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RECENSIONI

HANDKE

PETER HANDKE, POMERIGGIO DI UNO SCRITTORE – GUANDA, MILANO 2016

Peter Handke pubblicò nel 1987 Pomeriggio di uno scrittore, racconto che ricorda nel tema quello dello svizzero Robert Walser (“La passeggiata”, 1917). Due scrittori in cammino, che raccontano il loro vagare solitario, immerso in pensieri e visioni, tra sporadici e imbarazzati incontri con i loro simili, e una difficile adesione al pulsare della vita dei più. “Perché sentiva una partecipazione così pura soltanto quando era solo? Perché poteva capire quelli che gli stavano vicino soltanto quando se n’erano andati, e quanto più erano lontani, tanto meglio?”; “quando io, da quanti anni ormai?, mi sono isolato e mi sono messo in disparte per scrivere, ho confessato la mia sconfitta come individuo sociale; mi sono escluso dagli altri per tutta la vita”.

Lo scrittore narrato in terza persona da Peter Handke è evidentemente un alter ego, amato e detestato, che ha fatto dello scrivere la ragione e il perno della sua intera esistenza, sacrificandola non tanto alla fama e al successo letterario, ma piuttosto alla ricerca di un modo per salvarsi dalla mediocrità e dalla falsità dei ruoli sociali.
Se obbliga se stesso ad uscire di casa, a camminare per le strade del centro, o in periferia, o in montagna, lo fa con disagio, temendo sia di essere riconosciuto sia di essere ignorato, fuggendo da voci e rumori, oppure implorandoli e avvinghiandosi ad essi come all’unica traccia vitale nelle sue ore silenziose.
Distanziandosi dall’ossessione di sé, trova a fargli compagnia la prima neve, il mendicante folle che urla la sua rabbia nel traffico, i fiori che resistono all’inverno, qualche timida conversazione in un’osteria: tornato alla sua solitudine, sono solo i tasti della macchina da scrivere, o l’annunciatore della radio, o il rubinetto che gocciola a scandirgli il tempo da vivere. “Non era strano che quasi soltanto i momenti in cui scriveva potessero dilatare a tal punto il luogo in cui risiedeva? Allora ciò che era piccolo diventava grande; i nomi non contavano più…”

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https://www.sololibri.net/Pomeriggio-di-uno-scrittore-Peter-Handke.html    11 gennaio 2018
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HANDKE

PETER HANDKE, L’ASSENZA – GARZANTI, MILANO 2001

Una fiaba con quattro protagonisti magici, sollevati da ogni materialità come in ogni fiaba che si rispetti, che Peter Handke scrisse nell’87, incastonandola tra due massime della sapienza taoista, quasi a voler indicare una direzione di lettura: la sospensione del giudizio, l’indistinguibilità di ogni accadimento pratico. Rolando Zorzi, nella sua sapiente traduzione dal tedesco, attentissima all’inventività lessicale e fedele alla costruzione sintattica dello scrittore austriaco, commenta ammirato la novità di questo testo, il suo taglio cinematografico: “lo sguardo impersonale e personale insieme, che riprende prima le cose e poi i personaggi in campi lunghi, medi, lunghissimi…”.

La narrazione, come quasi sempre in Peter Handke, procede con severa lentezza, descrivendo minuziosamente ogni aspetto degli interni e degli esterni, con gusto assolutamente pittorico, quasi stregato dall’immobilità dei personaggi e delle loro esistenze. Protagonisti presenti ma contemporaneamente del tutto assenti, privi di sentimenti (amore e odio non esistono, entusiasmo e delusione non vengono nemmeno sfiorati nel loro rapportarsi con il mondo): un vecchio, un soldato, un giocatore incallito, una donna. Tutti senza nome, senza passato o futuro, senza parole che esprimano volontà di dialogo: persi in un loro muto vagare privo di meta, in cerca di una sosta dall’agitarsi della vita frenetica che non comprendono e da cui volontariamente si escludono. Tutto sembra indistinto e intercambiabile: gesti, parole, paesaggi, vicende. Una cosa vale l’altra, nell’indefinitezza del nulla: “Credo in quei luoghi, senza fama né risonanza, contraddistinti forse dal semplice fatto che là non c’è niente, mentre intorno c’è qualcosa dappertutto. Credo nella forza di quei luoghi, perché là non succede più niente e non ancora niente… Esserci, esistere, per me è successo sempre e soltanto per poco tempo, mai per tanto”. L’assenza, quindi di tempi e luoghi, di storia e di vita. Ma persistere a lungo nel nulla può diventare faticoso, anche per il lettore più fedele.

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https://www.sololibri.net/L-assenza-Una-fiaba-Handke.html     30 gennaio 2018

 

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HANDKE

PETER HANDKE, DI NOTTE, DAVANTI ALLA PARETE CON L’OMBRA DEGLI ALBERI – SETTECOLORI, MILANO 2022

Un titolo lungo e suggestivo, quello che Peter Handke ha scelto per il corposo ultimo libro pubblicato in Italia, a indicare un tempo e un luogo determinato, di assorta meditazione ed essenziale solipsismo: Di notte, davanti alla parete con l’ombra degli alberi. Segni e presagi dalla periferia 2007-20015. Handke, nato in Carinzia sul confine tra Austria e Slovenia nel 1942, non è un autore facile, e ha fama di non essere persona facile. Drammaturgo, sceneggiatore, romanziere, poeta, saggista, premio Nobel nel 2019, ha lasciato il paese nativo, che sentiva estraneo alla propria vulnerabile sensibilità e scontrosa irriducibilità ideologica (come altri due straordinari scrittori austriaci del ’900, Thomas Bernhard e Ingeborg Bachmann) per girare il mondo, e infine rifugiarsi nei dintorni di Parigi, a Chaville, dove pare condurre una vita eremitica.

