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RECENSIONI

HIGHSMITH

PATRICIA HIGHSMITH, SCHEGGE DI VETRO – BOMPIANI, MILANO 2005

Patricia Highsmith (1921-1995) autrice americana di noir, fu tanto nota quanto schiva e poco interessata a coltivare pubbliche relazioni: visse molti anni in Svizzera in una casa di montagna riattata, dedicandosi ai suoi romanzi e a piccoli lavori di falegnameria. Dai suoi libri furono tratti film famosi, come L’altro uomo di Alfred Hitchcock e L’amico americano di Wim Wenders, grazie alla trama fittissima di avvenimenti e al notevole spessore psicologico dei personaggi, elementi di ovvio interesse per ogni sceneggiatura. Come giallista, ebbe la pregevole qualità di saper ambientare le sue trame in realtà sociali indagate con attenzione quasi antropologica, e con uno spirito critico acuto e risentito. Ma dei dodici racconti presentati nell’antologia Schegge di vetro solo alcuni riescono a rispettare atmosfere e ritmi tipici dell’autrice, indagando turbamenti privati (quanti matrimoni falliti, famiglie angosciate, invidie professionali, psicosi trascurate!) e malesseri collettivi (periferie violente, corruzione, inquinamento): altri sembrano fluttuare tra il fantascientifico e un immaginoso poco convinto di sé.
Qua e là rispunta il tono mordace e satirico della Highsmith migliore: nella descrizione del conformismo medio-borghese, della vacuità del mondo accademico, dell’asfissia di rapporti sentimentali oppressivi. I due racconti più riusciti mi sono sembrati Lo stagno e Il farfallino di Woodrow Wilson. Nel primo, una giovane vedova ritiratasi in campagna col suo bambino viene sopraffatta dal crudele antropomorfismo di un acquitrino infestato da erbacce, di cui rimangono vittime sia lei sia il figlio. Nel secondo, un fattorino psicopatico affascinato dalle statue del Museo delle Cere della sua cittadina compie (per sfida, noia e scherno) una strage notturna all’interno dell’edificio, e pur incolpandosene apertamente non viene creduto né dalla polizia né dagli psichiatri, che lo ritengono un innocuo mitomane in cerca di celebrità.

 

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www.sololibri.net/Schegge-di-vetro-Highsmith.html        7 novembre 2016

 

RECENSIONI

HIGHSMITH

PATRICIA HIGHSMITH, LA SPIAGGIA DEL DUBBIO – BOMPIANI, MILANO 2002

Un romanziere americano, Howard Ingham, (trentaquattrenne, alto e piacente, umiliato dalla recente separazione dalla moglie e timoroso di impegnarsi con la nuova fiamma Ina) viene scritturato da un giovane regista newyorkese per scrivere una sceneggiatura televisiva ambientata in Tunisia.
Arrivato nel paese africano passa alcuni giorni nella capitale per ambientarsi e cercare spunti ed eventuali protagonisti da utilizzare nella trama del film. È il 1967, ed è appena imprevedibilmente scoppiata la guerra dei sei giorni tra Israele ed Egitto; il clima politico si sta surriscaldando, nonostante la presidenza di Bourghiba tenda a modernizzare al massimo il Paese e a limitare gli eccessi di fanatismo religioso. Temendo rappresaglie da parte della popolazione araba nei confronti degli occidentali, Howard si trasferisce ad Hammamet, dapprima alloggiando in un lussuoso hotel, quindi sistemandosi in un bungalow.

Patricia Highsmith, maestra non solo nel creare atmosfere sospese tra fiduciosa apertura verso le situazioni nuove e dubbiose incertezze riguardo allo spessore morale dei protagonisti, risulta al lettore molto abile nel tratteggiare ambienti ed abitudini locali, turbamenti psichici e convinzioni ideologiche su cui appoggiare gli avvenimenti: in questo romanzo è più evidente l’introspezione psicologica che la suspense, mancando gli ingredienti base del thriller che si rispetti.“Case bianco calce con persiane azzurre… Mai una porta chiusa, così puoi vedere stanze con tappeti a terra, bambini a quattro zampe, bracieri accesi e nonne che vi sventolano davanti i lembi dei loro scialli”.

È estate, le spiagge e gli alberghi sono pieni di turisti, uomini d’affari, cammellieri in turbante, studenti in cerca di avventure, ricchi arabi oziosi.
La vicenda si complica da subito perché Howard, non riuscendo a mettersi in contatto con New York e non ricevendo alcuna comunicazione dal regista e dalla fidanzata, si vede costretto a temporeggiare nell’inattività, senza riuscire a stabilire alcun tipo di reciproca simpatia con la gente del posto e interagendo abbastanza superficialmente solo con i turisti suoi vicini nell’hotel. Venuto a conoscenza di strani e luttuosi avvenimenti successi in America (il suicidio del suo amico, innamoratosi infelicemente di Ina) decide di prolungare il suo soggiorno in Tunisia, dedicandosi a un progetto di romanzo. La tensione interiore, i sospetti sul reale sentimento che lo lega alla fidanzata e sulla lealtà di lei, una serie di violenze a cui assiste e soprattutto l’ostilità avvertita tra gli arabi, lo rendono ansioso e spaventato, al punto da spingerlo a reagire con un omicidio a un tentativo di furto effettuato nel suo bungalow da un ladruncolo del luogo.

La scrittura di Patricia Highsmith, più lenta e farraginosa nella descrizione degli eventi di quanto sia sua abitudine, si addentra nei meandri mentali del protagonista, attanagliato da sensi di colpa, disprezzo per il Paese ospite e i suoi abitanti, desiderio di fuga e volontà di rimozione. Finché il succedersi di inquietudini soprattutto sentimentali lo irretiscono in una rete di incertezze esistenziali e di dubbi sulla propria moralità, per cui La spiaggia del dubbio tunisina diventa a tutti gli effetti da torridamente concreta a tormentosamente persecutoria.

 

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https://www.sololibri.net/La-spiaggia-del-dubbio-Highsmith.html         21 gennaio 2018

 

 

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HINDERMANN

FEDERICO HINDERMANN, SEMPRE ALTROVE – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2018

L’editore milanese Marcos y Marcos ha pubblicato all’inizio di quest’anno un’antologia dell’opera di Federico Hindermann (Sempre altrove. Poe­sie scel­te 1971-2012), curata da Mat­teo M. Pe­dro­ni e in­tro­dot­ta da Fabio Pu­ster­la. Hindermann, poeta coltissimo e appartato quanto pochi, nacque in provincia di Biella nel 1921 da padre svizzero-tedesco e madre piemontese, passò la sua prima infanzia a Torino e si trasferì poi a Basilea. Qui e a Zurigo studiò romanistica e letteratura comparata, intraprendendo la carriera giornalistica. Dal 1950 divenne lettore all’università di Oxford e, conseguito il dottorato, ricoprì la carica di professore di filologia romanza all’università di Erlangen. Tornato in Svizzera, si dedicò all’attività di traduttore e di direttore editoriale per la casa editrice Manesse. Morì ad Aarau nel 2012. La sua produzione letteraria iniziò nel 1941 con la pubblicazione di poesie in tedesco, ma dal 1978 proseguì servendosi principalmente della nostra lingua. A cavallo tra la cultura elvetica e quella italiana, Hindermann ha nutrito i suoi versi di apporti dal tedesco, dal francese e dall’inglese, grazie alla frequentazione assidua delle diverse letterature e alle esperienze lavorative in Germania e in Inghilterra. Le sue poesie, oltre a utilizzare termini stranieri, evidenziano eredità culturali che dagli ermetici (Montale, soprattutto) risalgono a Dante, e si nutrono di apporti filosofici e scientifici.

