pietra … muro contro cui si va a sbattere” ineluttabilmente, mettendoci di fronte al non essere più? Givone tenta un alleggerimento della negatività iniziale commentando la necessarietà di finire “per lasciare spazio ad altri. Magari sapendo che prima lo si fa, meglio è.  È dimostrato. Più in lungo la si tira, più amaro il calice che tocca bere”.

Si può ridere della morte per la gioia di essere comunque stati vivi, di aver goduto di momenti intensi di felicità e altri di incomparabile tristezza, di avere amato e odiato, partecipando al destino comune a tutte le creature. Da sempre si fronteggiano due modi opposti di porsi di fronte al limite estremo dell’esistenza: si può accettare la propria caducità, riconoscendo che nulla e nessuno sopravvive per sempre. Oppure si può credere che la vita individuale persista aldilà della sua conclusione fisica, aprendosi a una realtà diversa e superiore, per quanto inconoscibile e indefinibile.

La lieta e futile concretezza del libertino, la consapevolezza della finitudine del materialista si oppongono alla fede del mistico che rifiuta il limite, proiettandosi in un infinito, per lo più rivestito di sembianze divine. “Venuti al mondo, la sola cosa certa è che dovremo lasciarlo. Per finire dove? Nel nulla o in Dio?”, si chiede Givone, illustrando le tesi che hanno contrapposto i filosofi già dagli albori del pensiero umano.

Il primo a parlare di infinito fu il presocratico Anassimandro, che in un frammento così poetava: “Principio dei viventi è l’infinito […] là dove i viventi hanno la loro origine, là trovano la loro dissoluzione necessariamente: essi infatti pagano il dovuto gli uni agli altri ed espiano l’ingiustizia secondo l’ordine del tempo”. Ma ad Anassimandro si opponeva Democrito, a Parmenide Eraclito, a Platone Aristotele, agli orfici Epicuro. Per Pindaro la vita è fugace, eppure luminosa (“Effimeri siamo: cos’è qualcuno? / cos’è invece nessuno? Sogno di un’ombra / è l’uomo. Ma se un lampo giunge, disceso dal cielo, / allora splendida luce gli uomini investe, / e dolce diviene la vita”). Per il Qoèlet biblico tutto è vanità, per il Cantico dei Cantici tutto è amore, Lucrezio era ateo e materialista ma celebrava la grandezza della natura, Plotino credeva nel ritorno all’Uno e si vergognava di essere in un corpo…

Via via nel corso dei secoli si è approfondito il contrasto tra spiritualismo e positivismo, tra caso e necessità. Pascal scommetteva su Dio, convinto che “se la porta della trascendenza resta aperta, allora possiamo sperare di avere una risposta alla domanda sul senso della vita”. Lo contraddiceva Montaigne, che pur nella disillusione metafisica era commosso dalla fragilità umana. A Vico si oppone Cartesio, a a Rousseau Voltaire, Manzoni a Leopardi, a Hegel Marx, contro Nietzsche combattono James e Bergson, Jung contesta Freud. Tutti con l’angoscia di capire, di spiegare a sé stessi e agli altri l’origine e la fine delle vite individuali, l’apparire e la dissoluzioni di intere civiltà nel corso della storia.

La Grundfrage di Leibniz e Schelling (“Perché c’è qualcosa? Perché non c’è il nulla?”) rimane inevasa, dopo secoli di ricerche scientifiche, di riflessioni teologiche, di preghiere e di bestemmie. L’anima, la bellezza, la verità, la grazia sono concetti che riconducono all’idea indimostrabile di Dio; l’odio, la malvagità, la malattia, lo sfruttamento, la dipendenza ribadiscono la nostra condanna al limite e all’infelicità. Schiller incoraggiava a resistere: “Abbiate il coraggio della sofferenza, / soffrite per il mondo a venire. / Al di sopra del cielo stellato / l’Infinito sarà la ricompensa”.

Quale ricompensa, e quale pena? Il paradiso o l’inferno?

