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RECENSIONI

HECHT

ANTHONY HECHT, LE ORE DURE – DONZELLI, ROMA 2018

Di Anthony Hecht (New York, 1923Washington, 2004), la critica ha sempre sottolineato sia l’interesse per le tragiche vicende storiche del ’900 (la seconda guerra mondiale, a cui partecipò combattendo come fante in diversi paesi europei, e l’orrore dell’Olocausto, di cui fu testimone diretto durante la liberazione del campo di concentramento di Flossenbürg, nell’aprile del ’45), sia l’adesione a scelte formali severamente controllate e poco consuete, attraverso l’utilizzazione del pentametro giambico, con cui dava luogo a versi lunghi e complessi, dall’andamento narrativo, prediligendo la forma del poemetto rispetto alle composizioni brevi. Nato da genitori ebrei-tedeschi, studiò letteratura inglese al Bard College di New York, dove ora è sepolto: conobbe e frequentò i più importanti scrittori della sua epoca: da Jack Kerouac a Robert Lowell, Randall Jarrell, Elizabeth Bishop, Wystan Hugh Auden e Allen Tate. Professore universitario alla Rochester di New York e alla St. George di Washington, dagli anni ’50 fino alla morte pubblicò diversi volumi di poesia e vinse significativi premi (tra cui il Pulitzer nel 1968). In Italia sono stati editi solo I vespri veneziani (L’obliquo, Brescia 2012) e Le ore dure (Donzelli, Roma 2018).

Tratti da sei raccolte scritte da Hecht tra il 1967 e il 2001, introdotti da Joseph Harrison e resi in una sapiente e ardita versione da Damiano Abeni e da Moira Egan, i versi di quest’ultima antologia schiudono agli occhi del lettore un ventaglio di possibilità interpretative, offrendogli non solo molteplici puntelli culturali di riferimento (dalle Sacre Scritture al teatro elisabettiano, dai tragici greci al cinema, dalla mitologia all’arte figurativa), ma soprattutto una gamma di emozioni contrastanti cui abbandonarsi: ironia e spavento, brutalità e delicatezza, inquietudine e commozione, rabbia e pietà. A cominciare dalla poesia con cui si apre il volume, in cui il senso del paesaggio e dei suoi colori vivifica e riporta alla coscienza un ricordo assopito: “In Italia, dove cose così sanno accadere, / una volta ho avuto una visione – ma, capirete, / in nulla come quelle di Dante, o dei santi, / forse per niente una visione”. Nel paese europeo che più amava, Hecht camminava lentamente “in una piazza calda di sole”, circondato da amici e magnifici panorami, quando improvvisamente allo splendore di Palazzo Farnese si sovrappose l’immagine “di una collina color topo e brulla”.

Con un procedimento da lui spesso adottato, una memoria personale riaffiora dall’inconscio, a turbarlo, oscurando minacciosamente la possibilità di un abbandono sereno alla bellezza e alla positività dell’esistenza. In questo caso, la visione della collina aspra e desolata davanti a cui adolescente trascorreva le giornate invernali, irrompe ostile con un annuncio di negatività. Ma in altre poesie può essere una persona, un oggetto, un gesto o un dettaglio qualsiasi a indicare che il male può avventarsi inatteso, imprevedibile, a inquinare il corso della storia individuale e collettiva. Così, nel “mondo di struggimento” che Hecht ama descrivere, troppo spesso bagnato da “inevitabili lacrime”, in cui anche l’ambiente più banale, tetro o squallido viene riscattato da un’aspirazione alla bontà (“le punte minuscole dei crochi / che si fanno strada nella luce tra cumuli di neve”), e giustificato persino nella sua bruttezza o crudeltà (“Chi avrebbe mai pensato / a un qualsiasi altrove?”), una matura cameriera che cerca conforto per una delusione amorosa nelle riviste patinate offerte ai clienti del suo albergo, solo osservando un grappolo d’uva su un tavolo apparecchiato intuisce “un profondo segreto dell’universo”, cioè la caducità e l’insignificanza di tutto ciò che accade, e a cui è saggio rassegnarsi. Anche una giovane donna malata di leucemia, preferendo non ricevere visite consolatorie dai parenti, si aggrappa al poco bene intravisto intorno all’ospedale: “pare non mi importi molto della fine, / di come tutto si sistemerà, se si sistemerà. / Invece siedo alla finestra, / guardo gli alberi di fronte”. L’ immagine esterna dell’intreccio dei rami, descritta con acuta sensibilità pittorica, le ricorda il giocattolo di un’amichetta, L’uomo trasparente nel cui corpo di plastica erano visibili gli organi interni, e tutto l’apparato circolatorio di vene e arterie rosse e blu. Mondo vegetale e fisico umano nascondono misteri insolubili, è illusorio pretendere “di poter guardare oltre, e comprendere il mondo”.

Incomprensibile rimane soprattutto la malvagità gratuita, con cui le persone si comminano reciprocamente dolori e cattiverie, in tutte le epoche e latitudini: la governante teutonica fornita di “quel gusto particolare per il dolore inflitto” che terrorizza con sadica severità il bambino ebreo in sua custodia, profetizzandogli persecuzioni a venire; o il centurione romano costretto a osservare il suo imperatore mentre viene scuoiato vivo (“la pelle venne affidata a uno dei loro sellai / che la doveva conciare, imbottire e cucire. A che scopo?”). Nella descrizione dei personaggi (specialmente felici sono i ritratti femminili), Anthony Hecht accompagna ai dati concreti e attuali, fisici e caratteriali, le fantasticherie e le elucubrazioni più imprevedibili, i rimpianti del passato e le speranze per il futuro, le delusioni e i desideri di vendetta.

