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RECENSIONI

IRIGARAY

LUCE IRIGARAY, L’OSPITALITA’ DEL FEMMINILE – IL MELANGOLO, GENOVA 2014

Stimolante anche se avveniristico, nella sua spiazzante utopia, questo breve saggio di Luce Irigaray, dedicato al concetto di ospitalità e di accoglienza nella società multiculturale di oggi. «Più siamo costretti a interfacciarci con chi o cosa è estraneo o distante da noi, più dobbiamo scoprire cosa ci è proprio»; quindi, per aprirci all’altro, dobbiamo tuttavia rimanere noi stessi, non divenire uno, ma restare due: imparando a modificarci nelle nostre abitudini stratificate in millenni di cultura impositiva e poco democratica, nel linguaggio sempre orientato alla prima persona singolare, nelle situazioni abitative e urbanistiche ermeticamente chiuse al diverso. Non tanto integrando, quanto coesistendo in una rispettosa e paritaria vicinanza. E’ più propriamente femminile l’apertura verso l’accoglienza e l’ospitalità, sedimentata fisicamente nell’esperienza materna, metaforizzata dall’esistenza della placenta che nella gravidanza nutre il bambino pur tenendolo distinto dalla madre. Non si deve inglobare chi non è noi, ma imparare a ospitarlo senza prevaricazioni. Spesso l’ospitalità viene intesa come «pratica di un gesto unilaterale e paternalistico verso un individuo più bisognoso rispetto a noi»: non deve essere un gesto caritatevole, né aspirare all’assimilazione dell’altro che cancelli la sua specificità. La prima cosa da fare, a livello sociale e individuale, per impostare una nuova cultura dell’ospitalità è «organizzare lo spazio in modo da creare un’architettura che renda possibile l’esistenza di ognuno e l’incontro tra individui», aprendo il circolo dell’orizzonte in cui siamo immersi, recuperando ambienti in grado di accogliere ogni corpo e cultura altra. Dove trovare questi spazi generosi e incontaminati? Secondo Irigaray «la natura potrebbe essere il luogo ideale per la coesistenza, se le condizioni climatiche lo permettono, ma non sempre ciò è possibile». Soprattutto nelle nostre asfissianti metropoli. U-topia, non luogo, secondo Thomas More.

 

«Leggendaria» n. 110, marzo 2015

RECENSIONI

IRVING

WASHINGTON IRVING, LA LEGGENDA DI SLEEPY HOLLOW – GARZANTI, MILANO 2020

Nel 1999 il regista Tim Burton diresse Il mistero di Sleepy Hollow, che l’anno successivo vinse l’Oscar per la migliore scenografia. Interpretato da Johnny Depp, Christina Ricci e Christopher Walken,  il film era  liberamente ispirato al racconto La leggenda di Sleepy Hollow  di Washington Irving.  

Irving (New York, 1783-1859) viene considerato l’inventore del racconto breve di genere fantastico,  e in particolare della “ghost story”, facendo da antesignano negli Stati Uniti a importanti autori come Edgar Allan Poe e Henry James. La leggenda di Sleepy Hollow è ritenuta il suo capolavoro, insieme alla novella Rip Van Winkle. Ripubblicata in moltissime edizioni e in varie lingue, anche con titoli diversi, (La leggenda della valle addormentata, La valle del sonno, Il mistero del cavaliere senza testa), era uscita in Inghilterra nel 1820.

La storia si svolge a fine ’800 nella cittadina di Tarry Town, una colonia olandese nella Contea di Westchester,  presso la valle isolata chiamata Sleepy Hollow, lungo le rive del fiume Hudson. Narra la vicenda di Ichabod Crane, un misero maestro di scuola proveniente dal Connecticut, che offre i suoi servizi ai contadini del paese in cambio di cibo e alloggio, ingegnandosi anche come insegnante del coro nella parrocchia: “Alto e macilento, nonché stretto di spalle, aveva braccia e gambe lunghe, con le mani che ciondolavano a un miglio dai polsini e due piedi che avrebbero potuto fare da vanghe: nell’insieme, la sua figura sembrava composta da pezzi tenuti male insieme. La testa era minuta e piatta, con orecchie sproporzionate, occhioni verdi e vitrei e un naso così lungo e sagomato da farlo sembrare uno di quei galletti segnavento che, appollaiati sul loro perno, indicano la direzione delle correnti. Chiunque, in una giornata tempestosa, lo avesse visto incedere ad ampie falcate lungo il dorsale della collina, con gli abiti che gli si gonfiavano intorno, lo avrebbe preso per lo spirito della carestia disceso sulla terra, o per uno spaventapasseri scappato da un campo di granturco”.

Irving descrive il suo protagonista con toni che variano dalla commiserazione all’ironia, spingendosi fino al sarcasmo, e sottolineandone l’ingenuità, la sprovvedutezza ma anche l’insipienza, che lo rende vittima non solo dell’ilarità dei compaesani, ma anche della propria fervida immaginazione. Crane si innamora della bella e giovane Katrina, figlia del più ricco possidente della zona, corteggiata da tutti i giovanotti dei dintorni, e in particolare da Abraham “Brom Bones”, robusto e violento, da subito desideroso di primeggiare nei favori della ragazza rispetto ai pretendenti rivali. Il racconto si prolunga in vivaci descrizioni paesaggistiche e in divertite annotazioni della psicologia dei personaggi, senz’altro lontano da qualsiasi atmosfera gotica, horror o fantastica per più della metà della sua lunghezza. L’autore però sottolinea spesso la propensione della popolazione a inventare, rielaborare e diffondere leggende e dicerie terrificanti basate su apparizioni di fantasmi, morti redivivi, folletti,stregonerie e incarnazioni diaboliche, infestanti boschi e strade soprattutto di notte. Il cimitero e il ponte di Sleepy Hollow sembrano essere i luoghi privilegiati da tali avvistamenti.