Sergio Givone dedica l’ultimo capitolo del libro all’idea di immortalità dell’anima, oggi misconosciuta e contestata a livello filosofico, quanto quella del giudizio finale ultraterreno. Dibattuta dai mistici medievali (Silesius: “So che senza di me Dio non può vivere un istante: se io divento nulla, deve di necessità morire”) come dagli spiriti più intensamente e laicamente religiosi (Simone Weil: “Bisogna morire – morire nell’anima – per accedere a una dimensione di conoscenza e di verità, diciamo pure di immortalità”), l’immortalità dell’anima si scontra con l’ipotesi quasi scandalosa di una condanna perpetua (“Un’eternità dove tutto è pianto e stridor di denti, da una parte, e tutto è gioia e osanna, dall’altra, mette Dio in stato d’accusa”). Paradiso e inferno allora vanno derubricati a semplice “ammonimento per chi ha mal vissuto e incoraggiamento per chi ha ben vissuto”, a leggenda ormai razionalmente ripudiabile? Idea soppiantata da quella più nobile e generosa dell’Apocatastasi – cioè di una rigenerazione e redenzione totale dell’esistente nella perfezione originaria dell’inizio, ritrovata alla fine dei tempi–, intuita da Origene, discussa dai Padri della Chiesa, difesa da Giordano Bruno e ripresentata come necessaria da Luigi Pareyson, maestro di Givone, come promessa di un paradiso aldilà del paradiso, aldilà di tutto…

Il suo allievo, autore di questo intenso libro, la accoglie con il monito di Marguerite Yourcenar “cerchiamo di entrare nella morte ad occhi aperti”, e con l’invocazione dell’ultima canzone di Leonard Cohen “I’m ready, my Lord”.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 18 aprile 2025

 

 

RECENSIONI

GIVONE-BODEI

SERGIO GIVONE-REMO BODEI, BEATI I MITI PERCHÉ AVRANNO IN EREDITÀ LA TERRA

LINDAU, TORINO 2013

Due filosofi, Sergio Givone e Remo Bodei, il primo credente il secondo ateo, affrontano il tema della mitezza sotto il profilo filologico, teologico e storico. Commentando il brano di Matteo 5,5 che pone questa dote al terzo posto nella scala delle Beatitudini (“Beati i miti perché erediteranno la terra”), entrambi i due autori concordano nel ritenere l’essere miti un valore, anziché un difetto o una debolezza, come oggi viene prevalentemente intesa dalla maggioranza delle persone, e dall’ideologia politica e sociale dominante.

Givone definisce il mite “colui che sopporta non per rassegnazione, ma per convinzione… non dispera neppure di fronte alle difficoltà più gravi e quando tutto sembra perduto… sa essere comprensivo, benevolo, ospitale nei confronti del suo prossimo e perfino del suo nemico: in una parola caritatevole”. La mitezza è un dono dello spirito, la più alta delle virtù, la meno compromessa con le tentazioni del mondo e la più vicina al cuore di Dio: essa si manifesta in atteggiamenti non aggressivi, pazienti, aperti al confronto, tolleranti. Mite per eccellenza è Gesù, l’Agnello che porta su di sé i mali e i peccati degli uomini, giusto e insieme indulgente, umile, semplice, puro. Se nel Medioevo si predicava la mitezza nella sua accezione ascetica e mistica, oggi la si interpreta soprattutto in chiave etico-politica, in ubbidienza alla teoria e alla pratica della nonviolenza, con riferimenti al pensiero di Tolstoj e di Gandhi. Tra i filosofi novecenteschi che più si avvicinano a tale visione di impegno morale, Hans Jonas contrappone il “principio responsabilità” al “principio disperazione”, indicando nell’azione umana tesa a preservare l’ambiente e la vita il comportamento più responsabile e generoso nei confronti delle generazioni future. Givone ritiene che la ricompensa evangelica fatta ai miti di ereditare la terra, non sia ovviamente una promessa di vantaggio materiale, ma denoti invece la prospettiva di abitare la casa di Dio nella pace, facendosi carico di ciò che l’esistenza terrena è, in totale accoglienza e totale consenso con il prossimo e con il Signore.

