Mostra: 621 - 630 of 1.319 RISULTATI
RECENSIONI

HUERTA

EFRAÍN HUERTA, POEMINIMI – IL PONTE DEL SALE, ROVIGO 2024

Il messicano Efraín Huerta (1914-1982), è stato l’inventore di un particolare genere letterario, i Poeminimi, composizioni brevissime che hanno come caratteri essenziali condensazione, sintesi, precisione, ironia, memorabilità. La colta ed empatica postfazione di Stefano Strazzabosco mette in luce la particolarità di questi “versicoli virali, insieme fulminanti, passionali e cinici”, capaci di creare un fulminante cortocircuito irriverente e caustico nei riguardi dei vizi pubblici e privati di un’epoca, di una nazione, e dello stesso loro autore.

Ironico e autoironico, Huerta sapeva prendersi in giro, in particolare nel suo ruolo pubblico di intellettuale e scrittore:

Minaccia: “Beati / I poeti / Poveri / Perché / Di essi / Sarà / / Il regno / Dei / Suoli”; Ahi Poeta: “Prima / Di tutto: / Mi compiace / Enormissimamente / Di essere / Un buon / Poeta / Di seconda classe / Del / Terzo / Mondo”; Handicap: “Non posso / Smettere Di / Scrivere / Perché / Se mi fermo / Mi raggiungo”; Maximinima: “Solo / A forza / di poesia / Si smette / Di essere / Poeti / per forza”.

Altrettanto frequente era nei suoi versi l’ammiccamento erotico o la sfrontata dichiarazione d’amore per la bottiglia:

Imprendotoriale: “Il mio amore / Per te / Per lei / Per voi / Per l’(e) altra (e) / È un / Frutto diretto / Della più pura / Iniziativa Privata”; Immenso dramma: “Tutte / Le donne / Che amo / Sono sposate / Persino la mia!”; Miss Himalaya: “È vero / Amore mio / I tuoi seni / Sono il / Petto del / Mondo”; Ordinamento: “Non / Bere / Domani / Quello che / Puoi / Bere / Oggi”; Galileica: “E / Pur / Si / Beve!”

Tutti provvisti di titoli, spesso sarcastici o fuorvianti, i Poeminimi trovano la loro specificità nell’allusività (non sempre subito avvertibile), nella deformazione, sostituzione o nello slittamento morfologico del testo. Secondo una dichiarazione dello stesso autore, il loro segreto è la capacità di “dislocare e alterare”, creando così alternativamente nei lettori attesa, sorpresa, divertimento. Pur attraverso lo scherno e la derisione, un richiamo etico si avverte nella polemica sofferta nei riguardi della politica trasformista e corrotta. Da stalinista mai pentito, negli anni ’60 Efraín Huerta si erge ad accusatore delle violenze antipopolari che provocano stragi nel suo paese, delle pesanti ingerenze degli Stati Uniti, dei regimi dittatoriali che di impongono nel sangue in tutta l’America Latina.

Sterile: “Teorico / Di tutto / Militante / Di niente”; Sconcerto: “I miei / Vecchi / Maestri / Di marxismo / Non li posso / Capire: / Alcuni sono / In prigione / Altri sono / Al / Potere”; Di classi: “Non c’è / Peggior / Lotta / Di quella / Che / Non s’è / Fatta”; Pinochet: “Ah / Maledetto!/ Tutto / Lo pagherai / Con la / Stessa / Moneda”; Sinistra parafrasi: “ Odio / L’odore / Dei marines / Che bombardano / E se ne vanno / Un bombardamento / in ogni porto / I marines / Bombardano / E se ne vanno”.

 

© Riproduzione riservata            «SoloLibri», 22 settembre 2024

 

 

 

 

RECENSIONI

HUGHES

LANGSTON HUGHES, QUEER NEGRO BLUES – MARCO SAYA EDITORE, MILANO 2023

Queer Negro Blues è il primo libro uscito in Italia interamente dedicato alle due raccolte giovanili di Langston Hughes, edite tra il 1926 e il 1927 (The Weary Blues e Fine Clothes to the Jews), accolte positivamente dal pubblico statunitense, ma criticate dalla stampa afroamericana a causa della eccessiva veridicità con cui affrontavano aspetti della cultura nera ritenuti censurabili.

Hughes, nato nel 1901 a Joplin, nel Missouri, trascorse l’infanzia nel Midwest e in Kansas con la madre e la nonna, trasferendosi dopo il diploma in Messico presso il padre, con cui ebbe sempre rapporti conflittuali. Scrittore precoce di poesie, reportage, saggi e romanzi, appassionato viaggiatore ed esploratore di paesi africani, asiatici ed europei, già negli anni’20 aveva stretto intensi rapporti con esponenti della Harlem Renaissance, mettendosi in luce per il suo impegno politico e sociale, vicino alle posizioni comuniste della International Labour Defense, soprattutto dopo i suoi soggiorni a Cuba e ad Haiti. Gli esordi letterari del poeta coincisero con il periodo d’oro del modernismo, aperto dalle opere fondamentali di Eliot, Pound, Marianne Moore, Crane, Wallace Stevens, William Carlos Williams: autori attenti soprattutto a una rivoluzione formale della scrittura in versi. Contemporaneamente però si imponeva, a New York e più specificamente ad Harlem, un movimento radicalmente rivoluzionario, deciso ad affrontare temi fino ad allora poco trattati in poesia, come il razzismo, i diritti civili, la libertà di espressione, l’uguaglianza sessuale, lo sfruttamento dei lavoratori, il rifiuto dei valori della middle-class bianca. La fiera assunzione della propria “negritudine”, come appartenenza a un popolo di ex-schiavi, lavoratori sfruttati, vittime di soprusi e torture, viene proclamata in diverse poesie, già dall’iniziale Proem (“I am a Negro: // Black as the night is black, / Black like the depths of my Africa”), e ancora in The Negro Speaks of Rivers, A Black Pierrot, e nella famosissima Epilogo (“Io, anche io, canto l’America. / Io sono il fratello, quello più scuro. / Mi mandano a mangiare in cucina / Quando viene gente, / Ma io rido, / Mangio bene, / E cresco forte”), o nell’accorata protesta rivolta a The White Ones (“O, potenti bianchi, / Perché mi torturate?). Ma giustamente non reprime l’indignazione verso i neri che sfruttano, picchiano e violentano le donne, le abbandonano gravide, inducendole alla prostituzione o al suicidio; offre loro la sua voce, pietosa e solidale, raccontandone in ballate d’amore il destino tragico e rassegnato.