La casa editrice milanese Settecolori propone ora, con traduzione e cura di Alessandra Iadicicco, una densa raccolta di appunti diaristici, aforismi, riflessioni, bozzetti, scritti con stile pacato ed evocativo, colto e lieve, e inframmezzati da disegni, schizzi stralunati, fantasiosi arabeschi. Scrutanti l’abisso del pensiero sono perlopiù le riflessioni cui Handke si abbandona nel suo quotidiano peregrinare materiale e spirituale, in un continuo scandaglio emotivo e filosofico, di domande e risposte indaganti le forme della solitudine (“Essere soli non è una buona cosa – a prima vista”, “Mi piace così, da solo. – E hai ragione”), dell’assenza (“Verbo per l’assenza: lascia rinverdire”), dell’introspezione (“Dunque io resto un filosofo camuffato?” “Visto abbastanza? Ascoltato abbastanza? Niente affatto”, “Non c’è niente di grave, a parte me”).

Altri frammenti sono esortazioni morali, moniti didascalici, prescrizioni di comportamento, suggerimenti benevoli: “Accrescere l’esistenza”, “Buttare via molto più spesso, e con leggerezza!”, “Il tuo pensiero deve essere un rammentare”, “Non restare lì dove sei capitato”, “Si impara anche quando non si impara”, “Tu non ti stupisci abbastanza!” Chi scrive sembra avvertire come un dovere il proprio ruolo di maestro, di esempio e sprone educativo, volto ad allargare i confini ristretti dell’esistenza domestica, ampliando gli orizzonti mentali, sviluppando il respiro della coscienza in chi legge.

Alla stregua di una pratica ascetica, il semplice camminare, il girovagare solitari nella natura, il “Wanderung” celebrato letterariamente da molti scrittori di lingua tedesca, diventa cura dell’io, oltre che premura-attenzione-gratitudine per l’ambiente: “Devo arrivare così lontano da poter andare ancora oltre”, “Camminare, andare a prendere un volto”, “Ieri ho camminato lungo i margini – che cosa voglio di più?”, “Per gradi: vagare per piacere – vagare alla ricerca – vagare”. Uscire di casa, passeggiare da soli, senza meta, concentrati su ciò che accade dentro e fuori di sé, diventa controllo delle emozioni, e insieme libertà di espressione fisica, esercizio di membra e meningi.

Moltissime sono, tra le prevalenti intuizioni personali, anche le citazioni da autori classici e contemporanei, da film, musiche, proverbi, a significare che persino un premio Nobel ottantenne non smette mai di cercare saggezza, imparando dal passato, interrogandosi sul presente.

I disegni riportati nel testo, in bianco e nero, o colorati con pastelli scuri, riproducono in genere alberi e varia vegetazione, pioggia e ghiaccio sui vetri, oggetti casalinghi, visi umani con espressioni stupefatte o malinconiche: raffigurazioni comunque consone al tono meditativo e raccolto del narrato, “strategia per attingere una rivelazione”, come sottolinea la curatrice. Nell’ultimo schizzo è effigiato il rosone di Notre Dame de Paris, in data 13 novembre 2015, giorno degli attentati terroristici nella capitale francese, perché la storia collettiva non deve rimanere esclusa dal vissuto privato.

Un’ultima considerazione su questo importante e necessario volume va doverosamente fatta riguardo all’approfondita postfazione della curatrice Alessandra Iadicicco, che ricostruisce con appassionata competenza tutto il percorso biografico e intellettuale di Peter Handke, postillato da ben nove volumi di diari già pubblicati e da centinaia di taccuini inediti, in cui – parallelamente alla copiosa attività letteraria ufficiale – lo scrittore reagisce tramite la parola a ogni accadimento personale, percezione, impressione, sentimento: non utilizzando la pura descrizione, ma attraverso i riflessi che di essi serba il linguaggio. Nei Tagebücher (vero e proprio libro d’ore) di cui ci occupiamo, disegni e parole trascritti tra il 2007 e il 2015 si affiancano e sovrappongono, offrendosi reciprocamente bellezza, quando anche l’ombra degli alberi nella notte diventa palpabile illuminazione.

 

© Riproduzione riservata                  25 maggio 2022

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HARDY

THOMAS HARDY, L’OROLOGIO DEGLI ANNI – ELLIOT, ROMA  2022

Con traduzione, prefazione e note di Edoardo Zuccato, la casa editrice Elliot pubblica una scelta di poesie scritte da Thomas Hardy tra il 1857 e il 1928. Il titolo dell’antologia, L’orologio degli anni, è tratto dalla composizione omonima, in cui uno Spirito offre a un vedovo la possibilità di rivedere la moglie defunta nell’età da lui scelta. Ma il desiderio espresso dall’uomo non viene esaudito, e il fantasma evocato regredisce dalla maturità fino all’infanzia e al dissolvimento nel nulla.

Si tratta di un testo esemplare dello stile e delle tematiche privilegiate dall’autore inglese (1840-1828), che anche nei famosissimi romanzi (Via dalla pazza folla, Tess dei d’Uberville, Jude l’oscuro) prediligeva la narrazione di episodi minuti e frammentati, le immagini rapide e poco convenzionali, le descrizioni di interni ed esterni inospitali e quasi minacciosi. La relazione tra passato e presente, ugualmente insoddisfacenti se non addirittura tormentati, anima ossessivamente la maggior parte delle poesie, in cui la consapevolezza dell’irrecuperabilità del tempo trascorso, avvertita nella sua feroce ingiustizia, rende impossibile vivere con serenità un presente mutilato delle sue radici. Ogni perdita è irreparabile, e la memoria non riesce ad addolcire o salvare il ricordo, se non falsandolo per renderlo ancora più amaro e affollato di rimorsi.

L’approfondita introduzione di Zuccato insiste molto sull’importanza che gli avvenimenti biografici del poeta hanno avuto sulla sua produzione letteraria: la nascita clandestina, l’infanzia trascorsa in una famiglia modesta e priva di cultura, gli studi interrotti, i due matrimoni entrambi travagliati per ragioni diverse. Il senso di estraneità vissuto sia nella provincia originaria sia in una Londra avviata a una celere trasformazione industriale e cosmopolita, lo aveva reso aspramente critico nei riguardi della società, spietata nelle sue dinamiche di oppressione delle classi e degli individui più deboli e sfortunati.