Un’attenzione particolare è riservata alla natura, nei suoi elementi vegetali e animali, indagati e nominati con estrema precisione. Uccelli e insetti, con la loro alata e quasi angelica leggiadria, con la loro effimera, gioiosa e colorata esistenza, abitano i versi come messaggeri simbolici di significati “alti”, di doti morali: farfalle coccinelle libellule, fringuelli allodole colibrì gazze e pettirossi. Piccoli abitanti dei boschi e dei campi, celebrati nella loro innocente fisicità. Giustamente Roberto Galaverni definisce Hindermann «poe­ta an­zi­tut­to di ester­ni, del ve­de­re, dell’os­ser­va­re, del ca­pi­re»: con le creature più piccole vige un rapporto di francescana solidarietà e amicizia, talvolta velato da una pena leggera, dal senso di colpa di chi si riconosce artefice di violenza, padronanza e sopruso: «Perdóno / supplico per la farfallina bionda / che nel suo strano delirio / m’accarezzava la fronte e che uccisi, / senza saperlo, schiaffeggiando a tastoni / nella penombra; perdóno / per quest’altra vittima / del mio ottuso potere, / così infimo eppure sempre / così male usato».

Un rapporto ancora più empatico, di intenso legame affettivo e di reciproca dipendenza, lo lega ai gatti, regali, flessuosi e indipendenti inquilini del tepore domestico. Il micio «impigrito» o «spampanato» che con lui ascolta una sonata di Schubert, o «il gatto che lungo / il vetro sonnecchia e cui scuote / un crampo le ganasce e freme / azzannando nel vuoto / voli lontani»; o ancora Beaux-yeux, il felino di casa, che torna con una piccola preda, rivelando sentimenti di gioia, fierezza e terrore quasi umani: «in uno / sguardo che uguale brilla / nel toporagno e in Beaux-yeux tigrata / che me lo porta in dono ancora vivo. / Forse le fusa e lo stridìo non sono / che voci di un’unica bontà». Animali che patiscono e com-patiscono insieme a chi li osserva, in una comune fragile creaturalità: «i polpastrelli rosa del gatto / raccolto a mazzetto sotto il muso a dormire / come fossero grazia soltanto / e non forse angoscia, preghiera / fiori deposti / in sacrificio anche loro».

Si nota, nelle poesie di Federico Hindermann, la ripetizione frequente del verbo “passare”, non solamente nel significato di trasmettere, mandare segnali da un essere all’altro, ma anche indicando la fugacità lieve di un transito nel vivere, di un tacito percorrere le ore e le giornate. Sono versi, i suoi, nutriti di poche parole, di scarsi colloqui («quanto silenzio bisogna / aver ascoltato, quanto cielo negli occhi…»), e invece pieni di sguardi, lunghi attenti e meditativi, che sanno transitare dall’osservazione incantata di un particolare a una riflessione più filosofica, cosmica, dall’impronta religiosa. Il “Tu” cui spesso il poeta si rivolge non sottintende però alcuna supplica, non richiede l’esaudimento di una preghiera; è piuttosto pura contemplazione dell’altro da sé (alla maniera dei mistici tedeschi citati, Eckhart, Böhme), che si confonde con una riflessione sul tempo e sulla fine del tempo: numerose sono infatti le poesie per i morti, ambientate nei cimiteri o durante un funerale.

La scrittura di Hindermann non sollecita nessuna confidenza, rimanendo algidamente classica, ponderata, discreta; pur nella linearità dello stile sa farsi abissale, concentrandosi nello scavo semantico e nell’interrogazione sospesa sul mistero dell’inspiegabile, del non misurabile, del tragicamente necessario: «Sull’uscio di casa, / appena giunto sull’uscio / già mi conturba il mondo», «S’aggancia al cielo, trascina / in altre logiche che non so seguire / quest’episodio in eterno forse, / scrollando le spalle, riassesto / forse il respiro che rantola, stenta, / o faccio macerie del mondo / che debbo reggere, i piedi puntati / sui sismi, le ondate forse / riposeranno, il capriccio di un attimo basta / per credere che tutto sia». Nelle ultime raccolte in forme brevi chiuse (un quinario e due endecasillabi rimati), il tono si fa più sentenzioso e ironico con l’assumere le forme di mottetti o stornelli, nutriti di richiami biblici, danteschi e carnascialeschi medievali, rimanendo comunque pregno di pensosa malinconia: «Per me diffido / del bene: fatto, non voglio saperne; / del male no: ce l’ho già fin dal nido», «In usufrutto / Dio dona la mela che mordo: perché / la gioia già col rimorso d’un lutto?».

Fabio Pusterla nella prefazione al volume sottolinea quanto il ricorso costante alle antitesi metta in luce due caratteri fondamentali e opposti della scrittura di Hindermann: armonia e contrasto, così come sembrano essere riassunte dal titolo di una sua raccolta del 1980: Docile contro. La voce del poeta, sempre controllata a evitare sbavature emozionali, nutrita di una solennità asseverativa, è però anche pacata, ricca di pietas: docile, appunto, nella capacità di adeguarsi all’esistente, mantenendo però una sua consapevole e orgogliosa alterità.

 

© Riproduzione riservata           «Il Pickwick», 9 aprile 2018

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

HOOKS

BELL HOOKS, LA VOLONTÀ DI CAMBIARE – IL SAGGIATORE, MILANO 2022

bell hooks (1952-2021), scrittrice e attivista afroamericana, era nata nel Sud rurale e segregato degli Stati Uniti degli anni cinquanta. Il suo pseudonimo – bell come la madre, hooks come la nonna materna, con le iniziali minuscole – rimanda a un continuum di discendenza femminile che rifiuta il sistema maschile di attribuzione dei nomi. Figura di spicco del femminismo e del pensiero radicale americani, focalizzò la sua ricerca sulla interazione tra razza, capitalismo e gender, che genera e perpetua sistemi di oppressione e dominazione di classe. Autrice di una quarantina di libri, hooks ha insegnato in prestigiose università statunitensi, ricevendo riconoscimenti internazionali. L’ultimo suo volume tradotto in Italia da Il Saggiatore si intitola La volontà di cambiare, e indaga la mascolinità nel suo rapportarsi alla violenza, alla repressione delle emozioni, all’affettività trascurata.

