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RECENSIONI

JACKSON

SHIRLEY JACKSON, LA RAGAZZA SCOMPARSA – ADELPHI, MILANO 2019

Shirley Jackson (19161965), scrittrice e giornalista statunitense, fu resa celebre dal breve romanzo  di critica sociale La Lotteria (1948), e da L’incubo di Hill House (1959), considerato una delle più celebri storie di fantasmi del ventesimo secolo. Adelphi ha pubblicato nella “Biblioteca minima” tre suoi racconti, di cui il primo (La ragazza scomparsa), dà il titolo al libro. Martha Alexander, protagonista invisibile della prima novella, è un’adolescente amorfa che frequenta un campo estivo: amorfa perché pare che nessuno si ricordi di lei, né sappia darne una qualsiasi descrizione, quando improvvisamente sparisce. Né la sua compagna di stanza Betsy, né la direttrice chiamata Zia Jane, o la sua assistente, o l’infermiera, o la cuoca. La ragazzina esce canticchiando dalla camera condivisa con Betsy, senza che qualcuno si preoccupi della sua assenza. Quando, dopo quattro giorni, ci si decide a dare l’allarme e a presentare una denuncia di sparizione alla polizia, allora fioccano le interpretazioni e le testimonianze più assurde e fantasiose. In realtà della presenza di Martha al campus non ci si ricorda niente: sembra non abbia mai partecipato ad alcuna attività ricreativa, e non si sia fatta mai notare per atteggiamenti particolari. Anche la sua foto di riconoscimento appare sfumata, e nemmeno la sua problematica famiglia offre qualche aiuto alle ricerche. Che si protraggono per mesi, dapprima affannose (squadre di soccorso, elicotteri, sensitivi visionari…), in seguito sempre più distratte. Fino all’inatteso e tragico epilogo.

Il secondo racconto, Viaggio con signora, è incredibilmente godibile, nella sua asciutta leggerezza. Un bambino di nove anni, Joe, viene accompagnato alla stazione dai genitori perché deve raggiungere da solo il nonno in una città vicina. Dopo mille raccomandazioni da parte della mamma apprensiva e agitata, si sistema felicemente su un sedile del treno, mangiando cioccolata e leggendo fumetti. Purtroppo la sua auspicata tranquillità viene infranta dall’arrivo di una elegante ma invadente signora che gli si siede accanto, facendogli molte fastidiose domande. Tale seccatura si rivela tuttavia presto eccitante, quando il ragazzo scopre che la sua compagna di viaggio è ricercata per furto, e decide di prestarle un solidale appoggio per tutta la durata del viaggio. Anche in questo caso, l’autrice Shirley Jackson riesce a intrattenere il lettore con il gusto di una suspence intelligentemente risolta nel divertente finale.

Incubo, titolo dell’ultimo racconto, indica perfettamente l’atmosfera ansiogena e oppressiva in cui si muove la protagonista, Miss Toni Morgan, efficiente segretaria newyorkese a cui è stato affidato l’incarico di consegnare un pacco in un punto lontano della city. Tormentata dalla visione di cartelli pubblicitari che invitano la popolazione a partecipare a un concorso per individuare una misteriosa Miss X, intuisce gradatamente di essere lei stessa l’ambita preda della caccia all’uomo (alla donna!), e tenta vanamente di sottrarsi a quest’angoscia, cambiandosi continuamente d’abito o nascondendosi in vari rifugi improvvisati. Pure qui, la conclusione a sorpresa giunge a temperare con un sorriso l’inquietudine di chi legge.

Molto efficace nel delineare il quadro sociale in cui si muovono i suoi personaggi, Shirley Jackson privilegia la rappresentazione di ambienti urbani in cui le persone vivono relazioni disturbate con il prossimo, tendendo a un isolamento che spesso suscita in loro paure e complessi di persecuzione: i suoi romanzi possono essere definiti, più che noir o gialli o horror fantascientifici, indagini psicologiche sul male oscuro di una civiltà che si affaccia alla spersonalizzazione estraniante del nascente capitalismo.

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https://www.sololibri.net/La-ragazza-scomparsa-Jackson.html                15 aprile 2019

RECENSIONI

JACKSON

SHIRLEY JACKSON, POMERIGGIO D’ESTATE – ADELPHI, MILANO 2020 – P. 32 (ebook)

In piena emergenza Covid 19, le nostre case editrici sono state costrette a sospendere la maggior parte delle pubblicazioni, scegliendo di proporre ai lettori selezioni meditate di ebook, più facilmente e velocemente acquistabili dei prodotti cartacei. Così ha fatto Adelphi, inaugurando la collana Microgrammi, presentata al pubblico in questi termini:“Abbiamo deciso di farvi leggere, in formato digitale, alcuni dei testi che avremmo pubblicato in queste settimane e che usciranno in un futuro imprecisato. Più qualcosa d’altro che non era immediatamente in programma e qualcosa che non lo era affatto. In questa serie troverete quindi racconti di vario genere, tratti da volumi più ampi, nonché brevi inediti. In un caso e nell’altro, abbiamo cercato di dare a questi minuscoli libri la forma non di un estratto, ma appunto di un libro autonomo, per quanto in miniatura. È una deformazione professionale, verosimilmente: ma ci ostiniamo a rimanerle fedeli”.