In questa raccolta sono ricorrenti le rappresentazioni di funerali, tombe, spettri e reincarnazioni, e contesti in cui i protagonisti vengono ingannati, illusi, abbandonati o traditi nel loro fiducioso relazionarsi al prossimo e alle vicende della vita. Anche il rapporto con il destino individuale e storico è infatti problematico, poiché Hardy (agnostico, fatalista, darwinista), riteneva la realtà mossa da forze cieche e feroci, insensibili alle sofferenze di un’umanità innocente e incapace di difendersi.

L’ingenua freschezza di queste poesie esercita anche oggi sul pubblico un fascino discreto, per l’attenzione sensibile agli eventi minimi di vissuto quotidiano, nel reiterarsi di pochi e fondamentali contenuti. La natura (Guardando fuori all’alba stagno, / campo, gregge, albero solitario, / sembra mi fissino tutti / come bimbi in castigo in classe, muti”), caratteri umani particolari (“Le lasciavamo fare come voleva, / Judy era pazza, lo si sapeva), gli oggetti (“Scricchiola, legnetto, scricchiola, / se ti tocco con i gomiti o le ginocchia, / è il tuo modo di parlare / di quella che a me ti donò”), il tempo trascorso (“Noi due, io e il Passato, governavamo la casa, / io e il Passato; aleggiava su ogni cosa da fare / senza mai lasciarmi solo”), l’amore per la prima e la seconda moglie (“La baciai col pensiero andando / via nel chiarore del mattino: / sul vetro del suo ritratto la baciai: / lei non lo seppe mai”): e poi la crudeltà della guerra, le vessazioni economiche, il dolore della morte, la imperturbabile vastità del cosmo. Secondo Edoardo Zuccato, “Comico e tragico, elegia e satira, lirica e canzone, riflessione filosofica e ricordo si alternano senza un ordito definito, come avviene nella vita”.

La chiarezza del dettato, lodata anche da Ezra Pound, la musicalità ottenuta con un sapiente impiego delle rime, l’utilizzo teatrale di dialoghi e monologhi, hanno reso l’opera poetica di Thomas Hardy facilmente memorizzabile, e proponibile anche didatticamente: citata in eventi pubblici e nei media, è riprodotta in numerose antologie scolastiche. Formalmente, i versi si affidano a una metrica tradizionale, con grande varietà di forme strofiche, seguendo ritmi echeggianti la musica popolare e utilizzando frequenti dialettismi e arcaismi, volti a rendere i testi facilmente accessibili ai lettori coevi, sebbene letti con una certa condiscendenza dalla critica accademica. Ma la presente antologia rende giusto merito a un grande narratore che ha voluto e saputo misurarsi con la voce intima ed essenziale della poesia.

© Riproduzione riservata               «L’Indice dei Libri del Mese» n. 6, giugno 2022

 

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HECHT

ANTHONY HECHT, LE ORE DURE – DONZELLI, ROMA 2018

Di Anthony Hecht (New York, 1923Washington, 2004), la critica ha sempre sottolineato sia l’interesse per le tragiche vicende storiche del ’900 (la seconda guerra mondiale, a cui partecipò combattendo come fante in diversi paesi europei, e l’orrore dell’Olocausto, di cui fu testimone diretto durante la liberazione del campo di concentramento di Flossenbürg, nell’aprile del ’45), sia l’adesione a scelte formali severamente controllate e poco consuete, attraverso l’utilizzazione del pentametro giambico, con cui dava luogo a versi lunghi e complessi, dall’andamento narrativo, prediligendo la forma del poemetto rispetto alle composizioni brevi. Nato da genitori ebrei-tedeschi, studiò letteratura inglese al Bard College di New York, dove ora è sepolto: conobbe e frequentò i più importanti scrittori della sua epoca: da Jack Kerouac a Robert Lowell, Randall Jarrell, Elizabeth Bishop, Wystan Hugh Auden e Allen Tate. Professore universitario alla Rochester di New York e alla St. George di Washington, dagli anni ’50 fino alla morte pubblicò diversi volumi di poesia e vinse significativi premi (tra cui il Pulitzer nel 1968). In Italia sono stati editi solo I vespri veneziani (L’obliquo, Brescia 2012) e Le ore dure (Donzelli, Roma 2018).

Tratti da sei raccolte scritte da Hecht tra il 1967 e il 2001, introdotti da Joseph Harrison e resi in una sapiente e ardita versione da Damiano Abeni e da Moira Egan, i versi di quest’ultima antologia schiudono agli occhi del lettore un ventaglio di possibilità interpretative, offrendogli non solo molteplici puntelli culturali di riferimento (dalle Sacre Scritture al teatro elisabettiano, dai tragici greci al cinema, dalla mitologia all’arte figurativa), ma soprattutto una gamma di emozioni contrastanti cui abbandonarsi: ironia e spavento, brutalità e delicatezza, inquietudine e commozione, rabbia e pietà. A cominciare dalla poesia con cui si apre il volume, in cui il senso del paesaggio e dei suoi colori vivifica e riporta alla coscienza un ricordo assopito: “In Italia, dove cose così sanno accadere, / una volta ho avuto una visione – ma, capirete, / in nulla come quelle di Dante, o dei santi, / forse per niente una visione”. Nel paese europeo che più amava, Hecht camminava lentamente “in una piazza calda di sole”, circondato da amici e magnifici panorami, quando improvvisamente allo splendore di Palazzo Farnese si sovrappose l’immagine “di una collina color topo e brulla”.

