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RECENSIONI

GUITTON

JEAN GUITTON, CHE COSA CREDO – BOMPIANI, MILANO 2003

Jean Guitton, grande filosofo cattolico francese, aveva conosciuto un notevole successo editoriale qui in Italia con il suo Dio e la scienza, lunga intervista-dialogo con due fisici russi (G. e J. Bogdanov) sul senso ultimo della vita e sulla veridicità dell’ipotesi religiosa. Ciò che probabilmente in quel testo aveva stupito e attratto il lettore laico, emozionando profondamente il lettore credente, era forse non tanto il rigore dimostrativo e l’estrema chiarezza espositiva delle tesi dell’autore, quanto la sua tenace volontà, candidamente ammessa e razionalmente giustificata, di cercare ad ogni costo una conciliazione tra le motivazioni della fede e quelle della ragione.
Lo stesso slancio emotivo, lo stesso desiderio di comunicazione e compartecipazione di un mistero, anima anche il volume che Bompiani mandò in libreria per la prima volta nel 1993, con una ventina d’anni di ritardo rispetto alla pubblicazione francese. Che cosa credo, titolo lapidario, quasi testamentale per un libro che si presta ad essere letto, più che come una dichiarazione d’intenti, come apologia di una scelta e di una vita.
Guitton, allievo di Bergson e di Teilhard de Chardin, testimone vivace e critico del suo tempo e del suo paese, dichiara di credere, in primo luogo, nel Credo: e non è un gioco di parole, tant’è vero che il libro si chiude con due versioni rivedute e corrette, che contaminano poeticamente la preghiera di Nicea e quella degli Apostoli. Crede perciò nella fede come esigenza primaria, insopprimibile, dell’uomo, determinata sì da una scoperta conoscitiva, da un’esperienza intellettuale: ma soprattutto motivata da un’esperienza personale. Inevitabile è stato per Guitton credere, perché la sua fede è naturalmente germogliata in una famiglia di credenti, ed è stata alimentata da una costante pratica religiosa, fatta di pietas e d tradizione. Una fede “genetica”, per così dire, che si è coniugata a un destino, chissà se casuale o necessario, fatto di incontri, eventi, epifanie che hanno contribuito a irrobustirla.

«Ho notato che non ho affatto scelto i miei amici, i miei maestri,i miei iniziatori, la donna che ho amato: mi sono piombati addosso, come degli accadimenti felici…Numerosi sono gli accordi armoniosi tra la preghiera e l’evento, accordi che formano la trama della vita. Un giorno, forse un secondo prima della nostra fine, ci renderemo conto di questa armonia sostanziale».

Sono pagine altissime, queste dedicate all’inevitabilità della fede, alla concreta possibilità che esista una rispondenza tra caso e necessità, tra destino collettivo e individuale, tra scelta e costrizione. Tale accordo ci verrà rivelato o smentito nel momento finale, della morte, quando ateo o credente si giocheranno tutto. «Un momento estremo (e che si avvicina sempre più velocemente) deciderà tra la fede e l’assenza di fede. Anche qui, le situazioni non saranno identiche, dato che, se il nulla è la verità ultima, all’ateo non resterà neppure la gioia del trionfo. E se invece il nulla non è, se Dio è, un’evidenza eterna farà sì che non ci sia bisogno di parole o di dialoghi». Il credente rischia però di più, rischia di aver dedicato la sua esistenza a qualcosa di illusorio e di ingannevole, e Guitton quest’ipotesi la prende in considerazione con spietata onestà intellettuale. «Per sapere se ciò in cui credo è vero o falso, non ci rimane altro che aspettare. Se mi sono sbagliato, non ci sarà dialogo tra voi e me: il triste sonno della morte seppellirà ogni cosa. Ma se non mi sono sbagliato, allora la vista del Vero sarà così chiara che i miei avversari di oggi saranno uniti a me nella stessa luce».

E mettendo in conto anche la delusione totale, si lascia prendere dalla più scandalosa delle tentazioni, quella della negazione di Dio: e tuttavia anche in tale tremenda eventualità si dichiara disponibile alla follia della passione mistica. «Se nel momento della mia morte vedessi chiaramente che mi aspetta il nulla, e tutto quello in cui credevo si rivelasse un’illusione, non rimpiangerei per niente al mondo di essermi sbagliato quando ero in vita e di aver creduto alla verità del cristianesimo, perché sarebbe l’amore infinito ad avere il torto di non esistere, e non io per aver creduto in lui».

Che cosa credo è un libro scarno che si legge trascinati dalla foga, dall’ebrezza entusiasta di chi l’ha ascritto, e che tuttavia in questo slancio è riuscito a mantenere una sua lucida impronta razionale.
Non solo la fede, quindi, viene indagata da Guitton. Bensì anche Dio, inteso come ente che può sopportare persino l’esigenza miope di prove dimostrative della sua esistenza: Gesù, come figura storica e non mitica; la Chiesa, nel suo trionfo e nella sua crisi attuale, i santi e la società laica. E soprattutto la persona, l’uomo che ciascuno di noi è, animato al desiderio intenso di affidarsi «alla speranza che è in lui», e subito dopo attratto dall’incredulità, dalla voglia di sbeffeggiare questa speranza: perché «ciascuno di noi possiede nei sotterranei di se stesso un doppio che è il suo tentatore». Sta a noi decidere quale strada seguire, che cosa credere.

 

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www.sololibri.net/Che-cosa-credo-Jean-Guitton.html    28 dicembre 2015

RECENSIONI

GUMILEV

NICOLAJ STEPANOVIČ GUMILËV, NEL GIORNO IN CUI IL MONDO FU CREATO –  AVAGLIANO, ROMA 2020

Con la cura e la traduzione di Amedeo Anelli, l’editore Avagliano pubblica Nel giorno in cui il mondo fu creato, prima antologia italiana di versi di Nikolaj S. Gumilëv (1886-1921), autore russo di cui in Italia erano note finora solo rare composizioni. Figlio di un medico, dopo il liceo Gumilëv si trasferì a Parigi per studiare alla Sorbona: in Francia pubblicò le sue prime raccolte poetiche, collaborando a diverse riviste letterarie. Nella sua breve e intensa esistenza, ebbe esaltanti e tormentate esperienze artistiche, amorose, politiche, ed esercitò un notevole influsso sulle generazioni più giovani per la sua carismatica statura morale, e per il gusto dell’avventura che lo spinse a viaggiare in Europa e in Africa (dove partecipò a numerosi safari, collezionando prodotti dell’artigianato locale per il Museo di Antropologia e Etnografia di San Pietroburgo).