Tra le visioni spettrali più menzionate c’è quella di un cavaliere senza testa, che attraversa la valle in groppa a un focoso cavallo nero. Secondo la vulgata popolare, doveva trattarsi di un reduce della Guerra d’Indipendenza, decapitato da un colpo di cannone, che si aggirava senza pace in cerca di vendetta. Ichabod Crane, di ritorno dalla festa di Halloween dove era stato invitato da Katrina, e si era sentito umiliato dal violento spasimante di lei, Brom Bones, riprende al buio la strada di casa, frastornato anche per i racconti misteriosi che aveva udito a proposito del cavaliere oscuro. Attraversando la foresta, si impressiona per qualsiasi fruscio di foglie, alito di vento o grido di uccello, finché gli appare un uomo a cavallo che lo insegue in un vorticoso e labirintico percorso tra gli alberi. “La sagoma del cavaliere si stagliò contro il cielo, spropositata e avvolta da un ampio mantello. Quale non fu l’orrore che colse Ichabod nell’accorgersi che era senza testa! E l’orrore si accrebbe quando vide che la testa, invece che sulle spalle, poggiava sul pomo della sella!”

Dopo quella notte spaventosa, il maestro sparisce, e qui l’ironia dell’autore suggerisce varie ipotesi sulla conclusione della storia, dalla più macabra alla soprannaturale, dalla sprezzante verso ogni superstizione alla divertita e irridente.

 

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SoloLibri.net › … › La leggenda di Sleepy Hollow di Washington Irving      16 febbraio 2023

 

RECENSIONI

ISA MARI

ISA MARI, NELLA CITTÀ L’INFERNO – READERFORBLIND, LADISPOLI 2023

Nella letteratura italiana del ’900, un posto di rilievo è stato occupato da Goliarda Sapienza, scrittrice di importanti romanzi, tra cui L’università di Rebibbia, in cui descriveva la sua reclusione in carcere per il furto di gioielli compiuto in casa di un’amica. Un’altra prigionia, durata otto mesi nella sezione femminile di Regina Coeli per motivi politici, è stata raccontata da Isa Mari, nel volume Roma, via delle Mantellate (Casa Editrice Libraria Corso, 1953). Isa Mari (1910-1992), pseudonimo di Luisa Rodriguez, era figlia dell’attore e regista Febo Mari e dell’attrice Piera Vestri. Fu attrice cinematografica e teatrale come i genitori, e inoltre sceneggiatrice e autrice di un secondo libro di successo oltre a quello citato: Bello, onesto, emigrato Australia sposerebbe compaesana illibata, del 1972. Dai suoi romanzi sono stati tratti due film altrettanto famosi. Il primo, Nella città l’inferno, diretto da Renato Castellani nel 1959, aveva come protagoniste Anna Magnani e Giulietta Masina. Nel secondo, spesso riproposto dalle nostre emittenti televisive, un magistrale Alberto Sordi era affiancato da Claudia Cardinale per la regia di Luigi Zampa.

Il romanzo di Isa Mari, che le edizioni RFB ripropongono ora con il titolo del film di Castellani, Nella città l’inferno, si apre con la numerazione delle detenute in attesa di salire sul camioncino cellulare che le condurrà alle Mantellate: “Una… due… tre… quattro… cinque… La carne è caricata. Si parte”. La narratrice, compresa nel gruppo, elenca i vari stadi dell’ingresso in carcere, le reazioni delle arrestate e la crudele impassibilità delle guardie: consegna del denaro e degli oggetti preziosi, richiesta dei dati anagrafici, prelievo delle impronte digitali, perquisizione fisica, attraversamento del cortile. “Alzo la testa: finestre, finestre, finestre, piccole, una vicina all’altra, protette da sbarre… E visi fra i riquadri delle sbarre e bocche spalancate e capelli scompigliati di teste ammonticchiate una sull’altra dietro i ferri e mani che scuotono i ferri e voci rauche e frizzi osceni e risate grasse”.

Il racconto procede con la sinteticità di appunti diaristici, sia nella descrizione del susseguirsi degli avvenimenti, sia nel commento delle caratteristiche fisiche e morali dei personaggi che li animano. Dialoghi serrati, spesso in romanesco, in pagine che mantengono la struttura di un copione cinematografico neorealista.

Le donne che costituiscono il popolo di Regina Coeli hanno età diverse, sono poco più che adolescenti, madri di famiglia mature, vecchie avvizzite e malate: assassine, ladre, matricide, truffatrici, prostitute, strozzine, oppositrici politiche. Tra loro convivono malate psichiatriche, ragazze gravide, drogate in astinenza. Isa Mari le presenta senza retorica e senza falsi pietismi, con un’oggettività che non indulge né a toni accusatori o recriminatori, né a volontà di redenzione o consolazione, limitandosi a constatare che nella “tomba dei vivi” si respira un’aria di perpetua agonia, di miseria e violenza, di ignoranza e sporcizia diffusa: “qua dentro tutto sa di morte”. Le giornate si avvicendano tutte uguali, dal caffè sbobba col pane duro della mattina, all’ora d’aria in cortile, con pasti scarsi e insipidi, notti passate a rigirarsi su lettini di ferro, turpiloquio continuo. “Corpi bolsi, visi giallastri, fiato pesante. Anche le più giovani… Un’aria disfatta. Sempre spettinate, con quelle camicie corte che tagliano male le gambe, i piedi nudi… senza far nulla dalla mattina alla sera. Qualche passo su e giù per la cella e poi sdraiate, gambe all’aria, sigaretta in bocca. Quattro per cella, vicende diverse ma ugualmente trucide e infelici. L’autrice, passata presto all’ambito incarico di bibliotecaria, ricostruisce la storia familiare e il percorso giudiziario delle sue compagne di sventura, partendo dal loro apprendistato al crimine: l’ambiente sordido e violento che le ha viste nascere e crescere è di per sé causa e giustificazione del loro delinquere, e non necessita di alcuno scavo psicologico da parte di chi lo descrive. Donne marchiate per sempre, che non troveranno pace nemmeno una volta uscite di prigione.