Il curatore dell’antologia Alessandro Brusa si interroga sul modo più opportuno di tradurre il termine “nero”: coloured, black, negro, usati dal poeta in maniera intercambiabile. “Negro” è certamente il termine più storicamente attestato e utilizzato, ma anche il più legato a un’idea di razza pregna di luoghi comuni e pregiudizi. Hueghes se ne riappropria aggressivamente, per stigmatizzare ogni discriminazione basata sul colore della pelle. Negli anni ’70 il termine “black” assunse un significato più politicizzato, da parte degli attivisti che si battevano per i diritti degli afroamericani (il Black Panther Party, e gli slogan Black Power o Black is Beautiful). Parallelamente, la traduzione in  italiano privilegiava la scelta della parola “nero”, pur mantenendosi fedele al termine “negro” nella volontà di denuncia e ribellione degli autori.

Hughes aveva un rapporto intenso e diretto con la cultura popolare di massa, e i suoi testi si orientavano preferibilmente verso la descrizione di vagabondi, marinai, prostitute, ballerine, lavapiatti, biscazzieri e serve. Lo stile da lui adottato aderiva strettamente ai nuovi contenuti proposti, inserendo termini lessicali desunti dallo slang della sua gente, dai dialoghi smozzicati dei bar e dei night club, con l’introduzione di ritmi musicali del tutto inediti, derivati dal jazz e dal blues. Se quest’ultimo si esprimeva vocalmente, con intonazioni malinconiche e di scoraggiamento, il jazz invece era strumentale e più aggressivo, e il poeta tendeva a imitarne nei versi il ritmo sincopato, veloce, attraverso una scrittura ruvida, improvvisata e spontanea. All’epoca, nei locali newyorkesi come il Cotton Club o il Savoy Ballroom, muovevano i primi passi Duke Ellington e Louis Armstrong, suscitando curiosità ed entusiasmo. Sono numerose le poesie presenti in questa antologia dedicate alla nuova musica di Harlem, agli scantinati e alle sale in cui si esibivano gli artisti neri: Blues stanco, Jazzonia, Negro Dancers, Young singer, Night Club ad Harlem, Fantasia Blues, Harlem Night Song, Po’ Boy Blues…

I versi tendono a riprodurne graficamente e cacofonicamente i moduli ritmici: “Fighi ragazzi neri in un cabaret. / Jazz-bad, jazz-band, / Suona, suONA, SUONA!”, “Il mio brav’uomo mi ha lasciato, / Babe, se n’è andato via. / Ora è quel blues triste che resta / Notte e giorno in quest’agonia. // Hey! Hey! / Stanco, Stanco, / Dolore, pena”, “Il ritmo della vita / È un ritmo jazz, / Tesoro. / Gli dei ridono di noi”, “Dai su, lanciamoci nel ballo! / Skee-de-dad! De-dad! / Doo-doo-doo!”.

La Harlem Renaissance in cui il giovane poeta e intellettuale Langston Hughes era immerso bruciava di rabbia black, musica, alcol e sesso non normativo. Sull’omosessualità del poeta si rincorrevano voci e illazioni, mai tuttavia confermate nelle sue autobiografie, anche se nel 1961 nel racconto Blessed Assurance veniva affrontato il difficile rapporto, in una famiglia di colore, tra un padre e il figlio gay. Molte composizioni sono dedicate a seni e gambe femminili, e quelle esplicitamente amorose sembrano riferirsi romanticamente a un oggetto indefinito, suggerendo possibili interpretazioni ambigue quanto al genere, nel tentativo di celare il desiderio omosessuale attraverso le figure dei loving comrades (amicizie affettuose): “Oh, tesoro mio lontano! / Ah, mia amata, lontana!”, “Amavo il mio amico. / Lui è andato via da me. / Non c’è nient’altro da dire”.

Altre, più esplicitamente, parlano di ragazzi amati o da amare, con esplicite dediche a ignoti: “Dai su, marinaio, / Uscito dal mare. / Andiamo, dolcezza! / Con me devi venire”.

Nella prefazione, Alessandro Brusa evidenzia come fosse problematico ammettere la propria omosessualità quando già il colore della pelle si prestava a bersaglio di discriminazioni e angherie. Ma nella Harlem degli anni ’20 i balli in drag erano eventi sociali di grande richiamo per i turisti, celebrati nelle cronache dei giornali: il Rockland Palace Casino, ogni anno a marzo, ospitava l’Hamilton Club Lodge Ball, un evento in cui uomini ballavano con altri uomini e donne con altre donne. Nonostante questa fama esplicita e generalizzata di trasgressione, la critica letteraria posteriore oscurò la queerness rispetto alla blackness, ritenuta argomento più dirompente e socialmente rilevante.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 9 giugno 2023

 

 

 

 

 

RECENSIONI

IACCI, GALIMBERTI

PAOLO IACCI, UMBERTO GALIMBERTI, DIALOGO SUL LAVORO E LA FELICITÀ 

 EGEA, MILANO 2021

 

Il volume pubblicato da Egea. Dialogo sul lavoro e la felicità, è la trascrizione fedele di una conversazione tenuta tra Paolo Iacci, docente di Gestione delle risorse umane alla Statale di Milano, e il filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti. L’editore ha deciso di lasciare inalterata l’originale versione orale per non togliere immediatezza al testo, che risulta infatti vivace e di godibile lettura, nonostante l’argomento trattato non sia dei più accessibili.

Al giorno d’oggi il lavoro, fondamentale ancoraggio alla vita reale, è diventato una chimera per molti: giovani che non lo trovano, laureati costretti a emigrare, personale qualificato espulso dalla catena produttiva, donne che non riescono ad accedere a un impiego. E tra chi ha conquistato un suo ruolo nel sistema, quanti sono i privilegiati che possono dire di amare il proprio mestiere, e quanti invece lo reputano una condanna, conseguenza della maledizione divina lanciata contro Adamo nel giardino dell’Eden?

Galimberti, rifacendosi alla cultura classica, prende in esame i due termini di felicità e di ozio. Per i greci l’eudaimonia si basava sull’armonia, l’equilibrio e la misura, acquisibili solo attraverso una profonda conoscenza e padronanza di sé, in accordo con il daimon interiore che è presente in ogni persona e ne guida le azioni. Nella società contemporanea, regolata dal mercato e basata sulle logiche di prestazione ed efficienza volte solo al profitto, l’obiettivo della felicità individuale, ottenuta con l’espressione e la realizzazione di ciò che siamo, viene subordinato al raggiungimento di altri traguardi (denaro, successo professionale, competizione esasperata), asserviti a ideali esteriori e futili.