L’ultimo di questi ebook adelphiani si intitola Pomeriggio d’estate, e ospita due brevi racconti di Shirley Jackson (19161965), scrittrice e giornalista statunitense, resa celebre dal romanzo  di critica sociale La Lotteria (1948), e da L’incubo di Hill House (1959), considerata una delle più celebri storie di fantasmi del ventesimo secolo. Molto efficace nel delineare il background culturale in cui si muovono i suoi personaggi, Shirley Jackson privilegiava la rappresentazione di ambienti urbani in cui le persone vivono relazioni disturbate con il prossimo, tendendo a un isolamento che spesso suscita in loro paure e complessi di persecuzione: i suoi romanzi possono essere definiti, più che noir o gialli o horror fantascientifici, indagini psicologiche sul male oscuro di una civiltà che si affaccia alla spersonalizzazione estraniante del nascente capitalismo.

La sofferta biografia della Jackson (una madre ostile e anaffettiva, un marito possessivo e infedele, quattro figli da accudire, un aspetto fisico quasi respingente, un carattere spigoloso e introverso, la portarono ad abusare di alcol e psicofarmaci) incise certamente sia nella scelta tematica delle sue narrazioni, sospese tra sarcasmo e ferocia, sia nella sospettosa diffidenza con cui il mondo editoriale e il pubblico dei lettori circondarono la sua figura di donna e scrittrice.

Invito a cena e Pomeriggio d’estate – le due novelle presenti nell’ebook – sono tratte dal volume antologico La luna di miele della signora Smith, la cui uscita è programmata entro quest’anno. Nel primo racconto, una giovane donna ingenua e pasticciona, una sorta di Bridget Jones ante-litteram (“Mi spiego, ogni volta che cerco di fare bella figura qualcosa va storto”), sfida in una gara culinaria un affascinante e vanesio giovanotto, noto per la sua abilità in cucina, invitandolo a cena. “Hugh Talley fa lo stesso effetto a un sacco di gente: è bellissimo, in quel modo virile che funziona perfettamente nei film, ma diventa atroce se uno come lui lo incontri tutti i giorni in ufficio. Fa sembrare tutti gli altri uomini pallidi e trasandati”. Assolutamente incapace di realizzare un qualsiasi piatto appena commestibile, la protagonista viene salvata in extremis dall’intervento di una vecchietta che si incarica di provvedere sia alle vivande sia alla presentazione della tavola. Ma l’umiliazione esercitata dall’ospite, attraverso quell’atteggiamento sfottente di mansplaining che molti uomini assumono quando vogliono far pesare la propria superiorità, la induce a un sano gesto di vendetta liberatoria.

Le poche pagine di Pomeriggio d’estate introducono invece una vicenda del tutto differente, che ha per protagoniste due bambine di cinque anni, vicine di casa in un tranquillo ed elegante quartiere della middle class americana. Carrie e Jeannie giocano con le loro bambole, saltano alla corda, costruiscono “minuscole casette di foglie ed erba” a imitazione dei salotti delle loro villette borghesi, si invitano vicendevolmente nelle rispettive abitazioni, sotto la benevola attenzione dei genitori. A volte si spingono lungo i curati ed erbosi viali vicini, soprattutto per salutare una loro amichetta, Tippie, che non esce mai di casa, ma i cui giocattoli appaiono bene in vista sulla finestra, a ogni smuoversi delle tende. Come mai Tippie non esce mai di casa? Che sia malata, o in punizione, o abbia una mamma apprensiva?