Ma in quell’aria “putrida di ogni colpa” succede anche che una detenuta partorisca il suo primo figlio, accompagnata nelle doglie e poi nello sgravarsi dall’emozione di tutto le recluse: “Le donne, tutte, di tutte le celle, di tutte le sezioni, balzarono dal letto e si attaccarono alle sbarre delle porte, delle finestre, volgendo il capo in alto, su, dove la robusta contadina della campagna romana, aveva dato alla luce il suo primo nato… E da un’ala all’altra del fabbricato, da una finestra all’al tra, più argentine di un suono festoso di campane, cento, duecento, trecento voci, a due, a tre, a cinque squillarono: È un maschio!”.

Con il suo venire al mondo in un luogo di pena e sofferenza, il neonato reclama il diritto alla vita di ogni creatura, per quanto colpevole possa essere o sembrare, come commenta una delle condannate: “Che? Siam fatti Dio, noi, per giudicare?”

 

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SoloLibri.net › Recensioni di libri › Nella città l’inferno di Isa Mari    14 gennaio 2023

 

 

 

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ISGRO’

EMILIO ISGRÒ, QUEL CHE RESTA DI DIO – GUANDA, MILANO 2019

Emilio Isgrò (Barcellona Pozzo di Gotto, 1937) esordì giovanissimo nel 1956 con un libro di versi ambientato nella sua Sicilia, ma già nel decennio successivo si dedicò alla poesia visiva e all’arte concettuale, realizzando le prime “cancellature” che lo hanno reso famoso a livello mondiale. Dal 1965 vive a Milano, fatta eccezione per alcuni anni trascorsi a Venezia come responsabile delle pagine culturali del Gazzettino. Nel 1966 pubblicò Dichiarazione 1, in cui precisava la sua concezione di poesia come “arte generale del segno”: a questa prima definizione della propria attività creativa seguirono numerose altre, come corredo teorico delle sue produzioni. Il lavoro di Isgrò si è sempre diviso tra scrittura e arte applicata, con importanti riconoscimenti ottenuti sia in campo editoriale sia nel corso delle partecipazioni a mostre nazionali e internazionali, individuali e collettive (alla Biennale di Venezia nel 1972, 1978, 1986 e 1993) e per l’allestimento di opere teatrali e liriche. Dal 2014 nella Galleria degli Uffizi è esposto l’autoritratto Dichiaro di non essere Emilio Isgrò.

La cifra che contraddistingue le sue operazioni artistiche è appunto la cancellatura, attraverso cui righe o brani interi di libri, articoli di giornale, documenti ufficiali, testi sacri, spartiti musicali e mappe geografiche vengono soppressi con tratti bianchi o neri di pennello, nella volontà di eliminare il superfluo, facendo risaltare la parola nel suo significato essenziale e duraturo.

Nella produzione poetica, l’artista sembra invece preferire alla tecnica distruttiva una più mite operazione compositiva e di recupero, di cui danno testimonianza i versi del volume edito da Guanda Quel che resta di Dio, in cui sono raccolte poesie scritte dagli anni ’80 a oggi. Qui i vari timbri espressivi si sovrappongono, in qualche modo riprendendo l’alternanza delle pratiche pittoriche, per cui ciò che viene rivelato sulla pagina ha lo stesso valore del sottinteso, del taciuto, dell’omesso. Lo stile di Isgrò, infatti, è composito e oscillante tra tradizione e novità, tra toni didascalici e accenti provocatori o ironici: più nei contenuti che nella forma si oppone all’ovvio cui ci hanno abituati l’uso e l’abuso di temi e linguaggi stereotipati, conformisti, resi logori dalla banalità mediatica e dall’egemonia della comunicazione virtuale. La sua scrittura ricorre sia a forme chiuse (sonetti, distici, terzine e canzoni), sia a componimenti nostalgicamente descrittivi di una Sicilia ormai scomparsa, sia ad altri testi più rabbiosamente spavaldi o di coraggiosa denuncia civile.

Per esempio, a un intenso Sonetto funebre, da godere negli audaci enjambement e nella chiusa tombale (“Sento nell’aria delle tue tempeste / il primo soffio della primavera, / turbinaio di grandine e di neve / che scopre le montagne e le foreste // lontane.”), si contrappone la sarcastica Casalinga in terzine (“Eri una rosa sgrètola, / eri la voluttà. / Ma quando la mia mano candida // ti accarezzò la coscia canterina / (giacché anche le cosce / cantano, si sa…) // quando la mia mano energica / ti sbatacchiò la nuca / delucidata a cera // allora tu, eterna casalinga, / mi mostrasti la lingua / me la cacciasti in gola”). Poi compare inatteso il dialetto siculo, graffiante e incisivo, in un presepe ecumenicamente buddista (“«Budda mi chiamo» dissi ’u Bammineddu / aprendo le sue braccia all’universo. / E frastornati ’u boj e l’asineddu / sputacchiarono, lenti e cauti, verso // la faccia di Peppino e di Maria”), mimetizzato tra atmosfere di un’infanzia lontana e rimpianta, senza alcuna retorica, però: un sole malarico, un campanile tronco, mosche e zanzare che imbarazzano l’aria, la Vergine del Tindari spaventata. La memoria è anche quella degli anni poveri di un “dopoguerra di contrasti”, in cui la coscienza politica si confonde con le aspirazioni e le delusioni private. Il pittore e lo scultore che ha sempre lavorato con la materia, anche quando compone versi è attratto soprattutto dalla realtà tangibile dei corpi: le poesie che aprono il volume si focalizzano sull’osservazione e la celebrazione della carne, da quella esposta nelle macellerie a quella che ci portiamo pesantemente addosso.