Remo Bodei, offre al lettore un’interpretazione laica della mitezza, insistendo sulla forza e l’audacia di tale valore, che rende chi lo incarna capace di controllare le proprie passioni, di resistere al male con fermezza e senza scoraggiarsi, rinunciando all’ira, alla violenza e alla vendetta. “I miti sono le persone pazienti, quelli che non chiedono niente per sé… che non si credono importanti e non si gloriano di sé stessi, che sono capaci di superare ogni difficoltà e che proprio per questo erediteranno la terra”. Bodei indaga l’etimologia del termine greco praous (mite) così come viene usato nei Vangeli, in Aristotele, nello stoicismo, nella teologia, per cui la mitezza non ha il significato negativo che le attribuiscono i moderni: di passività, apatia, rassegnazione imbelle. È invece consapevolezza sicura di sé, serenità, autodisciplina, moderazione, discrezione. Tra i pensatori del ’900 che più hanno rivalutato questa virtù cita Schweitzer, Bonhoeffer, Bobbio, Giuliano Pontara e Gustavo Zagrebelsky, ciascuno dei quali ha dato una sua definizione della scelta attiva e propositiva della mitezza.

Tra le tante proposte, quella che personalmente preferisco è “lasciare che l’altro sia sé stesso”.

 

© Riproduzione riservata      4 novembre 2019

https://www.sololibri.net/Beati-i-miti-perche-avranno-in-eredita-la-terra- GivoneBodei.html

 

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GLAUSER

FRIEDRICH GLAUSER, IL GRAFICO DELLA FEBBRE / IL TE’ DELLE TRE VECCHIE SIGNORE / IL SERGENTE STUDER / KRACK & CO. / IL CINESE / GOURRAMA – SELLERIO, PALERMO 1987-1988

 

Elvira Sellerio ha già dedicato sette volumi della sua elegante collana La memoria (inconfondibile sia nell’accuratezza grafica suggerita da Leonardo Sciascia – volumetti tascabili, carta non patinata, copertina blu di Prussia con vivaci riproduzioni d’arte moderna -, sia nell’intelligente scelta dei titoli, per lo più stranieri) al narratore svizzero Friedrich Glauser (1896-1938). Glauser, non famosissimo in patria, pressoché del tutto sconosciuto in Italia, continua forse a pagare dopo morto l’atipicità della sua esistenza, l’eccentricità delle sue passioni culturali con un isolamento e una sottovalutazione del tutto immeritati, e certo non giustificati dalla sua produzione letteraria, godibile e leggibilissima. Così scrisse Glauser della sua vita, senz’altro agli antipodi del “typisch schwyeizerisch”:

Nato nel 1896 a Vienna da madre austriaca e padre svizzero. Nonno paterno cercatore d’oro in California (scherzi a parte), nonno materno consigliere di corte (bel miscuglio, no?). Scuola elementare, tre classi del ginnasio a Vienna. Poi tre anni di riformatorio a Glarisegg. Poi tre anni al Collège de Genève. Sbattuto fuori poco prima della maturità, perché aveva scritto un articolo letterario su un volume di poesie di un insegnante. Maturità a Zurigo. Un semestre di chimica. Poi il dadaismo. Mio padre voleva farmi internare e pormi sotto tutela. Fuga a Ginevra. Il resto lo potete leggere in “Morfina”. Internato per un anno a Münsingen (1919). Fuga. Un anno ad Ascona. Arrestato per la morfina. Rispedito indietro. Tre mesi a Burghölzli (controperizia, perché a Ginevra avevano detto che ero schizofrenico). Dal 1921 al 1923 Legione Straniera…