L’otium dei latini coincideva con l’agire proprio degli uomini liberi, in opposizione al negotium, inteso come incombenza faticosa e costrittiva, e indicava lo spazio che ciascuno dovrebbe dedicare a se stesso, coltivando lo studio, le relazioni arricchenti, il perfezionamento del proprio carattere. Oggi per ozio si intende solamente lo svago, il riposo dalle fatiche lavorative, la distrazione offerta da diversivi superficiali.

Paolo Iacci considera l’essere umano come biologicamente   costruito per un’attività diretta a un fine, e ritiene che l’ozio, o   l’attività priva di scopo, provochi sofferenza e atrofia: l’idea del “lavoro ben fatto” è invece talmente radicata da spingere a perfezionare anche quello imposto, schiavistico. Il motto Arbeit macht frei, diabolicamente esibito all’ingresso del lager di Auschwitz, in cui si mirava in realtà all’annullamento della dignità e della vita dei prigionieri, era tuttavia assolutamente veritiero. Il lavoro rende liberi, ma i nazisti miravano a svilirlo e disprezzarlo, proprio perché atto “sovversivo” di sopravvivenza e di riscatto.

Alla valutazione positiva di Iacci, Galimberti oppone la constatazione che nella nostra età della tecnica non si viene valutati per il risultato dell’opera fornita, ma per la modalità con cui la si esegue; non si richiede adesione emotiva ma unicamente prestazioni all’altezza delle aspettative del mercato. Il modello economico adesso imperante piega la volontà dei singoli alla dura logica del rendimento e del profitto. Il lavoratore è sempre più dissociato dalla propria azione, poiché “l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, gli si contrappone come qualcosa di estraneo, come una potenza indi pendente da colui che lo produce”, secondo quanto scriveva Marx più di un secolo fa. Sarebbe pertanto necessario e doveroso sottrarsi all’alienazione del produrre fine a sé stesso, favorendo in primo luogo nei salariati “lo sviluppo dei propri talenti, la realizzazione della propria identità”, più che la sudditanza a un mezzo di sopravvivenza.

In un’epoca come quella in cui viviamo, oppressa da paralizzanti paure (i terrorismi, le pandemie, i tracolli finanziari) è tanto più necessario un profondo ripensamento del nostro modo di vivere e di progettare il futuro, traendo dal sentimento di angoscia che ci pervade nuove occasioni di riflessione e interiorità, consapevoli però di quanto il mondo sia cambiato, con il prevalere dominante della tecnica, convertita da mezzo a fine, non più strumento ma soggetto stesso della storia umana. Dobbiamo revisionare tutte le nostre categorie concettuali, nella vita economica, sociale e relazionale. I modelli economici tradizionali si dimostrano oggi carenti perché tentano di rintracciare una razionalità sequenziale che è ormai tramontata. Le antiche variabili chiave del mercato (domanda, offerta e concorrenza) non sono più utilizzabili per interpretare un sistema produttivo complesso, specializzato, parcellizzato, iperconnesso, computerizzato, e pertanto soggetto a imprevedibili e paradossali rivolgimenti, non inquadrabili in schemi mentali obsoleti.

Dal punto di vista etico, poi, sembra che le indicazioni morali delle religioni e delle filosofie tradizionali abbiano ben poco da dire a individui sempre più egocentrici, isolati, disillusi e scettici, incapaci di slanci altruistici e solidarietà, indifferenti al mistero e alle questioni metafisiche. Il nichilismo a cui è approdato l’occidente, negando ogni speranza di futuro, riduce all’insignificanza l’agire umano, e quindi la stessa attività lavorativa, che attualmente è caratterizzata in primo luogo da cieca competitività, invidia sociale, conformismo diffuso e paralizzante senso di inadeguatezza. Nella vita produttiva, l’identità non è più determinata da fattori religiosi, culturali, familiari, di razza o di genere, ma è decisa dal ruolo occupato in azienda, dalla carriera fatta, dal riconoscimento degli altri affidato alla parola pubblica, secondo il primato dell’oggettività e l’appiattimento della soggettività.

Risulta pertanto difficile trovare una sintonia tra lavoro e felicità. La felicità sembra possa essere possibile dopo il lavoro, malgrado il lavoro e non anche grazie al lavoro. Dovremmo invece tentare di renderlo desiderabile e   non solo causa di fatica e luogo di tensioni.  In che modo? Paolo Iacci suggerisce di sperimentare nuove forme di organizzazione dell’attività lavorativa, non più basate sul paradigma del comando/controllo, ma contraddistinte   da maggior delega, più ampia autonomia delle perso ne e una superiore attenzione alla loro motivazione e individualità. La tecnica continuerà a proseguire nel suo planetario sviluppo auto-referenziale, ma i luoghi   di lavoro, per poter funzionare, dovranno concedere spazio anche alla dimensione emotiva e non unicamente a quella professionale e razionale, nell’ambito di un’educazione alla cultura e ai sentimenti intesi in senso lato.

La proposta di Umberto Galimberti appare addirittura più estrema: indica la necessità di passare gradatamente dal “lavoro come produzione” (che ha in vista solo la sua crescita esponenziale, senza ragione e senza perché) al “lavoro come servizio”, in grado di offrire non soltanto merci e beni spesso inessenziali, imposti da un consumismo esasperato, ma anche di erogare  tempo, cura, relazione. Senza trascurare la parte irrazionale, istintiva, ludica, affettiva ed emozionale dell’essere umano, attraverso cui ci si possa avvicinare individualmente e collettivamente alla felicità.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 13 febbraio 2022

 

 

 

 

 