La bellezza è ovunque (negli alberi, nel profumo di rosmarino, nei corvi “becchini” sui rami, nella neve e nelle nuvole, in tutti i colori della tavolozza di un pittore devotamente impegnato a “catturare quanta verità sia possibile”). Ma pure la colpa e lo sfacelo sono dappertutto, e l’elenco è impietoso: nella coppia di sposi che si sta separando con “duro non sentire”, nei malati di Aids (“l’intera / ciurma d’innocenti”), in una vittima torturata da aguzzini (“sorvegliata giorno e / notte da giovani pretoriani muniti di smartphone”), in Giuditta che vendica su Oloferne tutti i soprusi subiti dai maschi (“Anche i più fiacchi, nelle loro fantasticherie, / trionfano come atleti sessuali”), nella fidanzata abbandonata che si punisce con sesso e droga, per poi suicidarsi (“Due anni per lo più felici. / In tutto quel tempo cosa hai imparato di me? // … E quando te ne sei andato ho preso una brutta china”). Ma è innanzitutto il bambino ebreo de Il Libro di Yolek, in una tra le composizioni più drammatiche e commoventi del libro, a impersonare la sofferenza innocente della vittima sacrificata da un carnefice ottuso e spietato: “Yolek che era debole di polmoni, e nemmeno un giorno / oltre i cinque anni, cui si impose di lasciare il pasto / e trascinarsi tra guardie armate”.  Il nazismo, la guerra, i campi di concentramento, essendo stati vissuti e partecipati direttamente dal poeta, tornano con un incubo ricorrente nei suoi versi, emblema del male assoluto e ingiustificabile (“ma per anni continueranno le urla, notte e giorno. // … La sera, Padre, al buio, quando imploro, / io sono là, io sono là”, “Perché tutto ciò mi scuote tanto, come un codice segreto / o un presagio attutito / di intenti ed eventi preordinati?”, “Sto in piedi al freddo sotto un pino / appena prima dell’alba, non so bene dove in Germania, / con un fucile Garand, freddo e bagnato, tra le mani”).

Il dolore sperimentato da soldato tormentò Hecht per anni, costringendolo addirittura a un lungo ricovero in clinica psichiatrica, e lo investì della missione di farsi testimone indignato di quella terrificante esperienza: “a me sta il compito di trovare parole / per ricordare come si deve // coloro che s’accalcano fitti / con numeri blu tatuati / di traverso sulle arterie, / gli ebrei che bruciano, muti”, “Chi non impara dalla storia / ha come maledizione il compito di ripeterla”.

Nei poemetti di questa antologia ‒ argomentati razionalmente, documentati storicamente, attenti all’introspezione psicologica dei personaggi ‒, Hecht assume con orgogliosa consapevolezza il ruolo di portavoce di un’etica calpestata da recuperare, in nome di una dignità che riguardi non solo il genere umano, ma anche tutto ciò che è vivo e respira, che è passato ma rimane fondamentale nella cultura e nella storia universale. Non rinunciando all’ironia e addirittura al sarcasmo, riesce tuttavia a farsi interprete della resistenza civile a ogni sopruso e ingiustizia, con la religiosità laica di un non credente convinto della necessaria affermazione del bene. Se il suo impegno di poeta si esprime nell’eccellenza di una scrittura complessa, erudita, studiata nella struttura metrica, nell’uso sapiente delle rime, in una sintassi elaborata, l’impegno di uomo lo rende (come scrive nell’importante prefazione Joseph Harrison, sottolineando “il suo interesse per l’analisi, profondamente umana e spesso dolorosa, di chi siamo, di cosa abbiamo fatto gli uni agli altri e a noi stessi”), “il più limpido cronista della disumanità dell’uomo nei confronti dell’uomo, sia che il teatro di tale crudeltà fosse pubblico sia che fosse privato”.

 

© Riproduzione riservata        «Nazione Indiana», 23 gennaio 2019

 

 

 

RECENSIONI

HEIDEGGER

MARTIN HEIDEGGER, IL CONCETTO DI TEMPO – ADELPHI, MILANO 1997

Ne Il concetto di tempo, conferenza tenuta nel 1924, Martin Heidegger si interroga sul concetto di tempo come carattere costitutivo dell’esistenza umana, ponendo le basi per la riflessione più approfondita esplicitata in Essere e tempo, del 1927.
Partendo da Aristotele, e attraversando Le Confessioni di Agostino (di cui mantiene la fondamentale scansione tra passato-presente-futuro), Heidegger introduce un nuovo e inesplorato collegamento tra il tempo e l’essere, “l’esserci”, soprattutto considerato nella dimensione della progettualità.
Se quindi il passato è irrecuperabile, è un “non più”, e il presente è «il cattivo presente della quotidianità… vanità, pretesti, verbosità…brigare, affaccendarsi…», (perdersi, quindi, nel nulla del banale e del superficiale), il “come” autentico del nostro “esserci” si attua solo nel futuro, nel precorrimento. «Il precorrimento (Vorlauf), in quanto mette l’esserci di fronte alla sua possibilità estrema, è l’atto fondamentale dell’interpretazione dell’esserci (…) L’essere futuro dà tempo, forma pienamente il presente e consente di ripetere il passato nel ’come’ del suo essere stato vissuto».

All’esplicita svalutazione del presente – della moda, delle correnti, di ciò che succede – fa da pendant la svalutazione della storia – bisognerebbe arrivare di nuovo…a ciò che sta di sopra della storia; (…) l’esistenza odierna si è perduta nella pseudo-storia presente -, e ne consegue un’indicazione perentoria nella sua inapplicabilità: «per questa via immaginaria che porta alla sovrastoricità si dovrebbe trovare la visione del mondo». Ma nell’attualità della storia si può inciampare, verrebbe da commentare alla luce delle scelte esistenziali e politiche di Martin Heidegger: e magari cadere nel pozzo di Talete, divertendo la servetta trace.
Il fascino della filosofia heideggeriana rimane comunque inalterato. E questo libricino – da meditare – è corredato da un utile glossario e da un’interessante prefazione di Franco Volpi.