Shirley Jackson ama giocare con le ombre, schernire il perbenismo farisaico statunitense, ammiccare sornionamente a ciò che sopravanza realtà e fantasia insieme.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 21 aprile 2020

 

 

 

 

RECENSIONI

JANECZEK

HELENA JANECZEK, BLOODY COW – IL SAGGIATORE, MILANO 2012

Helena Janeczek, nata nel 1964 a Monaco di Baviera da genitori ebrei polacchi, vive da molto tempo in Italia, occupandosi di editoria. In questo suo terzo romanzo, dalla scrittura tesa e originalissima, coinvolgente e spiazzante, si occupa di uno scandalo che ha terrorizzato l’Europa alla fine del ‘900, contagiando politica e media mondiali: la malattia di Creutzfeldt-Jacob, comunemente conosciuta come morbo della mucca pazza. Oggi ce ne siamo quasi dimenticati, ma vent’anni fa un’ansia fobica e irrazionale aveva paralizzato i consumi di carne, stravolto abitudini alimentari, dominato con toni apocalittici quotidiani, televisioni e conversazioni private. Janeczek ci fa ripiombare in quell’incubo, e la prima parte del libro assume toni sarcasticamente feroci nei riguardi sia della barbarie consumistica che adultera cibi e coscienze, avvelenandoci tutti, sia della nostra indifferente connivenza con le sistematiche torture del mondo animale e con la corruzione capitalistica del mercato alimentare. Moriremo di carne infetta e mafiosa; moriremo di cecità e egoismo, ma anche di ingordigia e di assuefazione colpevole al male: «…E allora ci aspettiamo che si nasconda lì dentro, nel metanolo nel vino, nella diossina dei polli, nelle bottiglie di Coca-Cola, negli organismi geneticamente modificati contrabbandati dentro ai biscotti, la nostra morte, e certo nelle mucche ammalate…; …mucche cui cedono le gambe, cui gli occhi si rovesciano all’indietro…; …bestiame, carne, sangue, siero, grassi, farine animali, ogni sorta di scarto o avanzo, illegalmente o legalmente esportato con lo sconto speciale».

A questo macello universale prono alle leggi di sfruttamento economico è dovuta la morte incolpevole della giovane Clare Tomkins, vegetariana dall’età di undici: la sua terrificante e dolorosa agonia, lo strazio irrisarcibile della sua famiglia; sul tragico destino di Clare, Helena Janeczek scrive le pagine commosse e indignate che concludono questo notevole romanzo.

 

«Leggendaria» n.107, settembre 2014

RECENSIONI

JANKELEVITCH

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH, PERDONARE? – GIUNTINA, FIRENZE 2004

Vladimir Jankélévitch (Bourges, 1903-1985), filosofo e musicologo francese, figlio di ebrei russi immigrati, professore alla Sorbona e intellettuale impegnato sia nella Resistenza durante la guerra, sia nelle lotte del 68, scrisse alcuni vibranti testi sullo sterminio nazista, che furono raccolti nel 1971 in un volume, provocatoriamente intitolato: Perdonare?, e ripubblicati dalla Giuntina, con traduzione di Daniel Vogelmann. Perdonare, quindi? Dimenticare, soprassedere, amnistiare «questo mistero della malvagità gratuita che è stato l’olocausto?» La risposta appassionata e sofferta di Jankélévitch è «NO!». Un no quasi urlato, meditato con lucidità ma anche e soprattutto viscerale, polemico, feroce. Che si ribella con determinazione ad ogni caritatevole appello all’oblio:

«Il nostro risentimento, la nostra incapacità di liquidare il passato… non si chiama rancore, ma orrore»; «Fare dei paralumi con la pelle dei deportati… Bisogna essere un vampiro metafisico per avere un’idea del genere: che dunque non ci si meravigli se un crimine insondabile provoca una meditazione inesauribile».

Questa meditazione sfocia in una difesa ad oltranza, infiammata, del popolo ebreo: «Gli ebrei sono soli, disperatamente soli, nella loro fortezza assediata»; «Perché gli ebrei hanno sempre torto: torto di vivere, torto di morire». E in una condanna senza appello del popolo tedesco: «Non perdonare loro, perché sanno quello che fanno»; «Dal macchinista dei convogli fino al miserabile burocrate che teneva la lista delle vittime, ci sono ben pochi innocenti fra questi milioni di tedeschi muti e complici»; «Ci sarà rimproverato di paragonare questi malfattori a dei cani? Lo ammettiamo: il paragone è ingiurioso per i cani»; «La buona coscienza dei tedeschi di oggi ha qualcosa di stupefacente: i tedeschi sono un popolo impentito».

La proposta del filosofo è quindi conseguente, e dettata da un rancore mai ammorbidito, da un dolore assolutamente vendicativo: boicottare Germania e Austria, non andare più in questi civilissimi e ricchi paesi senza memoria. «Il perdono! Ma ci hanno mai chiesto perdono?»

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/Perdonare-Vladimir-Jankelevitch.html    10 marzo 2017

RECENSIONI

JANKÉLÉVITCH

VLADIMIR JANKÉLÉVITCH, L’IPSEITÀ E IL QUASI NIENTE 

SOLFANELLI, CHIETI 2017

 

I due importanti testi di Vladimir Jankélévitch. L’ipseità e Il «quasi-niente», pubblicati per la prima volta in italiano dall’editore Solfanelli nel 2017, sono stati scritti rispettivamente nel 1939 e nel 1954.