RECENSIONI

IKKYU

IKKYŪ SŌJUN, NUVOLE VAGANTI – UBALDINI, ROMA 2012

La casa editrice Astrolabio-Ubaldini dedica un’importante pubblicazione a Ikkyū Sōjun, maestro zen giapponese del XV secolo, e alle sue 150 composizioni poetiche. Curato e tradotto esemplarmente dalla iamatologa Ornella Civardi, il volume si apre con un’approfondita introduzione alla vita, al pensiero e all’epoca in cui visse questo famoso «saggio non saggio», anticonformista riformatore e divulgatore della pratica zen, finissimo calligrafo e ispiratore della cerimonia del tè, nonché mentore del teatro del nō. Ikkyū (1394-1481), figlio disconosciuto di un imperatore e di una dama di corte, fu avviato bambino alla carriera monastica in un’epoca in cui lo zen stava perdendo la sua purezza originaria, istituzionalizzandosi in conformismi e compromessi col potere che ne minavano il messaggio di povertà e illuminazione interiore. Abbandonato il tempio della scuola Rinzai, il giovane mistico scelse di percorrere la strada disagevole ma più nobile e sincera del monaco itinerante, alla ricerca di una dimensione esistenziale e di pensiero meglio aderente alla sua vocazione interiore. Adottato il nome di Kyōun (nuvola vagante) preferì mescolarsi alla popolazione più misera e marginale, componendo poesie e coltivando il bambù, ma soprattutto rifiutando l’ipocrisia delle regole imposte da una rettitudine di facciata e dalla decenza comune, e accettando anche di sfidare lo scandalo e la provocazione nelle sue frequentazioni di bettole e bordelli: «quelli che pretenderanno di possedere lo zen, di sapere la Via, quelli saranno i veri impostori, i nemici della Parola. Siamo ciechi che conducono per mano altri ciechi…». La condotta di Ikkyū fu sempre finalizzata alla conquista di una profonda libertà interiore, fino agli anni della vecchiaia, trascorsi accanto a una cantante cieca molto più giovane (che rivitalizzò il suo spirito e la sua poesia in una nuova dimensione erotica), e poi nell’accettazione di un ruolo istituzionale come guida del tempio Daitokuji. I 150 componimenti poetici antologizzati, composti tutti da strofe di quattro versi secondo l’antica tradizione cinese, sono raccolti in undici capitoli tematici, introdotti ciascuno da un esauriente approfondimento di Ornella Civardi, e raggruppati secondo argomenti che esplorano la natura, i sentimenti, la ricerca della verità, la ribellione al conformismo, la conoscenza di sé. Si tratta di poesie lievi, attraversate da una sapienza umile e compassionevole, attenta a recepire ogni sfumatura dell’esistente, con gratitudine e partecipe adesione: «Boscaioli e pescatori, / loro sì che la sanno. / Non hanno bisogno di scanni preziosi, / di appositi palchi per fare lo zen. / Sandali di paglia e bordone / per girare l’universo, / La pioggia per casa l’aria per cibo / una vita intera».

Secondo la curatrice del volume, per Ikkyū la poesia «diventa lo strumento privilegiato lungo la via verso l’illuminazione… La carica cognitiva che porta con sé è così forte da destrutturare le barriere del senso e aprirle la strada fino al cuore dell’Essere». Nei suoi versi «troviamo tutto lo spettro delle emozioni e dei sentimenti, squadernati sulla pagina senza falsi pudori e senso delle convenienze, innocentemente nudi di fronte al giudizio del lettore, da cui reclamano un’identica nudità». Quindi, nessun intento didattico o falsamente moralistico in Ikkyū, bensì più spesso il dubbio, la sberleffo, la risata dissacratoria contro ogni dogma: «Saggezza di ieri, / oggi è stupidità».
Il volume si chiude con un esaustivo glossario di personaggi, termini, regole e linee di pensiero buddista, che ben introducono anche il lettore profano alla scoperta di uno straordinario universo filosofico ed etico.

 

«incroci on line», 13 giugno 2015

RECENSIONI

IL VERRI

AAVV, IL VERRI n. 60: “COMICO E POESIA” – IL VERRI EDIZIONI, MILANO 2016

L’ultimo numero della rivista Il Verri (quadrimestrale letterario fondato da Luciano Anceschi nel 1956) è dedicato al rapporto tra poesia e comico, inteso come «opposto di una declinazione seria della testualità». Una letteratura, lirica o tragica, che si prenda troppo sul serio comporta che l’autore attribuisca alla sua scrittura una qualche efficacia etica, un’autonomia estetica positiva, come ben evidenzia Gian Luca Picconi nel saggio iniziale. Ecco allora che il comico, in tutte le sue variazioni (nonsense, satira, parodia, ironia, grottesco, paradosso, contraddizione, gioco di parole, lapsus, calembour, incoerenza lessicale) arriva a scardinare non solo le pretese ideologizzanti del testo, ma anche a neutralizzare le sue tonalità affettive, mettendo in crisi l’orizzonte di attesa del lettore. Tutti e dieci gli interventi critici della rivista celebrano quindi il comico come elemento dissacratorio, straniante e rivitalizzante dell’ufficialità letteraria. Già a partire dall’ “allegrezza” esaltata dai futuristi e dal loro anticipatore Ernesto Ragazzoni (vengono citati, con divertentissimi esempi, Farfa, Gian Pietro Lucini, Luciano Folgore e lo straordinario Palazzeschi) il distacco ironico con cui viene trattata la materia letteraria produce un abbassamento dei registri formali funzionale alla polemica contro l’accademismo e la seriosità della tradizione (Carducci, Pascoli, D’Annunzio).

Se nei poeti più noti del nostro novecento si producono effetti di nonsense talvolta involontari o tesi semplicemente a discostarsi dall’uso convenzionale del linguaggio (Montale, Caproni, Ottonieri, Rosselli, Fortini, Sanguineti, Villa, Porta…), altre volte la ricerca di straniamento e provocazione è fortemente perseguita e orgogliosamente proclamata, come in Fosco Maraini, Giulia Niccolai, Toti Scialoja (quest’ultimo insuperato maestro di esilaranti distici: «T’amo o pio bue / Anzi ne amo due»; «l’albatro a cui tendesti / un piccolo caimano»). L’interessante e provocatorio saggio di Gilda Policastro si sofferma sulla ricerca attuale legata alla categoria della “non assertività”, sottolineando l’esigenza di fondarsi più sul testo che sull’esplorazione intimistica: «riconvertire o riannettere alla poesia/prosa tutto ciò che non è (o non immediatamente) letterario e respingere, al contempo, un’idea di maniera della poesia, irricevibile in quanto troppo classica, troppo mistica, troppo abusata, troppo convenzionale (e troppo poco incline a confrontarsi con le convenzioni esplicite, o piegate a strumento), troppo spirituale, troppo soggettiva, troppo lirica, troppo incentrata sull’io, troppo assertiva, e via così».