 

© Riproduzione riservata      

www.sololibri.net/Il-concetto-di-tempo-Heidegger.html 16 giugno 2016

RECENSIONI

HEIDEGGER

MARTIN HEIDEGGER, ORMAI SOLO UN DIO CI PUÒ SALVARE – GUANDA, PARMA 2011

«Entra. Sorprende il suo aspetto. Piccolo, piccolissimo, in costume regionale grigioverde dai risvolti ricamati, indossa dei knickers. Mi sconcerta il suo aspetto di contadino un po’ tarchiato, vestito a festa. Capelli d’argento, l’occhio nero, lo sguardo acuto, appare stanco. Una certa tristezza si legge sul viso dalle guance scavate, qualcosa di tragico… Un provinciale curioso che non si sarebbe mai avventurato fuori dalla sua terra natale». Con queste parole lo descrisse il suo discepolo Frèdèric De Towarnicki (1920-2008), incontrando per la prima volta a venticinque anni nel 1945 Martin Heidegger nella sua casa di Zähringen. Il rapporto tra i due durò circa un trentennio, in maniera discontinua e problematica: originale, anticonformista, vulcanico l’allievo; meditativo, austero, criptico il filosofo. Tornato nel periodo della protesta sessantottesca a visitare il Professore ormai vecchio, deluso, isolato, De Towarnicki osò chiedergli il motivo del suo tragico errore del 1933, contestandogli duramente la collaborazione con il nazismo. «Dummheit», rispose allora Heidegger: «Stupidità».

Fu solo stupidità, quindi, leggerezza, grave incomprensione del fenomeno storico, quella che portò il massimo interprete novecentesco della questione dell’Essere, a rispondere positivamente all’invito di Hitler che, con il consenziente accordo del Senato Accademico, gli assegnava il rettorato dell’Università di Friburgo? Un volume pubblicato da Guanda nel 1987, e riedito nel 2011, curato e introdotto con intelligenza e passione da Alfredo Marini, ci offre l’intervista che il filosofo di Messkirch concesse a due animosi inviati dello Spiegel il 23 settembre 1966, uscita per volontà di Heidegger solo dopo la sua morte, nel 1976. Ormai solo un dio ci può salvare fu la risposta data a una domanda sull’inevitabile declino del pensiero umanistico occidentale, prevaricato dalla tecnica e dall’economicismo. Il tramonto della filosofia, sostituita da scienze particolari (psicologia, logica, politologia, cibernetica), sembrava a Heidegger inevitabile, a meno che l’umanità non fosse in grado di risvegliare tradizioni antichissime del «pensare», radicate soprattutto nell’insegnamento dei classici greci, o nella visionarietà dei poeti. Una proposta senz’altro elitaria, conservatrice e insieme utopistica, la sua, che forse oggi trova alleati nei fautori della decrescita e negli ecologisti: «Oggi tutto funziona. Questo è appunto l’inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare e che la tecnica strappa e sradica l’uomo sempre più dalla terra».

Nelle parole di George Steiner, che dedicò – da ebreo – il libro forse più obiettivo e credibile (oltreché piacevolmente chiarificatore) al pensiero heideggeriano, la figura intellettuale e morale del filosofo tedesco non va ridotta al suo discutibile e comunque marginale ruolo politico negli anni del nazismo, ma rivalutata come insigne autorità in ogni campo della riflessione teorica del ‘900. Attraverso una dialettica tortuosa e irrisolta ma dinamica, sempre in ricerca lungo un «sentiero» che conducesse a una «radura» illuminata nell’oscurità del bosco che ci circonda, Heidegger ha influenzato tutta la filosofia, la teologia, la psicanalisi, l’estetica e la linguistica contemporanea, da Sartre a Derrida, da Bultmann a Rahner, da Gadamer a Lacan (e in Italia, da Severino a Galimberti e a Cacciari). Il suo richiamo a un necessario ritorno alla «dimora dell’Essere», all’autenticità dell’«esserci» nella realtà del mondo, attraverso la «cura», la preoccupazione per gli altri, e la riscoperta della verità, attingibile nell’arte e nella poesia, ha pervicacemente sottolineato il dovere umano di porsi delle domande sul significato dell’esistenza (perché l’essere, cos’è l’essere?) e, secondariamente, quello di provare meraviglia e gratitudine nei confronti del semplice e momentaneo vivere nel tempo.

Proprio indagando il concetto di tempo, Heidegger intuì l’importanza fondamentale della progettualità, di un divenire che sovrasta passato e presente per proiettarsi in un domani di salvezza. Se il passato è irrecuperabile, è un «non più», e il presente è «il cattivo presente della quotidianità… vanità, pretesti, verbosità… brigare, affaccendarsi…», (perdersi, quindi, nel nulla del banale e del superficiale), il «come» autentico del nostro «esserci» si attua solo nel futuro, nel precorrimento. «Il precorrimento (Vorlauf), in quanto mette l’esserci di fronte alla sua possibilità estrema, è l’atto fondamentale dell’interpretazione dell’esserci (…). L’essere futuro dà tempo, forma pienamente il presente e consente di ripetere il passato nel ‘come’ del suo essere stato vissuto». All’esplicita svalutazione del presente – della moda, delle correnti, di ciò che succede – fa da pendant in Heidegger la svalutazione della storia («bisognerebbe arrivare di nuovo… a ciò che sta di sopra della storia; (…) l’esistenza odierna si è perduta nella pseudo-storia presente»), da cui fa conseguire un’indicazione perentoria nella sua inapplicabilità: «per questa via immaginaria che porta alla sovra-storicità si dovrebbe trovare la visione del mondo».

A una tale interpretazione complessa, radicale e utopica del porsi umano nel mondo, si può senz’altro rimproverare una miopia effettiva e gravida di conseguenze riguardo agli avvenimenti catastrofici che portarono l’umanità al delirio delle persecuzioni naziste, della Shoah e della seconda guerra mondiale. Ed è ciò che fecero i giornalisti dello Spiegel nelle loro domande incalzanti, polemiche, a tratti sarcastiche sulla collaborazione di Heidegger con gli apparati dirigenti del Terzo Reich. Il filosofo si difese allora strenuamente, puntualizzando, presentando documenti e testimonianze, contestando sia dicerie popolari sia processi ideologici, appellandosi al diritto-dovere del filosofo di travalicare la contingenza della cronaca per approdare a una verità equidistante da qualunque moderna ideologia di massa (comunismo, nazismo, cristianesimo), nel compito di riconquistare la forma suprema dello spirito. Ma se l’accettazione dell’incarico di rettore a Friburgo nel 1933 fu un errore tattico prontamente espunto, indotto dall’ingenua convinzione di dover consolidare l’autoaffermazione dell’Università tedesca (errore pagato in seguito con una stretta sorveglianza poliziesca, l’emarginazione culturale e l’interdizione da qualsiasi incarico didattico), ben più grave risultò il silenzio di Heidegger sui campi di concentramento e sullo sterminio degli ebrei, che gli meritò l’accusa di antisemitismo, mai del tutto smentita.