Già nell’introduzione, riflettendo sul fatto che la maggior parte delle donne ha vissuto la relazione col padre in termini di paura, oppressione, mancanza di confidenza, hooks si chiede come mai il femminismo non abbia saputo o voluto tentare una lettura del mondo maschile se non attraverso la lente della violenza, rinunciando a esplorare in profondità il rapporto vissuto con esso nei vari ruoli di madri, mogli, figlie, sorelle, e rifiutando di creare uno spazio di incontro, comprensione e riconciliazione tra i due sessi.

Se negli ultimi trent’anni gli uomini hanno accettato di condividere con le donne la sfera del potere nel mondo del lavoro e del sesso, non sono tuttavia riusciti a mettersi in discussione emotivamente, rifiutandosi di cambiare nei rapporti sentimentali e affettivi, e chiudendosi davanti alla richiesta di amore da parte dell’universo femminile. Già dall’infanzia la ricerca dell’amore e dell’attenzione paterna da parte di bambini e bambine rimane insoddisfatta: “Quella ricerca raramente produce un risultato. Di solito la rabbia, il dolore e l’inevitabile delusione portano donne e uomini a eliminare quella parte di sé che sperava di essere toccata e guarita dall’amore maschile. Imparano ad accontentarsi di quel poco di attenzione positiva che gli uomini sono in grado di dare… L’amore materno è abbondante e manifesto: ci lamentiamo perché ne abbiamo troppo. L’amore di un padre è una gemma rara, da cercare, lustrare e conservare come un tesoro. Il suo valore è altissimo a causa della sua scarsità”.

Prigionieri di un ruolo imposto loro dalla stessa cultura patriarcale che li ha forgiati, in realtà i maschi soffrono di non poter e saper esprimere il bisogno di amare ed essere amati, di ricevere e dare tenerezza. “I costumi patriarcali impongono agli uomini una sorta di stoicismo emotivo in base al quale sono più virili se non provano sentimenti ma, se per caso dovessero provarli e quei sentimenti li ferissero, l’unica reazione virile sarebbe soffocarli, dimenticarli, sperare che spariscano”. Anche le donne hanno timore di esplorare il dolore maschile, definendo narcisista o insicuro l’uomo che esterna difficoltà emotive, e chiede di essere ascoltato nella propria sofferenza. Soprattutto le madri finiscono per insegnare e inculcare nei figli maschi i valori tramandati per millenni dalla cultura dominante, che ha permesso loro l’espressione di un unico sentimento: la rabbia, censurando ogni manifestazione di vulnerabilità e debolezza.

Il fine che l’autrice si propone di raggiungere in questo volume è appunto non solo di esplorare le difficoltà in cui gli uomini si dibattono per celare fragilità e bisogno di amore, ma anche di aiutarli a conoscersi, rivalutando le loro potenzialità di comprensione e solidarietà con l’altra metà del cielo.

Ricostruisce quindi la storia del patriarcato nelle sue espressioni storiche e geografiche, per passare poi ai condizionamenti vissuti da chi nasce maschio a partire già dalla prima infanzia, attraverso poi il difficile passaggio della pubertà e i vincoli e le repressioni che minano la sua autostima nella sfera sessuale e lavorativa. Se gli uomini sono costretti a indossare perennemente una maschera per affermare la propria virilità, finiscono per vivere nella menzogna o in uno stato di falsa identità, attraverso rapporti basati sul potere, sul controllo, sulla segretezza, sulla simulazione, sul distacco o la dissociazione che spesso li portano a sfogare le loro frustrazioni in maniera violenta. “Per guarire, gli uomini devono imparare a sentire di nuovo. Devono imparare a rompere il silenzio, a parlare del dolore… Nella cultura patriarcale, ai maschi non è consentito essere semplicemente ciò che sono e gioire della loro identità unica. Il loro valore è sempre determinato da ciò che fanno”. Secondo bell hooks le donne devono aiutare i loro compagni, figli, fratelli nel recupero relazionale, di riconnessione, di creazione dell’intimità e del senso di comunità: “In un mondo in cui bambini e uomini ogni giorno si smarriscono dobbiamo creare guide, cartelli, nuovi percorsi… Dobbiamo essere pronte ad abbracciarli, a garantire un amore capace di offrire rifugio al loro spirito ferito mentre cercano di trovare la strada di casa, mentre esercitano la volontà di cambiare”.

Ma anche questo soccorrevole aiuto, questa generosa empatia, non finirà per perpetuare in eterno il ruolo di crocerossina servizievole, comprensiva e indulgente in cui le donne vengono relegate da millenni?

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 17 febbraio 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

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HOPKINS

GERARD MANLEY HOPKINS, POESIE 1875-1889 – EINAUDI, TORINO 2022

Un volume fondamentale, quello che Einaudi dedica a Gerard Manley Hopkins (Stratford 1844-Dublino 1889), con una dettagliata ricostruzione biografica, un puntuale commento interpretativo, una ricca dotazione di note e un’esaustiva bibliografia della curatrice Viola Papetti, che ha tradotto le poesie con elegante perizia. Compito non facile, perché la scrittura di Hopkins non è immediatamente approcciabile, sia nei temi (che spaziano dalla teologia, alle scienze e alla storia) sia nella forma, audacemente sperimentale nella sintassi, innovativa nelle scelte lessicali, nella metrica e nell’accentuazione. Ricco di allitterazioni, anacoluti, paradossi, fonosimbolismi, contrappunti ritmici, parallelismi, in una continua torsione stilistica ottenuta attraverso l’omissione di nessi logici e grammaticali e l’accumulazione di senso, lo stile di Hopkins è pienamente rivelatore della sua inquietudine intellettuale e della tensione emotiva con cui partecipa, in gloria e in penitenza, alla celebrazione di Dio e del creato: “not live this tormented mind / With this tormented mind tormenting yet”. Un esempio dell’estrema modernità linguistica del poeta gesuita, possono darlo questi versi tutti giocati sul suono spesso indipendente dal significato, sull’onomatopea, sulla ripetizione vacua e martellante delle sillabe: “Or a jaunting vaunting vaulting assaulting trumpet telling”, “Whorlèd wave, whelkèd wave, – and drift”, “Fallow, foam-fallow, hanks – fall’n off their ranks”, “And the sunlight sidled, like dewdrops, like dandled diamonds”, “A wíndpuff-bónnet of fáwn-fróth”, “Pitched past pitch of grief”…

La sua produzione comprende una cinquantina di poesie complete (più una ventina di frammenti e abbozzi di liriche), diversi saggi di critica letteraria e di musicologia, pagine di diario e un epistolario, ma rimase inedita fino al 1918, quando il suo vecchio compagno di studi Robert Bridges, “poeta laureato” da Giorgio V, pubblicò una vasta scelta di versi, ampliata successivamente in diverse edizioni. Apprezzato da Pound ed Eliot, dai nostri Montale, Bertolucci, Giudici e Raboni, ottenne solo nella seconda parte del ’900 il meritato riconoscimento letterario a livello internazionale.