Tornato in Russia, si dedicò attivamente alla produzione letteraria, dando vita al movimento acmeista che propugnava, in reazione al simbolismo, una poesia più quotidiana, democratica e artigianale: all’iniziativa si unirono Osip Mandelstam e Anna Achmatova, che divenne sua moglie e gli diede un figlio, Lev. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, Gumilëv si arruolò volontario come soldato semplice, combattendo in Macedonia e in Francia, e guadagnandosi due Croci di San Giorgio al valore e la promozione a ufficiale di cavalleria. Tornato in Russia nel 1918, si impegnò sia nella creazione del Sindacato degli scrittori, sia nella composizione di altre raccolte di versi, tra le sue cose migliori: Il falò, La tenda, Colonna di fuoco.

Nell’estate del 1921 fu arrestato con l’accusa di partecipazione a un complotto monarchico, e fucilato insieme ad altri sessanta compagni.

La sua produzione poetica si distingue sia per un ingenuo vitalismo, sia per l’interesse verso gli elementi naturali, sia per l’adesione ai temi della contemporaneità, trattati con uno stile semplice e oggettivo. Nell’antologia proposta da Avagliano, troviamo versi dedicati agli animali (“Lontano, lontano sul lago Ciad / vaga una raffinata ed elegante giraffa, // È leggiadra, armoniosa con lunghe zampe, / e sulla pelle si disegnano magici segni”), ai fiori e agli alberi (“ Sono certo che agli alberi, e non a noi, / la pienezza di vita è data intera / sulla terra benigna, sorella delle stelle, / noi siamo di passaggio, e loro in patria”), alla bellezza del creato, a santi e pittori e scrittori.

Tragiche sono le poesie riservate alla guerra, pur nell’esaltazione virile dell’atto eroico (“Come un cane a una catena pesante / la mitragliatrice abbaia dietro la foresta, / gli shrapnel ronzano come le api / raccogliendo un miele rosso vivo”, “Questo paese che sarebbe potuto essere un paradiso / è diventato la tana del fuoco, / stiamo attaccando da quattro giorni, / non abbiamo mangiato da quattro giorni”). O le meditazioni sulla morte, resa sacra soprattutto durante il combattimento: “Ci sono tante vite degne, / ma una sola morte degna / quella sotto i proiettili nella calma delle trincee”.

Invece intenerita si presenta al lettore la memoria di figure femminili amate (“Mašenka, tu qui vivevi e cantavi, / a me, fidanzato, tessevi un tappeto, / dove sta ora il tuo corpo, la tua voce, / possibile che tu sia morta!”, “Inaspettata e audace, / di una donna al telefono la voce; / quante armonie deliziose / in questa voce disincarnata!”).

Nella quarta di copertina, Daniela Marcheschi loda in Gumilëv la “ricerca poetica originale, tesa a sostituire le aure mistiche e remote della poesia simbolista con limpidezza di visione e di stile: con la parola-cosa”.

 

© Riproduzione riservata                     26 aprile 2020

https://www.sololibri.net/Nel-giorno-in-cui-il-mondo-fu-creato-Gumilev.html

 

 

 

 

 

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GUSTAFSSON

LARS GUSTAFSSON, POESIE – PASSIGLI, FIRENZE 1997

Dello scrittore svedese Lars Gustafsson (1936-2016) in Italia si conoscono soprattutto i romanzi, quasi tutti pubblicati da Iperborea (Morte di un apicultore e Il pomeriggio di un piastrellista sono i suoi titoli più famosi), ma nel 1997 l’editore fiorentino Passigli ha raccolto in volume una scelta di poesie che evidenziano, come nella più nota produzione in prosa, il suo interesse particolare per la filosofia e la matematica, rivisitate attraverso il filtro dell’ironia o dell’invenzione fantastica. Già nella prefazione, Gustafsson si sbilancia in una dichiarazione di estetica che nel seguito delle pagine viene confermata dalla composizione stessa dei versi: la poesia è una scoperta, un’invenzione, che mantiene intatto il suo valore indipendentemente da come viene recepita dai lettori, i quali possono comprenderla, apprezzarla, fraintenderla, criticarla. Rimane incorruttibile, essendo un prodotto concettuale in qualche modo imparentato con le scienze astratte. Scrivere poesia è un processo mentale, e quando arriva a compimento, a un risultato perfetto, ecco che «è come se una verità venisse alla luce».

Con queste premesse teoriche, è evidente che chi legge non si deve aspettare da Gustafsson alcuna eccedenza sentimentale o emotiva: della sua Svezia, «questo candido e solitario paese», avvertiamo il bianco e il freddo, un’atmosfera incorporea e trasparente colta attraverso uno solo dei cinque sensi: lo sguardo. «Lo sguardo riempie le cose, anche le più grandi e silenti, / di significato, varia umanità. È più scaltro del tempo». L’occhio del poeta osserva, spaziando intorno, uno sfondo naturale molto esteso, quasi privo di confini, su cui si muovono poche figure umane, silenziose, scure. Intorno laghi, boschi, e tanto cielo. Nebbia, brina, neve, ghiaccio, pioggia. L’idea dominante è il non-limite, orizzontale e verticale, nella conquista perseguita con risolutezza, e senza ansia, della libertà. Il volo non è solo quello degli uccelli (gabbiani e allodole), ma anche quello degli aeroplani, dei palloni aerostatici, degli alianti: il poeta guarda dall’alto, si eleva sopra il paesaggio. Lo fa servendosi anche di strumenti solitamente poco utilizzati da chi scrive versi: concetti matematici, di ottica, di mineralogia, di botanica, ed evitando le figure retoriche più abusate (rime, allitterazioni, anacoluti). La sua è una scrittura sobria, prosastica, scientifica: «Alcune poesie non vogliono rimanere, / e bisogna cancellarle parola per parola / finché cancellate ripiombano nelle tenebre. / Vanno e vengono così rapidamente. / Che cosa vogliono? / Osservazioni. Ricognizioni».