Jankélévitch (1903-1985), nato da una famiglia di ebrei russi immigrati in Francia, è stato filosofo, musicologo e pianista. Professore alla Sorbona e autore di numerosi volumi di estetica e morale, ha indagato la dimensione etica della sofferenza, della perdita, del perdono, soffermandosi in particolare sul senso dell’ineffabile come sentimento, intuito soprattutto dalla musica, che travalica i concetti tradizionali della riflessione contemporanea. Nella prefazione, Gianluca Valle così lo definisce: “è un pensatore sfuggente e difficilmente inquadrabile nelle correnti filosofiche del tempo (la fenomenologia, la psicoanalisi, l’esistenzialismo e il marxismo); un chirurgo della parola che viene svuotata del suo potere rappresentativo e definitorio e impiegata nella sua forza evocativa e metaforica, attingendo con un intento antimoderno al greco e al latino, e costringendo il lettore a compiere vorticose scorribande concettuali”.

Servendosi degli strumenti dell’intuizione e dello humour, aggirando i colossi teorici della filosofia occidentale Marx e Freud, e raccogliendo invece l’eredità bergsoniana, Jankélevitch in questi due brevi saggi offre un’esemplare manifestazione della sua abilità di scompaginare le certezze consolidate, utilizzando la categoria della negazione, per definire non tanto il “cosa è”, quanto il “cosa non è” di un concetto, di un fatto, di un’azione.

Ipseità quindi si determina come negazione della molteplicità, e il quasi-niente come irriducibilità allo scorrere ordinario del tempo. L’ipseità è inalienabile, inviolabile, impossedibile, incomparabile, pura esistenza che qualifica l’individuo come unicità pur nel suo essere comune con gli altri, ma al di là di ogni fare e avere particolare. Il quasi-niente è invece un evento imprevisto, una sorpresa, una novità che si situa tra l’essere e il nulla, la rivelazione di un istante che ha una valenza ontologica o metafisica, non puramente pratica, e prospetta un divenire inconosciuto.

L’ipseità indica l’umanità e la dignità al grado zero dell’essere umano, non quantificabile perché unica e irripetibile, fondata su sé stessa indipendentemente dalle scelte individuali messe in atto. Non corrisponde a un’idea astratta dell’“essere uomo”, ma si riferisce alla specificità propria dell’individuo, insieme immanente e trascendente. Se questo concetto si può avvicinare ad altri simili, espressi da filosofi antichi e moderni (tra gli altri, Heidegger con il suo “Dasein”, che tuttavia Jankélévitch non nomina mai, ritenendolo colpevolmente implicato nel nazismo), più originale risulta la riflessione sul “quasi-niente”, inteso come evento ultra-empirico che irrompe nella continuità del tempo, o come l’intuizione di una mutazione istantanea, impercepibile transizione tra la vita e la morte, tra il bene e il male, che può essere espressa e resa comprensibile specificamente nell’ascolto dell’ineffabile intuito e suggerito dalla musica, per esempio nei “pianissimi” di Debussy o di Albeniz, quando il suono smorzato si avvicina alla soglia del silenzio, e del mistero. Il “quasi-niente”, come un lampo o una scintilla, si situa aldilà del tempo e dello spazio, accade nell’istante, nell’attimo che appare scomparendo e scompare apparendo, privo di passato e di futuro, trasformazione dell’essere che travalica qualsiasi spiegazione intellettuale.