Beppe Fenoglio, che lo aveva tradotto, ne parlava con ammirazione: “È arduo poeta. Concorrono a formare questa sua monumentale difficoltà la peculiarità della sua ispirazione, la sua cultura esoterica e il suo stile. Uno stile da splendido isolato, da artista senza maestri e senza allievi. Sfrenata, oseremmo dire libertina, è la fantasia di questo gesuita”. E nell’appendice al volume einaudiano, un intervento di Giorgio Manganelli sui poeti cattolici inglesi dell’ottocento, riporta diciassette penetranti righe dedicate a Hopkins, poeta “non da amare ma da temere” per la sua “verticalità atroce”, per il “linguaggio estatico ed abbagliante… oscuro non torbido”, che ha “qualcosa di immite com’è della ferina geometria del barocco, anche nelle sue dolcezze”.

Gerard Manley Hopkins, primo tra otto figli di una colta e ricca famiglia di assicuratori marittimi, ebbe un’educazione scolastica di prim’ordine, nella severa Highgate School di Hampstead, e quindi a Oxford, nel collegio di Balliol, dove si perfezionò in studi classici e filosofia, seguendo tuttavia soprattutto i suoi interessi religiosi. A ventidue anni si convertì dal protestantesimo al cattolicesimo, entrando due anni dopo nella Compagnia di Gesù, scelta avversata dalla cerchia parentale, dei docenti e degli amici intellettuali. Dopo un rigido noviziato, nel 1877 fu ordinato sacerdote e destinato sia all’insegnamento sia al servizio in diverse diocesi: Londra, Oxford, Liverpool, Glasgow, fino alla poco amata destinazione finale di Dublino, dove ebbe l’incarico di professore di letteratura greca e latina presso il college cattolico della Royal University of Ireland. Eccentrico, ansioso, sensibile, gentile, non riscuoteva molto successo né tra i fedeli durante le omelie, né tra gli allievi, mettendo a dura prova la sua salute con l’impegno indefesso negli studi letterari e musicali, nell’insegnamento, nelle pratiche ascetiche perseguite con intransigenza. Morì a quarantacinque anni di febbre tifoide, bruciato nella fragilità fisica da un implacabile fuoco interiore, “ossessionato dal tema dell’Essere e della fine dei tempi”.

La poesia di Gerard Manley Hopkins ruota intorno a tre temi fondamentali: Dio, la bellezza, il peccato. Nel peccato, inteso come disarmonia spirituale, arbitrarietà di giudizio, irrequietezza spirituale, riconosce se stesso, creatura effimera e fallace, in versi frantumati e assillanti, esplorativi del conscio e dell’inconscio: “Anima, io; su, povero me, ti consiglio, / tu, stremato, smetti;  svia i pensieri per un po’ / altrove; libera la radice del conforto; gioia cresca // dove Dio sa quando fino a quanto Dio sa”; “faticosi i giorni, i compiti; / cedere, farsi disarcionare, e obbedire, // … Sentiamo il nostro cuore contro se stesso stridere; uccide / schiacciarlo anche più fieramente”; “Quella notte, quell’anno / d’ora terminata tenebra io sciagurato giacqui lottando / con (mio Dio!) mio Dio”. Suppliche e maledizioni che ricordano i più angosciosi salmi, le tenebre in cui si dibattevano i mistici medievali, i cilici e le mortificazioni degli ordini flagellanti, l’ardore dei sonetti di Donne.

La divinità è percepita soprattutto nella formula trinitaria: un Dio padre severo, roccioso, che ammonisce e castiga sullo sfondo di una natura ostile, di tempeste, naufragi, deserti. Il Figlio è invece redentore, dolcezza del perdono e umiltà del gesto riparatore, consolazione: “Cristo cura: l’interesse di Cristo, cosa c’è da accettare / o emendare / li guarda, vuole col cuore, con zelo incalza, col piede / segue gentile, / loro riscatto, loro riscossa, e primo, fermo, ultimo amico”. Lo Spirito è alito di grazia, purezza di colomba, sollievo edificante: “lo Spirito Santo sopra il curvo / mondo cova con caldo petto e con ahi! luminose ali”.

La bellezza, infine, è un riflesso del bene e della libertà spirituale proposta dalla parola evangelica, traccia dell’apparizione numinosa del divino, emozione epifanica. Le onde del mare, la campagna del Galles, una conchiglia, la bambina Margaret che piange, i fringuelli, le trote, la notte stellata, tutto ciò che (“acquatico e selvatico”) si offre all’occhio estasiato, all’orecchio vigile: “Tutte le cose contrarie, originali, frali, strane; / quel ch’è instabile, lentigginoso (chissà come?) / con lesto, lento; dolce, amaro; abbagliante, torbo; Egli pro-crea la cui bellezza mai muta: / lodatelo”. “A che serve la bellezza mortale?”, si chiede in una poesia, così rispondendo: “tiene calda / l’intelligenza dell’uomo alle cose che sono; a quanto / significa il bene”.

Poiché “Il mondo è carico della grandezza di Dio”, anche il male trova una sua giustificazione nella storia umana, per quanto ingiusta e crudele. Nel famoso poema in ottave di trentacinque stanze Il naufragio del Deutschland, scritto in memoria di cinque suore affogate nell’inabissamento di una nave a vapore il 7 dicembre 1875, l’evento drammatico si trasforma in parabola, indicando il contrasto tra la potenza di Dio – creatore e distruttore – e la fragilità dell’uomo, la cui sofferenza diventa viatico per la salvezza.

La poesia di Hopkins conosce uno sviluppo contorto e doloroso, seguendo i sentieri di una fede continuamente rimessa in discussione: avvampa di improvvisi esaltati bagliori e si incupisce nel dubbio, nel rifiuto e nella disperazione. Le ultime composizioni, i celebri “sonetti oscuri”, esprimono timore e tremore nell’avvicinarsi della vecchiaia (“My winter world”), rassegnazione (“placo / qui le mie tempeste, il fuoco e la furiosa febbre”), e delusione, rimpianto, solitudine, abbandono: “L’uccello nidifica – ma io no; no, e mi sforzo, / eunuco del tempo, e non produco un’opera che viva”.

Viola Papetti, nel suo davvero lodevole lavoro di curatrice e traduttrice, afferma che le “poesie impervie e imperative” di Hopkins dimostrano quanto egli sia stato “incessantemente poeta, teologo, linguista”, in maniera tale che nessuna delle tre funzioni prevale sulle altre, ma insieme compenetrate danno linfa a una delle voci più singolari e intense della letteratura inglese.