I nomi da lei proposti a una più attenta valutazione sono quelli di Andrea Inglese, Marco Giovenale, Michele Zaffarano, segnalati anche in altri interventi per il loro distanziamento dal linguaggio standard, e per la volontà di scoordinare e disseminare i significati. Diversi sono i poeti che si raccomandano all’intelligenza curiosa dei lettori: Guido Oldani, Attilio Lolini, Leopoldo Attolico, Luigi Socci, Vito Riviello, Gianni Toti, Francesco Piscitello, Federico Roncoroni, mentre due differenti maniere di fare satira sul presente sono rilevati nei più noti Gabriele Frasca e Valerio Magrelli. Giustamente si ricorda poi l’apporto poetico e critico di uno scrittore pugliese quasi dimenticato (Vittorio Bodini, «intellettuale anti-sistematico»), e altrettanto giustamente si sottolinea l’interesse da parte di numerosi critici verso la poesia comica: tra gli altri, Luciano Anceschi, Milli Graffi, Paolo Zublena, Andrea Cortellessa, Vincenzo Guarracino.

Sono forse ancora i celebratissimi Sanguineti e Giuliani a cui si deve attribuire la maggiore finalità ideologica nella dissacrazione del testo e nella contestazione delle strutture comunicative, non solo nella loro personale produzione in versi, ma forse e soprattutto nei contributi teorici. Insomma, «M’affumico d’incenso», o il «merendare squallido e corto / con una dura rapa d’orto / ascoltando tra i bussi ed i sassi / botti di schioppi e russi di tassi» ci ricordano che «Il poeta si diverte, / pazzamente, / smisuratamente. // Non lo state a insolentire, / lasciatelo divertire / poveretto, / queste piccole corbellerie / sono il suo diletto».

© Riproduzione riservata          

www.sololibri.net/Comico-e-poesia-Verri.html               15 aprile 2016

RECENSIONI

INGLESE

LIONELLO INGLESE, IN UN RAPIDO CAMBIO DELLA GUARDIA

GIULIANO LADOLFI, BORGOMANERO 2012

 

Le sette sezioni che compongono questo libro di versi di Lionello Inglese sono introdotte da un  Prologo sulla corda  in cui l’ autore metaforizza se stesso entro un funambolo in bicicletta sulla corda tesa nel circo, che in equilibrio precario ma audace sfonda il telone a strisce, perdendosi nella notte stellata. E nell’epilogo conclusivo, il poeta traccia una puntuale  Apologia   esplicativa per definire esaustivamente i confini del suo lavoro, lasciando poco spazio interpretativo ad eventuali altre letture critiche: «Un universo popolato da animali, bambini assorti nei giochi, ombre di “auctores” che si affacciano direttamente nel testo poetico o compaiono in epigrafe», e descrive la sua scrittura immersa in una  sospensione metafisica  animata da «creature marginali». In effetti il tono della raccolta appare al lettore vibrare in un’ atmosfera rarefatta, oscillante tra sogno e realtà, visione e decodificazione razionale: in cui i due mondi opposti sono contrassegnati anche graficamente da caratteri diversi, che ne sottolineano addirittura le differenze cronologiche di composizione. La vita descritta appartiene talvolta a ambienti bucolici brulicanti di innocue presenze animali ormai desuete nelle descrizioni letterarie contemporanee (lucertole, api, rospi, gechi, colombi, zanzare o esopiche volpi sorridenti), e verdi di ortiche, gelsomini, salvia, maggiorana, ginestre e alghe. La natura sembra perciò favolosamente animata e magica, e in essa i bambini inventano avventurosi giochi, nascondendosi in immaginarie isole del tesoro, mentre la vegetazione si trasforma miracolosamente e tacitamente: «un mattino a rovescio, / ritornano ai rami / le foglie cadute sui prati». Persino le figure femminili appaiono fugaci, silenziose e forse stregate: «dischiuso / al passare veloce di un tuo sorriso / gusto di miele scuro», «Ti scelsi perché tanti / non colsero la tua / rara difficoltà». Professore di lettere antiche in un liceo romano, studioso e traduttore di classici latini e greci, Lionello Inglese ha nutrito la sua scrittura di una serena e composta musicalità (frequenti sono gli aggettivi che indicano una consapevole, matura e quasi epicurea disposizione d’animo: tranquillo, lieve, placido, quieto…), lontana da qualsiasi eccesso di passione o tormento, da qualsiasi turbata partecipazione alle vicende della cronaca, della politica, o della storia contemporanea. Anche lo stile è pregno di tutta la tradizione novecentesca, assolutamente privo di tentazioni sperimentali o trasgressive: i versi che fanno da epigrafe alle varie sezioni sono tratti da Sereni, Saba, Penna, Caproni, Montale. Colpisce anche un particolare e ammirato omaggio a Rodari: «quando ti scocca / il verso è una luna / che riempie di colore il tuo cappotto grigio». E in questa esibita e orgogliosa fedeltà al passato, controllata assenza di originalità, le parti più deboli del volume risultano essere proprio le dediche affettuose e private agli amici (che talvolta rasentano la retorica: «bontà e mano ferma,/ coraggio e virile/ passione»), o le «Strette memorie» personali e gli «amarognoli» epitaffi ad altri poeti. Così la generosissima prefazione di Luca Canali sottolinea l’immersione della poesia di Lionello Inglese nel solco più collaudato della nostra letteratura («Una vera ‘storia’ dell’intera cultura poetica dell’ultimo secolo»), che partendo da Leopardi, attraverso Carducci e Pascoli, arriva a Sinisgalli, ma rifacendosi addirittura a Alceo, Saffo, Virgilio per approdare a Laforgue, Valéry e Apollinaire. Quasi incoraggiando ironicamente l’autore di questi versi a scoprire una voce più decisamente sua, e coraggiosamente innovativa.