La discrepanza tra un grande pensiero e una piccola biografia, tra lo studio dell’Essere in quanto tale e la baita di Todtnauberg in cui il filosofo-contadino si rifugiò («Fumiamo in silenzio le nostre pipe»), continua ad aleggiare come la più grave delle colpe sulla sua figura di intellettuale: pavido, reazionario, antidemocratico, indifferente alle sorti storiche del mondo che banalmente «mondeggia». Così il Maestro, figlio di un bottaio-sacrestano della Foresta Nera, si difendeva in una lettera, riconoscendo come unico tribunale la propria coscienza: «Credo di avere la vocazione interiore alla filosofia e, attuandola nella ricerca e nell’insegnamento, credo di fare ciò che le mie forze mi permettono per la destinazione eterna dell’uomo interiore, e così credo di giustificare da solo dinanzi a Dio la mia esistenza e il mio operare».

 

© Riproduzione riservata               «Il Pickwick», 5 luglio 2018

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

HEIDEGGER

MARTIN HEIDEGGER, CHE COS’È LA METAFISICA? E ALTRI SCRITTI – goWare, FIRENZE 2018

Nato come lectio magistralis tenuta da Martin Heidegger nel 1929 all’Università di Friburgo, Che cos’è la metafisica?, testo fondamentale della filosofia novecentesca, è stato successivamente arricchito dall’autore con un Poscritto nel 1943 e una nuova Introduzione nel 1949. Oggi viene riproposto dalle edizioni fiorentine goWare con un’ampia prefazione del curatore Federico Sollazzo, e due importanti contributi di Hans-Georg Gadamer e di Armando Carlini, a cui si devono anche la traduzione, le note e il commento del saggio.

Nella sua approfondita presentazione, il prof. Federico Sollazzo (docente di Continental Philosophy presso l’Università di Szeged, Ungheria) introduce i concetti-chiave delle tesi espresse da Heidegger, a partire dalla definizione stessa di metafisica e dalla contrapposizione tra filosofia e scienza, per arrivare alla necessaria inattualità del pensiero filosofico e al recupero della sapienza degli antichi greci.Metafisica è quindi quella specifica forma del pensiero che si interroga sulla relazione tra il “qualcosa” e il “niente”, e sulla domanda “perché l’essente e non piuttosto il niente”, con cui il filosofo di Meßkirch chiude il testo in questione. Metafisica e scienza divergono proprio nell’atteggiamento di fronte al nulla, poiché mentre la prima medita sull’origine della totalità e sull’Essere, l’indagine scientifica è interessata esclusivamente alle cose, ai dati di fatto, “all’essente stesso”, negli ambiti di discipline particolari, spesso sconnesse tra di loro.

Il breve saggio di Heidegger si sofferma soprattutto sull’analisi del concetto di niente, nella sua opposizione all’essente, recepito da noi come “straneità, l’assolutamente altro – dirimpetto al niente”, che ci procura angoscia. Il niente nientifica, perché rimanda al suo opposto, all’essente che scompare nella totalità. Essere, essente, niente appartengono alla terminologia heideggeriana, sempre di controversa interpretazione, quanto mondità e angoscia, e i notissimi “Dasein” e “Sorge”, illustrati in Essere e Tempo. I tre filosofi che in questa pubblicazione commentano il testo (Sollazzo, Carlini e Gadamer), pur sottolineando l’assoluta e dirompente originalità del filosofo tedesco, ne indicano le suggestioni tratte dai greci e dal cristianesimo, da Kierkegaard e Nietzsche, analizzando l’evoluzione delle sue teorie a partire proprio dall’opera esaminata, a cui non risparmiano acute critiche per alcune incongruenze metodologiche. Cosa davvero si deve intendere per Essere? Heidegger non propone nessuna mistica o religione dell’Essere, non pretende di spiegare perché esiste ciò che esiste (un inconoscibile che rimane avvolto nel mistero), ma afferma che tutto ciò che l’uomo può fare è tenersi aperto, e quindi vigile, all’incontro con questo perché. Quella heideggeriana è pertanto configurabile come una metafisica dell’immanenza, che non cede tuttavia al richiamo mondano delle questioni particolari e attuali, non segue le mode rischiando di abbassarsi al buon senso comune, non si impara come un mestiere o una tecnica: “La sola cosa che si possa dire è quello che la filosofia non può essere e non può dare”.

Il pensiero filosofico deve essere inattuale, non deve coincidere con l’oggi, ma mantenersi fuori tempo, senza lasciarsi assorbire dal presente, decaduto da quando ha privilegiato un tecnicismo indifferente e ripetitivo obliando l’Essere. Heidegger svaluta il pensiero rappresentativo, che ha dominato l’occidente da Platone a Nietzsche, in favore di un pensiero riflessivo, rammemorante, evocativo, preplatonico: l’unico capace di farci esperire la nostra appartenenza all’Essere. Non si tratta di rimpiangere il passato, ma di recuperare il “già stato” che perdura, e può sperabilmente rinascere in futuro. Un Martin Heidegger più rivoluzionario che reazionario, quello proposto da questa nuova edizione di Che cos’è la metafisica?, in grado di offrire arricchenti spunti di riflessione, un corredo esauriente di note, una ricca bibliografia e brani significativi della Lettera sull’ “Umanismo”.

 

© Riproduzione riservata     

https://www.sololibri.net/Che-cos-e-la-metafisica-E-altri-scritti-Heidegger. html      9 ottobre 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

HELD

RICCARDO HELD, MISHKIN – EINAUDI, TORINO 2024

Mi piace iniziare il commento a quest’ultimo, originale libro di versi di Riccardo Held, Mishkin, prendendo in considerazione la toccante prosa finale, che il poeta dedica alla memoria del suo gatto Mishkin, intitolando a lui addirittura l’intera raccolta. Un gatto particolare, appartenente a “un altro ordine dell’essere”, “una concentrazione inspiegabile di bene incondizionato”, “creatura infinitamente più complessa, sorprendente, strana, significativa e più simile a una cosa che non so chiamare in altro modo se non bene assoluto”.