Con un procedimento da lui spesso adottato, una memoria personale riaffiora dall’inconscio, a turbarlo, oscurando minacciosamente la possibilità di un abbandono sereno alla bellezza e alla positività dell’esistenza. In questo caso, la visione della collina aspra e desolata davanti a cui adolescente trascorreva le giornate invernali, irrompe ostile con un annuncio di negatività. Ma in altre poesie può essere una persona, un oggetto, un gesto o un dettaglio qualsiasi a indicare che il male può avventarsi inatteso, imprevedibile, a inquinare il corso della storia individuale e collettiva. Così, nel “mondo di struggimento” che Hecht ama descrivere, troppo spesso bagnato da “inevitabili lacrime”, in cui anche l’ambiente più banale, tetro o squallido viene riscattato da un’aspirazione alla bontà (“le punte minuscole dei crochi / che si fanno strada nella luce tra cumuli di neve”), e giustificato persino nella sua bruttezza o crudeltà (“Chi avrebbe mai pensato / a un qualsiasi altrove?”), una matura cameriera che cerca conforto per una delusione amorosa nelle riviste patinate offerte ai clienti del suo albergo, solo osservando un grappolo d’uva su un tavolo apparecchiato intuisce “un profondo segreto dell’universo”, cioè la caducità e l’insignificanza di tutto ciò che accade, e a cui è saggio rassegnarsi. Anche una giovane donna malata di leucemia, preferendo non ricevere visite consolatorie dai parenti, si aggrappa al poco bene intravisto intorno all’ospedale: “pare non mi importi molto della fine, / di come tutto si sistemerà, se si sistemerà. / Invece siedo alla finestra, / guardo gli alberi di fronte”. L’ immagine esterna dell’intreccio dei rami, descritta con acuta sensibilità pittorica, le ricorda il giocattolo di un’amichetta, L’uomo trasparente nel cui corpo di plastica erano visibili gli organi interni, e tutto l’apparato circolatorio di vene e arterie rosse e blu. Mondo vegetale e fisico umano nascondono misteri insolubili, è illusorio pretendere “di poter guardare oltre, e comprendere il mondo”.

Incomprensibile rimane soprattutto la malvagità gratuita, con cui le persone si comminano reciprocamente dolori e cattiverie, in tutte le epoche e latitudini: la governante teutonica fornita di “quel gusto particolare per il dolore inflitto” che terrorizza con sadica severità il bambino ebreo in sua custodia, profetizzandogli persecuzioni a venire; o il centurione romano costretto a osservare il suo imperatore mentre viene scuoiato vivo (“la pelle venne affidata a uno dei loro sellai / che la doveva conciare, imbottire e cucire. A che scopo?”). Nella descrizione dei personaggi (specialmente felici sono i ritratti femminili), Anthony Hecht accompagna ai dati concreti e attuali, fisici e caratteriali, le fantasticherie e le elucubrazioni più imprevedibili, i rimpianti del passato e le speranze per il futuro, le delusioni e i desideri di vendetta.

La bellezza è ovunque (negli alberi, nel profumo di rosmarino, nei corvi “becchini” sui rami, nella neve e nelle nuvole, in tutti i colori della tavolozza di un pittore devotamente impegnato a “catturare quanta verità sia possibile”). Ma pure la colpa e lo sfacelo sono dappertutto, e l’elenco è impietoso: nella coppia di sposi che si sta separando con “duro non sentire”, nei malati di Aids (“l’intera / ciurma d’innocenti”), in una vittima torturata da aguzzini (“sorvegliata giorno e / notte da giovani pretoriani muniti di smartphone”), in Giuditta che vendica su Oloferne tutti i soprusi subiti dai maschi (“Anche i più fiacchi, nelle loro fantasticherie, / trionfano come atleti sessuali”), nella fidanzata abbandonata che si punisce con sesso e droga, per poi suicidarsi (“Due anni per lo più felici. / In tutto quel tempo cosa hai imparato di me? // … E quando te ne sei andato ho preso una brutta china”). Ma è innanzitutto il bambino ebreo de Il Libro di Yolek, in una tra le composizioni più drammatiche e commoventi del libro, a impersonare la sofferenza innocente della vittima sacrificata da un carnefice ottuso e spietato: “Yolek che era debole di polmoni, e nemmeno un giorno / oltre i cinque anni, cui si impose di lasciare il pasto / e trascinarsi tra guardie armate”.  Il nazismo, la guerra, i campi di concentramento, essendo stati vissuti e partecipati direttamente dal poeta, tornano con un incubo ricorrente nei suoi versi, emblema del male assoluto e ingiustificabile (“ma per anni continueranno le urla, notte e giorno. // … La sera, Padre, al buio, quando imploro, / io sono là, io sono là”, “Perché tutto ciò mi scuote tanto, come un codice segreto / o un presagio attutito / di intenti ed eventi preordinati?”, “Sto in piedi al freddo sotto un pino / appena prima dell’alba, non so bene dove in Germania, / con un fucile Garand, freddo e bagnato, tra le mani”).

Il dolore sperimentato da soldato tormentò Hecht per anni, costringendolo addirittura a un lungo ricovero in clinica psichiatrica, e lo investì della missione di farsi testimone indignato di quella terrificante esperienza: “a me sta il compito di trovare parole / per ricordare come si deve // coloro che s’accalcano fitti / con numeri blu tatuati / di traverso sulle arterie, / gli ebrei che bruciano, muti”, “Chi non impara dalla storia / ha come maledizione il compito di ripeterla”.

Nei poemetti di questa antologia ‒ argomentati razionalmente, documentati storicamente, attenti all’introspezione psicologica dei personaggi ‒, Hecht assume con orgogliosa consapevolezza il ruolo di portavoce di un’etica calpestata da recuperare, in nome di una dignità che riguardi non solo il genere umano, ma anche tutto ciò che è vivo e respira, che è passato ma rimane fondamentale nella cultura e nella storia universale. Non rinunciando all’ironia e addirittura al sarcasmo, riesce tuttavia a farsi interprete della resistenza civile a ogni sopruso e ingiustizia, con la religiosità laica di un non credente convinto della necessaria affermazione del bene. Se il suo impegno di poeta si esprime nell’eccellenza di una scrittura complessa, erudita, studiata nella struttura metrica, nell’uso sapiente delle rime, in una sintassi elaborata, l’impegno di uomo lo rende (come scrive nell’importante prefazione Joseph Harrison, sottolineando “il suo interesse per l’analisi, profondamente umana e spesso dolorosa, di chi siamo, di cosa abbiamo fatto gli uni agli altri e a noi stessi”), “il più limpido cronista della disumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo, sia che il teatro di tale crudeltà fosse pubblico sia che fosse privato”.