Cosa c’entra il Dio nominato da Isgrò nel titolo del suo libro? C’entra, nell’amore e nell’odio, nell’ accettazione devota e nel rifiuto: “Solo per questo mio malessere / sottile come un velo / io credo in Dio / padre onnipotente / creatore del cielo / e della terra / oltre che delle cimici. // Ma credo a giorni alterni, / a ore intermittenti”. C’entra perché il suo è un Dio nascosto, e ne resta poco all’interno delle cattedrali e delle mura vaticane, o nell’ “untuosità clericale” di chi costruisce la propria immortalità servendosi del potere: “Io credo in Dio ma non l’ho mai chiamato / per nome. L’ho chiamato amore, / acqua, gloria; e qualche volta storia”.

Osservando il declino di umanità nei vari aspetti del vivere sociale di oggi, l’autore si aggrappa a ciò che rimane di solidale, fraterno e gratuito nella famiglia, nell’amicizia, nella natura e nell’arte. Il suo è uno sguardo indulgente e amaro, lontano da censure e condanne: tuttavia intristito, e quasi sconfortato. L’arte delicata di Beato Angelico, quella più robusta di Caravaggio, riuscirebbe a svincolarsi dalle pretese del mercato, da cui anche Isgrò si sente oppresso? “Sento a me più fraterno un giocatore / di football o un plebeo maleducato // che l’investitore algido che chiama / arte la parte, e la partita vita”.

Cosa resta della Resistenza, dell’impegno, dell’altruismo negli affetti, dell’originalità nella pittura genuflessa alle aste di Sotheby’s e alle allucinazioni di Basquiat? Nell’americanizzazione della cultura mondiale, nella banalizzazione della sessualità, nella divinizzazione della finanza, nello scandaloso dramma dei morti nel Mediterraneo, l’artista (pittore, scultore o poeta che sia) vede il pericolo disumanizzante che incombe sul futuro di tutti: nemmeno il Papa potrebbe dire o fare qualcosa contro la spettacolarizzazione mediatica universale che riduce ogni tragedia a farsa. “Quel che resta”, come recitano i titoli delle varie sezioni di cui si compone il libro di Emilio Isgrò, è davvero poco, ma va comunque lasciato qualche minimo spiraglio alla speranza, soprattutto se radicata nella bellezza, privata dell’avidità di possesso. Una bellezza da riconquistare collettivamente, salvandola dalla sciatteria e dagli egoismi individuali: “Veniamo, forse, dallo stesso salmo / e dalla stessa ansia generata / da vigne stente e da parole oscene. / Forse veniamo dalla stessa Italia / umida, scalza. Per questo ci cerchiamo”.

© Riproduzione riservata          «Il Pickwick», 14 ottobre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

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ISHERWOOD

CHRISTOPHER ISHERWOOD, ADDIO A BERLINO – ADELPHI, MILANO 2018

I sei racconti che compongono Addio a Berlino di Christopher Isherwood (1904-1986) sono stati scritti tra il 1930 e il 1933, e pubblicati per la prima volta in un unico volume nel 1939. Lo scrittore inglese dopo la laurea a Cambridge si era trasferito per alcuni anni nella capitale dell’allora Repubblica di Weimar, un po’ per sfuggire alla plumbea e intransigente atmosfera britannica, un po’ per approfondire le sue conoscenze linguistiche, e più probabilmente perché attratto dalla fama di anticonformismo e libertà sessuale della città tedesca. Dagli anni del liceo, Isherwood aveva stretto una relazione con il poeta Wystan Hugh Auden, con cui condivise poi un intenso legame affettivo e intellettuale, viaggi e collaborazioni editoriali, e il definitivo trasferimento in America nel 1939. I racconti compresi in Goodbye to Berlin, pur essendo leggibili uno indipendentemente dall’altro, sono collegati tra loro dalla figura autobiografica del narratore, il giovane Chris, intellettuale trentenne in perpetue ristrettezze economiche, omosessuale colto, solitario e gentile, che si mantiene impartendo lezioni private di inglese, nella cerchia di svariati ambienti sociali.

Da questo punto di vista particolare, osserva le persone e gli avvenimenti che turbinano intorno a lui quasi difendendosene emotivamente, e descrivendole con la curiosità asettica di chi non intende lasciarsi coinvolgere troppo: «Io sono una macchina fotografica con l’obiettivo aperto, completamente passivo, che registra e non pensa». Questa dichiarazione a inizio di pagina sembra contraddetta da una delle ultime affermazioni del libro: «Berlino è uno scheletro dolorante per il freddo: è il mio scheletro indolenzito». In effetti, è solo in maniera graduale che il protagonista avverte la pericolosità del clima politico e ideologico che pervade la città e tutto il paese, il suo inesorabile scivolare verso il totalitarismo e la catastrofe della guerra. Negli ultimi due racconti i segnali dell’oppressione nazista non si limitano più a sparute avvisaglie intuibili negli atteggiamenti di pochi (insofferenza verso gli stranieri, bandiere ed esibizioni nazionalistiche, canzoni e marce militari, sospetti e denunce anonime tra vicini): l’atmosfera precipita inesorabilmente verso una recrudescenza del razzismo, dell’intolleranza, del desiderio esplicito di sopraffazione sugli altri. I giornali riportano commenti univoci, i pochi democratici nascondono con timore il loro dissenso, le violenze brutali della milizia non vengono contrastate dalla popolazione civile. «Migliaia di persone… si stanno acclimatando, in ossequio alla legge naturale, al modo di un animale che cambia il pelo ai primi freddi». Chris lo percepisce con irrefutabile turbamento solo quando entra in confidenza con una ricca famiglia ebrea, i Landauer, assunto da loro per dare ripetizioni alla figlia diciottenne Natalia: ragazza rigida e inibita, che vive un’esistenza ovattata, timorosa di dover prendere atto degli sconvolgimenti che stanno maturando nei confronti dei suoi parenti e della sua religione.