Pure, in questo esibito cerebralismo, troviamo pause di composta dolcezza, di attenzione al particolare minuto, trascurato dai più: «Quando l’aria stagna, stagnano anche i laghi / i grandi chiari laghi quieti come l’argento vivo», «Pioggia e colpi di martello / vanno al di sotto degli alberi. Qualcuno costruisce. / Ed io mi immagino un uomo piccolo di statura / con arnesi assai logori, / il quale a causa della pioggia abbia deposto su una pietra / i suoi occhiali dalle stanghette d’acciaio». Nel gesto del falegname povero, con le lenti annebbiate dalla pioggia, e nel battito del martello che rompe il silenzio, ebbene sì, sentiamo che la poesia ci rivela qualcosa, ci illumina.

 

© Riproduzione riservata             www.sololibri.net/Poesie-Lars-Gustafsson.html       4 dicembre 2017

 

 

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HADOT

PIERRE HADOT, LA FILOSOFIA COME MODO DI VIVERE ‒ EINAUDI, TORINO 2008

Pierre Hadot (Parigi, 1922Orsay, 2010), cresciuto a Reims in una famiglia di fervente fede cattolica, dopo gli studi di filosofia e teologia, prese i voti nel 1944. Dieci anni dopo lasciò il sacerdozio, si sposò, impiegandosi dapprima come bibliotecario e in seguito come ricercatore al CNRS. Direttore della École pratique des hautes études dal 1964 al 1986, fu poi  nominato professore (per iniziativa di Michel Foucault) al Collège de France nel 1982. I suoi campi di interesse furono rivolti soprattutto alla filosofia antica, all’orfismo e al neoplatonismo, ma si occupò anche di letteratura (Goethe) e di pensatori novecenteschi (Bergson e Wittgenstein). Una delle sue tesi principali consiste nel ritenere che la filosofia debba servire agli uomini come metodo per vivere bene, evitando per quanto possibile sofferenze inutili, illusioni, ambizioni sfrenate. Tale era l’insegnamento degli antichi greci, come ha illustrato in uno dei testi più noti, Che cos’è la filosofia antica?. In esso afferma che il pensiero dei greci non era volto tanto alla costruzione di sistemi ed edifici concettuali, lontani dalla realtà vissuta dalle persone comuni. Le varie scuole filosofiche greche guidavano gli allievi lungo un percorso di saggezza da attuarsi attraverso la pratica di “esercizi spirituali”, tendenti non tanto ad accrescere le nozioni delle varie scienze, quanto a formare gli individui, perfezionandoli, trasformandoli nel carattere e nell’agire per raggiungere il benessere interiore ed essere di sostegno alla comunità. In Socrate, Epicuro, Marco Aurelio fino ai contemporanei, Hadot  riscopre una dimensione riflessiva del pensiero, capace di coniugare teoria e prassi. Filosofare, come insegnava Platone, significa “esercitarsi a morire”, imparando a superare “l’io particolare e parziale”, staccandosi dalle preoccupazioni quotidiane per aprirsi a un respiro universale, quindi alla vita vera, accettata nella sua pienezza, con le delusioni e le paure, le malattie e le difficoltà economiche. Vivendo nel presente, senza rimpiangere il passato e senza tormentarsi per il futuro.

In un altro importante volume, Plotino o la semplicità dello sguardo, Hadot espone la dottrina del filosofo di Licopoli (205-270 d.C.), maestro spirituale “contemporaneamente presente a sé e agli altri”, che indicava la strada attraverso cui l’amore, la purezza interiore e la contemplazione conducono al Bene assoluto, fuggendo “da soli verso il Solo”, verso un divino infinito che non intenda svalutare il mondo sensibile, ma sappia renderlo più consapevole e luminoso. “Ritorna in te stesso e guarda: se non ti vedi ancora bello, comportati come l’autore di una statua che debba risultare bella: quegli toglie, raschia, leviga, ripulisce, fino a far apparire nella statua un bel viso. Anche tu togli il superfluo, raddrizza ciò che è storto; a furia di ripulire quanto è oscuro, fallo brillare e non smettere di ‘scolpire’ la tua propria ‘statua’, fino a che riluca per te il divino splendore della virtù, fino a vedere la Saggezza, alta sul suo sacro soglio”. Questo invito di Plotino, dolce maestro che a detta del suo allievo Porfirio “si vergognava di essere in un corpo”, fu uno degli insegnamenti fondamentali che Hadot assorbì dal pensiero greco. Scolpire la propria statua, rendersi migliori per rendere migliore il mondo intorno, indipendentemente da ogni ideologia o religione personale.

Tale percorso di conversione è ben esplicitato nel libro autobiografico La filosofia come modo di vivere. Conversazioni con Jeannie Carlier e Arnold I. Davidson (uscito in Francia nel 2001 e da noi nel 2008): qui Pierre Hadot partendo dalla sua esperienza di vita, narra come la pratica filosofica abbia guidato e sostenuto ogni sua scelta esistenziale, anche nei momenti più difficili e tribolati. Nato in una famiglia umile, costretto dalla madre ad entrare in seminario a dieci anni, cresciuto “nell’acqua santa” e “sotto le sottane della Chiesa”, ebbe a tredici anni la rivelazione di quello che sarebbe stato il suo destino di filosofo. In una pagina molto toccante, racconta di come una sera, tornando a casa da scuola, la vista del cielo stellato avesse suscitato in lui quello che Romain Rolland definiva il “sentimento oceanico”: “Un’angoscia terribile e soave, provocata dal sentimento della presenza del mondo, o del tutto, e di me in questo mondo… Provavo un senso di estraneità, lo stupore e la meraviglia di esserci. Nello stesso tempo, percepivo di essere immerso nel mondo, di farne parte, e che il mondo si estendeva dal più piccolo filo d’erba fino alle stelle”. La consapevole e profonda adesione all’esistente, l’immersione nella vastità dell’universo, insieme ad una presa di distanza dalla considerazione egoistica e miope del proprio vissuto, lo segnò dall’adolescenza in ogni momento della quotidianità, indicandogli la strada intellettuale da percorrere.

