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JODOROWSKY

ALEJANDRO JODOROWSKY, LA GIOIA DI INVECCHIARE – FELTRINELLI, MILANO 2020 (ebook)

 Alejandro Jodorowsky, nato in Cile nel 1929, figlio di immigrati ebreo-ucraini, si è trasferito dal 1953 a Parigi, dove ha fondato con Fernando Arrabal e Roland Topor il movimento di teatro “panico”. Artista eclettico, Jodorowsky è stato direttore di teatro, autore di pantomime e pièce teatrali, di romanzi e libri di fumetti, ma anche di molti film di successo (Il paese incantato, El Topo, La montagna sacra e Santa sangre-Sangue santo).

In questo e-book pubblicato da Feltrinelli nella collana Zoom, La gioia di invecchiare, sono raccolte sei storielle, un racconto indù e una leggenda sufi, che con leggerezza e ironia cercano di esorcizzare la paura della decadenza fisica e spirituale, presentando personaggi molto anziani che rendono omaggio alla loro veneranda età con l’esibizione di una saggezza encomiabile, venata di gentile umorismo.

Pillole di assennato equilibrio che il protagonista dispensa a interlocutori vacui, sospettosi e pieni di pregiudizi, prendendoli amabilmente in giro per la loro supponente superficialità, e azzittendoli con l’evidenza della propria intelligente superiorità. Prendiamo ade esempio la terza di queste storielle:

“L’uomo più vecchio del mondo ha ammassato una immensa fortuna. Un giovane giornalista gli domanda: “Come è riuscito a guadagnarsela?”. “Mi sono arricchito vendendo piccioni viaggiatori.” “E quanti ne ha venduti?”. “Uno solo, ma è sempre tornato indietro”.

Jodorowsky così la commenta: “Nella storiella numero tre possiamo interpretare “una grande fortuna” come “un elevato livello di Coscienza”. Il vecchio ci insegna a ottenerla concentrando l’attenzione, le forze e la fede su di un unico scopo. Invece di scavare un centinaio di pozzi poco profondi, profondi, è meglio scavarne soltanto uno fino a raggiungere l’acqua nascosta”.

Stranamente, in questi apologhi al vecchio saggio si contrappone perlopiù un giovane giornalista, emblema forse di futile curiosità, oppure un’anziana e distinta signora, esempio di rigida compunzione, come nella sesta storia, che sprona alla positività: “Un vecchio va a prendere il nipotino a scuola. Una madre esce dall’edificio dicendo a suo figlio: “Bambino negligente, va’ a lavarti le mani! È orribile avere le mani così sporche!”. Il nonno dice al nipote: “Ragazzino, va’ a lavarti le mani: è bellissimo avere le mani pulite”.

Ci sono anche galanti riconoscimenti alla generosità femminile: “Hai due giumente. Una è la madre e l’altra è la figlia. Come fai a sapere qual è la madre e quale la figlia, se sono identiche?”. “Bisogna metterle davanti a un mucchio di fieno. La madre cede il cibo alla figlia”.

Le considerazioni finali di Alejandro Jodorowsky sulla terza-quarta e quinta età (l’autore ha ormai 91 anni) sono un appello alla moderazione, alla comprensione verso le debolezze umane, alla pazienza; e soprattutto un invito ad apprezzare ogni piccola gioia offerta dalla quotidianità, rinunciando alle seduzioni del potere, alle ambizioni inutili, ai progetti irrealizzabili, e accontentandosi di vivere in pace con se stessi e con gli altri, in una sorta di “santità civile” che è rispetto per l’ambiente naturale e umano, sapendo che “tutto succede su una scala più ampia di quella che viene percepita dall’ Io personale”.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/La-gioia-di-invecchiare-Jodorowsky.html                16 maggio 2020

 

 

 

 

 

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RECENSIONI

JOHNSON

DENIS JOHNSON, TRAIN DREAMS – MONDADORI, MILANO 2013

Denis Johnson (nato a Monaco di Baviera nel 1949, cresciuto in Giappone e nelle Filippine prima di stabilirsi a Washington, morto in California nel 2017) ha scritto narrativa, poesia e saggi, vincendo il National Book Award nel 2007 con il romanzo Albero di fumo, resoconto implacabile della guerra in Vietnam. Train dreams è un romanzo breve, che può ricordare nello stile altri famosi autori americani (Steinbeck, Faulkner e soprattutto McCarthy), e alcune ambientazioni dei film dei fratelli Cohen, in particolare per la descrizione del paesaggio naturale ‒ tra monti boscosi e ripidi torrenti ‒ e della popolazione scontrosa e indurita dal lavoro nelle cittadine desolate dell’Idaho.