Ribelle, drogato, inquieto, quindi: eppure quasi nulla di questa sofferenza e di questo disadattamento trapela nei suoi romanzi, che in genere vengono classificati come “gialli”, e affiancati – non senza qualche forzatura – ai nomi di Dürrenmatt e Simenon. Con il primo Glauser ha in comune l’ambientazione, il paesaggio, che è inequivocabilmente svizzero, ma più disteso e innocente di quello dürrenmattiano, forse anche perché la Svizzera narrata dal nostro autore è preferibilmente la campagna bernese o jurassiana degli anni intorno al ’30, ancora indenne dalle trasformazioni capitalistiche, ancora tutta fondue e sanatori, cervelats e Jass: pertanto meno percorsa da inquietudini sociali e meno scalfibile da insofferenze politiche. Al Maigret di Simenon, invece, è per più versi assimilabile il protagonista delle storie di Glauser, il sergente Jakob Studer, chiamato benevolmente Köbu, funzionario della polizia bernese, declassato da ispettore a semplice sergente a causa di un suo coinvolgimento in un “affaire” bancario. Quasi sessantenne, robusto ma col volto liscio e magro, baffuto e brizzolato, «non sembrava affatto uno svizzero». La sua realtà familiare e ambientale (la tranquilla e tranquillizzante moglie Hedy, la scialba figliola, il genero gendarme turgoviese un po’ tonto, un nipotino a cui si mostra del tutto indifferente) è una realtà che lo qualifica ben poco. Köbu è, come Maigret, un poliziotto particolare, con una particolarissima idea della Giustizia: dea bendata più della Fortuna, essa non appartiene alle cose di questo mondo, è un mito, un’utopia. Così il colpevole -l’assassino- è spesso più vittima dell’ucciso, è strumento di una malvagità che lo sovrasta e a cui non è riuscito a opporsi: il sergente Studer opera quindi in modo tale da salvare sempre l’esecutore materiale, il maggiore indiziato, il paria del paese, incastrando invece i mandanti, gli insospettabili. Perciò Studer agisce scardinando prassi consolidate, e realizza sogni che un poliziotto più tradizionale non oserebbe nemmeno tenere nel cassetto: sa mandare alla malora i suoi ottusi superiori dei vari uffici cantonali e federali, riesce ad applicare in modo acuto e non convenzionale la sua notevole cultura, e viaggia, entrando persino nella Legione Straniera… Friedrich Glauser ricorda quindi Simenon per l’umanità tutta fisica, carnale della sua creatura, ma è ben più impacciato dell’autore francese nello strutturare le trame dei suoi gialli, più ingenuo nelle trovate, più scoperto nei fini, a volte ansante nella narrazione; ma forse proprio per questa sua minore scaltrezza letteraria si rende più simpatico di Simenon, e rende più simpatico il suo Köbu Studer.

 

«Agorà» (Svizzera), 28 settembre 1988

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GLÜCK

LOUISE GLÜCK, ARARAT – IL SAGGIATORE, MILANO 2021

L’Ararat è il monte su cui, secondo il racconto biblico, si fermò l’arca di Noè scampata al diluvio: in lingua turca il suo nome significa “montagna del dolore” Ararat è anche il titolo di una raccolta di poesie pubblicata da Louise Glück nel 1990, e oggi riproposta da Il Saggiatore con testo a fronte, nella limpida traduzione di Bianca Tarozzi.

Louise Glück (New York, 1943), premiata con il Nobel lo scorso anno, si inserisce con la sua produzione in versi nella scia della poesia confessionale di Robert Lowell, Sylvia Plath e Anne Sexton, rielaborando con un linguaggio semplice e scavato, e in toni meditati e malinconici, motivi ricavati dalla sua esperienza personale e familiare: figlia di emigrati ebrei ungheresi, due mariti e due divorzi, un figlio, un tracollo economico, lutti familiari, l’anoressia e anni di sedute psicanalitiche, l’insegnamento accademico a Yale, i numerosi premi letterari. I temi affrontati nella sua scrittura poetica non sono, comunque, solo autobiografici: la sua attenzione è rivolta sia alla mitologia classica, sia all’ambiente naturale, sia soprattutto ai fenomeni traumatici che segnano in modo indelebile l’esistenza delle persone. L’incubo della fine (“ho scritto della morte da quando so scrivere”, ha ripetuto recentemente in un’intervista), la perdita degli affetti e dei ricordi, il fallimento nelle relazioni interpersonali e lavorative, il desiderio represso e negato, sono gli argomenti che affronta nella sua scrittura con asciutta ma tagliente penetrazione.