 

© Riproduzione riservata                           «Gli Stati Generali», 19 aprile 2022

 

 

 

 

 

 

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HOUELLEBECQ

MICHEL HOUELLEBECQ, CONFIGURAZIONI DELL’ULTIMA RIVA – BOMPIANI, MILANO 2015

Non avendo mai letto un romanzo di Houellebecq, avendo visto solamente il film tratto dal suo libro Le particelle elementari, e seguito piuttosto distrattamente le polemiche sul suo anti-islamismo, forse non è stata un’ottima idea approcciare la sua produzione letteraria attraverso le poesie appena pubblicate da Bompiani. Perché queste Considerazioni dell’ultima riva mi sono parse piuttosto banali, sia dal punto di vista contenutistico sia formalmente.
Il volume è scandito in cinque sezioni, in cui l’autore sermoneggia un po’ su tutto: sui destini del mondo, sull’invecchiamento e sulla morte, sul sesso e soprattutto sul suo taedium vitae. E lo fa servendosi dello stile più tradizionale e scontato, rispettando noiosamente una metrica martellante e collaudatissime rime, inframezzando lirica e prosa, cantilene e finte provocazioni, volgarità che non scandalizzano più nessuno e anatemi ideologici.
Ci troviamo quindi a leggere versi e meditazioni imbastite di un trito nichilismo filosofico: «Sparita ogni credenza / Che faceva edificare / Essere e santificare, / Abitiamo l’assenza; Niente è riparabile dai viventi, / Niente dopo la morte sussiste; Dapprima l’universo è estraneo. / Poi, a poco a poco, diventa ostile. Anche lui è sofferenza. // E si spera sempre; Ogni futuro è necrologico / Solo il passato ci strazia, / Il tempo del sogno e della grazia, / La vita non ha nulla di enigmatico».

Qua e là fluttua un didascalico paternalismo, che si manifesta in perle di saggezza da Baci Perugina: «Quelli che hanno paura di morire hanno anche / paura di vivere», «Dov’è il paradiso? / E gli dei dove sono fuggiti?»
Houellebecq esprime una desolazione che nemmeno l’incanto della natura ha il potere di consolare, tanto le sue visioni risultano retoriche: «Il mondo è piatto, interminabile; / Si leva un volo di cormorani». Persino il sesso (nell’originale sezione Memorie di un cazzo) non offre più alcuna salvezza, soffocato da misoginia, trivialità, monotonia: «Ho vissuto di avventura, / Preservativi smessi / Visitato fin dentro la natura, / Trovandola malmessa»». Le rare tenerezze sono riservate a poche affettuose presenze di un passato familiare, ma descritte in toni volutamente dimessi, quasi rassegnati: «Sento contro la mia la tua pelle, / Me ne ricordo, me ne ricordo / E vorrei che tutto ritornasse, / Sarebbe bello».
In conclusione, queste Considerazioni più che dell’ultima riva paiono dell’ultima spiaggia, perché proprio così sembra volersi descrivere l’autore, in patetici e ribaditi autoritratti, quasi costringendosi a un accorato lascito testamentario che rifiuta a se stesso e al mondo qualsiasi possibilità di riscatto futuro: «Aspettando il volo destinazione Alicante / Dove la mia vita continuerà / Per qualche anno ancora / In compagnia del mio cagnolino / E delle gioie (sempre più brevi) / E dell’aumento regolare delle sofferenze / In questi anni che precedono immediatamente la morte»

 

«incroci on line», 14 dicembre 2015

RECENSIONI

HUERLIMANN

THOMAS HÜRLIMANN, NEL PARCO – GARZANTI, MILANO 1992

Un nuovo autore svizzero, Thomas Hürlimann, nativo di Zug ma vissuto tra Zurigo e Berlino, già noto sia per importanti lavori teatrali, sia per una raccolta di racconti (La ticinese) che gli era valsa dieci anni fa autorevoli riconoscimenti, ha pubblicato presso Garzanti la traduzione di un suo romanzo dell’ 89,  Nel parco. Romanzo di atmosfera, in cui accade poco più di niente: due anziani genitori – lui, ex militare di carriera; lei, moglie tenace e madre tradizionale – porgono giornalmente omaggio alla tomba dell’unico figlio maschio, morto di cancro prima di poter comparire in divisa davanti al padre. «Erano i genitori di un figlio morto. Erano sopravvissuti al loro discendente, al portatore del nome ed erede, che avrebbe dovuto continuare nel futuro il casato. Questo era un controsenso della natura. A esso, un po’ per cordoglio, un po’ per penitenza, veniva pagato un tacito tributo mediante la quotidiana visita al cimitero».

La morte del ragazzo, nato dopo sei femmine, sembra rendere più profondo e definitivo il baratro che da tempo si era aperto tra marito e moglie: primo, insidioso segnale di rottura è il dissidio tra i due sul tipo di stele funeraria da porre sulla sepoltura. E’ la moglie, con femminile e prevaricante testardaggine, che riesce a realizzare il suo progetto di un monumento in granito. Il colonnello si adatta, adeguandosi anche al rito della visita giornaliera al cimitero, un parco elveticamente impeccabile nel suo curatissimo verde, ma altrettanto macabro nel memento calvinista riservato ai visitatori: «Quello che voi siete, eravamo noi. Quello che noi siamo, sarete voi». Docile nel seguire la consorte e nel condividerne il cordoglio, l’anziano militare mantiene però una quasi infantile autonomia nell’imporre a queste visite uno stile soldatesco, ormai patetico: «Il colonnello dava l’ordine di partenza, direzione tomba»; «Lassù gli riusciva proprio tutto. Lì era il fronte, lì il vecchio soldato era nel suo elemento». E ben presto trova una motivazione più urgente dell’omaggio al figlio per giustificare la sua adesione al rito quotidiano: tra le tombe sbuca un gatto randagio, «un essere smagrito, ossuto, tremolante» che lui prende a nutrire di nascosto dalla moglie. E mentre lei è dedita a lavori di giardinaggio o di pulizia della tomba, il colonnello si distrae in grottesche operazioni tattiche di «rifornimento» all’animale, che subito assume un rilievo allegorico, trasformandosi nella proiezione dell’unica forma di vita in quella città dei morti.

«Comparve da Emilio Hagedorn, infarto cardiaco, un’ombra che lambì il marmo chiaro, qualche attimo dopo sgusciò intorno all’acquasantiera del commilitone Kessler, una faccenda di prostata con complicazioni laterali…Allora lo vide, stava arrivando, allarme rosso. Altri tre minuti… e avrebbe raggiunto la carnosa copertura di fogliame sopra la tomba dei Siegenthaler, lui cancro allo stomaco, lei all’intestino». Il sostentamento della bestiola costa al colonnello tempo ed energia, in primo luogo per procurare e conservare la razione giornaliera di carne senza dare nell’occhio (e allora, visite improvvise e ingiustificate al supermercato, riserve di cibo negli armadi di casa o nelle tasche dei vestiti fuori stagione), con il susseguirsi di situazioni imbarazzanti, che allarmano la moglie e tutto il parentado. Ma il vecchio è ancora un soldato: «semel miles, semper miles», e continua imperterrito nelle sue operazioni di rifornimento, studiando nuove tattiche e aggiornandosi su riviste di strategia militare per aggirare il nemico ottenendo lo scopo prefisso. In un crescendo di allucinazioni e frenesie, il gatto diventa alleato e insieme obiettivo strategico: «Il figlio? No, pensava il colonnello. Lo conduceva alla tomba il dovere. Lui, il vecchio soldato a riposo, nella vecchiaia era diventato l’ufficiale di sussistenza di un animale randagio». La moglie non capisce, soffre, si sente schernita nella sua sofferenza di madre, e teme nel marito una forma di demenza senile.