In precedenza, i rapporti sociali del protagonista si erano limitati alla frequentazione di persone semplici e ignoranti, quando non addirittura equivoche, per le quali l’antisemitismo rivestiva essenzialmente il carattere dell’odio di classe: «Questa città è stufa marcia degli ebrei. Gratta gratta, saltano fuori sempre loro. Stanno avvelenando l’acqua che beviamo! Ci strangolano, ci derubano, ci succhiano il sangue! …  I soliti ebreacci ladri!»

La medesima disposizione anima l’affittacamere Fräulein Schroeder, zitellona attempata e pettegola che spia i suoi pigionanti, vampirizzando nella sua non-vita le loro esistenze di entraîneuse, barman, artistoidi spiantati (con un’attenzione riguardosa per il prediletto “Herr Isservut”), e Otto Nowak, ragazzone disoccupato e violento, mal tollerato nel fatiscente appartamento dei suoi genitori, crudele nello sfruttare economicamente uno scalfibile giovanotto innamorato di lui. Oppure ancora l’affascinante e svampita Sally, aspirante attrice e volubile amante di decine di uomini, ingenua e spudorata, viziosa e altruista. Personaggi ai margini, pronti a tradire e a distruggere gli altri per denaro, accomunati da un’uguale indifferenza per i destini della collettività e per gli sviluppi delle vicende storiche: minime pedine brancolanti sullo scacchiere della Storia, oscillanti tra euforia e disperazione, cecità e preveggente cinismo.

Lo stesso Chris osserva impietoso la propria pavida vanità di scrittore incompreso, il suo senso di superiorità nei riguardi di chi gli sta vicino, il suo altezzoso isolamento e l’incapacità di vivere con pienezza e trasporto qualsiasi esperienza sentimentale o sessuale. Berlino è per lui uno sfondo inadeguato e privo di concreto interesse, a cui affidare qualche anno di spaesata malinconia: «… sono in una città straniera, solo, lontano da casa… risuona un fischio così penetrante, così insistente, così disperatamente umano, che alla fine sono costretto ad alzarmi per andare a sbirciare fra le listelle delle veneziane e assicurarmi che non sia per me ‒ anche se so benissimo che è impossibile». La sua decisione finale sarà determinata dalla volontà di sopravvivere all’orrore, fuggendo da una tragedia annunciata e inevitabile: «Domani parto per l’Inghilterra… Il sole splende, e Hitler è il padrone di questa città».

 

© Riproduzione riservata           «Il Pickwick», 13 marzo 2018

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ITALIANO

FEDERICO ITALIANO, L’INVASIONE DEI GRANCHI GIGANTI – MARIETTI, MILANO 2010

Che felice sorpresa, la lettura di questo sottile e resistente (nel senso di compatto, forte e sicuro della sua voce) libro di versi del giovane poeta e critico Federico Italiano: così fieramente lontano da stili e contenuti imperanti nella flebile, introspettiva e generica produzione letteraria dei suoi coetanei. Italiano ha qualcosa da dire, finalmente, ed è completamente padrone dei mezzi a sua disposizione per dirlo. Forse perché vive e lavora, occupandosi di arte-filosofia-scienza, tra Monaco e Vienna, estraneo quindi al provincialismo culturale della nostra penisola; o forse perché quotidianamente si misura con un’altra lingua, razionale e dura come il tedesco. Le elogiative parole che gli dedica Davide Rondoni nella quarta di copertina suonano quasi inadeguate, minimaliste: «una possibile epica… la possibile letizia… misteriosa grazia e libertà…».
Qui in realtà siamo davanti a qualcosa di diverso e di nuovo, a un poeta che riesce a scrivere di una quotidianità fatta di gesti concreti, di osservazioni puntuali sulla realtà, rifiutando qualsiasi edulcorante retorica. I ritratti dei personaggi, ad esempio, che ce li restituiscono nella loro disarmata e compiuta interezza (l’ostetrica del paese, il giocatore di scacchi siriano…).
O i ricordi, mai autocelebrativi, mai nostalgicamente commossi: (il terrificante crocefisso della stanza dei giochi, il dopobarba del papà tornato dal suo lavoro in Africa, l’alba traslunata di Miami…). Italiano parte dalla vividezza di un particolare, per poi risalire con intelligenza descrittiva alla costruzione di un episodio in cui la poesia si cala proprio per la sua peculiare e straniante unicità. I versi raccontano squarci di vita vissuta, con la tranquilla limpidezza di una narrazione che sa farsi immagine quasi filmica, come nella descrizione di una notte nordica in cui gli addetti alla nettezza urbana spargono le strade innevate di sale e terriccio: «Rincasavo con lo sguardo sbilenco / ondulante tra i miei passi e le luci / delle poche finestre accese, quando // un camion evacuò ghiaia rombante / alle mie spalle…»
Uno stile molto personale, che aderisce al concetto, non si lascia sedurre dalle sirene di musicalità obsolete, o dai tentacoli di una tradizione asfissiante. E sa misurarsi con la storia, quella addirittura universale, tellurica, che osserva con l’intatto stupore e con la curiosità scientifica dello studioso: e con le storie private della sua esistenza, gli incontri, i viaggi, gli amori. Vicende sentimentali raccontate con asciuttezza ed ironia («Relazione lessicale, la nostra, mio melograno, / mio polipo, culinaria, hai sempre amato / una certa alchimia da fornello. / Una comunicazione ipotattica, disciplinatamente / ternaria, indeuropea»), e autoritratti che nulla concedono al compiacimento egotistico: «Poiché non da pianura, / ma dal fronte dei monti fui edotto, / educato alla venerazione del mammut». Una volta tanto, quindi, nella nostra poesia, un autore non mette in primo le venerate pieghe e piaghe della sua anima, ma la scienza (ad esempio), scandagliata nei suoi esperimenti e laboratori, con studiata applicazione nei riguardi del mondo animale (granchi, ostriche, làdani, mustelidi, lombrichi…). La geologia, testimonianza evidente e innegabile della nostra insignificanza di fronte al rincorrersi delle ere («… il progetto orografico del Buon Dio…  il cuore lo fissai al testo dei miei fossili»). E soprattutto la storia del mondo, che tutto trasforma, macina, inghiotte, confonde. Come nel poemetto  I Mirmidoni, in cui un gruppetto internazionale di giovani in un caffè di Monaco amoreggia, spettegola, sbevazza: involontari eredi e professionali comparse dei guerrieri greci, spettrali nei loro scudi, gambiere, archi e spade. O nella prima sezione del volume, forse la più interessante, in cui si ipotizza (o si vagheggia?) un’ inarrestabile invasione di rospi, locuste o granchi giganti che da chissà quali sconosciuti antipodi dilaghi nel mondo occidentale, mettendo fine al suo degrado morale, civile e ambientale: «Popolo che muovi sotto le acque, prelibata / carne della distruzione, migrazione / disgiuntiva della ricchezza / bilancia del consorzio umano, inconsapevole / armata della storia, / moltìplicati, / perché la piaga sia piena e la punizione completa». Profezia visionaria di una lucidissima coscienza poetica.