La stessa acuta sensibilità ed empatia nei riguardi di ciò che è altro da noi, e pure ci assomiglia, ritroviamo se dalla pagina conclusiva del volume si risale alla prima sezione, “Andata”, in cui un centinaio di brevissime composizioni – giocose, spiazzanti, ironiche e insieme provocatoriamente meditative –, hanno come protagonisti animali, vegetali, oggetti, idee continuamente mutanti e indefinibili.

Ereditando una tradizione minoritaria della nostra letteratura, ma  presente e vivace già nell’antichità e nel medioevo (da Giovenale a Cecco Angiolieri, Lorenzo de’ Medici e Francesco Berni), attraverso l’800 di Giusti e dei grandi dialettali (Porta, Belli, Pascarella, Trilussa), per arrivare al ’900 dei futuristi e di Palazzeschi, fino ai contemporanei Fosco Maraini, Giulia Niccolai, Toti Scialoja e Gianni Rodari, la poesia “che si diverte” e “fa divertire” scardina ogni pretesa rigidità del testo, mettendo in crisi l’orizzonte di attesa del lettore. L’esempio più calzante cui fare riferimento rimane comunque quello del limerick anglosassone, di cui fu rappresentante insigne Edward Lear: cinque versi severamente regolamentati improntati a un umorismo più o meno pungente.

Gli strumenti usati da Riccardo Held nella sua produzione sono i più vari: nonsense, satira, parodia, grottesco, paradosso, contraddizione, lapsus, calembour, incoerenza lessicale, scelti alternativamente per creare situazioni imprevedibili, incarnazioni ibride e fluttuanti, ruoli imposti che si vorrebbero sovvertire. Ecco quindi una candela che non vede l’ora di spegnersi, una coperta stanca di stare sopra il letto anziché sotto le lenzuola, un leggio desideroso di poter osservare dall’alto il libro che sostiene, un quadro astratto occhieggiante con invidia una natura morta cinquecentesca. E poi insetti, pesci, uccelli che involontariamente si trovano a fare coppia con animali molto dissimili. I titoli delle composizioni sembrano ideati a bella posta per depistare il lettore: (New economy) “La cicala non canta / Lavora e si affatica / E quando il freddo avanza / Soccorre la formica”. Troviamo capovolgimenti di situazioni: (Fiaba triste) Un principe bellissimo / Colpito da malocchio / Desidera moltissimo / Trasformarsi in ranocchio”; giochi di parole: (Nuove coppie) Ad Asti all’asta un istrice / Si aggiudica un Vermeer / – Lo appendo – dice all’astice / – Nel nostro pied-à- terre”; sarcasmo ideologico: (Atti del convegno di linguistica): “Se la lasci un po’ in pace / La lingua non si offende / Lo dice pure Chomsky / Che certo se ne intende”.

E poi filosofi, pittori, scienziati, divinità mitologiche, tartarughe parmenidee e libellule rivoluzionarie: un microcosmo di esseri intenti a riflettere le contraddizioni della storia e del pensiero umano, schiudendo “tesori sempre nuovi / di saggezza e virtù e conoscenza!”

Le altre due sezioni che compongono il volume (Pausa e Ritorno) appaiono più intimiste e tradizionali, sia nella strutturata eleganza dei sonetti sia nei ricalchi dai classici. Un ricomporsi non solo formale, recuperando echi gozzaniani e crepuscolari, ma soprattutto esistenziale quello che il poeta si propone di conquistare, dopo tanto tempo e tanto studio trascorso a sporgersi fuori di sé: un recupero di interiorità e di memoria (“Spostarsi appena, mettersi al riparo”), per ritrovare voci e immagini perdute: dell’infanzia, della madre, dell’ispirazione poetica. Alla ricerca delle proprie ombre, da rivalutare nella loro generosità protettiva (“Eccomi qui di nuovo / Nel mio luogo di sempre / Dentro la chiesa scura del mio cuore / Che stupido pensare / Di poterlo lasciare”), vincendo i demoni che oscurano la gioia di vivere, e bloccano in un egoismo smemorato della sofferenza altrui.

Riccardo Held (Venezia 1954) vive tra Venezia e Vienna, occupandosi di teatro, musica, traduzione, critica letteraria.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 14 settembre 2024

RECENSIONI

HEMINGWAY

ERNEST HEMINGWAY, NEL NOSTRO TEMPO – XEDIZIONI, CAGLIARI 2022

Ernest Hemingway (1899-1961) pubblicò la sua prima raccolta di racconti nel 1924, col titolo originale “in our time” (tutto minuscolo come nella preghiera anglicana a cui fa riferimento). Il volume, uscito in piccola tiratura per la “Three mountain Press”, fu messo poi in vendita nella famosa libreria parigina “Shakespeare & Company”, che all’epoca il venticinquenne autore frequentava con assiduità, insieme al gruppo di artisti riuniti intorno alla carismatica figura di Gertrude Stein.

La piccola casa editrice cagliaritana Xedizioni ripropone ora quest’opera d’esordio poco nota in Italia, servendosi della traduzione del Consorzio Zero37, blog collettivo di lettere e cultura con la passione della tipografia elettronica. Dal libro è stato tratto un film nel 1961, Adventures of a Young Man, con la regia di Martin Ritt.

Si tratta di quindici racconti, ciascuno dei quali è preceduto da una breve prosa avulsa dal testo che lo segue immediatamente, ma collegata ad esso perché riferita allo stesso protagonista: Nick Adams, un ragazzo del Nord Ovest degli States, figlio di un medico che presta la sua opera in una riserva indiana. Nei brani più estesi possiamo ritrovare tutti i temi della produzione maggiore di Hemingway: dalle scene di guerra combattute in Europa nel primo conflitto mondiale alle sbronze tra amici, dal tifo del pubblico nelle corride in Spagna alle schermaglie amorose di coppie dell’alta borghesia americana.

Si riconoscono quindi i tratti biografici della vicenda umana dell’autore, e soprattutto la sua sensibilità nei riguardi della sofferenza di tutto ciò che esiste, compiendo e patendo violenza: uomini, donne, bambini, ma anche gli animali nella foresta, i pesci nei fiumi, gli alberi abbattuti, i tori infilzati nell’arena.