«Lei amava le sere presso la tomba, lì era felice. Quello che diceva era preghiera, e quello che faceva le si trasformava tra le mani in metafora…Un dio malvagio le aveva rubato il figlio, ora un gatto da cimitero le rubava il marito: il suo cuore si chiuse in una morsa di gelo». Intorno alla coppia, sempre più smarrita e incapace di sfogare il proprio strazio, le figlie sciamanti, i generi indifferenti, i nipoti capricciosi, e soprattutto l’imponenza triste della grande villa sul lago, un parco deserto e denso di ricordi, presenze minacciose nel loro silenzio. E’ un disagio inespresso e inesprimibile, quello che mura i gesti dei due vecchi in triste incomunicabilità, reso più drammatico da un paesaggio immobile e inespressivo, da una cultura nevrotica e superficiale, dalla neve che tutto livella, ma su cui ancora compaiono, incancellabili e vincenti, le orme del gatto, tracce di un’animalità che è vita. Molto critico nei riguardi della società in cui è cresciuto, strozzata da mode intellettuali che a volte assumono volti riconoscibili (da quello junghiano a quello antroposofico), Hürlimann è crudelmente pessimista anche nelle pagine finali del romanzo, forse un po’ affrettate e volutamente conclusive, rispetto al lento dipanarsi della vicenda. E crudelmente patetiche sono comunque la pazzia del colonnello, che beve il suo whisky col biberon, e la confusione mentale della moglie, intenta a cercare sul lungolago, ogni sera, la sposa adatta per il figlio morto.

 

«L’Arena», 13 febbraio 1992

RECENSIONI

HUERTA

EFRAÍN HUERTA, POEMINIMI – IL PONTE DEL SALE, ROVIGO 2024

Il messicano Efraín Huerta (1914-1982), è stato l’inventore di un particolare genere letterario, i Poeminimi, composizioni brevissime che hanno come caratteri essenziali condensazione, sintesi, precisione, ironia, memorabilità. La colta ed empatica postfazione di Stefano Strazzabosco mette in luce la particolarità di questi “versicoli virali, insieme fulminanti, passionali e cinici”, capaci di creare un fulminante cortocircuito irriverente e caustico nei riguardi dei vizi pubblici e privati di un’epoca, di una nazione, e dello stesso loro autore.

Ironico e autoironico, Huerta sapeva prendersi in giro, in particolare nel suo ruolo pubblico di intellettuale e scrittore:

Minaccia: “Beati / I poeti / Poveri / Perché / Di essi / Sarà / / Il regno / Dei / Suoli”; Ahi Poeta: “Prima / Di tutto: / Mi compiace / Enormissimamente / Di essere / Un buon / Poeta / Di seconda classe / Del / Terzo / Mondo”; Handicap: “Non posso / Smettere Di / Scrivere / Perché / Se mi fermo / Mi raggiungo”; Maximinima: “Solo / A forza / di poesia / Si smette / Di essere / Poeti / per forza”.

Altrettanto frequente era nei suoi versi l’ammiccamento erotico o la sfrontata dichiarazione d’amore per la bottiglia:

Imprendotoriale: “Il mio amore / Per te / Per lei / Per voi / Per l’(e) altra (e) / È un / Frutto diretto / Della più pura / Iniziativa Privata”; Immenso dramma: “Tutte / Le donne / Che amo / Sono sposate / Persino la mia!”; Miss Himalaya: “È vero / Amore mio / I tuoi seni / Sono il / Petto del / Mondo”; Ordinamento: “Non / Bere / Domani / Quello che / Puoi / Bere / Oggi”; Galileica: “E / Pur / Si / Beve!”

Tutti provvisti di titoli, spesso sarcastici o fuorvianti, i Poeminimi trovano la loro specificità nell’allusività (non sempre subito avvertibile), nella deformazione, sostituzione o nello slittamento morfologico del testo. Secondo una dichiarazione dello stesso autore, il loro segreto è la capacità di “dislocare e alterare”, creando così alternativamente nei lettori attesa, sorpresa, divertimento. Pur attraverso lo scherno e la derisione, un richiamo etico si avverte nella polemica sofferta nei riguardi della politica trasformista e corrotta. Da stalinista mai pentito, negli anni ’60 Efraín Huerta si erge ad accusatore delle violenze antipopolari che provocano stragi nel suo paese, delle pesanti ingerenze degli Stati Uniti, dei regimi dittatoriali che di impongono nel sangue in tutta l’America Latina.

Sterile: “Teorico / Di tutto / Militante / Di niente”; Sconcerto: “I miei / Vecchi / Maestri / Di marxismo / Non li posso / Capire: / Alcuni sono / In prigione / Altri sono / Al / Potere”; Di classi: “Non c’è / Peggior / Lotta / Di quella / Che / Non s’è / Fatta”; Pinochet: “Ah / Maledetto!/ Tutto / Lo pagherai / Con la / Stessa / Moneda”; Sinistra parafrasi: “ Odio / L’odore / Dei marines / Che bombardano / E se ne vanno / Un bombardamento / in ogni porto / I marines / Bombardano / E se ne vanno”.

 

© Riproduzione riservata            «SoloLibri», 22 settembre 2024

 

 

 

 

RECENSIONI

HUGHES

LANGSTON HUGHES, QUEER NEGRO BLUES – MARCO SAYA EDITORE, MILANO 2023

Queer Negro Blues è il primo libro uscito in Italia interamente dedicato alle due raccolte giovanili di Langston Hughes, edite tra il 1926 e il 1927 (The Weary Blues e Fine Clothes to the Jews), accolte positivamente dal pubblico statunitense, ma criticate dalla stampa afroamericana a causa della eccessiva veridicità con cui affrontavano aspetti della cultura nera ritenuti censurabili.