In Ararat (nome di un approdo nella salvezza terrena, ma anche nome del cimitero in cui è sepolta la sorella di Louise Glück, a Long Island), si parla del lutto, di separazioni definitive e delle strategie messe in atto per sopravvivere all’angoscia. Secondo il critico Dwight Garner si tratta del “libro di poesia americana più brutale e più colmo di dolore pubblicato negli ultimi anni”. Raccoglie una trentina di poesie, che si confrontano con l’eterno tema del rapporto tra eros e thanatos, già dal celebre esergo platonico, che indica l’amore come desiderio e ricerca dell’intero. Ansia di una completezza affettiva che evidentemente alla poeta è mancata, cresciuta in un circolo familiare chiuso e compassato, con un padre debole e assente, e una madre troppo rigida: “Nessuno potrebbe scrivere un romanzo su questa famiglia: / troppi personaggi che si assomigliano. Inoltre, sono tutte donne; / c’era un solo eroe. // Ora l’eroe è morto. Come echi, le donne durano più a lungo; / esser tanto forti non può far loro del bene” (Un romanzo).

La poesia di apertura, Parodos, è emblematica a questo proposito: “Molto tempo fa, sono stata ferita. / Imparai / a esistere, come reazione, / fuori dal contatto / con il mondo: vi dirò / cosa volevo essere – / un congegno fatto per ascoltare. / Non inerte: immobile. / Un pezzo di legno. Una pietra. // Perché dovrei stancarmi a discutere, replicare? //… Ero nata con una vocazione: / testimoniare / i grandi misteri. / Ora che ho visto / e nascita e morte, so / che per la buia natura esse / sono prove, non / misteri –”.

L’accettazione della materialità dell’esistenza è quindi precoce, in Louise, scelta e voluta per evitare la sofferenza: “L’anima è come tutta la materia: / perché dovrebbe restarsene intatta, fedele a una sola forma, / quando potrebbe essere libera?” (Ninnananna). Ma il dolore incombe sempre e comunque, impietoso, con il susseguirsi di perdite e rinunce.

Vagare nel cimitero di Ararat, accostarsi alle tombe di persone conosciute, amate o detestate, esaminare la disposizione dei fiori, la cura o la trasandatezza delle sepolture, l’atteggiamento dei parenti, trasforma chi scrive in un osservatore implacabile delle emozioni proprie e altrui: “Sai cosa ti dico? Ogni giorno / c’è chi muore. Ed è soltanto l’inizio. / Ogni giorno, alle pompe funebri, nascono nuove vedove, / nuovi orfani. Se ne stanno seduti con le mani in grembo, / tentando di decidere come sarà la loro nuova vita. // Poi vanno al cimitero, alcuni / per la prima volta. Si vergognano di piangere, / o talvolta di non piangere. Qualcuno li affianca, / dice loro cosa devono fare, il che potrebbe essere / dire alcune parole, oppure / buttare della terra nella fossa aperta. // E dopo, se ne tornano tutti a casa, / che improvvisamente è piena di visitatori. / La vedova è seduta sul divano, molto solenne, / così le persone in fila le si avvicinano, / chi le prende la mano, chi l’abbraccia. / Lei trova una parola da dire a ciascuno, / li ringrazia, li ringrazia per essere venuti. // In cuor suo vorrebbe che andassero via. / Vuole tornare al cimitero, / nella stanza dell’ammalato, all’ospedale. Sa / che non è possibile. Ma è la sua sola speranza, / il desiderio di tornare indietro nel tempo. E soltanto di poco, / non fino al matrimonio, non fino al primo bacio” (Una fantasia).