 

© Riproduzione riservata        «Nazione Indiana», 23 gennaio 2019

 

 

 

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HEIDEGGER

MARTIN HEIDEGGER, IL CONCETTO DI TEMPO – ADELPHI, MILANO 1997

Ne Il concetto di tempo, conferenza tenuta nel 1924, Martin Heidegger si interroga sul concetto di tempo come carattere costitutivo dell’esistenza umana, ponendo le basi per la riflessione più approfondita esplicitata in Essere e tempo, del 1927.
Partendo da Aristotele, e attraversando Le Confessioni di Agostino (di cui mantiene la fondamentale scansione tra passato-presente-futuro), Heidegger introduce un nuovo e inesplorato collegamento tra il tempo e l’essere, “l’esserci”, soprattutto considerato nella dimensione della progettualità.
Se quindi il passato è irrecuperabile, è un “non più”, e il presente è «il cattivo presente della quotidianità… vanità, pretesti, verbosità…brigare, affaccendarsi…», (perdersi, quindi, nel nulla del banale e del superficiale), il “come” autentico del nostro “esserci” si attua solo nel futuro, nel precorrimento. «Il precorrimento (Vorlauf), in quanto mette l’esserci di fronte alla sua possibilità estrema, è l’atto fondamentale dell’interpretazione dell’esserci (…) L’essere futuro dà tempo, forma pienamente il presente e consente di ripetere il passato nel ’come’ del suo essere stato vissuto».

All’esplicita svalutazione del presente – della moda, delle correnti, di ciò che succede – fa da pendant la svalutazione della storia – bisognerebbe arrivare di nuovo…a ciò che sta di sopra della storia; (…) l’esistenza odierna si è perduta nella pseudo-storia presente -, e ne consegue un’indicazione perentoria nella sua inapplicabilità: «per questa via immaginaria che porta alla sovrastoricità si dovrebbe trovare la visione del mondo». Ma nell’attualità della storia si può inciampare, verrebbe da commentare alla luce delle scelte esistenziali e politiche di Martin Heidegger: e magari cadere nel pozzo di Talete, divertendo la servetta trace.
Il fascino della filosofia heideggeriana rimane comunque inalterato. E questo libricino – da meditare – è corredato da un utile glossario e da un’interessante prefazione di Franco Volpi.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Il-concetto-di-tempo-Heidegger.html 16 giugno 2016

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HEIDEGGER

MARTIN HEIDEGGER, ORMAI SOLO UN DIO CI PUÒ SALVARE – GUANDA, PARMA 2011

«Entra. Sorprende il suo aspetto. Piccolo, piccolissimo, in costume regionale grigioverde dai risvolti ricamati, indossa dei knickers. Mi sconcerta il suo aspetto di contadino un po’ tarchiato, vestito a festa. Capelli d’argento, l’occhio nero, lo sguardo acuto, appare stanco. Una certa tristezza si legge sul viso dalle guance scavate, qualcosa di tragico… Un provinciale curioso che non si sarebbe mai avventurato fuori dalla sua terra natale». Con queste parole lo descrisse il suo discepolo Frèdèric De Towarnicki (1920-2008), incontrando per la prima volta a venticinque anni nel 1945 Martin Heidegger nella sua casa di Zähringen. Il rapporto tra i due durò circa un trentennio, in maniera discontinua e problematica: originale, anticonformista, vulcanico l’allievo; meditativo, austero, criptico il filosofo. Tornato nel periodo della protesta sessantottesca a visitare il Professore ormai vecchio, deluso, isolato, De Towarnicki osò chiedergli il motivo del suo tragico errore del 1933, contestandogli duramente la collaborazione con il nazismo. «Dummheit», rispose allora Heidegger: «Stupidità».

Fu solo stupidità, quindi, leggerezza, grave incomprensione del fenomeno storico, quella che portò il massimo interprete novecentesco della questione dell’Essere, a rispondere positivamente all’invito di Hitler che, con il consenziente accordo del Senato Accademico, gli assegnava il rettorato dell’Università di Friburgo? Un volume pubblicato da Guanda nel 1987, e riedito nel 2011, curato e introdotto con intelligenza e passione da Alfredo Marini, ci offre l’intervista che il filosofo di Messkirch concesse a due animosi inviati dello Spiegel il 23 settembre 1966, uscita per volontà di Heidegger solo dopo la sua morte, nel 1976. Ormai solo un dio ci può salvare fu la risposta data a una domanda sull’inevitabile declino del pensiero umanistico occidentale, prevaricato dalla tecnica e dall’economicismo. Il tramonto della filosofia, sostituita da scienze particolari (psicologia, logica, politologia, cibernetica), sembrava a Heidegger inevitabile, a meno che l’umanità non fosse in grado di risvegliare tradizioni antichissime del «pensare», radicate soprattutto nell’insegnamento dei classici greci, o nella visionarietà dei poeti. Una proposta senz’altro elitaria, conservatrice e insieme utopistica, la sua, che forse oggi trova alleati nei fautori della decrescita e negli ecologisti: «Oggi tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra».