Hughes, nato nel 1901 a Joplin, nel Missouri, trascorse l’infanzia nel Midwest e in Kansas con la madre e la nonna, trasferendosi dopo il diploma in Messico presso il padre, con cui ebbe sempre rapporti conflittuali. Scrittore precoce di poesie, reportage, saggi e romanzi, appassionato viaggiatore ed esploratore di paesi africani, asiatici ed europei, già negli anni’20 aveva stretto intensi rapporti con esponenti della Harlem Renaissance, mettendosi in luce per il suo impegno politico e sociale, vicino alle posizioni comuniste della International Labour Defense, soprattutto dopo i suoi soggiorni a Cuba e ad Haiti. Gli esordi letterari del poeta coincisero con il periodo d’oro del modernismo, aperto dalle opere fondamentali di Eliot, Pound, Marianne Moore, Crane, Wallace Stevens, William Carlos Williams: autori attenti soprattutto a una rivoluzione formale della scrittura in versi. Contemporaneamente però si imponeva, a New York e più specificamente ad Harlem, un movimento radicalmente rivoluzionario, deciso ad affrontare temi fino ad allora poco trattati in poesia, come il razzismo, i diritti civili, la libertà di espressione, l’uguaglianza sessuale, lo sfruttamento dei lavoratori, il rifiuto dei valori della middle-class bianca. La fiera assunzione della propria “negritudine”, come appartenenza a un popolo di ex-schiavi, lavoratori sfruttati, vittime di soprusi e torture, viene proclamata in diverse poesie, già dall’iniziale Proem (“I am a Negro: // Black as the night is black, / Black like the depths of my Africa”), e ancora in The Negro Speaks of Rivers, A Black Pierrot, e nella famosissima Epilogo (“Io, anche io, canto l’America. / Io sono il fratello, quello più scuro. / Mi mandano a mangiare in cucina / Quando viene gente, / Ma io rido, / Mangio bene, / E cresco forte”), o nell’accorata protesta rivolta a The White Ones (“O, potenti bianchi, / Perché mi torturate?). Ma giustamente non reprime l’indignazione verso i neri che sfruttano, picchiano e violentano le donne, le abbandonano gravide, inducendole alla prostituzione o al suicidio; offre loro la sua voce, pietosa e solidale, raccontandone in ballate d’amore il destino tragico e rassegnato.

Il curatore dell’antologia Alessandro Brusa si interroga sul modo più opportuno di tradurre il termine “nero”: coloured, black, negro, usati dal poeta in maniera intercambiabile. “Negro” è certamente il termine più storicamente attestato e utilizzato, ma anche il più legato a un’idea di razza pregna di luoghi comuni e pregiudizi. Hueghes se ne riappropria aggressivamente, per stigmatizzare ogni discriminazione basata sul colore della pelle. Negli anni ’70 il termine “black” assunse un significato più politicizzato, da parte degli attivisti che si battevano per i diritti degli afroamericani (il Black Panther Party, e gli slogan Black Power o Black is Beautiful). Parallelamente, la traduzione in  italiano privilegiava la scelta della parola “nero”, pur mantenendosi fedele al termine “negro” nella volontà di denuncia e ribellione degli autori.

Hughes aveva un rapporto intenso e diretto con la cultura popolare di massa, e i suoi testi si orientavano preferibilmente verso la descrizione di vagabondi, marinai, prostitute, ballerine, lavapiatti, biscazzieri e serve. Lo stile da lui adottato aderiva strettamente ai nuovi contenuti proposti, inserendo termini lessicali desunti dallo slang della sua gente, dai dialoghi smozzicati dei bar e dei night club, con l’introduzione di ritmi musicali del tutto inediti, derivati dal jazz e dal blues. Se quest’ultimo si esprimeva vocalmente, con intonazioni malinconiche e di scoraggiamento, il jazz invece era strumentale e più aggressivo, e il poeta tendeva a imitarne nei versi il ritmo sincopato, veloce, attraverso una scrittura ruvida, improvvisata e spontanea. All’epoca, nei locali newyorkesi come il Cotton Club o il Savoy Ballroom, muovevano i primi passi Duke Ellington e Louis Armstrong, suscitando curiosità ed entusiasmo. Sono numerose le poesie presenti in questa antologia dedicate alla nuova musica di Harlem, agli scantinati e alle sale in cui si esibivano gli artisti neri: Blues stanco, Jazzonia, Negro Dancers, Young singer, Night Club ad Harlem, Fantasia Blues, Harlem Night Song, Po’ Boy Blues…

I versi tendono a riprodurne graficamente e cacofonicamente i moduli ritmici: “Fighi ragazzi neri in un cabaret. / Jazz-bad, jazz-band, / Suona, suONA, SUONA!”, “Il mio brav’uomo mi ha lasciato, / Babe, se n’è andato via. / Ora è quel blues triste che resta / Notte e giorno in quest’agonia. // Hey! Hey! / Stanco, Stanco, / Dolore, pena”, “Il ritmo della vita / È un ritmo jazz, / Tesoro. / Gli dei ridono di noi”, “Dai su, lanciamoci nel ballo! / Skee-de-dad! De-dad! / Doo-doo-doo!”.

La Harlem Renaissance in cui il giovane poeta e intellettuale Langston Hughes era immerso bruciava di rabbia black, musica, alcol e sesso non normativo. Sull’omosessualità del poeta si rincorrevano voci e illazioni, mai tuttavia confermate nelle sue autobiografie, anche se nel 1961 nel racconto Blessed Assurance veniva affrontato il difficile rapporto, in una famiglia di colore, tra un padre e il figlio gay. Molte composizioni sono dedicate a seni e gambe femminili, e quelle esplicitamente amorose sembrano riferirsi romanticamente a un oggetto indefinito, suggerendo possibili interpretazioni ambigue quanto al genere, nel tentativo di celare il desiderio omosessuale attraverso le figure dei loving comrades (amicizie affettuose): “Oh, tesoro mio lontano! / Ah, mia amata, lontana!”, “Amavo il mio amico. / Lui è andato via da me. / Non c’è nient’altro da dire”.

Altre, più esplicitamente, parlano di ragazzi amati o da amare, con esplicite dediche a ignoti: “Dai su, marinaio, / Uscito dal mare. / Andiamo, dolcezza! / Con me devi venire”.

Nella prefazione, Alessandro Brusa evidenzia come fosse problematico ammettere la propria omosessualità quando già il colore della pelle si prestava a bersaglio di discriminazioni e angherie. Ma nella Harlem degli anni ’20 i balli in drag erano eventi sociali di grande richiamo per i turisti, celebrati nelle cronache dei giornali: il Rockland Palace Casino, ogni anno a marzo, ospitava l’Hamilton Club Lodge Ball, un evento in cui uomini ballavano con altri uomini e donne con altre donne. Nonostante questa fama esplicita e generalizzata di trasgressione, la critica letteraria posteriore oscurò la queerness rispetto alla blackness, ritenuta argomento più dirompente e socialmente rilevante.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 9 giugno 2023

 

 

 

 

 

RECENSIONI

IACCI, GALIMBERTI

PAOLO IACCI, UMBERTO GALIMBERTI, DIALOGO SUL LAVORO E LA FELICITÀ 

 EGEA, MILANO 2021

 

Il volume pubblicato da Egea. Dialogo sul lavoro e la felicità, è la trascrizione fedele di una conversazione tenuta tra Paolo Iacci, docente di Gestione delle risorse umane alla Statale di Milano, e il filosofo e psicoanalista Umberto Galimberti. L’editore ha deciso di lasciare inalterata l’originale versione orale per non togliere immediatezza al testo, che risulta infatti vivace e di godibile lettura, nonostante l’argomento trattato non sia dei più accessibili.