 

«incroci on line», 27 ottobre 2015

RECENSIONI

INSANA

JOLANDA INSANA, TURBATIVA D’INCANTO – GARZANTI, MILANO 2012

Le sei sezioni di cui è costituito l’ultimo libro di versi di Jolanda Insana risultano assolutamente omogenee nell’esibire una provocatoria, esacerbata violenza di immagini e tonalità; un linguaggio che si squaderna incalzante e scorticato, contorto, dissacratorio, privo di qualsiasi punteggiatura che non sia il punto di domanda; strofe disuguali e graficamente distribuite tra caratteri corsivi e tondi; un rincorrersi esaltato tra sensibilità civile e politica da una parte e egocentrica, insuperbita assunzione del privato dall’altra. Una poesia che si infossa, intorcigliata, sbaragliata, gracchiante – per usare alcuni degli attributi presenti nel primo poemetto-, a indagare «la vita offesa che cerca la verità»: offesa, ma anche malata, rabbiosa, atterrita, inabissata. Che affronta le tragedie di una storia universale di distruzione e imperdonabile ingiustizia (dalle alture del Golan all’Afghanistan, da Gerusalemme risalendo fino al bombardamento di Dresda, a un mortificato ecologismo sconfitto): ovunque dove «scortati e scortatori / finiscono nelle reti dei pescatori». Ma soprattutto grida il suo spasimo furioso, bilioso, quando «battibecca / con il suo doppio condiscendente», un alter ego odiato e svillaneggiato, un’ombra femminile onnipresente e castrante: forse la vicina di casa del piano di sotto, più giovane e più stupida, del tutto impermeabile alla poesia, alla cultura, alla storia («perché ce l’ha con me / e attenta alla mia vita?»). Con lei ingaggia un corpo a corpo arrabbiato, fatto di reciproche definizioni offensive («blenorragica e garosa», «sdrumata e sdrucita», «squinzia vampiretta sbollentata», «diabetica ipertrofica parabolante», «cachettica pelosa»). Si tratta di due solitudini rancorose che si confrontano in duelli verbali sarcastici e volgari, maledicendosi e oltraggiandosi, in una totale e ostentata incapacità di comunicazione, in un turpiloquio che oscilla tra la banalità del pettegolezzo condominiale e la sfrontatezza di farisaici processi ideologici. Droga, sporcizia, squallore quotidiano, sesso brutale: ciascuna figura diventa il fantasma ossessivo dell’altra («sei tu che ingrassi i miei dèmoni / stitica ulcerosa»), e all’ottusità intellettuale dell’una si oppone l’ambizione poetica insoddisfatta dell’altra («mi cammini sopra la testa / con gli scarponi chiodati / e urli notte e giorno / tu con le tue poesie / con la tua falegnameria»). Il ritratto della nemica è impietoso, si risolve in coppie di aggettivi contrapposti e crudeli (banale e boriosa, pelosa e segreta, razzista e oltranzista, frodolenta e imbonitora, sciancata e lazzariata, infibulata et sitibonda…), fino alla rivelazione finale, che è anche una confessione pentita, un’ammissione di colpa e sconfitta. L’altra sono io, la poesia crea i suoi spettri, incubi deliranti: «non c’era nessuno dietro la porta / l’alloggio era disabitato e l’ho abitato / ma non c’era e non c’ero / era il mio doppio disagiato / ora lo so e sloggio», «esce di scena l’azzoppata iena / muta e scriteriata / e più non urla ti faccio guerra ti spacco». Un turbamento, una turbativa che sa di sfida illegale, di compiaciuta provocazione, di letteraria sobillazione.

 

«Leggendaria» n. 95, settembre 2012

RECENSIONI

INSANA

JOLANDA INSANA, LA CLAUSURA – CROCETTI, MILANO 1989

Seguo le poesie di Jolanda Insana da diversi anni, con quella curiosità intellettuale che rasenta l’ammirazione e non è mai sicura se sia giusto abbandonarcisi o meno. Con emozione, quindi, alcune estati fa, ho atteso la sua comparsa ad una lettura pubblica di poesie ai Giardini Botanici di Roma, in mezzo a un pubblico che scandiva gli applausi a seconda della notorietà (e non della consistenza) degli interpreti; io, ingenuamente forse, cercavo di distinguere i pochi poeti veri da molti autori di versi, badando anche alla risonanza emotiva che mi suscitavano parole e immagini insieme. Jolanda Insana era riuscita a scuotermi, così essenziale in maglione e pantaloni scuri, capelli corti e grigi, voce sicura e profonda. Aveva letto una poesia che si intitolava Bomba, bell’esempio di originalità e forza, tra tanto manierismo-cerebralismo-intimismo. La guardavo, intensa e drammatica, con la sua espressiva faccia sicula, e siccome amo ricamarci sopra (sulle facce e sui nomi) riflettevo che forse la poesia italiana era riuscita a ritrovare una sua Cassandra, fustigatrice e incorrotta. Una che si porta addosso un nome impressionante, “Insana” (opposto al verbo “sana, guarisce”: quindi “ammala, fa impazzire”), con queste due “I” iniziali che pungono come due spilli, non può non essere inquietante, deve esserlo anche poeticamente, oltre che come persona. L’ultimo libro pubblicato dall’Insana si intitola La clausura: titolo che potrebbe voler indicare una vocazione imperiosa in favore dell’esclusione dell’esterno e dall’esterno; ma che potrebbe anche essere stato scelto solo in funzione della sua durezza onomatopeica. Infatti l’esterno (l’altro) rientra, seppure di straforo, nelle pagine di questo volume: e sono ambienti assolati e pagani (Sicilia, Marocco), nordici e severi (Germania), a volte dai tormentati contorni biblici. Si intuisce anche una presenza maschile, piuttosto meschina, e comunque più odiata che amata, puro pretesto alla carica di rancore che vuole esprimersi: «Ti scardo e sbramo e ti scotenno con parole»; «non cardo né canto e non penelopo al telaio /… e non sarai certo tu / che mastichi erisamo a imbudellarmi»; «se è questo che vuoi mi mozzo la mano e te ne faccio / dono… / e dunque mi riprendo la mano e ti carpiono». E tuttavia la prima e dichiarata intenzione dell’autrice è senz’altro metalinguistica, e la sua poetica viene ribadita asseverativamente e in continuazione: «così inforco le parole e le giro per troppa tenerezza»; «e non mi smielo / e sotto i colpi della lettera dura»; «e per troppo fastidiume abbandono le strade / dell’omotonia e svolgo e avvolgo etimologie / apparigliandone la differenza»; «contro ogni evidenza / non comunica nulla la bocca che riafferma che è bocca / nelle pagliose parole capaci di abbrigliare / la stessa eteroclisia che dice la verità della specie…». Poesie rapide e densissime, che si inceneriscono dopo un bagliore accecante: la Insana diffida – è evidente – della lunghezza che stempera e diluisce l’intensità («bevitori di rapidi sorsi / siamo incantati dalla lunga durata»), e demanda al messaggio poetico la folgorazione salvifica del riscatto dal male: «e credo che la parola molto assista chi per lei molto / rischia». Gli artifici linguistici cui la Insana si affida per sconcertare il lettore-preda (poiché questa sembra essere la sua fondamentale aspirazione) sono in primo luogo l’uso/abuso della “s” impura (smielo, sfrangere, sfrotto, sconturba, scardo, scavezzante, sbramo, svolare, sbravanta, spicchio, sgraffia, straglio, scortico, scardoso, sbroda: sono i più espressivi tra i quasi duecento usati…), poi la fusione di parole (affondafantasmi, solincendio, superfluitava, contemplascenari…), i numerosi neologismi, che ribadiscono – anche in seguito a successive letture – una carica difficilmente assorbibile di aggressività, di concentrata violenza. E tale e tanta è questa forza, da risultare a volte squilibrata rispetto all’oggetto stesso della poesia, per cui anche chi sia favorevolmente disposto ad accoglierla, finisce per temere un autocompiacimento eccessivo, un virtuosismo fine a se stesso. Una vox clamans savonaroliana come questa di Jolanda Insana necessiterebbe, forse, di temi pari ai suoi toni.