Gli studi severi in seminario, l’educazione sessuofobica, l’evacuazione di Reims durante la guerra, la laurea, i voti consacrati, gli attriti ideologici con le autorità ecclesiastiche: una vita dedicata quasi esclusivamente al pensiero e all’approfondimento filologico dei classici (vent’anni di ricerca sull’ oscuro retore del 300 d.C. Mario Vittorino!), ma anche le faticose esperienze di lavoro operaio, gli stenti economici, l’allontanamento dalla chiesa, due matrimoni e le ripetute debilitanti malattie: Pierre Hadot afferma di essere riuscito a superare le gravi traversie della vita grazie al senso di meraviglia nutrito per la bellezza della natura, e alla costante auto-educazione  trasmessagli dalla sapienza degli antichi. Del cristianesimo apprezzava l’insegnamento evangelico e la ricerca di un’unione mistica con il divino, non condividendone però l’impronta inquisitrice e dittatoriale poco rispettosa delle scelte personali e culturali dei fedeli.

La capacità di formare le coscienze era già patrimonio della filosofia greca secoli prima della nascita di Gesù: un invito alla conversione da attuarsi con la pratica di un ammaestramento morale e fisico, basato sulla meditazione e la contemplazione, sul dialogo con i maestri, sulla rinuncia ad ogni eccesso nell’alimentazione, nella sessualità e nelle abitudini familiari, sull’apprezzamento dell’istante presente. Lo proponevano epicurei e stoici, di cui Hadot ha commentato con entusiasmo e rigore gli scritti: un assiduo richiamo agli “esercizi spirituali” come terapia in Seneca, Epitteto, Marco Aurelio, Plotino, e alla conseguente disciplina di desideri, azioni, giudizi. Troviamo questi precetti di saggezza (il distacco da sé, la temperanza, l’imperturbabilità) anche nel taoismo, nel brahmanesimo, nel buddhismo, nella patristica cristiana, nella mistica tedesca, così come in Pascal, Cartesio, Montaigne, Schopenhauer, Nietzsche, Kierkegaard, Bergson, Husserl, fino all’insospettabile Wittgenstein. Già l’oracolo delfico raccomandava “γνῶθι σεαυτόν – conosci te stesso”, e poi Agostino scriveva: “Noli foras ire, in te redi, in interiore homine habitat veritas” (nell’appendice al volume di cui ci occupiamo, sono riportare molte massime sapienziali di diverse epoche e autori). La conoscenza di sé diventa presa di coscienza di un ego trascendentale, dilatazione e intensificazione dell’io: un invito a superare la contingenza che ci sommerge e ci limita, per approdare a una prospettiva più elevata della totalità, accogliendo con coraggio all’interno della nostra esperienza anche il misterioso e l’indicibile.

Non so se l’entusiasmo con cui ho letto tutti i libri di Pierre Hadot dipenda dal fatto che nel lontano 1977 mi sono laureata, sotto la guida di una bravissima docente, proprio in filosofia antica: ma ancora oggi bastano alcune righe delle Lettere a Lucilio di Seneca a rasserenarmi se mi sento turbata da qualche episodio particolare, o una riflessione di Marco Aurelio (a sostituzione dell’infantile esame di coscienza serale) per restituirmi “lo sguardo dall’alto” raccomandato dal filosofo francese. Come dare torto, infatti, all’imperatore romano quando scriveva: “Ferma questo agitarsi da marionetta… Presto tu avrai dimenticato tutto, presto tutti ti avranno dimenticato”.

 

© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 27 aprile 2018

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

HAJDARI

GËZIM HAJDARI, CRESCE DENTRO DI ME UN UOMO STRANIERO – ENSEMBLE, ROMA 2020

“Io sono un poeta messo al bando nel cuore dell’Europa, / Europa cannibale e allegra”. Con questi versi si apre l’ultimo libro di poesie di Gëzim Hajdari, Cresce dentro di me un uomo straniero, pubblicato dalle edizioni romane Ensemble con testo a fronte.

Gëzim Hajdari, nato nel 1957 in Albania da una famiglia di ex proprietari terrieri, i cui beni sono stati confiscati durante la dittatura comunista di Enver Hoxha, ha studiato all’Università di Elbasan e alla Sapienza di Roma. Nel corso della sua intensa attività di giornalista ed esponente politico dell’opposizione, ha denunciato pubblicamente i crimini della vecchia nomenclatura e dei regimi post-comunisti albanesi. Nel 1991 è stato tra i fondatori del Partito Democratico e del Partito Repubblicano della città di Lushnje, e cofondatore del settimanale di opposizione Ora e Fjalës.  Dal 1992 è esule in Italia. In Albania ha svolto vari mestieri (operaio, magazziniere, ragioniere, militare, insegnante di letteratura) mentre in Italia ha lavorato come contadino, zappatore, manovale, aiuto tipografo.

Bilingue, Hajdari scrive e traduce in albanese e in italiano, ha pubblicato numerose raccolte di poesia, libri di viaggio e saggi. Da Ensemble sono usciti già altri due libri di versi, Nûr: eresia e besa e Delta del tuo fiume, testimonianza della sua realtà esistenziale di esule e rifugiato, sradicato non solo nel vissuto personale, ma anche intellettualmente.

Orgoglioso della sua “vita profetica”, delle sue “utopie remote”, Hajdari non nasconde di covare sotto la pelle “gemiti gonfi di rabbia” per essere stato costretto a lasciare il suo paese, senza riuscire a integrarsi completamente nella nazione ospitante. Eppure in Italia ha vinto importanti premi letterari, dirige una collana editoriale, è presidente del Centro Internazionale Eugenio Montale, e viene da tutti considerato il maggiore poeta albanese vivente. In Cresce dentro di me un uomo straniero il titolo stesso ribadisce ciò che l’autore sente come una condanna: il proprio destino di emigrato, straniero a se stesso e agli altri.