Nelle parole di George Steiner, che dedicò – da ebreo – il libro forse più obiettivo e credibile (oltreché piacevolmente chiarificatore) al pensiero heideggeriano, la figura intellettuale e morale del filosofo tedesco non va ridotta al suo discutibile e comunque marginale ruolo politico negli anni del nazismo, ma rivalutata come insigne autorità in ogni campo della riflessione teorica del ‘900. Attraverso una dialettica tortuosa e irrisolta ma dinamica, sempre in ricerca lungo un «sentiero» che conducesse a una «radura» illuminata nell’oscurità del bosco che ci circonda, Heidegger ha influenzato tutta la filosofia, la teologia, la psicanalisi, l’estetica e la linguistica contemporanea, da Sartre a Derrida, da Bultmann a Rahner, da Gadamer a Lacan (e in Italia, da Severino a Galimberti e a Cacciari). Il suo richiamo a un necessario ritorno alla «dimora dell’Essere», all’autenticità dell’«esserci» nella realtà del mondo, attraverso la «cura», la preoccupazione per gli altri, e la riscoperta della verità, attingibile nell’arte e nella poesia, ha pervicacemente sottolineato il dovere umano di porsi delle domande sul significato dell’esistenza (perché l’essere, cos’è l’essere?) e, secondariamente, quello di provare meraviglia e gratitudine nei confronti del semplice e momentaneo vivere nel tempo.

Proprio indagando il concetto di tempo, Heidegger intuì l’importanza fondamentale della progettualità, di un divenire che sovrasta passato e presente per proiettarsi in un domani di salvezza. Se il passato è irrecuperabile, è un «non più», e il presente è «il cattivo presente della quotidianità… vanità, pretesti, verbosità… brigare, affaccendarsi…», (perdersi, quindi, nel nulla del banale e del superficiale), il «come» autentico del nostro «esserci» si attua solo nel futuro, nel precorrimento. «Il precorrimento (Vorlauf), in quanto mette l’esserci di fronte alla sua possibilità estrema, è l’atto fondamentale dell’interpretazione dell’esserci (…). L’essere futuro dà tempo, forma pienamente il presente e consente di ripetere il passato nel ‘come’ del suo essere stato vissuto». All’esplicita svalutazione del presente – della moda, delle correnti, di ciò che succede – fa da pendant in Heidegger la svalutazione della storia («bisognerebbe arrivare di nuovo… a ciò che sta di sopra della storia; (…) l’esistenza odierna si è perduta nella pseudo-storia presente»), da cui fa conseguire un’indicazione perentoria nella sua inapplicabilità: «per questa via immaginaria che porta alla sovra-storicità si dovrebbe trovare la visione del mondo».

A una tale interpretazione complessa, radicale e utopica del porsi umano nel mondo, si può senz’altro rimproverare una miopia effettiva e gravida di conseguenze riguardo agli avvenimenti catastrofici che portarono l’umanità al delirio delle persecuzioni naziste, della Shoah e della seconda guerra mondiale. Ed è ciò che fecero i giornalisti dello Spiegel nelle loro domande incalzanti, polemiche, a tratti sarcastiche sulla collaborazione di Heidegger con gli apparati dirigenti del Terzo Reich. Il filosofo si difese allora strenuamente, puntualizzando, presentando documenti e testimonianze, contestando sia dicerie popolari sia processi ideologici, appellandosi al diritto-dovere del filosofo di travalicare la contingenza della cronaca per approdare a una verità equidistante da qualunque moderna ideologia di massa (comunismo, nazismo, cristianesimo), nel compito di riconquistare la forma suprema dello spirito. Ma se l’accettazione dell’incarico di rettore a Friburgo nel 1933 fu un errore tattico prontamente espunto, indotto dall’ingenua convinzione di dover consolidare l’autoaffermazione dell’Università tedesca (errore pagato in seguito con una stretta sorveglianza poliziesca, l’emarginazione culturale e l’interdizione da qualsiasi incarico didattico), ben più grave risultò il silenzio di Heidegger sui campi di concentramento e sullo sterminio degli ebrei, che gli meritò l’accusa di antisemitismo, mai del tutto smentita.

La discrepanza tra un grande pensiero e una piccola biografia, tra lo studio dell’Essere in quanto tale e la baita di Todtnauberg in cui il filosofo-contadino si rifugiò («Fumiamo in silenzio le nostre pipe»), continua ad aleggiare come la più grave delle colpe sulla sua figura di intellettuale: pavido, reazionario, antidemocratico, indifferente alle sorti storiche del mondo che banalmente «mondeggia». Così il Maestro, figlio di un bottaio-sacrestano della Foresta Nera, si difendeva in una lettera, riconoscendo come unico tribunale la propria coscienza: «Credo di avere la vocazione interiore alla filosofia e, attuandola nella ricerca e nell’insegnamento, credo di fare ciò che le mie forze mi permettono per la destinazione eterna dell’uomo interiore, e così credo di giustificare da solo dinanzi a Dio la mia esistenza e il mio operare».

 

© Riproduzione riservata               «Il Pickwick», 5 luglio 2018

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

HEIDEGGER

MARTIN HEIDEGGER, CHE COS’È LA METAFISICA? E ALTRI SCRITTI – goWare, FIRENZE 2018

Nato come lectio magistralis tenuta da Martin Heidegger nel 1929 all’Università di Friburgo, Che cos’è la metafisica?, testo fondamentale della filosofia novecentesca, è stato successivamente arricchito dall’autore con un Poscritto nel 1943 e una nuova Introduzione nel 1949. Oggi viene riproposto dalle edizioni fiorentine goWare con un’ampia prefazione del curatore Federico Sollazzo, e due importanti contributi di Hans-Georg Gadamer e di Armando Carlini, a cui si devono anche la traduzione, le note e il commento del saggio.

Nella sua approfondita presentazione, il prof. Federico Sollazzo (docente di Continental Philosophy presso l’Università di Szeged, Ungheria) introduce i concetti-chiave delle tesi espresse da Heidegger, a partire dalla definizione stessa di metafisica e dalla contrapposizione tra filosofia e scienza, per arrivare alla necessaria inattualità del pensiero filosofico e al recupero della sapienza degli antichi greci.Metafisica è quindi quella specifica forma del pensiero che si interroga sulla relazione tra il “qualcosa” e il “niente”, e sulla domanda “perché l’essente e non piuttosto il niente”, con cui il filosofo di Meßkirch chiude il testo in questione. Metafisica e scienza divergono proprio nell’atteggiamento di fronte al nulla, poiché mentre la prima medita sull’origine della totalità e sull’Essere, l’indagine scientifica è interessata esclusivamente alle cose, ai dati di fatto, “all’essente stesso”, negli ambiti di discipline particolari, spesso sconnesse tra di loro.