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 5 dicembre 2022

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JARRY

ALFRED JARRY, L’AMORE ASSOLUTO – ADELPHI, MILANO 1991

La data apposta in calce a questo testo è quella del 20 febbraio 1899: improbabile che Alfred Jarry abbia scritto in un giorno solo i 15 episodi che lo compongono, anche se hanno il respiro ansante e concitato dell’illuminazione folgorante, impetuosa. Modernissimi nella forma incalzante, quasi sincopata del fraseggio, risultano nel contenuto provocatori e grotteschi, allucinati e stranianti, scandalosi fino alla blasfemia. Che l’autore intendesse farsi gioco dei testi sacri è del tutto evidente, dall’esplicito simbolismo che richiama alla Genesi, ai Vangeli e all’Apocalisse: il primo capitolo si intitola sarcasticamente “Sia fatta la tenebra!”, l’ultima frase rimanda alla più devota delle invocazioni cattoliche: ” – … Prega per noi… Adesso, che è l’ora della nostra morte.” E il protagonista si chiama Emmanuele-Dio, alter-ego di Jarry e di Cristo: un Gesù bambino adorato da novelli Magi, un Gesù crocefisso, figlio e amante di una Miriam-Varia-Melusina che incarna purezza e peccato, e figlio improbabile di un vecchio Giuseppe falegname, o Joseb notaio, nel frenetico sovrapporsi di personaggi interscambiabili e camaleontici, di situazioni angoscianti e torbide. Emmanuele è imprigionato in una cella in attesa della condanna a morte: non si conosce la sua colpa, ma ci si dice che “E’ un uomo del tipo di Dio… Non può essere altro che l’eterno incarcerato, le cui parole rispondono tutte a un interrogatorio”. Jarry trasforma i suoi dati biografici, cioè di una vita breve, tormentata e dissoluta, in un paradigma di esistenza più genericamente e miseramente sconfitta: “Ecco l’Apocalisse del molto comune. La storia di una di quelle larve”. Il suo Emmanuele è vittima e carnefice di se stesso, preda di incubi e desideri assatanati, in cui verità e menzogna si confondono nell’attesa di una qualsiasi fine redentrice: “ha come prigione soltanto la scatola del suo cranio, ed è soltanto un uomo che sogna seduto accanto alla sua lampada”.

 

https://www.sololibri.net/L-amore-assoluto-Jarry.html                  18 agosto 2020

 

RECENSIONI

JEAN-PIERRE VERNANT

JEAN-PIERRE VERNANT, LE ORIGINI DEL PENSIERO GRECO ‒ SE, MILANO 2019

Jean-Pierre Vernant (1914-2007), storico della filosofia e delle religioni, si è occupato in modo particolare della mitologia nel mondo antico. Fu autore di un libro-cult quale Mito e pensiero presso i greci (Einaudi, 1978), in cui utilizzava gli strumenti della psicologia e dell’antropologia per esplorare l’evoluzione dell’uomo arcaico da una cultura mitologica-religiosa a una più politica, scientifica e filosofica, nel percorso che condusse il pensiero dei greci dal soprannaturale-magico alla scoperta della razionalità.

Nel volume scritto nel 1962 e appena riedito dalle edizioni milanesi SE, Le origini del pensiero greco, Vernant indaga settecento anni di storia ellenica, dal dodicesimo al quinto secolo, cioè dal crollo dei regni micenei determinato dall’invasione dei Dori, fino all’apogeo della civiltà ateniese. Nei tre capitoli iniziali del volume ricostruisce il quadro storico della civiltà micenea, fiorita tra il 1500 e il 1100 a. C.. In questo periodo di massima operosità, i micenei apparivano strettamente associati alle genti del Mediterraneo orientale, con vivaci scambi culturali e commerciali con il mondo asiatico. La vita sociale era accentrata attorno al palazzo del re (anax), che praticava un controllo rigoroso sulla popolazione, appoggiato da un’aristocrazia bellicosa, ed esercitava un dominio assoluto, impedendo di fatto qualsiasi autonomia non solo dei sudditi, ma anche dei dignitari e dei funzionari di corte. Tutto il sistema di potere si fondava sulla scrittura e la costituzione di archivi, organizzati da scribi cretesi passati al servizio delle dinastie micenee, che avevano trasformato la scrittura “lineare A” usata nel palazzo di Cnosso, adattandola al dialetto dei nuovi signori (lineare B). Tale grafia, decifrata da due archeologi inglesi solo intorno al 1950, rimase patrimonio di cerchie intellettuali rigidamente chiuse, che fornirono al sistema palazziale le tecniche e i quadri dell’amministrazione e dell’erario.

Con l’invasione dorica, si ruppero i legami con l’Oriente, provocando la conseguente diminuzione degli scambi commerciali e il ritorno a un’economia di sussistenza: scomparvero scrittura e architettura, e dal 1200 all’800 (il cosiddetto Medioevo ellenico o età oscura) la Grecia conobbe un periodo di totale depauperamento culturale, economico e istituzionale. Il graduale passaggio all’epoca dei poemi omerici e delle città-stato (poleis), fu segnato da una progressiva perdita di mistero nel rapporto tra gli uomini e le divinità, da una laicizzazione dell’autorità regale, da un cambiamento nelle usanze funerarie (con la rinuncia all’inumazione in favore della cremazione), da una stilizzazione dell’arte ceramica. Vernant situa proprio a partire dall’VIII secolo la separazione tra il mondo dei mortali e quello degli dei, sancito poi dalla poesia epica, che diede avvio a un effettivo affrancamento dal mito.