Ne sono un evidente esempio i reiterati richiami alla profonda ingiustizia subita solo per il fatto di essere nato in una nazione e in un periodo storico svantaggiato, rispetto alla privilegiata situazione democratica ed economica del resto dell’Europa: “Perché mi hai fatto nascere albanese, cieco e senza memoria? // … Condannato all’esilio da un altro esilio, / lontano dalla terra del crimine. Dentro di me fuochi, spari, argilla e sangue”, “vivo alla giornata, venticinque anni in Italia / non so cos’è uno stipendio a fine mese”, “Gëzim in esilio, solo e lontano, / oltre il mare negro dell’Europa, vecchia puttana viziata!”, “Raccolgo la frutta dimenticata sugli alberi per le strade dei quartieri / di Frosinone, susine, nespole, ciliegi, pere e fichi. / Non mi vergogno di essere povero”.

L’odio per la corruzione imperante in Albania è esibito quanto il disprezzo per l’opulenza occidentale: “C’è un paese oltre l’Adriatico, / si chiama Albania, / paese castrato, misero e dannato, / con le donne sgualdrine, / gli uomini codardi, perfidi e malvagi, / figli trafficanti, assassini spietati, / killer a pagamento. // La nuova Albania sorta / sui crimini, droga, / corruzione, ruberie, / denaro sporco, / traffici umani, / contrabbando di armi. / Coloro che alzano la voce, / vengono costretti all’esilio, / condannati al silenzio, / sepolti vivi”.

Altrettanto costante è però il ricordo dolente e iroso della sua terra, di un sud arido e martoriato, degli anni bambini tormentati dalla miseria: “Ho nostalgia di passeggiare con le mani in tasca nella città di Lushnje. / Quando frequentavo le medie e il liceo vendevo il latte / delle mie capre / nei suoi quartieri, prima di andare a scuola”, “Nessun segno dall’altra costa selvatica / di varcare l’infanzia incendiata, i tetti dei miei libri in attesa”, “Nel villaggio abbandonato quasi non è rimasto più nessuno, / di notte fischia il vento e tra gli olivi spia la luna di rame”, “Il Sud è ferita, eternità, arancia matura lasciata a marcire / a terra. Il Sud scorre nelle vene, abita nel sangue, è maledizione”. Le figure della madre, del padre e dei quattro fratelli, costretti a una vita di lavori duri nei campi, rassegnati a una violenza domestica irrimediabile, si confondono con il rimpianto del poeta, fiero del coraggio dimostrato nell’emigrare, e insieme turbato dalla consapevolezza di aver tradito la sua gente, scegliendo per sé il prestigio di un ruolo intellettuale.

Come lui, tanti sono i poeti che vivono di stenti in Italia, esuli dal Brasile, dall’Iraq, dal Paraguay, dal Marocco, dalla Somalia: a tutti loro, che muoiono dimenticati e senza il dovuto riconoscimento, Hajdari dedica una lunga elegia, solidale nel dolore e nell’indignazione contro “i sottouomini / della patria delle lettere”, illustri e celebrati scrittori, indifferenti alle tragedie vissute dai colleghi in esilio.

Nella sua approfondita e partecipe prefazione al volume, Fulvio Pezzarossa definisce Gëzim Hajdari poeta delle non-patrie, che “ripercorre itinerari educativi e letterari mai ristretti al contesto privato, e sempre nutriti da valori di generosa solidarietà tra i viventi”; rapsodo di una poesia civile e popolare, dal risentito richiamo in versi a non dissipare il contributo culturale e umano che la produzione artistica degli immigrati offre al nostro paese.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 30 maggio 2020

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

HAMILTON

JANE HAMILTON, LA MAPPA DI ALICE – BALDINI & CASTOLDI, MILANO 1996

Un tempo ritenevo che l’abbattersi della sciagura fosse in genere conseguenza di un errore marchiano o di una disgraziata fatalità. Non avevo ancora scoperto che può verificarsi così gradualmente che non se ne avvertono gli indizi premonitori né l’impatto. Magari non se ne percepisce neppure il movimento. Ho imparato che occorrono almeno due o più avvenimenti per alterare il corso di una vita: la verità sfugge una prima volta, una seconda, quindi una terza, e poi in un attimo si ha la sensazione che tutto sia franato di colpo.