Nick adolescente assiste il padre che pratica un parto cesareo a una giovane squaw, mentre il marito terrorizzato si taglia la gola col rasoio. Nick ragazzo tronca brutalmente i rapporti con la fidanzatina per timore di rimanere incastrato dalla fagocitante famiglia di lei. Nick quasi adulto fa a botte con un ubriacone deforme e scappa di notte lungo i binari della ferrovia, senza una vera meta da raggiungere. Nick soldato difende una fortificazione alleata sparando contro i tedeschi con la stessa indifferenza con cui osserva la propria ferita alla schiena. Nick reduce torna in patria senza nessuna voglia di riprendere il suo posto nella vita civile. E poi le discese con gli sci tra le montagne in Svizzera, le discussioni intellettuali sui romanzieri inglesi, le corse dei cavalli negli ippodromi italiani e francesi, la pesca solitaria delle trote nelle acque limpide trai boschi.

È comunque lo stile di questi racconti, frammentari e talvolta solo abbozzati, che fa già riconoscere la magistrale perizia dell’Hemingway maturo: conciso, privo di retorica o sbavature descrittive, scevro di qualsiasi psicologismo fasullo, rapido come nelle cronache del giornalismo sportivo: puramente denotativo, mai carico di introspezione retroattiva. Una modalità di scrittura che ha segnato un discrimine nella letteratura occidentale, tra la sontuosità ottocentesca e la scialba futilità della narrativa contemporanea. Perché elegante e sorvegliata senza pesantezza, imitata da tutti gli scrittori americani del dopoguerra, e poi esportata ed emulata anche in Europa.

Dice il proverbio che il buongiorno si vede dal mattino, e il mattino del giovane Ernest è stato da subito molto luminoso.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net › … › Nel nostro tempo di Ernest Hemingway

17 novembre 2022

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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HERNANDEZ

MIGUEL HERNANDEZ, LE TRE FERITE – EDIZIONI DELL’ASINO, ROMA 2022

Le romane Edizioni dell’Asino pubblicano, con traduzione e cura di Giovanna Calabrò, Le tre ferite, di Miguel Hernandez (Orihuela 1910-Alicante 1942), voce tra le più rappresentative della lirica spagnola novecentesca, tale da esercitare un’importante influenza sui poeti delle generazioni successive. Figlio di pastori, e pastore egli stesso fin da bambino, fu autodidatta, e riuscì ad affrancarsi da miseria e ignoranza trasferendosi a Madrid, dove si occupò di giornalismo, teatro e critica letteraria. Esordì ventitreenne con una raccolta di liriche di impianto gongoriano, mentre nelle opere successive si avvicinò al surrealismo sotto l’influenza e grazie alla frequentazione di Aleixandre e Neruda. Convinto antifranchista, nel corso della guerra civile militò tra le file repubblicane, combattendo in Andalusia ed Estremadura, e componendo poemi e drammi a sostegno della resistenza. In seguito alla vittoria falangista, nel 1942 fu condannato alla pena capitale, poi commutata in trent’anni di carcere. Nello stesso anno morì di tubercolosi nel carcere di Alicante.

In quest’ultimo volume tra quelli a lui dedicati in Italia (da Mursia, Laterza, Feltrinelli e più recentemente da Passigli, Quodlibet ed Elliot), l’intensa, affettuosa e ammirata prefazione dell’ispanista Giovanna Calabrò delinea accuratamente il suo fiero e tormentato percorso biografico, mettendone in luce gli snodi fondamentali che ne hanno segnato la produzione letteraria. Le poesie antologizzate, con testo spagnolo a fronte, provengono dalle quattro raccolte pubblicate in vita, e da una postuma: sono inoltre presenti versi occasionali, dispersi in varie riviste, o recuperati da manoscritti. La censura franchista aveva bloccato fino agli anni ’80 la produzione dell’opera omnia, in precedenza uscita solo in Argentina.

In versi amaramente autobiografici, così Hernandez definiva se stesso: “Con tre ferite io: / quella della vita, / quella della morte, / quella dell’amore”. Predominante negli argomenti trattati è appunto l’eros, appassionatamente incarnato da tre figure femminili: la moglie Josefina Manresa, madre dei suoi due figli, conosciuta nell’adolescenza; Maruja Mallo, sensuale e anticonformista pittrice madrilena; e l’intellettuale Maria Cegarra, a cui fu legato da profonda amicizia. (“Garofano di campo che richiaman le tue gambe / melagrana con la bocca squarciata di pienezza / cespuglio tremulo di rovi dai dolci denti / dove gettato io vivo // … Ancora mi fa rabbrividire il nostro primo incontro; / quando facemmo a pezzi la luna con i denti, / spingemmo il lenzuolo a un aprile di papaveri, / ci ispirava il mare”). Il sostantivo “amor” ricorre quasi settanta volte nel volume: altri termini sono ribaditi con una frequenza di poco inferiore: vida, muerte, corazón, insieme a sangre, tierra, viento.

Il legame con il paese nativo – Orihuela, nei pressi di Valencia – era da Hernandez vissuto visceralmente, così come quello con le proprie radici contadine, la “vida en el campo”, il lavoro di pastore (“poeta cabrero”, l’aveva definito con disprezzo il Generalissimo Franco), ostentato con ingenuità mista ad astuzia, sia per concentrare su di sé la curiosità degli ambienti intellettuali, sia per l’orgoglio di condividere “il mestiere di divinità pagane e di eroi biblici”, nell’appartenenza alla schiera eletta dei poeti della tradizione bucolica e della lirica amorosa del Siglo de oro: “Mi chiamo fango benché Miguel mi chiami, / fango è il mio mestiere e il mio destino / che macchia con la lingua ciò che lecca”.

I sentimenti di amicizia, come quelli filiali e paterni, sono testimoniati da versi di assoluta tenerezza, di fedele e generosa dipendenza affettiva: “Ridi piccino, / quando ti servirà / ti porterò la luna. /Allodola della mia casa, / sorridi, ridi”. Ma soprattutto la sua vicinanza alla classe degli sfruttati, dei lavoratori, lo fanno “poeta del pueblo”: “Venti del popolo mi portano, venti del popolo mi incalzano, e spargono il mio cuore e gonfiano la mia gola”, “Accostati al mio clamore / popolo del mio seme, / albero che con le radici / mi tieni prigioniero, / che qui sto io per amarti /e sto qui per difenderti / con il sangue e con la bocca / come due fucili fedeli”.