«Atelier» n. 68, febbraio 2013

RECENSIONI

ITALIANO

FEDERICO ITALIANO, HABITAT – ELLIOT, ROMA 2020

Federico Italiano è, a mio parere, tra i poeti nati negli anni ’70, il più solidamente ancorato a una nostra tradizione di poesia narrativa, e il più originalmente innovativo nel recepire e fare suoi stimoli culturali provenienti da ambiti non solo letterari, ma anche filosofici e scientifici.

Già leggendo una precedente raccolta, L’invasione dei granchi giganti, avevo ricavato questa impressione di composta padronanza dei mezzi espressivi, nel loro muoversi tra ambienti interni ed esterni, passato e presente, scrittura descrittiva e meditativa. Ora, in questo nuovo volume di versi pubblicato da Elliot, Habitat, Italiano affina il suo sguardo introspettivo in una dimensione delicatamente malinconica, nella rievocazione di figure e paesaggi amati, e contemporaneamente analizza con severa analiticità il proprio vissuto includendolo in un orizzonte storico, geografico e sociale più ampio e complesso.

Habitat, appunto, ciò in cui siamo inseriti e che ci circonda: e che per lui, piemontese della pianura padana, ricercatore a Vienna, critico letterario e traduttore dal tedesco, scisso tra due lingue e due culture, diventa stimolo e vincolo insieme, provocazione e freno. La prima delle cinque sezioni del volume è quindi circoscritta nell’ambito di un privato domestico, tra ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza vissuta a Romentino, in provincia di Novara, e rievocazioni di figure amicali, o di ambienti lavorativi già più adulti. Squarci di memoria, inteneriti ma lontani da ogni compiacimento retorico. Così la visita alle zie “con l’Audi 80 / color senape”, e altri personaggi tipici del paese (il medico condotto, camiciai gommisti cacciatori e anziane signore sulla Graziella…), animano uno sfondo di periferia industriale spoglia e angosciante, attraversata dall’autostrada Torino-Milano, con i tir rombanti e fumosi, e frantumata da risaie inondate per la semina e sorvolate dalle “garzette bianche dal becco nero”. La caccia alle rane sugli argini del Ticino, tra tafani zanzare e libellule, e la magica apparizione di uno sdegnoso airone cinerino, o di due leprotti saltellanti tra le felci e i canneti, abbatte i muri dell’appartamento di famiglia, aprendolo in un contesto di spazio ecologico.

Il bambino di allora, curioso di ciò che gli stava intorno, torna a vivere ponendo domande al poeta diventato uomo (“Non avevo paura delle case degli altri / da bambino, ma adesso / sono i loro fantasmi a farmi visita”): la più assillante e tormentosa, su cosa si perde e cosa si guadagna allontanandosi dalle proprie origini (“penso… / al coraggio – che non ho – di sparire, / di piantarla lì, per unirmi calmo al tavolo dei giusti, // dove mani adorate hanno steso la tovaglia, / disposto piatti caraffe posate / e un vassoio di verdure alla griglia”). Personale e universale, nella poesia di Federico Italiano, si rincorrono, intrecciandosi e sfidandosi: l’amore con la prima ragazza fatto in piedi, appoggiati alla parete di una chiesetta abbandonata, si proietta poi nel giro cosmico dei pianeti; l’impiego universitario e la convivenza matrimoniale a Monaco si inseriscono nella cornice della storia secolare del Regno di Baviera. Nelle altre sezioni del volume, il poeta si muove su terreni diversi e compositi, immaginando tattiche di sopravvivenza in un habitat estraneo, alternativamente umano animale o vegetale.

Allora, le strategie di combattimento difensive vanno acquisite imitando Il metodo nigeriano per vincere a Scrabble; alla fauna differenziata della Foresta Nera (astori, fringuelli, serpenti, corvi, conigli, leprotti, galli cedroni, passeri, scoiattoli, nibbi, poiane, sparvieri, venturoni alpini…), si oppone confortante il ricordo degli animali domestici posseduti nell’infanzia: cani, gatti, tartarughe, canarini, pesci rossi. L’ironia di un umanissimo “Supplemento alle beatitudini” premia ed esalta gli outsider sociali (clandestini, insonni e sonnambuli, ritardatari, magazzinieri: “Beate le colf, perché il regno dei cieli / è pulito”). Nell’amara litania di Pronome indefinito, si elencano i tanti anonimi “qualcuno” che popolano il mondo, salvandolo o inquinandolo con le loro presenze e assenze: “Qualcuno dichiarò che non ci avrebbero / messo in salvo le lingue dei sapienti / ma ciò che crea gioia negli interstizi”. Una parodia del Qohèlet esorta a un atteggiamento fiducioso e positivo nei confronti della vita troppo fugace. Sogni e fantasie si trasformano in vere e proprie allucinazioni, mimanti assalti militari a una città nemica, o metamorfosi corporee in differenti specie subumane, o ancora viaggi in una spettrale Europa nordica, rianimata da profetici incontri con sconosciuti. Anche la voce di raffinati poeti del passato, orientali ebraici europei, porge lo spunto per eleganti rivisitazioni e rielaborazioni tematiche, e i Frammenti d’autunno conclusivi offrono al lettore accenti di dolente abbandono sentimentale.