Il breve saggio di Heidegger si sofferma soprattutto sull’analisi del concetto di niente, nella sua opposizione all’essente, recepito da noi come “straneità, l’assolutamente altro – dirimpetto al niente”, che ci procura angoscia. Il niente nientifica, perché rimanda al suo opposto, all’essente che scompare nella totalità. Essere, essente, niente appartengono alla terminologia heideggeriana, sempre di controversa interpretazione, quanto mondità e angoscia, e i notissimi “Dasein” e “Sorge”, illustrati in Essere e Tempo. I tre filosofi che in questa pubblicazione commentano il testo (Sollazzo, Carlini e Gadamer), pur sottolineando l’assoluta e dirompente originalità del filosofo tedesco, ne indicano le suggestioni tratte dai greci e dal cristianesimo, da Kierkegaard e Nietzsche, analizzando l’evoluzione delle sue teorie a partire proprio dall’opera esaminata, a cui non risparmiano acute critiche per alcune incongruenze metodologiche. Cosa davvero si deve intendere per Essere? Heidegger non propone nessuna mistica o religione dell’Essere, non pretende di spiegare perché esiste ciò che esiste (un inconoscibile che rimane avvolto nel mistero), ma afferma che tutto ciò che l’uomo può fare è tenersi aperto, e quindi vigile, all’incontro con questo perché. Quella heideggeriana è pertanto configurabile come una metafisica dell’immanenza, che non cede tuttavia al richiamo mondano delle questioni particolari e attuali, non segue le mode rischiando di abbassarsi al buon senso comune, non si impara come un mestiere o una tecnica: “La sola cosa che si possa dire è quello che la filosofia non può essere e non può dare”.

Il pensiero filosofico deve essere inattuale, non deve coincidere con l’oggi, ma mantenersi fuori tempo, senza lasciarsi assorbire dal presente, decaduto da quando ha privilegiato un tecnicismo indifferente e ripetitivo obliando l’Essere. Heidegger svaluta il pensiero rappresentativo, che ha dominato l’occidente da Platone a Nietzsche, in favore di un pensiero riflessivo, rammemorante, evocativo, preplatonico: l’unico capace di farci esperire la nostra appartenenza all’Essere. Non si tratta di rimpiangere il passato, ma di recuperare il “già stato” che perdura, e può sperabilmente rinascere in futuro. Un Martin Heidegger più rivoluzionario che reazionario, quello proposto da questa nuova edizione di Che cos’è la metafisica?, in grado di offrire arricchenti spunti di riflessione, un corredo esauriente di note, una ricca bibliografia e brani significativi della Lettera sull’ “Umanismo”.

 

© Riproduzione riservata     

https://www.sololibri.net/Che-cos-e-la-metafisica-E-altri-scritti-Heidegger. html      9 ottobre 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

HELD

RICCARDO HELD, MISHKIN – EINAUDI, TORINO 2024

Mi piace iniziare il commento a quest’ultimo, originale libro di versi di Riccardo Held, Mishkin, prendendo in considerazione la toccante prosa finale, che il poeta dedica alla memoria del suo gatto Mishkin, intitolando a lui addirittura l’intera raccolta. Un gatto particolare, appartenente a “un altro ordine dell’essere”, “una concentrazione inspiegabile di bene incondizionato”, “creatura infinitamente più complessa, sorprendente, strana, significativa e più simile a una cosa che non so chiamare in altro modo se non bene assoluto”.

La stessa acuta sensibilità ed empatia nei riguardi di ciò che è altro da noi, e pure ci assomiglia, ritroviamo se dalla pagina conclusiva del volume si risale alla prima sezione, “Andata”, in cui un centinaio di brevissime composizioni – giocose, spiazzanti, ironiche e insieme provocatoriamente meditative –, hanno come protagonisti animali, vegetali, oggetti, idee continuamente mutanti e indefinibili.

Ereditando una tradizione minoritaria della nostra letteratura, ma  presente e vivace già nell’antichità e nel medioevo (da Giovenale a Cecco Angiolieri, Lorenzo de’ Medici e Francesco Berni), attraverso l’800 di Giusti e dei grandi dialettali (Porta, Belli, Pascarella, Trilussa), per arrivare al ’900 dei futuristi e di Palazzeschi, fino ai contemporanei Fosco Maraini, Giulia Niccolai, Toti Scialoja e Gianni Rodari, la poesia “che si diverte” e “fa divertire” scardina ogni pretesa rigidità del testo, mettendo in crisi l’orizzonte di attesa del lettore. L’esempio più calzante cui fare riferimento rimane comunque quello del limerick anglosassone, di cui fu rappresentante insigne Edward Lear: cinque versi severamente regolamentati improntati a un umorismo più o meno pungente.

Gli strumenti usati da Riccardo Held nella sua produzione sono i più vari: nonsense, satira, parodia, grottesco, paradosso, contraddizione, lapsus, calembour, incoerenza lessicale, scelti alternativamente per creare situazioni imprevedibili, incarnazioni ibride e fluttuanti, ruoli imposti che si vorrebbero sovvertire. Ecco quindi una candela che non vede l’ora di spegnersi, una coperta stanca di stare sopra il letto anziché sotto le lenzuola, un leggio desideroso di poter osservare dall’alto il libro che sostiene, un quadro astratto occhieggiante con invidia una natura morta cinquecentesca. E poi insetti, pesci, uccelli che involontariamente si trovano a fare coppia con animali molto dissimili. I titoli delle composizioni sembrano ideati a bella posta per depistare il lettore: (New economy) “La cicala non canta / Lavora e si affatica / E quando il freddo avanza / Soccorre la formica”. Troviamo capovolgimenti di situazioni: (Fiaba triste) Un principe bellissimo / Colpito da malocchio / Desidera moltissimo / Trasformarsi in ranocchio”; giochi di parole: (Nuove coppie) Ad Asti all’asta un istrice / Si aggiudica un Vermeer / – Lo appendo – dice all’astice / – Nel nostro pied-à- terre”; sarcasmo ideologico: (Atti del convegno di linguistica): “Se la lasci un po’ in pace / La lingua non si offende / Lo dice pure Chomsky / Che certo se ne intende”.