Poeta sentimentale e non cerebrale, a lui (“Miguel terrestre e aereo”), alla sua smaniosa fede politica, alla sua scrittura corposa, vibrante e visionaria, Giovanna Calabrò attribuisce un unico colore: il rosso. “Di sangue in sangue io vengo / come il mare d’onda in onda, / ho l’anima colore del papavero / e papavero sfortunato è il mio destino”.

Chi assistette alla morte di Hernandez raccontò che le sue palpebre non si abbassarono sugli occhi spalancati, quasi volessero rifiutarsi di chiudersi su un mondo che ancora attendeva il compimento della sua opera.

 

© Riproduzione riservata           «L’Indice dei Libri del Mese» n.IX, settembre 2022

 

RECENSIONI

HIGHSMITH

PATRICIA HIGHSMITH, ACQUE PROFONDE – BOMPIANI,MILANO 1989

 

Gli scrittori americani hanno in genere, da noi, molto successo, e non solo in questi ultimi anni – a partire dall’espandersi della recente ondata minimale dei minimalisti -, bensì dagli anni 20-30 fino a oggi. Forse piacciono tanto perché esportano, prima ancora che uno stile, il loro “american way of life” (quindi splendide bionde idiote, splendide macchine ruggenti, splendidi intrecci narrativi intrecciati); o forse perché si leggono in un giorno, piacevolmente, senza impegnare tanto le meningi. Proprio per le stesse ragioni, però, alcuni lettori (e la sottoscritta tra questi) non sopportano i loro romanzi: si irritano ogni volta che un personaggio esclama “Cristo!” mordicchiandosi le labbra, si incavolano alla prima risata isterica cui si abbandona una donna rovesciando la lunga chioma sulle spalle, sbattono definitivamente il libro da parte non appena il protagonista si mesce un long drink per “sorseggiarlo”. Per quello che riguarda il libro di cui sto per parlare, la tentazione di lasciar perdere mi è piombata già alla quindicesima riga, quando mi sono imbattuta nella fatidica frase «Alzò con calma il bicchiere di scotch allungato con acqua e lo sorseggiò». Ho vinto la tentazione e ho proseguito nella lettura fino alla fine, e una volta tanto non me ne sono pentita. Acque profonde è uno dei primi romanzi gialli scritti da Patricia Highsmith, autrice di grande successo popolare, tanto famosa quanto schiva e poco interessata a coltivare rapporti sociali e pubbliche relazioni: vive qui in Svizzera in una casa di montagna riattata, dedicandosi ai suoi romanzi e a piccoli lavori di falegnameria. Dai suoi libri sono stati tratti film famosi, come  L’altro uomo di Alfred Hitchcock e  L’amico americano di Wim Wenders, grazie alla trama fittissima di avvenimenti e al notevole spessore psicologico dei personaggi, elementi che ovviamente sono di grande aiuto agli sceneggiatori. Nel caso di  Acque profonde, il contrasto che fa scattare la situazione coinvolgendo l’attenzione di chi legge è, oltre a quello -stridente- tra i due protagonisti, quello più subdolo ma gravido di conseguenze tra l’indole pacifica del protagonista maschile e le azioni che si trova a compiere. Victor Von Allen, da tutti affettuosamente chiamato Vic, è un uomo tranquillo perché non ama le riunioni mondane, le feste da ballo, la musica leggera, preferendo invece dedicarsi a hobby innocenti e solitari quali l’allevamento delle lumache o la falegnameria o la lettura; originale perché, pur potendo vivere di rendita, si ostina a lavorare in una tipografia che non gli rende nulla, ama studiare le lingue antiche, veste male, viaggia in uno scassato furgoncino, dedica moltissimo tempo all’educazione dell’adorata figlioletta Trixie, e soprattutto perché sopporta con incredibile pazienza ed eccessiva comprensione gli innumerevoli e umilianti tradimenti della moglie, e il suo ottuso sadismo. Melinda Von Allen è una giovane e inquieta donna di provincia americana, sempre insoddisfatta e alla ricerca di nuove emozioni, molto convinta del suo fascino e molto annoiata del tran-tran domestico, cui cerca di sfuggire affidandosi all’alcol e a continue avventure con i tipi più disparati. Melinda invita gli amanti in casa, li trattiene a cena fino a notte fonda, si stordisce con loro di whisky e musica davanti agli occhi impotenti e vili del marito. Gli amici della coppia, tipici rappresentanti di una solida e conformista borghesia della provincia americana, osservano scandalizzati ma solidali con Vic il protrarsi mortificante di questa situazione, finché interviene qualcosa a modificare la scena. Per scherzo, Vic fa credere a un giovane amante di Melinda di aver ucciso uno dei suoi precedenti amici: la voce, poco controllata e poco credibile, si sparge tuttavia nella cittadina, riuscendo però solo a creare nella gente una catena di fiducioso sostegno e incrollabile amicizia con il marito tradito. Catena che non si spezza nemmeno quando altri due amanti di Melinda muoiono in maniera misteriosa. Patricia Highsmith è maestra nel trasformare i suoi personaggi in vittime di un meccanismo mentale oscuro e di coincidenze fatali, costringendoli in un ritmo serrato e incalzante di eventi che non permette loro alcuna libertà di manovra. Non rivelerò, chiaramente, come si conclude il romanzo: l’ho letto in tre ore, rimandando gli ultimi due capitoli a un risveglio più tranquillo, per evitare sonni agitati. Povera Melinda, povero Vic. Poveri noi che ci leggiamo i romanzi americani come i loro personaggi si scolano gli scotch.