Resta forse da accennare qualche considerazione sullo stile di questa raccolta, classicamente omogeneo, privo di sperimentalismi e dissonanze formali, e invece fedele a un pensiero emotivo letterariamente sorvegliato, espresso in tonalità limpidamente narrative. Il linguaggio usato appartiene a un lessico mediamente domestico, in cui l’unica ricercatezza pare essere l’attenzione all’esattezza della terminologia scientifica. Una puntualità resa sulla pagina anche dalla scansione ordinata del susseguirsi di strofe perlopiù in terzine e quartine, a offrire un respiro più ampio e modulato di lettura.

 

© Riproduzione riservata               23 gennaio 2020

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RECENSIONI

IZQUIERDO

PAULA IZQUIERDO, LE AMANTI DI PICASSO – CAVALLO DI FERRO, ROMA 2014

Questo libro, uscito in Spagna nel 2003, e ripubblicato in seconda edizione quest’anno dalle edizioni Cavallo di ferro, ha un sottotitolo esplicativo e polemico: Quando il genio diventa crudeltà. E in effetti, leggendo la biografia di Picasso “sub specie amorum”, si rimane impressionati dalle capacità onnivore e feroci, fin quasi a sfiorare il sadismo, delle sue prestazioni sessuali e sentimentali, ripercorse qui dall’autrice con l’intento di offrire spessore al profilo delle donne che lo amarono. «Quale misterioso magnetismo fece sì che tante donne impazzissero per lui, accettassero la sua tirannia, i suoi sbalzi d’umore, il suo disprezzo, compresa la persecuzione, fisica e mentale?», si chiede (e noi con lei) Paula Izquierdo. E quindi le racconta, nei capitoli dedicati alle tredici più rilevanti, sorvolando sulle centinaia di incontri occasionali, nei bordelli o in avventure trasgressive, negli ossessivi tradimenti, nelle ostentate e trionfanti seduzioni, e soffermandosi invece sulle raffigurazioni pittoriche, scomposte, violente, morbose, allusive, spesso vendicative. Uno sguardo magnetico, una personalità travolgente, quella di Pablo Picasso: ma anche frequentemente travolta e sconvolta dalle presenze femminili della sua vita, se è vero che «ogni donna che conobbe lo colpì talmente da fargli cambiare lo stile della sua pittura». Ciascuna amante suscitò nel maestro un entusiasmo creativo febbrile, e subito dopo il desiderio compulsivo di distruggere brutalmente il suo sentimento e la persona che l’aveva provocato. «Le donne devono essere passive e sottomesse… le donne sono macchine per soffrire», affermava provocatoriamente. Tre delle sue compagne lo resero padre quattro volte, due lo sposarono, due si uccisero dopo la sua morte: avvenuta a 92 anni, in piena e vivace attività creativa, in un corpo a corpo con la pittura, che per lui fu sempre e fino alla fine metafora del corpo a corpo divorante con il desiderio sessuale.
Le donne di Picasso narrate dalla Izquierdo assumono spesso le sembianze di menadi ossessionate, pronte sia ad immolarsi che ad immolare: ma almeno due di loro non si riducono al ruolo di amanti. La madre Maria, che lo ebbe nel 1881 a Malaga da un pittore di scarso talento, José Ruiz, di cui Pablo disconobbe persino il nome, preferendogli quello materno; e la sua mentore-protettrice Gertrude Stein, che lo aiutò economicamente e lo introdusse negli ambienti culturali e artistici parigini. Il primo amore fu Fernande Olivier, con cui divise la dimora del Bateau-Lavoir, una vita bohèmienne, l’abitudine all’oppio e una reciproca estrema gelosia. A lei seguì la giovane Eva Gouel (“ma jolie”, come la chiamava il pittore), morta precocemente di cancro. Quindi una girandola di artiste, cabarettiste, prostitute, fino alla sofisticata ballerina russa Olga Koklova, che sposò nel 1918 e che gli diede il primo figlio Paul. Si separarono nel 1935, dopo una convivenza tormentata da litigi ed eccessi, quando Picasso conobbe l’ingenua Marie Thérèse Walter, ancora minorenne, di cui fece una sorta di schiava sessuale, iniziandola a pratiche sadomasochistiche. Marie Thérèse partorì la secondogenita di Picasso, Maya; a loro il pittore rimase comunque teneramente affezionato anche dopo averle abbandonate, al punto che ricorreva alla compagna persino per farsi tagliare capelli e unghie, obbligandola a conservare questi suoi preziosi reperti fisici poiché temeva superstiziosamente che qualcuno potesse con essi fargli una fattura. Quindi fu il turno di Dora Maar, forse l’unica presenza femminile intellettualmente all’altezza del maestro, fotografa che testimoniò le varie fasi della creazione di Guernica. Successivamente arrivò Françoise Gilot, madre di Claude e Paloma, di quarant’anni più giovane: fu l’unica donna che lo lasciò, nel 1954, stanca dei suoi continui tradimenti. Dopo una lunga parentesi di vita in comune con la studentessa Geneviève Laporte («Con lei, tutto è dolcezza e miele. E’ come un alveare senza api»), Picasso conobbe la sua seconda moglie, a 72 anni (lei ne aveva 27): Jacqueline Roque, con cui visse l’ultima parte della sua vita, forse la più serena, e per cui dipinse quasi duecento ritratti. Anche Jacqueline, come già aveva fatto Marie Thérèse, si uccise dopo la morte del «suo monsignore».