Il protagonista del racconto si chiama Robert Grainer, è un uomo semplice e rude, con cui la vita non è mai stata tenera. Persi i genitori nella prima infanzia, adottato da lontani parenti, alla morte di questi comincia a lavorare come taglialegna e operaio nella costruzione di ponti e ferrovie che arriveranno a cambiare l’intero paesaggio del West, in una colonizzazione rapida e spietata dei territori più incolti e abbandonati dell’America degli anni ’20. “Combattevano contro la foresta dall’alba fino all’ora di cena, abbattendo i giganteschi abeti e segandoli in pezzi di dimensioni appena maneggevoli, compiendo imprese… analoghe a quelle delle piramidi, cambiando il volto delle montagne, parlando poco, comunicando a urla, vivendo con la sensazione appiccicosa della pece nella barba, con il sudore che scioglieva via la polvere dai mutandoni e la incrostava nelle pieghe del collo e delle giuntura, e con l’odore della pece così forte che scorticava la gola e irritava gli occhi, coprendo perfino la puzza delle bestie e dello sterco”.

Robert Grainer in ottant’anni di vita laboriosa e onesta patisce di tutto: si scontra con la violenza e l’abbrutimento del prossimo, con il fuoco che gli distrugge la casa e la famiglia, con l’artrosi  che gli scardina le ossa, con bambini-lupo e fantasmi reincarnati, con tentativi di linciaggio e suicidi: in un orizzonte fisico e mentale privo di qualsiasi ansia metafisica, si riduce a una solitudine condivisa solo con una cagnolina dal pelo rosso, con l’ululato dei coyote e l’osservazione del cielo solcato da uccelli rapaci. Muore nel sonno, anziano e malato, e il suo cadavere viene scoperto dopo mesi, sepolto poi nella terra inospitale che aveva contribuito a rendere più docile e benevola. Lo stile asciutto di Denis Johnson, privo di enfasi e retorica, accompagna la vicenda esistenziale di un uomo semplice, che accetta con rassegnazione qualsiasi avversità, sentendosi parte inessenziale e sostituibile della natura che lo circonda: natura indifferente o addirittura ostile alla presenza umana.

© Riproduzione riservata          https://www.sololibri.net/Train-dreams-Johnson.htm

25 febbraio 2019

 

RECENSIONI

JOHNSON

DENIS JOHNSON, JESUS’ SON – EINAUDI, TORINO 2018

Gli undici racconti raccolti in Jesus’ son sono stati scritti da Denis Johnson nei primi anni Novanta: da essi è stato tratto nel ’99 il film omonimo diretto da Alison Maclean. Denis Johnson, nato a Monaco di Baviera nel 1949, è cresciuto in Giappone e nelle Filippine prima di stabilirsi a Washington. Ha pubblicato narrativa, poesia e un libro di saggi, vincendo il National Book Award nel 2007 con il feroce romanzo Albero di fumo, implacabile resoconto della guerra in Vietnam. Testimone di crudeltà e follie private e collettive, ha viaggiato nei luoghi più caldi del pianeta. È morto in California, a Gualala, nel 2017.

In Jesus’ son droga, alcol, vagabondaggi in auto scassate, inseguimenti, sangue, scazzottate, spari, rapine, sesso ripetitivo e anonimo sono vissuti con l’indifferenza della casualità, ai margini di una società a cui non solo ci si oppone, ma che si ignora con totale ed esibito disinteresse, con cinica apatia. Il mondo degli altri (incompreso, schifato, stramaledetto) è la polizia, l’anziana vicina di casa che protesta per il rumore, le famigliole prive di domande e inquietudini: il mondo che agisce in sintonia con Testadicazzo è invece tutto il resto, un universo alterato, psicotico, rabbioso, in cui l’attimo rivelatore (un incidente mortale in auto, un omicidio non programmato, il furto finito male) esplode come un incendio improvviso, un cortocircuito che brucia esistenze sprecate, e la stessa pagina scritta. Pagine che riflettono ‒ in uno stile denotativo, privo di metafore e di inventività linguistica, con dialoghi smozzicati e ridotti ai minimi termini ‒ la voluta assenza di pensiero, l’annullamento di ogni progettualità razionale in cui si trascinano i protagonisti.