L’attenzione alle reazioni di chi sopravvive al lutto (orfani, vedove) è controllata e formale, rispecchia l’atteggiamento di colei che narra in prima persona, e si è trovata a vivere più volte uguali situazioni cerimoniali. Il dolore di un individuo non trova corrispondenza nell’indifferenza degli altri: “È un anno esatto che mio padre è morto. / L’anno scorso era caldissimo. Al funerale, la gente parlava del tempo. / Com’era caldo per essere settembre. Un caldo fuori stagione. // Quest’anno, è freddo. // … Davanti alla casa, la figlia di mia sorella va in bici / come faceva l’anno scorso, // avanti e indietro sul marciapiede. Quel che vuole è / far passare il tempo” (Labour Day).

Nessun lirismo, nessuna retorica elegiaca: stilisticamente queste poesie si proibiscono anche l’addolcimento delle rime, preferendo scansioni ripetute, punteggiatura spaziante, pause ed enjambement, precisione lessicale.

In questa raccolta, differentemente da altre della Glück, non si trovano richiami alla mitologia e alla letteratura classica: fondamentale e assoluto è invece lo sguardo introspettivo tendente a universalizzare l’esperienza personale, in modo da renderla condivisibile con il lettore. Anche il paesaggio appare spersonalizzato e simbolico, puramente di sfondo alla caratterizzazione dei personaggi, che risultano sapientemente e crudamente scolpiti nell’accettazione del loro immodificabile destino, incapaci di comunicare gioia e leggerezza: “Senza rapporto con la terra”.

Nel severo resoconto di questo romanzo familiare, la secchezza emotiva ereditata da adolescente si perpetua anche negli atteggiamenti dell’scrittrice adulta (“Devo imparare / a perdonare mia madre, ora che non riesco / a risparmiare mio figlio”, “Mio figlio e io, siamo i più grandi / esperti viventi in fatto di silenzio”), confessati con analitica spietatezza poetica.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 8 maggio 2021

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

GNOLI-VOLPI

ANTONIO GNOLI-FRANCO VOLPI, L’ULTIMO SCIAMANO – BOMPIANI, MILANO 2006

I due autori di questo volume pubblicato nel 2006, il giornalista Antonio Gnoli e il filosofo Franco Volpi, danno questa definizione del termine “sciamano”: un mediatore tra umano e divino, un taumaturgo guaritore dell’anima, un istrione capace di elevare all’estasi. L’ultimo sciamano sarebbe, secondo le loro indicazioni, il più grande, influente, discusso e controverso pensatore del XX secolo, Martin Heidegger. Incantatore di centinaia di studenti, maestro delle menti più illuminate del dopoguerra, dall’eloquio sobrio ma ipnotico, dalla cultura sconfinata, dalla stringente logica argomentativa. Un uomo di bassa statura, pingue, dagli occhi piccoli e furbeschi, dai modi contadini, gran seduttore di cuori femminili. Di Heidegger parlano, in questo libro, cinque personaggi che l’hanno conosciuto da vicino o attraverso gli scritti: il figliastro Hermann (storico, che ne ha curato l’opera omnia), Ernst Jünger, Hans-Georg Gadamer, Ernst Nolte, Armin Mohler: quindi, scrittori, filosofi, storici, tutti quasi centenari all’epoca delle conversazioni. Parlano del maestro con rispetto e ammirazione, ne raccontano la vita familiare, le abitudini domestiche, l’indole meditativa, soffermandosi ovviamente sui percorsi e le mete raggiunte dalla sua ricerca, e in particolare sui tanto contestati rapporti con il nazismo. In genere, tutti e cinque gli intervistati prendono le difese di Heidegger, sostenendo che nel 1933 avesse accettato il ruolo di rettore dell’Università di Friburgo propostogli dal nascente regime (e abbandonato dopo pochi mesi) per ingenuità, timore, o con l’utopia di servirsi del nazionalsocialismo per riformare in favore dell’indipendenza scientifica il farraginoso sistema accademico. Alcuni arrivano a sostenere che il suo elitarismo, il suo conservatorismo, la sua utopia nei destini di una grande Germania fosse determinata dalla volontà di opporsi al dominio delle due superpotenze, americana e sovietica, decise a massificare la società, a sacrificare la cultura in favore della tecnica. Uno studioso puro, quindi, Heidegger, quasi indifferente ai destini della Storia perché immerso nella sua personale ricerca dell’Essere. Ciò che più colpisce nelle affermazioni di questi cinque studiosi è l’assoluta semplicità con cui raccontano l’eccezionalità del periodo storico in cui hanno vissuto, ricco di personalità straordinarie che hanno forgiato la filosofia del ‘900. Erano tutti lì: Husserl, Scheler, Natorp, Hartmann, Jaspers, Hannah Arendt, Edith Stein, Jaeger, Lōwith, Leo Strauss, Horkheimer, Marcuse, Levinas, Jonas, Anders, Benjamin, Habermas, Adorno, Schmitt, Guardini, Otto… Nel bene o nel male, tutti avevano fatto riferimento al figlio del sacrestano di Messkirch, al Professore ateo ma legato alle radici cattoliche, studioso dei greci, amante della poesia, convinto difensore della natura e del ritorno alla terra, ostile al potere tecnocratico destinato a controllare le coscienze e i comportamenti individuali. Arcaico e modernissimo, restauratore e rivoluzionario, profeta e oscurantista. L’ultimo sciamano, insomma.