Al giorno d’oggi il lavoro, fondamentale ancoraggio alla vita reale, è diventato una chimera per molti: giovani che non lo trovano, laureati costretti a emigrare, personale qualificato espulso dalla catena produttiva, donne che non riescono ad accedere a un impiego. E tra chi ha conquistato un suo ruolo nel sistema, quanti sono i privilegiati che possono dire di amare il proprio mestiere, e quanti invece lo reputano una condanna, conseguenza della maledizione divina lanciata contro Adamo nel giardino dell’Eden?

Galimberti, rifacendosi alla cultura classica, prende in esame i due termini di felicità e di ozio. Per i greci l’eudaimonia si basava sull’armonia, l’equilibrio e la misura, acquisibili solo attraverso una profonda conoscenza e padronanza di sé, in accordo con il daimon interiore che è presente in ogni persona e ne guida le azioni. Nella società contemporanea, regolata dal mercato e basata sulle logiche di prestazione ed efficienza volte solo al profitto, l’obiettivo della felicità individuale, ottenuta con l’espressione e la realizzazione di ciò che siamo, viene subordinato al raggiungimento di altri traguardi (denaro, successo professionale, competizione esasperata), asserviti a ideali esteriori e futili.

L’otium dei latini coincideva con l’agire proprio degli uomini liberi, in opposizione al negotium, inteso come incombenza faticosa e costrittiva, e indicava lo spazio che ciascuno dovrebbe dedicare a se stesso, coltivando lo studio, le relazioni arricchenti, il perfezionamento del proprio carattere. Oggi per ozio si intende solamente lo svago, il riposo dalle fatiche lavorative, la distrazione offerta da diversivi superficiali.

Paolo Iacci considera l’essere umano come biologicamente   costruito per un’attività diretta a un fine, e ritiene che l’ozio, o   l’attività priva di scopo, provochi sofferenza e atrofia: l’idea del “lavoro ben fatto” è invece talmente radicata da spingere a perfezionare anche quello imposto, schiavistico. Il motto Arbeit macht frei, diabolicamente esibito all’ingresso del lager di Auschwitz, in cui si mirava in realtà all’annullamento della dignità e della vita dei prigionieri, era tuttavia assolutamente veritiero. Il lavoro rende liberi, ma i nazisti miravano a svilirlo e disprezzarlo, proprio perché atto “sovversivo” di sopravvivenza e di riscatto.

Alla valutazione positiva di Iacci, Galimberti oppone la constatazione che nella nostra età della tecnica non si viene valutati per il risultato dell’opera fornita, ma per la modalità con cui la si esegue; non si richiede adesione emotiva ma unicamente prestazioni all’altezza delle aspettative del mercato. Il modello economico adesso imperante piega la volontà dei singoli alla dura logica del rendimento e del profitto. Il lavoratore è sempre più dissociato dalla propria azione, poiché “l’oggetto che il lavoro produce, il prodotto del lavoro, gli si contrappone come qualcosa di estraneo, come una potenza indi pendente da colui che lo produce”, secondo quanto scriveva Marx più di un secolo fa. Sarebbe pertanto necessario e doveroso sottrarsi all’alienazione del produrre fine a sé stesso, favorendo in primo luogo nei salariati “lo sviluppo dei propri talenti, la realizzazione della propria identità”, più che la sudditanza a un mezzo di sopravvivenza.

In un’epoca come quella in cui viviamo, oppressa da paralizzanti paure (i terrorismi, le pandemie, i tracolli finanziari) è tanto più necessario un profondo ripensamento del nostro modo di vivere e di progettare il futuro, traendo dal sentimento di angoscia che ci pervade nuove occasioni di riflessione e interiorità, consapevoli però di quanto il mondo sia cambiato, con il prevalere dominante della tecnica, convertita da mezzo a fine, non più strumento ma soggetto stesso della storia umana. Dobbiamo revisionare tutte le nostre categorie concettuali, nella vita economica, sociale e relazionale. I modelli economici tradizionali si dimostrano oggi carenti perché tentano di rintracciare una razionalità sequenziale che è ormai tramontata. Le antiche variabili chiave del mercato (domanda, offerta e concorrenza) non sono più utilizzabili per interpretare un sistema produttivo complesso, specializzato, parcellizzato, iperconnesso, computerizzato, e pertanto soggetto a imprevedibili e paradossali rivolgimenti, non inquadrabili in schemi mentali obsoleti.

Dal punto di vista etico, poi, sembra che le indicazioni morali delle religioni e delle filosofie tradizionali abbiano ben poco da dire a individui sempre più egocentrici, isolati, disillusi e scettici, incapaci di slanci altruistici e solidarietà, indifferenti al mistero e alle questioni metafisiche. Il nichilismo a cui è approdato l’occidente, negando ogni speranza di futuro, riduce all’insignificanza l’agire umano, e quindi la stessa attività lavorativa, che attualmente è caratterizzata in primo luogo da cieca competitività, invidia sociale, conformismo diffuso e paralizzante senso di inadeguatezza. Nella vita produttiva, l’identità non è più determinata da fattori religiosi, culturali, familiari, di razza o di genere, ma è decisa dal ruolo occupato in azienda, dalla carriera fatta, dal riconoscimento degli altri affidato alla parola pubblica, secondo il primato dell’oggettività e l’appiattimento della soggettività.

Risulta pertanto difficile trovare una sintonia tra lavoro e felicità. La felicità sembra possa essere possibile dopo il lavoro, malgrado il lavoro e non anche grazie al lavoro. Dovremmo invece tentare di renderlo desiderabile e   non solo causa di fatica e luogo di tensioni.  In che modo? Paolo Iacci suggerisce di sperimentare nuove forme di organizzazione dell’attività lavorativa, non più basate sul paradigma del comando/controllo, ma contraddistinte   da maggior delega, più ampia autonomia delle perso ne e una superiore attenzione alla loro motivazione e individualità. La tecnica continuerà a proseguire nel suo planetario sviluppo auto-referenziale, ma i luoghi   di lavoro, per poter funzionare, dovranno concedere spazio anche alla dimensione emotiva e non unicamente a quella professionale e razionale, nell’ambito di un’educazione alla cultura e ai sentimenti intesi in senso lato.

La proposta di Umberto Galimberti appare addirittura più estrema: indica la necessità di passare gradatamente dal “lavoro come produzione” (che ha in vista solo la sua crescita esponenziale, senza ragione e senza perché) al “lavoro come servizio”, in grado di offrire non soltanto merci e beni spesso inessenziali, imposti da un consumismo esasperato, ma anche di erogare  tempo, cura, relazione. Senza trascurare la parte irrazionale, istintiva, ludica, affettiva ed emozionale dell’essere umano, attraverso cui ci si possa avvicinare individualmente e collettivamente alla felicità.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 13 febbraio 2022