Non ci si affeziona a questi personaggi, perché l’autore non ce li fa conoscere nella loro specificità fisica o caratteriale, intercambiabili come sono tra loro, privi di spessore emotivo, ciondolanti in cantine o rimesse poco illuminate («in un’inquietante luce sulfurea»), appartamenti luridi, vicoli malfamati, bar equivoci. Bar, soprattutto, caffè di ogni tipo e nome, nelle metropoli come in paesi semiabbandonati, lungo autostrade malridotte o nel traffico notturno delle city, con clienti che sembrano scappati da un ospedale psichiatrico, o crollati in coma etilico: «Ma ogni volta che entravo in quel posto c’erano facce offuscate che promettevano tutto, e che subito dopo rivelavano la propria monotonia e ordinarietà, alzando lo sguardo su di me e commettendo lo stesso errore», «Chi entrava nei bar di First Avenue abbandonava il proprio corpo. Da quel momento erano visibili solo i demoni che vivevano in noi. Qui venivano riunite le anime che si erano ferite a vicenda. Lo stupratore incontrava la sua vittima, il figlio rifiutato ritrovava sua madre. Ma niente si poteva guarire, lo specchio era un coltello che divideva ogni cosa da se stessa, lacrime di falsa amicizia gocciolavano sul banco. E cosa mi farai adesso? Con cosa, di preciso, intendi spaventarmi?». Il Vine è il luogo di ritrovo per eccellenza («un locale lungo e stretto, come la carrozza di un treno che non andava da nessuna parte»), ma gli altri posti (Pig Alley, Vietnam Bar, Kelly’s, Jimjam Club…) gli assomigliano tutti, nello squallore delle solitudini incomunicanti raccontate nei quadri di Edward Hopper.

Se questo è il dentro in cui si consumano le storie di Denis Johnson, il fuori non è meno deprimente e scialbo: «Era un lungo rettilineo che correva a perdita d’occhio tra campi inariditi. Sembrava che in cielo non ci fosse aria e che la terra fosse fatta di carta… Cosa si può dire di quei campi? Uccelli neri volavano in cerchio sopra la propria ombra, e sotto di loro le mucche gironzolavano annusandosi il culo a vicenda… Nella notte dei tempi quella regione era stata stretta nella morsa dei ghiacciai. Ora la siccità andava avanti da anni, e sopra le pianure si stendeva una bronzea nebbia di polvere. Il raccolto della soia era morto di nuovo, e gli steli di granturco guasti e avvizziti erano allineati sul terreno come file di biancheria intima».

La vita animata che si incontra in Jesus’son è costituita da spacciatori, ladri, infermieri e medici impasticcati, malati psichici, zombie, spose abbandonate mentre abortiscono, coppie anabattiste, feti animali stritolati per distrazione, rapporti dopati: «Facevamo l’amore a letto, mangiavamo bistecche al ristorante, ci bucavamo al cesso, vomitavamo, piangevamo, ci accusavamo, ci imploravamo, perdonavamo, promettevamo e ci portavamo in paradiso a vicenda». Una quotidianità vissuta fisicamente, corporalmente, che esclude qualsiasi orizzonte o ansia metafisica: «Di solito, se proprio mi veniva da riflettere sul senso della vita, al massimo arrivavo a considerarmi la vittima di uno scherzo. Nessun contatto con l’orlo del mistero, nessun istante in cui qualcuno di noi – be’, parlo solo per me, immagino – si sentiva i polmoni pieni di luce e roba del genere». I pochi attimi di felicità, o «di gloria», come li chiama Testadicazzo, sono sprazzi abbaglianti e confusi, in una continua allucinazione che non vuole saperne dei contorni nitidi della realtà: «Stava piovendo. Felci gigantesche pendevano su di noi. La foresta digradava giù per una collina. Sentivo un torrente correre tra le rocce. E voi, gente ridicola, voi vi aspettate che io vi aiuti».

I feel like Jesus’ son, cantava Lou Reed in Heroin, e non voleva conoscere niente (di Tizio, di Caio, di politici, di città morte, di cadaveri ammassati), sognando di navigare attraverso mari oscuri per raggiungere il suo regno, cullato da un annebbiante veleno.