 

«Hortus» n.7, gennaio 1990

RECENSIONI

INTERVENTO SU POESIA, LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE

INTERVENTO SU POESIA, LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE

Majorino nell’introduzione alla sua recente antologia poetica invitava i lettori, da quelli più occasionali ai più “impastati” e interessati, a contribuire con critiche e materiale diverso al riesame del ruolo della poesia, degli elementi che la compongono o condizionano, del significato che essa riveste per molti compagni. Io non credo che questo lavoro si possa fare senza impegnarsi in un confronto-scontro e senza un minimo di studio comune; per cui una volta chiusa questa iniziativa del QdL di fornire una serie di articoli-strumenti per il dibattito, tutto resterà come prima, la pagina letteraria rimarrà scollata e affidata all’iniziativa di singoli volonterosi, ecc. Comunque, tanto per dare qualche indicazione a chi sentisse l’esigenza di conoscere un po’ lo stato attuale del dibattito sulla poesia, sabato 21 e domenica 22 gennaio nel Teatro Comunale di Crevalcore (BO) si terrà un seminario su “Il linguaggio nella poesia oggi” cui parteciperanno collettivi redazionali e gruppi da tutt’ Italia. I punti su cui ci si dovrebbe soffermare sono molti: in primo luogo, l’incidenza politica dell’operazione poetica (a cosa serve, se serve, in che modo serve fare poesia); poi, la differenza specifica della poesia di sinistra da quella che si finge neutrale, o si dichiara pura, incontaminata (e questa differenza, secondo me, non può essere di soli contenuti, ma deve anche risultare dalla forma): ancora, come evitare che a scrivere siano sempre gli stessi, come democratizzare la poesia.
1) Mi sembra che politicamente, oggi, il rilievo della poesia ufficiale sia minimo, la sua incidenza in pratica nulla. E giustamente, perché ogni arte si ritrova lo spazio che si è meritato. Diciamo allora che la poesia è stata sempre un’arte aristocratica, rivolta a un pubblico selezionato: un’arte più cortigiana delle altre perché appunto circolante in ambienti colti ristretti. Letta da pochi, quindi scritta per pochi, quindi pubblicata quasi solamente per prestigio. Questa poesia, dal nascere del capitalismo, si è dovuta sempre far perdonare di essere un’operazione commerciale perdente. E il perdono l’ha ottenuto appunto scegliendo di essere innocua. Poiché la poesia “non rende”, deve almeno “non danneggiare”. Innocua, quindi gratuita, quindi nobile. Ma anche spuntata, inconcludente, non incisiva. Chiaro che con queste premesse, la poesia si ritrova ad avere scarsissimo peso politico, non trascina le masse, difficilmente esprime il sociale. Non esiste, oggi, la poesia civile: per fortuna, perché significherebbe che qualche intellettuale si arroga il diritto di interpretare “oracolarmente” le esigenze popolari, che c’è ancora qualcuno che si sente investito a “dare forma” poetica a rabbie, delusioni, scontentezze. Perché molto spesso si spaccia per poesia civile una poesia demagogica o intenerita o consolatoria. Per concludere questo primo punto, la poesia è politica quando parla di un soggetto politico, quindi è rivoluzionaria quando parla di un soggetto almeno potenzialmente rivoluzionario, cioè insoddisfatto e teso in un processo di cambiamento.
2) La poesia di sinistra è perciò veramente tale non tanto quando piange su Mao, o dipinge mari di bandiere rosse, ecc., ma quando chi la scrive lascia trasparire la sua contraddizione di classe, di sesso, la sua alienazione e la sua voglia di cambiare, in un linguaggio che sia anch’esso nuovo: contraddittorio, frantumato, divertito, ironico, come vi pare, ma non scontato, non retorico o non controllato (metterci dentro cento volte “cazzo” non cambia niente, non è neanche tanto originale). Ricordiamoci che forse non c’è nemmeno più la possibilità di scandalizzare, il sistema editoriale pianifica e rende innocua anche la più azzardata operazione poetica, anche la rivoluzione formale della neoavanguardia.
3) Allora il problema fondamentale è che la grossa conquista che si è avuta nel linguaggio, la democratizzazione della comunicazione verbale (nelle radio libere, nelle assemblee) si attui anche nella poesia e nella comunicazione scritta. Siamo già in tanti a scrivere, donne studenti pensionati innamorati precari disorganizzati creativi con lo spray. Penso che dovremmo essere di più; e diffondere (il vecchio ciclostilato è tuttora un’ottima soluzione). Spazi da riempire ce ne sono ancora. Volendo, potrebbe prestarsi benissimo anche la pagina 6 del QdL. Attilio Mangano in una riunione ha fatto notare che sul Quotidiano, prima del titolo stesso, c’è una poesia di Brecht.

«Quotidiano dei Lavoratori», 21 gennaio 1978

RECENSIONI

IOVINO

SERENELLA IOVINO, ECOLOGIA LETTERARIA.UNA STRATEGIA DI SOPRAVVVIVENZA – EDIZIONI AMBIENTE, MILANO 2015

L’ecocriticism è una branca di studi letterari molto sviluppata negli USA già dagli anni ’90. Piuttosto sottovalutato da noi, ha iniziato a interessare le istituzioni accademiche ed editoriali grazie al lavoro della Professoressa Serenella Iovino, una delle voci più accreditate dell’ecocritica internazionale: insegna “Italian studies and Environmental Humanities” alla University of North Carolina, e tra le sue numerose pubblicazioni sull’argomento, il volume Ecologia letteraria, Una strategia di sopravvivenza, pubblicato nel 2015, ha riscosso notevole successo non solo tra gli intellettuali addetti ai lavori, ma anche tra gli studenti più giovani, particolarmente sensibili alle problematiche ambientali.