Fu soprattutto l’apparizione delle poleis a comportare un reale mutamento nella vita e nella cultura della Grecia, trasformando la vita sociale e le relazioni tra i cittadini. La parola, la discussione libera, il confronto dialettico diventano fondamentale strumento politico di democrazia; la cultura e il possesso di conoscenze specifiche si rendono fruibili per un numero sempre più vasto di uomini, anche grazie alla scrittura con cui si redigono leggi, si divulgano nuove idee e scoperte tecniche, si sottopongono a critica e interpretazioni diverse anche le funzioni religiose. Persino l’organizzazione militare si modifica, celebrando non solo l’eroismo individuale, bensì lo spirito di sacrificio e obbedienza nel combattimento collettivo. In particolare tre innovazioni teoriche, nate nella colonia di Mileto, in Asia Minore, nel VI secolo, segnano il passaggio dal pensiero mitico a quello scientifico: il carattere profano e positivo (non più sacro-rituale) assegnato ai fenomeni naturali, l’idea di un cosmo ordinato che obbedisce a leggi di regolarità, e infine la visione geometrica delle scienze allora conosciute (astronomia, geografia), collegate tra loro da relazioni simmetriche. Tali caratteristiche costituiscono la grande novità che differenzia la nuova cultura della Grecia rispetto a quella passata o del Vicino Oriente. L’analisi di Jean-Pierre Vernant ci conduce progressivamente a individuare i momenti nodali che portarono i greci a modificare la loro condotta morale, il loro universo mentale, i rapporti sociali e le basi dell’economia, dando infine origine al pensiero occidentale moderno.

 

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https://www.sololibri.net/Le-origini-del-pensiero-greco-Vernant.html      18 marzo 2019

 

 

RECENSIONI

JEDLOWSKI, CERULO

PAOLO JEDLOWSKI, MASSIMO CERULO, SPAESATI – IL MULINO, BOLOGNA 2023

Il volume di Paolo Jedlowski e Massimo Cerulo, Spaesati, si interroga sulle esperienze di dislocamento (e relativo spaesamento) delle persone che, lasciati i luoghi in cui sono cresciute, si muovono abitualmente fra realtà geografiche – e quindi sociali – differenti. Persone che partono, ritornano, viaggiano senza essere costrette a emigrare da condizioni drammatiche di guerre, persecuzioni, povertà, cambiamenti climatici, ma spinte da ragioni più banalmente comuni, “per studio, per lavoro, per amore o per altri motivi”, in una sorta di pendolarità allargata, di mobilità fisica e mentale che talvolta implica il pericolo di una perdita di identità.

I due autori sono legati da una similarità biografica: uno, Jedlowski (Milano 1952), è il docente che si è spostato dal settentrione al meridione per insegnare Sociologia all’Università di Calabria; l’altro, Cerulo (Rossano 1980), è l’allievo che ha percorso il tragitto opposto, occupando diverse cattedre nella nostra penisola fino ad arrivare a quella attuale di Napoli.

Alternandosi, i due professori hanno scritto i dieci capitoli del saggio confrontando il proprio diverso vissuto di sradicati, indagando emozioni e nostalgie, successi e conquiste, smarrimenti e riscatti, scanditi dalle stesse faticose costrizioni: spostamenti in treno, pullman, aereo, automobile, soste in alberghi e bar, orari rispettati o stravolti, incontri arricchenti e dispersivi.

La “vita mobile” raccontata da Paolo Jedlowski prende le mosse dal suo trasferimento da Milano a Cosenza per raggiungere la moglie, l’impiego di entrambi in quella nuova e innovativa università calabrese, la nascita dei due figli, il rapporto con la provincia e la campagna. Con finezza psicologica e una patina di malinconia, la vita di genitori nonni zii viene ripercorsa nei trasferimenti obbligati o volontari, confrontati con gli esili che da sempre hanno costretto generazioni intere, nel corso della storia umana, a tagliare le proprie radici per riambientarsi altrove, patendo pregiudizi razziali, conflittualità caratteriali e linguistiche, stravolgimenti di abitudini consolidate. La pendolarità di docenti, professionisti, studenti, costretti a spostarsi tra varie città e abitazioni, settimanalmente o mensilmente, dividendosi tra impegni, amici, parenti, su e giù per l’Italia o addirittura con puntate regolari all’estero, oggi è diventata prassi comune e pressoché necessaria.

Anche Massimo Cerulo, calabrese formatosi nell’Università in cui insegna Jedlowski, ha imparato presto quanto disagio comporti la “spartenza”, termine che associa il distacco da casa alla lacerazione che tale distacco comporta. Per un giovane meridionale è tuttora giocoforza evadere da un sud atavicamente immobile, pena la disoccupazione, la sotto-occupazione, l’umiliante sensazione di fallimento personale. Doloroso partire, impossibile tornare senza sentirsi in colpa verso sé stessi e l’ambiente familiare che ha sostenuto economicamente e affettivamente il trasferimento altrove di un figlio promettente e dotato.