 

© Riproduzione riservata          «Il Pickwick», 28 febbraio 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

JOUHANDEAU

MARCEL JOUHANDEAU, TRE DELITTI RITUALI – ADELPHI, MILANO 1996

Marcel Jouhandeau (1888-1979) fu uno scrittore francese da strappare all’oblio e a una sorta di censura postuma, dovuta alla sua fama di autore trasgressivo. Teologo sempre sull’orlo dell’eresia, cattolico praticante ma morbosamente attratto dalla manifestazione del male in tutte le sue forme e perversioni, Jouhandeau fu cronista attento degli anni della ricostruzione postbellica, romanziere prolifico ed elegante, polemista mai pretestuoso. Nel volumetto pubblicato da Adelphi nel 1996, e apparso in Francia nel 1962, Tre delitti rituali (Adelphi, 1996), non è tanto la descrizione di tre crimini abietti che avevano sconvolto la Francia gollista a colpire l’immaginazione del lettore, quanto l’analisi psicologica ambientale di protagonisti e comparse delle tre vicende, molto lucida e distaccata nonostante l’evidente empatia dell’autore, e soprattutto le sue dichiarazioni di principio, a commento ideologico e morale dei fatti. «Ho sempre avuto, e credo lo abbia anche il cielo, un debole per i colpevoli», sconcertante nella sua assolutezza, così Jouhandeau apre il resoconto del primo dei tre delitti, che ha in comune con gli altri due una specie di ritualità magico-sacrale, insieme a una bestiale efferatezza.

Non è il caso, forse, di esaminare da vicino tanta turpitudine, e in fondo neanche l’autore lo fa, se non nell’ultima storia (è la nota critica di Ena Marchi che ci rende edotti sui particolari più macabri). Quello che ci interessa di più sono le dichiarazioni d’intenti di Jouhandeau: «A me sembra che al cospetto di Dio ciascun uomo vivente condivida il peso di tutto il bene e di tutto il male di cui ad ogni istante la nostra specie si rende responsabile…C’è in me una propensione ad addossarmi tutti i peccati del mondo, per il fatto stesso che la mia immaginazione ne visualizza la dinamica…». All’uomo di fede interessa soprattutto spiegare l’esistenza del male, il perché e come una persona possa abbandonarsi al peccato, e d’altra parte perché e come ci sia un disegno divino che il compiersi di questo peccato permette: «Non di rado all’individuo più rispettabile è bastato affrettare il passo, o attardarsi un minuto, perché gli fosse risparmiata un’azione ignobile. Lo aspettava al varco chi avrebbe potuto fare di lui un essere spregevole, ma l’incontro non ha avuto luogo. Vedete dunque com’è sottile il filo a cui è appesa l’onestà di tante persone…Ricorreremo allora, per spiegare l’integrità degli uni e l’ignominia degli altri, alla grazia di Dio – al suo intervento o alla sua mancanza?»

Sulle orme di Dostoevskij, per lo scrittore francese non è tanto il male in sé a suscitare scandalo, quanto la sua casualità, il suo concretarsi o meno a seconda delle occasioni, delle situazioni. E altrettanto indegno è il fatto che al peccato attivo, cui il colpevole aderisce in prima persona, corrisponda il peccato laterale, fiancheggiatore: di chi osserva e non interviene, di chi collabora tacendo, di chi biasima per sentito dire. Jouhandeau ha parole di fuoco per il pubblico dei delitti, per le giurie popolari, per certa cronaca nera («Erinni, la cui sete di vendetta e di castigo sembra insaziabile») e per tutti coloro che in genere usano violentare le anime altrui, rendendosi responsabili del delitto più grave, quello contro lo spirito.

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Tre-delitti-rituali-Marcel.html     2 dicembre 2015

RECENSIONI

JOUHANDEAU

MARCEL JOUHANDEAU, IL CADAVERE RAPITO – ADELPHI, MILANO 2016

Il cadavere rapito è il terzo libro di Marcel Jouhandeau che l’editore Adelphi propone ai lettori italiani. Meritevole eccezione editoriale, visto l’indifferente silenzio (di critica e pubblico) che circonda l’opera di questo straordinario e scandaloso autore francese.