Così filosofeggia Alice Goodwin, protagonista del libro La mappa di Alice, una casalinga trentenne che vive con il marito allevatore e con le due bambine in una fattoria del Wisconsin, travolta da una serie di accuse che distruggono la serenità della sua famiglia e la sua reputazione. Lei e il marito («Avevo sposato Howard sapendo che niente lo rendeva più felice della vista del latte che attraverso i tubi passava nella vasca di raccolta… La stalla era la sua guerra. Lui era il generale e le mucche i suoi soldati. Le guidava nelle loro esercitazioni due volte al giorno, sette giorni la settimana, cinquantadue settimane l’anno.») hanno rilevato l’ultima fattoria della cittadina di Praire Center, facendo un ottimo affare economico, ma suscitando da subito fastidio e diffidenza nella comunità ospitante. Troppo diversi, infatti, sembrano entrambi ai loro compaesani: lui, uomo asciutto, gran lavoratore, restio alla cura del proprio aspetto e poco propenso ai rapporti con le altre persone; lei disordinata, mutevole d’umore, scarsamente amante della casa e della cucina, e invece sempre immersa in letture e nella musica; le bambine cresciute spartanamente, senza alcuna concessione a futilità di moda. Quasi degli hippy, insomma, cui dare poco affidamento, indifferenti alla abitudini del paese, «estranei all’immaginario collettivo». Perciò i Goodwin vengono considerati con sospetto, salutati a fatica, trattati scortesemente nei locali pubblici. Sensazioni, impressioni vaghe, ma che prendono man mano consistenza col passare del tempo, fino a dar corpo a veri e propri incubi, a una persecuzione ossessiva. Quest’ansia generalizzata di punizione trova una sua valvola di sfogo quando nel laghetto della fattoria annega la bambina dei vicini con cui, soli, i Goodwin erano riusciti a instaurare un rapporto di amicizia e confidenza reciproca. E’ Alice che viene additata al pubblico ludibrio, per la sua disattenzione o superficialità e, in seguito, perché il senso di colpa che la disgrazia ha provocato in lei le fa assumere atteggiamenti autodistruttivi, che vendono stigmatizzati con acribia. Si scava con cattiveria nel suo passato alla ricerca di episodi che avallino la cattiva opinione che di lei nutre il paese, e così lo schiaffo affibbiato a un ragazzino difficile nella scuola in cui esercita la sua professione di infermiera, assume contorni mostruosi, connotati morbosi e deliranti. Le chiacchiere si ingigantiscono, diventano calunnie sempre più pesanti, finché Alice è arrestata sotto il peso di un’imputazione agghiacciante mossale dalla madre del ragazzino schiaffeggiato. Il marito e le bambine rimangono soli, evitati come la peste da tutta la comunità. Oggetto di telefonate anonime e di sputi per strada: vicini a loro rimangono solamente la famiglie della bimba annegata e un avvocato. Per pagare la cauzione e le spese del processo, Howard è comunque costretto a svendere la fattoria, e a trasferirsi in un’altra città, cercando un impiego qualsiasi. Rimane lucido, razionale e, impedendosi di lasciarsi sfiorare dal sospetto riguardo al comportamento della moglie, cerca di spiegare a se stesso e alle figlie cos’è successo: «A volte, la gente accusa dei suoi guai una persona che non c’entra…Alice si preoccupava tanto di quello che certe persone potevano dire di lei…Temeva che le vecchie comari sparlassero. Io le dicevo di lasciar perdere, che era sciocco far caso ai pettegolezzi. Adesso capisco di cosa bisogna ave paura: delle chiacchiere. Proprio. Le chiacchiere. E non so come abbiamo creduto di poter avviare una fattoria, qui. Occorre aver vicino gente con gli stessi interessi».

Alice viene ovviamente assolta dalle accuse, il bambino si contraddice, rivelando di essere rimasto traumatizzato da una scena vissuta nella sua famiglia, protagonisti sua madre e un estraneo; il caso Goodwin si sgonfia, pretesto di un rito di purificazione collettiva, con un capro espiatorio che necessariamente doveva essere una donna e estraneo alla comunità. Legalmente, quindi, tutto si riduce a niente: ma alcune vite sono state spezzate, due bambine rimarranno segnate per sempre, una coppia vivrà con problemi che non è andata a cercarsi.
L’autrice de La mappa di Alice, Jane Hamilton, si sta segnalando negli Stati Uniti come scrittrice di indubbio talento, sulla scia di Anne Tyler e di una nuova narrativa al femminile, non più intimista o rancorosa, ma aperta anche a tematiche di grosso rilievo sociale e civile. Molto coinvolgenti le pagine sull’annegamento della bambina nel laghetto, l’impatto di Alice con la prigione, la spietata autoanalisi del marito; e in generale il clima di sospetto, la rete viscida di congiura che incatena e soffoca i protagonisti, e inquieta noi lettori, al punto che cerchiamo di consolarci pensando che storie del genere possono accadere solo nei romanzi. Americani, per di più.

 

«L’Arena», 31 luglio 1996

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HAN

BYUNG-CHUL HAN, LA SOCIETÀ SENZA DOLORE, EINAUDI – TORINO 2021

Byung-Chul Han (Seoul, 1959), pensatore coreano-tedesco tra i più letti al mondo, sapientemente critico nei riguardi del neoliberalismo economico e delle derive ideologiche e sociali contemporanee, in Italia ha pubblicato con l’editore Nottetempo numerosi saggi, stimolanti e di facile lettura.

Einaudi propone oggi nella collana Stile Libero una sua concisa riflessione sulle modalità con cui le culture mondiali affrontano il male, in pratica rimuovendolo da ogni orizzonte etico e comportamentale. Con il sottotitolo “Perché abbiamo bandito la sofferenza dalle nostre vite”, La società senza dolore indaga come elemento caratterizzante delle società moderne l’algofobia, la paura di soffrire, per cui si tende a evitare qualsiasi circostanza conflittuale che preveda una partecipazione angosciante ad avvenimenti personali, collettivi o politici.

Sette capitoli del libro sono dedicati a una vera e propria ermeneutica del dolore , di cui si enuclea l’insensatezza, l’astuzia, la verità, la poetica, la dialettica e l’ontologia. Byung-Chul Han  ne cerca tracce definitorie nella letteratura e nella filosofia universale: Valéry,  Freud, Santa Teresa d’Avila, Andersen, Benjamin, Jünger, Weizsäcker, Butor, Celan, Heidegger, Nietzsche, Pearce.

Nel mondo attuale il dolore sembra aver perso il significato di catarsi, di conoscenza interiore, di preghiera, di riscatto dalla colpa, di relazione con Dio, di possibilità di racconto, di vincolo o desiderio, di legame solidale con il prossimo, di disciplina, di sensibilità artistica, di contatto con la realtà: è diventato semplicemente inutile, privo di giustificazione, intollerabile, fallimentare. “Non disponiamo piú di nessi di senso, narrazioni, istanze superiori o scopi in grado di abbracciare il dolore e renderlo sopportabile… Viviamo in una società della positività che tenta di sbarazzarsi di tutto ciò che è negativo”, imponendo una sorta di dittatura del benessere, della felicità e dell’ottimismo permanente, da perseguire in ogni campo. Il dolore, interpretato come segno di debolezza e passività, va nascosto o eliminato in nome dell’ottimizzazione delle prestazioni, perché non compatibile con le performance pretese dalla società.