E poi filosofi, pittori, scienziati, divinità mitologiche, tartarughe parmenidee e libellule rivoluzionarie: un microcosmo di esseri intenti a riflettere le contraddizioni della storia e del pensiero umano, schiudendo “tesori sempre nuovi / di saggezza e virtù e conoscenza!”

Le altre due sezioni che compongono il volume (Pausa e Ritorno) appaiono più intimiste e tradizionali, sia nella strutturata eleganza dei sonetti sia nei ricalchi dai classici. Un ricomporsi non solo formale, recuperando echi gozzaniani e crepuscolari, ma soprattutto esistenziale quello che il poeta si propone di conquistare, dopo tanto tempo e tanto studio trascorso a sporgersi fuori di sé: un recupero di interiorità e di memoria (“Spostarsi appena, mettersi al riparo”), per ritrovare voci e immagini perdute: dell’infanzia, della madre, dell’ispirazione poetica. Alla ricerca delle proprie ombre, da rivalutare nella loro generosità protettiva (“Eccomi qui di nuovo / Nel mio luogo di sempre / Dentro la chiesa scura del mio cuore / Che stupido pensare / Di poterlo lasciare”), vincendo i demoni che oscurano la gioia di vivere, e bloccano in un egoismo smemorato della sofferenza altrui.

Riccardo Held (Venezia 1954) vive tra Venezia e Vienna, occupandosi di teatro, musica, traduzione, critica letteraria.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 14 settembre 2024

RECENSIONI

HEMINGWAY

ERNEST HEMINGWAY, NEL NOSTRO TEMPO – XEDIZIONI, CAGLIARI 2022

Ernest Hemingway (1899-1961) pubblicò la sua prima raccolta di racconti nel 1924, col titolo originale “in our time” (tutto minuscolo come nella preghiera anglicana a cui fa riferimento). Il volume, uscito in piccola tiratura per la “Three mountain Press”, fu messo poi in vendita nella famosa libreria parigina “Shakespeare & Company”, che all’epoca il venticinquenne autore frequentava con assiduità, insieme al gruppo di artisti riuniti intorno alla carismatica figura di Gertrude Stein.

La piccola casa editrice cagliaritana Xedizioni ripropone ora quest’opera d’esordio poco nota in Italia, servendosi della traduzione del Consorzio Zero37, blog collettivo di lettere e cultura con la passione della tipografia elettronica. Dal libro è stato tratto un film nel 1961, Adventures of a Young Man, con la regia di Martin Ritt.

Si tratta di quindici racconti, ciascuno dei quali è preceduto da una breve prosa avulsa dal testo che lo segue immediatamente, ma collegata ad esso perché riferita allo stesso protagonista: Nick Adams, un ragazzo del Nord Ovest degli States, figlio di un medico che presta la sua opera in una riserva indiana. Nei brani più estesi possiamo ritrovare tutti i temi della produzione maggiore di Hemingway: dalle scene di guerra combattute in Europa nel primo conflitto mondiale alle sbronze tra amici, dal tifo del pubblico nelle corride in Spagna alle schermaglie amorose di coppie dell’alta borghesia americana.

Si riconoscono quindi i tratti biografici della vicenda umana dell’autore, e soprattutto la sua sensibilità nei riguardi della sofferenza di tutto ciò che esiste, compiendo e patendo violenza: uomini, donne, bambini, ma anche gli animali nella foresta, i pesci nei fiumi, gli alberi abbattuti, i tori infilzati nell’arena.

Nick adolescente assiste il padre che pratica un parto cesareo a una giovane squaw, mentre il marito terrorizzato si taglia la gola col rasoio. Nick ragazzo tronca brutalmente i rapporti con la fidanzatina per timore di rimanere incastrato dalla fagocitante famiglia di lei. Nick quasi adulto fa a botte con un ubriacone deforme e scappa di notte lungo i binari della ferrovia, senza una vera meta da raggiungere. Nick soldato difende una fortificazione alleata sparando contro i tedeschi con la stessa indifferenza con cui osserva la propria ferita alla schiena. Nick reduce torna in patria senza nessuna voglia di riprendere il suo posto nella vita civile. E poi le discese con gli sci tra le montagne in Svizzera, le discussioni intellettuali sui romanzieri inglesi, le corse dei cavalli negli ippodromi italiani e francesi, la pesca solitaria delle trote nelle acque limpide trai boschi.

È comunque lo stile di questi racconti, frammentari e talvolta solo abbozzati, che fa già riconoscere la magistrale perizia dell’Hemingway maturo: conciso, privo di retorica o sbavature descrittive, scevro di qualsiasi psicologismo fasullo, rapido come nelle cronache del giornalismo sportivo: puramente denotativo, mai carico di introspezione retroattiva. Una modalità di scrittura che ha segnato un discrimine nella letteratura occidentale, tra la sontuosità ottocentesca e la scialba futilità della narrativa contemporanea. Perché elegante e sorvegliata senza pesantezza, imitata da tutti gli scrittori americani del dopoguerra, e poi esportata ed emulata anche in Europa.

Dice il proverbio che il buongiorno si vede dal mattino, e il mattino del giovane Ernest è stato da subito molto luminoso.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › … › Nel nostro tempo di Ernest Hemingway

17 novembre 2022