 

«Agorà» (Svizzera), 6 dicembre 1989

RECENSIONI

HIGHSMITH

PATRICIA HIGHSMITH, GENTE CHE BUSSA ALLA PORTA – BOMPIANI, MILANO 2012

Gente che bussa alla porta di Patricia Highsmith, (Bompiani, 2012 con traduzione di Attilio Veraldi – ma negli USA è uscito nell’83), non risponde all’impianto tipico e ormai obsoleto del giallo classico. Si tratta, piuttosto, di un romanzo psicologico e d’ambiente che affronta uno dei problemi più assillanti della società odierna: la questione delle sette religiose e del fanatismo dei loro adepti. In una piccola città del Midwest, una tranquilla famiglia della middle class americana si vede improvvisamente sconvolgere l’esistenza dall’ostinata volontà di proselitismo e dal moralismo bigotto dei fedeli di una nuova chiesa. E’ «gente che bussa alla porta» con presuntuosa invadenza, nel desiderio di redimere e convertire i numerosi miscredenti della comunità cittadina.
La famiglia cui la Highsmith presta voce e carattere è ovvia nella sua tipicità piccolo-borghese. Il padre, Richard Alderman, agente assicurativo con orizzonti intellettuali e culturali assai limitati, vive saldamente abbarbicato ad alcuni indiscussi e indiscutibili principi di vita: risparmio, ubbidienza, conformismo. La madre Loris lo asseconda benevola e indulgente, più critica di lui rispetto alla falsità di questi miti, ma altrettanto incapace di contrastarlo o di prendere posizione. I due figli adolescenti, Arthur e Robbie, si sopportano a malapena, diversi come sono nel carattere e nelle ideologie. Arthur è un diciassettenne aperto e responsabile, molto versato per la biologia e futuro borsista in un college di prestigio, innamorato di una dolcissima coetanea; Robbie è invece il classico ragazzo difficile, introverso e infantile, nevrotico e misogino. Proprio una grave malattia di Robbie, risolta miracolosamente per gli effetti delle preghiere del padre, induce quest’ultimo ad aderire alle vischiose pratiche di un oltranzista movimento religioso della sua Chiesa.
Tutta la famiglia Alderman diviene così oggetto, testimone e protagonista insieme di una trasformazione capillare dell’esistenza quotidiana, di un bombardamento ossessivo di riti e pratiche di culto quasi superstiziose, nella negazione totale di qualsiasi possibilità di discussione o dissenso. La casa è invasa da pubblicazioni di stampo millenaristico (antievoluzionista, antifemminista, antitutto), frequentata dai soggetti più disparati (predicatori imberbi e brufolosi, preti aggressivi e donne equivoche perennemente sulla via della redenzione), e tra i membri della famiglia i rapporti si incrinano fino all’imbarbarimento totale. La ragazza di Arthur rivela di essere incinta e di voler abortire, provocando la reazione furiosa del padre di lui, che perseguita il figlio con ricatti e minacce, lo indica alla pubblica riprovazione e alla condanna dei suoi confratelli e infine lo allontana da casa.
Tanta protervia esteriore, tanto esasperato moralismo di facciata non corrisponde tuttavia a una condotta altrettanto cristallina nel privato, se la prostituta aiutata e protetta dall’integerrimo Richard Alderman si dichiara improvvisamente gravida di lui. Robbie, nella sua estrema fragilità psicologica, reagisce morbosamente allo sgretolamento dell’idolo paterno, e durante un litigio, scarica sul padre la sua carabina da caccia. Gli avvenimenti precipitano: Robbie viene rinchiuso in un carcere minorile, la madre e Arthur decidono di trasferirsi in una cittadina dell’Est. E’ la vittoria del buon senso, della morale laica e pacata dei più contro il misticismo intollerante di pochi, ipocriti savonarola in blue-jeans.

Patricia Highsmith ha costruito un romanzo a tesi, di alta tensione civile, sfruttando abilmente la sua capacità di inventare situazioni e personaggi credibilissimi, che agiscono a un ritmo serrato e intessono dialoghi convincenti, mai letterari. In uno stile curato e lieve, visivamente interessato alla superficie più che alla profondità, molto americano.

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http://www.sololibri.net/Gente-che-bussa-alla-porta.html      26 novembre 2015
RECENSIONI

HIGHSMITH

PATRICIA HIGHSMITH, SCHEGGE DI VETRO – BOMPIANI, MILANO 2005

Patricia Highsmith (1921-1995) autrice americana di noir, fu tanto nota quanto schiva e poco interessata a coltivare pubbliche relazioni: visse molti anni in Svizzera in una casa di montagna riattata, dedicandosi ai suoi romanzi e a piccoli lavori di falegnameria. Dai suoi libri furono tratti film famosi, come L’altro uomo di Alfred Hitchcock e L’amico americano di Wim Wenders, grazie alla trama fittissima di avvenimenti e al notevole spessore psicologico dei personaggi, elementi di ovvio interesse per ogni sceneggiatura. Come giallista, ebbe la pregevole qualità di saper ambientare le sue trame in realtà sociali indagate con attenzione quasi antropologica, e con uno spirito critico acuto e risentito. Ma dei dodici racconti presentati nell’antologia Schegge di vetro solo alcuni riescono a rispettare atmosfere e ritmi tipici dell’autrice, indagando turbamenti privati (quanti matrimoni falliti, famiglie angosciate, invidie professionali, psicosi trascurate!) e malesseri collettivi (periferie violente, corruzione, inquinamento): altri sembrano fluttuare tra il fantascientifico e un immaginoso poco convinto di sé.
Qua e là rispunta il tono mordace e satirico della Highsmith migliore: nella descrizione del conformismo medio-borghese, della vacuità del mondo accademico, dell’asfissia di rapporti sentimentali oppressivi. I due racconti più riusciti mi sono sembrati Lo stagno e Il farfallino di Woodrow Wilson. Nel primo, una giovane vedova ritiratasi in campagna col suo bambino viene sopraffatta dal crudele antropomorfismo di un acquitrino infestato da erbacce, di cui rimangono vittime sia lei sia il figlio. Nel secondo, un fattorino psicopatico affascinato dalle statue del Museo delle Cere della sua cittadina compie (per sfida, noia e scherno) una strage notturna all’interno dell’edificio, e pur incolpandosene apertamente non viene creduto né dalla polizia né dagli psichiatri, che lo ritengono un innocuo mitomane in cerca di celebrità.

 

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www.sololibri.net/Schegge-di-vetro-Highsmith.html        7 novembre 2016