Il dover piacere diventa un imperativo, il like assurge a emblema dell’approvazione generale. In tale nuova “cultura della compiacenza”, anche l’arte e la politica sono obbligate a conformarsi al gusto generale che ostracizza e condanna qualunque dissidenza o dissonanza, incoraggiando il conformismo e l’adeguamento alle esigenze dell’economia e del mercato. Invece proprio l’espressione artistica, che Adorno definiva “estraneità al mondo” dovrebbe offrire una narrazione antagonista rispetto all’ordine vigente: dovrebbe inquietare, disturbare, dare voce al tormento, e non servire da anestetizzante o edulcorante dei contrasti. Oggi, invece, perpetua l’Uguale, si è disciplinizzata. Come, appunto, il dolore, divenuto felpato e afono, richiuso in luoghi deputati quali carceri, ospedali, istituti che canalizzano il sapere e il lavoro produttivo. Nell’attuale regime neoliberista, il potere ha perso la sua forma disciplinare repressiva, assumendo in maniera più subdola e sottile l’abito del convincimento seduttivo: il cittadino subordinato viene convinto a realizzarsi positivamente e individualmente, in una pseudo-liberazione del proprio io,  e a occuparsi solo delle proprie esigenze fisiche e psicologiche al fine di raggiungere la felicità personale, senza interrogarsi su questioni di rilievo sociale. La sofferenza è privatizzata e psicologizzata, per impedire il diffondersi del malcontento e della rabbia politica.

Si prescrivono in maniera massiccia analgesici per coprire le responsabilità sociali che conducono al dolore, riducendolo a un apatico torpore, spoliticizzandolo e impedendogli di rendersi arma critica. L’anestesia indotta attraverso la farmacologia o con la strumentalizzazione dei media (i social,  i videogiochi, la televisione) mette al riparo la società dalla contestazione: “Cosí, invece della rivoluzione, c’è la depressione”. Gli individui, egocentrici, infiacchiti e narcotizzati, imparano ad aspirare solamente alla propria confortevole sopravvivenza, che assume un rilievo assoluto, superiore alla stessa libertà personale.

La pandemia che stiamo vivendo ha reso evidente questo paradosso: si ha paura del dolore perché si ha paura della morte, fino ad ora rimossa e adesso diventata improvvisamente e minacciosamente visibile, concreta. L’unico valore riconosciuto e accettato, anche perché politicamente inoffensivo, è l’allungamento biologico della vita, aldilà di qualsiasi dimensione metafisica o puramente etica.

© Riproduzione riservata                   «Gli Stati Generali», 13 maggio 2021

 

 

 

 

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HAND

DAVID J. HAND, IL CASO NON ESISTE – BUR RIZZOLI, MILANO 2014

Con una divertente prefazione del giallista e chimico Marco Malvaldi, Rizzoli propone ai lettori un volume di divulgazione scientifica del matematico britannico David J.Hand, che ci orienta su concetti di non facile assimilazione quali il caso, la probabilità, l’inevitabilità. «Questo libro parla di eventi straordinariamente improbabili. Parla delle ragioni per cui accadono cose incredibilmente inverosimili. Di più: parla delle ragioni per cui continuano ad accadere, ancora e ancora, e ancora».

È successo a tutti noi, suppongo, di rimanere increduli e forse un po’ allarmati davanti a coincidenze impreviste e spiazzanti (casi di telepatia, incidenti ripetuti, oggetti persi e ritrovati, incontri inattesi…), al punto da farci interrogare su quali influenze invisibili governino il corso delle cose. L’autore riporta esempi di avvenimenti incredibili capitati sia a gente comune sia a persone famose e indubbiamente attendibili, che potrebbero indurci a supporre l’esistenza di misteriose entità in grado di governare e dirigere i nostri comportamenti e pensieri da un ipotetico aldilà. In generale, ciò che ci appare razionalmente incomprensibile ci mette a disagio, e tendiamo a voler razionalizzare anche l’inspiegabile. Vorremmo poter sempre individuare nelle nostre vite degli schemi regolari, sequenze verificabili di causa-effetto che possano escludere la casualità o l’irrazionalità.

«L’istinto primario che porta l’uomo a cercare sicurezza e protezione induce in noi un’inquietudine di fondo all’idea che gli eventi possano verificarsi per puro caso… Per esempio, potrei considerare il fatto di essere inciampato su un sampietrino dopo aver visto un gatto nero come la prova provata che vedere un gatto nero porta male, ignorando tutti i casi in cui ho visto un gatto nero e non sono inciampato».

Da scienziato titolare di una cattedra universitaria di statistica, David J. Hand osserva con estremo scetticismo (impegnandosi in una demolizione razionale) qualsiasi atteggiamento superstizioso, la credenza nei miracoli, le profezie, la parapsicologia, prendendosela anche con obiettivi illustri, quali lo psicanalista Carl Gustav Jung, troppo propenso a invocare il soprannaturale anche di fronte a fenomeni scientificamente spiegabilissimi. Sincronicità e coincidenze sono eventi concomitanti che ci sorprendono perché li percepiamo come significativamente collegati, quando in realtà non hanno alcuna connessione causale evidente, e derivano solo dal caso: e la probabilità non è una proprietà del mondo esterno, ma piuttosto una caratteristica del modo in cui ragioniamo sul mondo. Esiste una possibilità su 14 milioni che una persona vinca al jackpot: effettivamente c’è sempre un fortunato, ma ci sono anche 13.999.999 che non ci azzeccano…La rivoluzione scientifica che all’inizio del ‘900 ha segnato il passaggio dall’universo meccanicistico e deterministico, regolato da leggi ferree, all’universo probabilistico dominato dal caso e dall’incertezza (in cui si sono affacciate le affascinanti teorie della fisica quantistica) non è ancora riuscita a scalfire una diffusa mentalità acriticamente fideistica e superstiziosa. Con questo volume, David J. Hand ci accompagna gradatamente a scoprire quali leggi, certamente non casuali, regolano il caso: la legge dell’inevitabilità, dei numeri davvero grandi, della selezione, della prossimità sufficiente, dell’improbabilità, aiutandoci a riformulare una nuova visione della nostra mente, della natura, dell’universo.