L’ISTAT ha recentemente evidenziato che negli ultimi dieci anni sono stati circa 1.138.000 i movimenti in uscita dal Sud e dalle isole verso il Centro-Nord, e circa 613.000 quelli sulla rotta inversa. Il bilancio tra uscite ed entrate si è tradotto in una perdita netta di 525.000 residenti meridionali. La regione del Mezzogiorno da cui partono più emigrati è la Campania (30%), seguita da Sicilia (23%) e Puglia (18%). Chi parte ha un’età compresa tra i 18 e i 35 anni (53%), è laureato o almeno diplomato, predilige come meta la Lombardia e l’Emilia Romagna.

Ovviamente, il pendolarismo non riguarda solo le categorie culturalmente privilegiate dei docenti e degli studenti: viaggiano in continuazione consulenti aziendali, tecnici, rappresentanti di commercio, camionisti, marinai dei cargo, hostess, piloti d’aereo, ferrovieri… Per tutti loro l’esperienza extra-ordinaria del viaggio si trasforma lentamente in pratica ordinaria, attraverso una strategia di quotidianizzazione messa in atto per sopravvivere all’impressione decontestualizzante di essere sempre fuori luogo, in un altrove che può concedere molta libertà (relazioni diverse, amori non esclusivi,

amicizie influenti, paesaggi sempre nuovi), ma implica anche sofferenza: “tensioni famigliari, stress, fatica”, e soste prolungate, perdite di tempo, snervanti routine, rituali ripetuti, mancanza di intimità, rimpianti su scelte mancate. Il desiderio di trovare casa convive comunque con la spinta a uscirne.

Sono molti i saggi e i romanzi citati da Jedlowski e Cerulo nei loro interventi, insieme a brani di interviste, film, trasmissioni televisive, poesie e soprattutto canzoni, quasi che una colonna sonora li abbia accompagnati nei loro spostamenti ad addolcire i momenti più malinconici di estraneità e disgregazione dell’io. Il sentimento della nostalgia è quello più esplorato, come inevitabile rievocazione di periodi trascorsi più felici di quelli presenti, ma anche come consapevolezza dell’impossibilità di ritrovare nell’oggi o in un ipotetico futuro le condizioni di vita, le persone e i luoghi così com’erano quando sono stati abbandonati. Nostalgia indagata insieme alla speranza, orientata verso il domani per controbilanciare lo sguardo rivolto a ieri: speranza di lasciare una traccia del proprio lavoro, un’eredità culturale ed etica, e forse anche speranza di una stanzialità che ripaghi del girovagare compiuto in tanti anni. Nelle intenzioni dei due autori, questo libro vuole essere un piccolo contributo a una «storia intima» d’Italia, nata dal confronto di tante esperienze diverse; noi lettori ne ricaviamo un riuscito esercizio di empatia verso “chi va e di chi resta” (per citare  Eugenio Montale).

 

 

© Riproduzione riservata      «Gli Stati Generali», 14 marzo 2024

RECENSIONI

JELLOUN

TAHAR BEN JELLOUN, LE PARETI DELLA SOLITUDINE – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2017

Un grido di rabbia e di dolore che sembra uscire dai precordi dell’anima e dalle viscere, quello che Tahar Ben Jelloun, nato in Marocco nel 1944 e residente in Francia da moltissimi anni, autore acclamato di molti romanzi, ha lanciato dalle pagine di questo romanzo, Le pareti della solitudine. Scritto nel 1975, quando l’autore lavorava come psicologo in un centro di medicina psicosomatica a Parigi, osservando e ascoltando più di un centinaio di pazienti nordafricani sofferenti di disturbi sessuali o affettivi. Supportato dall’esperienza medica di uno psichiatra, che prescriveva ai pazienti psicofarmaci, Jelloun intuiva che il rapporto da stabilire con queste persone (allora quasi tutti uomini giovani e soli, poiché ancora non si prevedeva il ricongiungimento familiare) doveva utilizzare altri strumenti esplorativi e curativi, basati sul colloquio, sulla solidarietà e sulla comprensione. «Ero al centro di un disperato disagio, che non si poteva sospettare incontrando quegli uomini grigi e un po’ stanchi che passavano la domenica a sognare il paese lontano o a fare la coda davanti a un sordido albergo, dove qualche prostituta accettava di alleviare un po’ la loro solitudine».