 

«Leggendaria» n.106, luglio 2014

RECENSIONI

JABES

EDMOND JABÈS, IL LIBRO DELLA SOVVERSIONE NON SOSPETTA – SE, MILANO 2005

Sovversione è più che ribellione, è qualcosa di più radicale e contagioso, di più temibilmente pericoloso. Ma se, oltretutto, essa viene definita “non sospetta”, significa che ha in sé germi di innocenza, di purezza, in cui risulta temerario cercare qualsivoglia colpa. Infatti, “La verità conosce ogni forma di sovversione”: parafrasando Giovanni, Edmond Jabès suggerisce che la verità ci farà liberi. Liberi e sovversivi. “Dio è sovversivo; e come ha potuto pensare che l’uomo non lo sarebbe diventato di fonte a Lui?” In questo come in tutti i suoi libri, in prosa e in versi, Edmond Jabès si pone domande fondamentali, assolute, che interrogano l’uomo e la sua fede, o la sua mancanza di fede. Ed esplorano la precarietà dell’esistenza, il nulla, il silenzio, il deserto, l’eternità e la fulminea apparizione dell’istante: in meditazioni che non hanno la presuntuosa assertività degli aforismi, ma sembrano offrirsi al lettore con l’umile richiesta di una solidale concordanza, di una comune ricerca. Il postfatore di questo volume, Antonio Prete, parla della scrittura di Jabès come di un’esperienza interiore, di una poetica interrogazione e ascesi del pensiero; e ancora di spaesamento, di “un ascolto del vuoto, dell’assenza, della solitudine”. Una scrittura profondamente etica e profondamente poetica, che si dichiara ostile a ogni banale superficialità: “La banalità non è inoffensiva: rende furiosi”. E l’uomo è sempre in bilico, sull’orlo di una voragine della coscienza che potrebbe in ogni momento inghiottirlo, se solo provasse a interrogarsi sulla sua destinazione finale, sul silenzio di Dio: “Apri Dio. E’ l’abisso”. Di conseguenza ” La fortezza più solida è sempre in balia del minimo cedimento del terreno”, e “Un passo nella neve è sufficiente a scuotere la montagna”. Per questo Jabès ritiene sia necessario esplorare la propria interiorità, saggiarne la forza: “Entrare dentro se stessi. Scoprire la sovversione”.

IBS, 12 MAGGIO 2013

RECENSIONI

JACCOTTET

PHILIPPE JACCOTTET, IL BARBAGIANNI – EINAUDI, TORINO 1992

Encomiabile risulta la recente iniziativa einaudiana di pubblicare nella prestigiosa Collezione di poesia un volume di Philippe Jaccottet, per la prima volta presentato al pubblico italiano con una raccolta organica dei suoi versi, con la prefazione e la traduzione del più promettente dei poeti ticinesi, Fabio Pusterla, e con un saggio illuminante di Jean Starobinski.
Jaccottet è autore svizzero di nascita e formazione, francese di adozione e, potremmo dire, di vocazione. Conduce oggi a Grignan, un paesino della Provenza, una vita schiva e dedita alla riflessione, alla produzione e alla diffusione della poesia. Traduttore dal tedesco (Musil, Rilke e Mann) e dall’italiano (Ungaretti, soprattutto, ma anche Montale e Caproni), è stato stranamente ignorato dalla nostra cultura così debitrice nei suoi confronti, forse solo (come suggerisce Pusterla) per caso, per dimenticanza. O più probabilmente perché Jaccottet ha scelto una via “moderata” e “dignitosa” di approccio alla poesia, snobbando da un lato sia l’impegno ideologico e lo sperimentalismo formale più azzardato, dall’altro contestando nei fatti il rimbaudiano “sregolamento dei sensi”, che tende a riflettersi esteticamente nella rottura totale con la tradizione.
Con Montale, Jaccottet ha scelto la via della «decenza quotidiana» nell’esistere: «Temevo soprattutto le formule categoriche, i rifiuti assoluti o le affermazioni perentorie, perché mi pareva che l’uomo che alza la voce o che picchia il pugno sul tavolo lo fa spesso meno per reale convinzione che per coprire il rumore dei suoi dubb»i.

E a questa sobrietà, essenzialità esistenziale, Jaccottet rimane coerentemente fedele anche nella scrittura; la poesia è lettura esatta, decifrazione puntuale delle cose, non paludata da espedienti formali che depistino il lettore distraendolo dal suo fine ultimo: che è quello di cogliere barlumi di verità, di approssimazione alla luce. «Non è appunto questo il lavoro che il poeta effettua sulle parole? Da opache, come gli furono date, si ostina a rendere loro la trasparenza, a renderci la felicità… Forse bisognerà ridursi a una posizione più modesta, a una via di mezzo: la poesia che illumina la vita come una nevicata, ed è già molto aver conservato gli occhi per vederla…».

Qual è, dunque, il compito del poeta? Jaccottet risponde in versi: «Compito dello sguardo che s’offusca / non è sognare o piangere, è vegliare / come un pastore il gregge, e richiamare / ciò che rischia di perdersi nel sonno»». E’ un richiamo che può essere attuato con parole comuni, addirittura logore, attraverso la descrizione di paesaggi quasi virgiliani (i boschi, le acque, insetti e uccelli…) e di situazioni di vita quotidiana che in qualche modo ricordano la nostra linea lombarda («Domenica popola i boschi di bambini che frignano, / di donne che invecchiano; / un ragazzo su due sanguina / si lasciano cartacce vicino allo stagno…») secondo moduli consolidati da una tradizione letteraria millenaria (rime, sonetti…). Dov’è dunque la peculiarità, ma anche la modernità di questa voce poetica? E’ nella sua limpidezza assoluta, nella sua cristallina musicalità, che ci fa respirare l’aria rarefatta e purissima dell’alta montagna, la trasparenza luminosa di altre atmosfere. Ma anche nella sua sapienza tranquilla, sicura e rassicurante, di una risposta che si intuisce al di là del mistero, della parola-viatico che ci accompagni, aiutandoci a passare «senza paura e senza rimpianti la soglia di quell’oscuro spazio che ci attende per inghiottirci o per cambiarci».

 

«L’Arena», 6 agosto 1992