Iovino ha intercettato questa empatica ricettività delle nuove generazioni nei riguardi dell’habitat naturale non specificamente umano (animali, oceani, foreste) proponendo un filone di ricerca inconsueto e stimolante: “Il risultato che speravo di ottenere era questo: presentare la cultura letteraria ambientale nella sua dimensione insieme locale e globale, facendone emergere la natura fecondamente comparatistica”. Un uso etico dei testi letterari, antichi e moderni, può contribuire a orientare i rapporti umani con il mondo non umano, in una sorta di pedagogia sociale che stimoli a riconsiderare il posto occupato dall’homo sapiens sapiens in un mondo minacciato dalla catastrofe. Non solo principi teorici, quindi, ma anche un impegno politico, un attivismo culturale da incoraggiare attraverso la lettura critica di testi che in varia misura si siano occupati dell’ambiente.

Il volume di Serenella Iovino si divide in due parti: la prima sezione inquadra l’orizzonte storico e teorico in cui si è inserita la cultura ecologica, privilegiando il pensiero filosofico post-moderno, la letteratura decentralizzata, non gerarchica, inclusiva; la seconda parte analizza criticamente quattro autori novecenteschi che hanno prestato particolare considerazione alle differenze di genere, di specie, di lingua, di evoluzione biologica: Annamaria Ortese, Clarice Lispector, Pier Paolo Pasolini, Jean Giono.

I capitoli iniziali del volume sottolineano le modalità negative con cui la modernità ha deturpato il paesaggio, inquinando non solo materialmente ma anche ideologicamente l’integrità e l’autenticità dell’habitat fisico e mentale che ci circonda: dal giardino alla discarica, dalla sovrapproduzione di merci di consumo allo scarto incontrollato e nocivo di rifiuti, dalla creazione di panorami sintetici alla distruzione di qualsiasi coltura spontanea. Per inventare una nuova etica della cultura ambientale, secondo Iovino bisogna abbandonare i modelli di dominio ideologico che impongono filosofie totalizzanti o verticalistiche, e le tecniche di produzione interessate solo alla commercializzazione globalizzata, favorendo invece politiche di gestione del territorio su base locale, e un nuovo umanesimo, non più antropocentrico, ma espressione di una comunità bioetica più vasta.

Numerosi sono stati gli autori che in passato hanno dimostrato un atteggiamento di rispettoso riguardo verso la natura: da Emerson a Thoreau, da Melville a Twain. Oggi questa sensibilità è notevolmente cresciuta, anche grazie all’impegno dei movimenti ambientalisti e animalisti a livello internazionale, in letteratura, nel cinema, nelle arti visive. Tra i quattro scrittori presi in considerazione da Iovino, di Annamaria Ortese è ben noto lo sguardo di solidarietà e compassione universale verso ogni forma di vita: animali, vegetali, esseri umani derelitti, territorio deturpato. La consapevolezza della sofferenza che accomuna tutti, è ben evidente nel suo romanzo più celebrato, L’iguana, del 1965, in cui un animaletto surreale, metà rettile metà donna, impersona la natura stessa nei suoi aspetti più inquietanti, e insieme la ribellione a una società patriarcale che opprime gli indifesi.

La stessa idea del femminile come complessità perturbante anima le pagine del romanzo La passione secondo G.H. della brasiliana Clarice Lispector, in cui la protagonista schiaccia volontariamente una blatta, interrogandosi poi sull’essenza dell’individualità umana nella sua differenziazione con il mondo animale. Entrambe le opere delle due scrittrici mettono in discussione l’autoreferenzialità tipica dell’homo sapiens, riconoscendo negli abissi dell’animalità e di ciò che viene comunemente considerato inferiore, abietto o disgustoso, la radice di una realtà originaria, in cui materia e fisicità rivelano il profondo legame sia con il limite sia con il superamento del limite, nella ricerca di una trascendenza e di un rapporto con il divino che liberi dalle catene di una tracotanza ottusamente compiaciuta della propria unicità.

Del provenzale Jean Giono, che nel 1980 ha pubblicato il bestseller L’uomo che piantava gli alberi, Serenella Iovino mette in luce il messaggio pacifista di speranza sociale, attuato da chi generosamente dedica tempo e lavoro a salvare la vegetazione dall’incombere della cementificazione e desertificazione del suolo, in una visione bio-comunitaria che accomuna il destino delle persone a quello delle piante, delle erbe, dei corsi d’acqua e di chi li abita, prendendosi cura dell’altro da sé.

Ma sorprendente e originale è soprattutto il capitolo dedicato a Pier Paolo Pasolini, della cui sensibilità ecologica in pochi sembrano aver tenuto conto. Esempio alternativo all’intellettualità monoculturale, Pasolini ha praticato negli scritti narrativi, poetici, saggistici e nel ruolo di straordinario sceneggiatore e regista, una particolare educazione allo sguardo inclusivo, sia sul piano sociale e politico, sia sul piano linguistico. Se quindi per ecologia si intende l’attenzione alle differenze, la volontà di “far emergere le diversità come essenziali alla vita del tutto”, ecco che lo si può definire a pieno titolo “ecologista”. Ha infatti sempre valorizzato la ricerca di narrative periferiche e marginali, dal punto di vista sia geografico sia culturale (i dialetti, le borgate, il proletariato o il mondo rurale); si è identificato con la diversità sessuale senza fariseismi o censure; ha esaltato la bellezza dei paesaggi più lontani e stratificati nella storia (India, Africa, Palestina) evitando di ricadere nel conservatorismo; si è opposto a ogni livellamento culturale e ai condizionamenti consumistici della società neocapitalistica. Il paesaggio raccontato da Pasolini ha, nella sua elaborazione storica, una “scandalosa forza rivoluzionaria”, poiché nelle realtà locali e ancora incorrotte si contrappone all’industrializzazione sregolata delle campagne, all’inquinamento delle acque, al disordine urbanistico delle città, all’orrenda trasformazione omologante imposta dal potere economico su luoghi e popolazioni.

“Se la natura muore, travolta dallo sviluppo, muore anche l’arte”, e con essa ogni interpretazione vitale del presente. Impartendoci questo prezioso ammonimento, Serenella Iovino conclude la sua interessante e provocatoria indagine critica sulla narrativa ecologica.

 

© Riproduzione riservata                «Gli Stati Generali», 29 giugno 2021