Per raccontare questa esperienza, vissuta sulla sua pelle di studioso ma anche di immigrato marocchino, immagina allora una persona in carne e ossa, un giovane frustrato che avverte ostile e indifferente l’ambiente che lo circonda. Diventa lui, diventa Momo, ricostruisce il suo passato attraverso squarci di malinconica nostalgia, oppure urla la sua protesta e le sue rivendicazioni (economiche, sindacali e sessuali), con tutto l’odio e il rancore di chi si vede privato di ogni dignità e di ogni futuro. Momo lavora in fabbrica o nei cantieri, vive in una camera stretta come un baule, dorme in un letto a castello in un condominio fatiscente adibito ad ospitare extracomunitari; sulle pareti sono appesi elenchi di regole da rispettare, divieti e prescrizioni, multe e minacce di sfratto: «Il mio letto è sfondato. La mia schiena è rotta dalla fatica. Preparo da mangiare nel baule. Mangio e parlo ai miei stivali. Canto nei miei stivali. Urlo nei miei stivali. Piscio anche negli stivali».

Jelloun non conosce remore nel descrivere in prima persona l’abbruttimento fisico a cui Momo si riduce: la scarsa pulizia, i rapporti promiscui, la masturbazione, le fantasie malate. Lo fa alternando monologhi e descrizioni poetiche, dialoghi surreali, brani di giornali e di lettere, favole riemerse da ricordi dell’infanzia, utilizzando anche gli strumenti della retorica e delle immagini più abusate, per rendere esplicita quale e quanta sia l’angoscia di chi si riduce a vivere come una larva: «Sapevate forse; o lo saprete adesso: passo il tempo cosiddetto libero a fare piani per la demenza, per riuscire a trattenere il grido in corpo, perché il suicidio non arrivi dopo un accesso di febbre, perché la morte, cominciata da un pezzo, non sia un semplice incidente sul lavoro».

Nelle due lunghe e meditate introduzioni al romanzo, l’autore si sofferma sulla questione tormentata dell’immigrazione africana in Europa, sulle derive prive di qualsiasi prospettiva politica del razzismo: lo fa con la pacatezza di chi ha meditato per anni sul fenomeno, e con l’empatia dello psicologo e dell’artista. Sapendo che per il mondo occidentale non c’è altra prospettiva di salvezza che questa: «L’avvenire sarà nel meticciato, nella mescolanza dei colori, delle spezie e delle immaginazioni»: respingimenti e muri non fermeranno l’ondata planetaria di chi fugge dalla disperazione.

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Le-paretidellasolitudine-Ben-Jelloun.html       2 dicembre 2017

RECENSIONI

JESI

FURIO JESI, LETTURA DEL “BATEAU IVRE” DI RIMBAUD – QUODLIBET, MACERATA 1996

Con quanta ricchezza di pensiero, originalità di scrittura, profondità di sentimento e indipendenza critica Furio Jesi avrebbe arricchito il panorama culturale italiano, se una morte precoce e ingiusta non l’avesse strappato crudelmente ai suoi studi e a chi lo amava e stimava. Lo intuiamo con grande rimpianto anche solo leggendo queste straordinarie pagine di commento a Rimbaud, scritte nel 1979 e riproposte da Quodlibet nel 1996 in Lettura del “Bateau ivre” di Rimbaud.

Come Rimbaud, Jesi era stato un adolescente geniale e inquieto, refrattario ad ogni compromesso: forse a questa comune sensibilità (sfociata poi in una similitudine di destino che li portò tutt’e due a morire prima dei quarant’anni), si deve l’appassionato fervore con cui lo studioso torinese seppe penetrare il testo poetico rimbaudian «in una sorta di disincantata divinazione», secondo quanto suggerisce Giorgio Agamben nella sua ammirata prefazione.
Entrambi “diversi”, Jesi e Rimbaud, entrambi ingenuamente “infantili” nel rifiutare il mondo del potere, pertanto naturalmente in rivolta: «esiste simmetria tra il riconoscere nell’infanzia valori autonomi, un regno diverso, e nella poesia un regno abitato da diversi, ma uno solo è il processo entro il quale si giunge a codesti riconoscimenti di differenza, – e poi alle tecniche di sfruttamento dei diversi».

Poesia e infanzia hanno voci profetiche, pertanto disturbanti, da allontanare o mercificandole o imbalsamandole in monumenti retorici, elargendo “sopravvivenza e guadagno”. La loro ribellione consiste nel seguire utopicamente un sogno di sconfinamento, come quello del “Bateau ivre” «che tenta l’esperienza di un regno in cui libertà è purificazione, veggenza e morte». Se poi poeti e bambini finiscono per adeguarsi «alla falsa oggettività imposta dagli adulti» ecco che il loro battello volontariamente si trasforma in una barchetta di carta, che galleggia in una pozzanghera «noire et froide». La rivolta del poeta bambino Rimbaud si cristallizza nel suo rifiuto dell’Europa, e della poesia.

 

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www.sololibri.net/Lettura-Rimbaud-Jesi.html     13 maggio 2016