 

© Riproduzione riservata          

www.sololibri.net/Il-caso-non-esiste-David-J-Hand.html       8 settembre 2015

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HANDKE

PETER HANDKE, STORIA CON BAMBINA – GARZANTI, MILANO 1996

Un romanzo di Peter Handke (pubblicato nell’81), riproposto nel 1996 da Garzanti nell’ottima traduzione di Rolando Zorzi, che ribadisce le grandi qualità di stile e di pensiero dell’autore, al cui successo non è estranea – oltre all’indubbia abilità narrativa – una certa fama di ribellismo e ostilità al mondo.
Il testo è ristretto in una vicenda privatissima, interna all’anima, scarsa di connotazioni e riferimenti a luoghi o date concreti e attenta, invece, ad ogni sfumatura di sentimento: anche formalmente si presenta come molti altri romanzi dell’autore austriaco, quasi ad andamento diaristico, benché in terza persona, con qualche sporadica, improvvisa sterzata in prima persona, o passaggio brusco dal passato al presente, a sottolineare una partecipazione non più camuffabile.
Storia con bambina (Garzanti, 1996), è la vicenda d’amore che si snoda tra lo scrittore e sua figlia, pensata e attesa già molti anni prima della sua venuta al mondo. La bambina nasce ed è, in qualche modo, sostitutiva di qualsiasi presenza femminile al suo fianco e, subito, i due genitori entrano in crisi, riguardo ai ruoli da giocare tra di loro e con la neonata. Il padre, giovane autore già affermato ma perpetuamente in collisione con se stesso e con il mondo, trova nella figlia il suo orizzonte e confine, riuscendo solo in lei a circoscrivere ansie e pensieri: «la bambina gli si presenta quindi come il suo lavoro: il suo pretesto per non partecipare agli avvenimenti della storia»

Bambina – alibi, quindi, poiché lui deve occuparsi di lei, può finalmente dare le dimissioni da tutti i rapporti con gli altri, vivere in simbiosi con la piccola, in rari momenti di totale felicità: «Un’altra sera d’inverno, in casa il televisore è acceso lì davanti, l’uomo sta cullando la bambina; sfinita, finalmente si addormenta, e allora guardare la televisione con quel piccolo peso sul ventre, che emana calore, è pura gioia». Più spesso il rapporto tra i due è critico, sofferto: passano giornate intere in silenzio, ad osservarsi e a soppesarsi. Il padre tende a vivere in case grandi, immerse nel verde, aperte esclusivamente ad altri bambini, tra i quali sua figlia si muove però in modo diverso, «inserendosi nei giochi con quell’eccesso di partecipazione e quel leggero smarrimento che la rendono vittima predestinata, marchiata da un’educazione differente».

L’esibita diversità, la proclamata mitezza e indifferenza ai miti comuni di padre e figlia li trasforma in facile bersaglio della consapevole crudeltà degli altri. L’adulto, eternamente a disagio, impone allora alla bambina continui trasferimenti di scuola, di città, di nazione e di lingua, condannandola a un’infanzia da esiliata.
La foto che li ritrae sulla copertina del volume garzantiano è emblematica: Handke mortifero, capelli lunghi, baffi spioventi, occhiali scuri a nascondere uno sguardo che si immagina disperato, mentre la bambina bionda e interrogativa osserva l’obiettivo quasi spaventata.
Il libro non dice quale destino aspetti la ragazzina, come si concluda il suo apprendistato alla vita: la narrazione si chiude sul decimo compleanno di lei, e su una inevitabile, salutare separazione dal padre. Lui rimarrà probabilmente solo, come dopo ogni grande storia d’amore finita o ridotta a schemi quotidiani: ma questo, appunto, Handke non lo racconta, e lascia che a orientarci sul suo tormentato rapporto di genitore sia un verso di Pindaro: «Alzati, figlio, vieni alla terra ospitale, qui, dietro alla mia parola».

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/Storia-con-bambina-Peter-Handke.html     16 novembre 2015

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HANDKE

PETER HANDKE, POMERIGGIO DI UNO SCRITTORE – GUANDA, MILANO 2004

Nell’87 Peter Handke pubblicò questo testo che ricorda nel tema quello dello svizzero R.Walser (“La passeggiata”, 1917). Due scrittori in cammino, che raccontano il loro vagare solitario, immerso in pensieri e visioni, tra sporadici incontri, e imbarazzati, con i loro simili, e una difficile adesione al pulsare della vita dei più. “Perché sentiva una partecipazione così pura soltanto quando era solo? Perché poteva capire quelli che gli stavano vicino soltanto quando se n’erano andati, e quanto più erano lontani, tanto meglio?”; “quando io, da quanti anni ormai?, mi sono isolato e mi sono messo in disparte per scrivere, ho confessato la mia sconfitta come individuo sociale; mi sono escluso dagli altri per tutta la vita”. Lo scrittore narrato in terza persona da Handke è evidentemente un alter ego, amato e detestato, che ha fatto dello scrivere la ragione e il perno della sua intera esistenza, sacrificandola non tanto alla fama e al successo letterario, ma piuttosto alla ricerca di un modo per salvarsi dalla mediocrità e dalla falsità dei ruoli sociali. Se si obbliga ad uscire dalla sua stanza, a camminare per le strade del centro, o in periferia, o in montagna, lo fa con disagio, temendo sia di essere riconosciuto sia di essere ignorato, fuggendo da voci e rumori, oppure implorandoli e avvinghiandosi ad essi come all’unica traccia vitale nelle sue ore silenziose. Fuori di sé, gli fa compagnia la prima neve, il mendicante folle che urla la sua rabbia nel traffico, i fiori che resistono all’inverno, qualche timida conversazione in un’osteria: tornato alla sua solitudine, sono solo i tasti della macchina da scrivere, o l’annunciatore della radio, o il rubinetto che gocciola a scandirgli il tempo da vivere. “Non era strano che quasi soltanto i momenti in cui scriveva potessero dilatare a tal punto il luogo in cui risiedeva? Allora ciò che era piccolo diventava grande; i nomi non contavano più…”.

IBS, 20 luglio 2014