Nato nel 1888 a Guéret, cittadina del Limousin, figlio di un macellaio e di una suora mancata, fece rivivere il proprio “borgo selvaggio” (perfidamente farisaico e ignorante, maldicente e vizioso) nella saga di Chaminadour, località di fantasia in cui trasferì strade, storie, personaggi della sua infanzia, lacerata dal senso di colpa per una omosessualità da subito riconosciuta, esibita orgogliosamente ma insieme temuta e negata nel paravento di un masochistico matrimonio di facciata. Jouhandeau così scriveva di sé: «Cresciuto nel cattolicesimo, non pratico la mia religione, perché vivo abitualmente nel peccato, ma il vivere nel peccato non significa che si viva al di fuori della Fede: senza Fede non ci sarebbe peccato». E ancora: «Io sono al di fuori della morale, nell’assoluto della libertà». Una libertà che esprimeva tutta la sua grandezza nella ricerca della perfezione («L’imperfezione è più colpevole del male»), fosse anche peccaminosa, abietta, asservita alla violenza del desiderio carnale, in cui l’Angelo si pone alla stessa altezza del Demonio: là dove peccato e virtù si equivalgono nella ricerca del soprannaturale.

È evidente che la gerarchia ecclesiastica guardasse con sospetto e indignazione a tali affermazioni, arrivando ad accusare lo scrittore di eresia e satanismo, e ritenesse pericolosamente ossessiva la sua ricerca spirituale, che tuttavia nel suo turbato attaccamento al peccato e nell’aspirazione a un’innocenza perduta può ricordare alcune pagine tragicamente religiose dei nostri Testori e Pasolini. In questo volumetto, arricchito dall’esauriente postfazione di Ena Marchi, chi assomma in sé le due anime dell’autore (devote e perverse, celestiali e diaboliche) è il protagonista, il settantenne padre Diverneresse, alto, magro e legnoso, coltissimo e sprezzante, silenzioso e irascibile: parroco nella chiesa di Port-Salut con fama di santo e stregone. Chiuso nella sua fornitissima biblioteca, si dedicava a studi di teologia e biologia, alternandoli con piccoli lavori di giardinaggio o falegnameria. L’impegno a cui meno sembrava interessarsi era invece la cura delle anime a lui affidate, che giudicava meschine e ignoranti, lontane da Dio e indifferenti alla lezione evangelica. Nella canonica, occupandosi della sua sopravvivenza materiale, si erano alternate due perpetue: l’onesta e ottusa Miette, e l’algida intellettuale Angèle. Il disprezzo nutrito per la prima era stato sostituito da un intenso affiatamento spirituale con la seconda, al punto che i parrocchiani, osservando la stretta complicità che univa parroco e catechista, iniziarono presto a sparlare, ipotizzando l’esistenza tra i due di rapporti carnali o di culti satanici.

«L’immaginazione della ‘brava gente’ è insaziabile quando si tratta delle turpitudini altrui, le sole che possano distrarla dalla noia della sua ‘mediocre’ virtù, e bisogna ammettere che, per l’immaginazione della ‘brava gente’, l’amicizia è forse un mistero più insondabile del sacrilegio e dell’incesto». Il comportamento del religioso, provocatorio proprio perché incurante del giudizio popolare, finisce per portarlo alla rovina. Denunciato ai superiori, isolato da tutti, allontanato da Angèle, padre Divernesse viene sospeso a divinis e scomunicato, ma ciò gli crea intorno un’aura di santità e ingiusta persecuzione, sfociante in fanatico e idolatra devozionismo, che tuttavia non servirà a risparmiargli una fine solitaria e l’ostracismo ecclesiale post mortem.

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/Il-cadavere-rapito-Jouhandeau.html     14 febbraio 2017

 

 

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JOYCE

JAMES JOYCE, NON POSSO SCRIVERE SENZA OFFENDERE LE PERSONE

ERETICA EDIZIONI, BUCCINO (SA) 2024

 