 

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https://www.sololibri.net/L-ultimo-sciamano-Gnoli-Volpi.html          26 maggio 2018

 

 

 

 

RECENSIONI

GOLISCH

STEFANIE GOLISCH, FERITE. STORIE DI BERLINO – EDIZIONI ENSEMBLE, ROMA 2014

«Penso che i colori e le atmosfere di una città siano inesauribili, quanto le sfumature dell’uomo che variano secondo la luce del giorno, le stagioni, gli stati d’animo del momento», così scrive nella postfazione al suo volume di racconti Stefanie Golisch, autrice tedesca trapiantata in Italia dal 1987.
Quindici storie ambientate a Berlino, città forse come nessun’altra in Europa ferita nel corpo e nell’anima da una storia di divisioni e invasioni, di persecuzioni e ricuciture: «Non si rivela facilmente questa città, anzi, diffida degli impazienti e dei fotografi amatoriali…vuole essere avvicinata lentamente, con cautela, ama farsi pregare…».

Stefanie Golisch racconta una metropoli attraverso la storia dei suoi monumenti, delle stazioni e dei giardini: ma soprattutto attraverso i volti di chi la abita, e il pedinamento di ombre che l’hanno vissuta. Quindi troviamo in queste pagine la prigione di Ploetzensee dove furono giustiziati circa tremila oppositori del nazismo («l’esistenza di un’altra Germania…perché, nelle medesime condizioni socio-politiche, un individuo si fa strumentalizzare mentre l’altro conserva la sua integrità…»); visitiamo malinconicamente il Dorotheen Friedhof, dove sono sepolti Hegel, Fichte, Brecht; respiriamo «il clima cupo e minaccioso» di stanze sorvegliate dalla Stasi; riviviamo il drammatico suicidio di von Kleist sulle sponde del Wannsee. La Berlino che non c’è più, abitata da stravaganti pittrici, misteriose poetesse e generosi teatranti, si confonde con la Berlino efficiente della finanza, e con lo squallore disperato in cui si nascondono i senzatetto, «nel ventre della grande città, che dondola egualmente gli sporchi e i puliti, gli ubriachi e i sobri, i vinti e in vincitori; essa ha bisogno di noi, siamo noi il suo nutrimento quotidiano, il suo mosaico umano, il suo grandioso affresco, il suo Totentanz, la sua esuberante festa di primavera». Stefanie Golisch cerca di farla rivivere nonostante le sue ferite.

«Leggere Donna» n.165, ottobre 2014

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