La casa editrice Eretica propone una selezione di lettere che James Joyce (Dublino1882-Zurigo1941) indirizzò nell’arco di una trentina d’anni ai suoi corrispondenti durante le tormentose vicende editoriali che per motivi di censura ostacolarono la pubblicazione dei suoi libri Dubliners e Ulysses: Non posso scrivere senza offendere le persone.
I racconti dei Dubliners patirono nove anni di continui rifiuti, richieste di revisione, polemiche, prima di venire finalmente pubblicati nel 1914 dall’editore Grant Richards: si temevano accuse di antipatriottismo e di oscenità da parte dei lettori e delle autorità irlandesi.
Per Ulysses, invece, le circostanze assunsero da subito un’altra piega, in quanto Joyce si era nel frattempo fatto conoscere come autore di rilievo, ottenendo il plauso e il sostegno di importanti intellettuali come Ezra Pound, per cui interi brani del romanzo iniziarono a uscire su influenti riviste letterarie, nonostante la continua minaccia di sequestri, finché nel 1921 negli Stati Uniti il testo finì sotto processo e venne condannato per oscenità, e ne fu interrotta la pubblicazione anche in Inghilterra. Soltanto grazie al coraggio della casa editrice parigina Shakespeare & Co., il libro uscì in Francia nel 1922. Tuttavia, bisognò attendere il 1933 perché Ulysses fosse liberato dall’accusa di oscenità e potesse venire diffuso nel resto del mondo. Nella conservatrice Irlanda, il capolavoro joyciano iniziò a circolare liberamente solo negli anni ’60, quando il suo autore era ormai morto da vent’anni.
Le lettere presentate in questa raccolta sono state tradotte dagli originali pubblicati nel 1957, nel 1966 e nel 1975. Ognuna di esse è preceduta da data, luogo di invio e nome del destinatario, ed è accompagnata da notizie sugli eventi, i luoghi, le persone e le opere menzionate.
Inoltre nell’Appendice possiamo leggere le traduzioni con originale a fronte di Gas from a Burner, poemetto satirico del 1912 ispirato alla vicenda della pubblicazione dei Dubliners, e l’episodio di Nausicaa dell’Ulisse, incriminato negli anni ’20.
L’epistolario si apre con una prima lettera, datata 26 aprile 1906 e inviata da Trieste all’editore Grant Richards, e si chiude il 31 luglio 1934, con un biglietto spedito da Anversa al fratello di Joyce, Stanislaus.. Tra i destinatari delle missive leggiamo nomi famosi (Italo Svevo, T.S. Eliot), ma prevalgono comunque gli editori con cui il grande letterato dovette combattere per tutta la sua esistenza. Si difendeva con veemenza, talvolta usando toni sarcastici o irosi, accusando i corrispondenti più retrivi di clericalismo o di mentalità militaresca: “Ho scritto il mio libro con notevole cura, nonostante mille difficoltà e coerentemente con quella che ritengo essere la tradizione classica della mia arte… Non posso fare più di questo… Non posso modificare ciò che ho scritto… Non sono un emissario di un Ministero della Guerra che sperimenta un nuovo esplosivo… Non ho tuttavia detto quale delusione sarebbe per me se non potessi condividere le mie opinioni”.
Succedeva che fossero addirittura i tipografi a rifiutarsi di stampare i testi, ergendosi a censori e difensori della pubblica moralità: in un caso venne rimproverato allo scrittore l’uso del termina “dannato” in quanto violento e disdicevole.
James Joyce era assolutamente fiero della propria produzione, e ne menava vanto: “Ho fatto il primo passo verso la liberazione spirituale del mio paese”, attaccando anche la mediocrità della sua città natale: “La mia intenzione era quella di scrivere un capitolo della storia morale del mio paese e per la scena ho scelto Dublino perché quella città mi sembrava il centro della paralisi”. Arrivò spesso a minacciare azioni legali sia contro gli editori inadempienti del contratto, sia contro le pubblicazioni clandestine e piratesche: altre volte si dichiarò disposto a contribuire alle spese di stampa pur di vedere pubblicati i suoi lavori, in cui giustamente credeva moltissimo. I più noti letterati dell’epoca firmarono per solidarietà la sua denuncia contro i soprusi editoriali di cui era vittima: tra gli altri Benedetto Croce, Albert Einstein, T.S. Eliot, André Gide, Ernest Hemingway, D.H. Lawrence, Thomas Mann, Luigi Pirandello, Bertrand Russell, Italo Svevo, Virginia Woolf, W.B. Yeats.
A proposito di Dubliners, rifiutato da quaranta editori, Joyce scriveva “Il libro mi è costato tra spese legali, di viaggio e postali circa 3000 franchi: mi è costato anche nove anni di vita. Ero in corrispondenza con sette avvocati, centoventi giornali e diversi letterati a riguardo — i quali tutti, tranne il Sig. Ezra Pound, si rifiutarono di aiutarmi… Una persona molto gentile acquistò l’intera edizione e la fece bruciare a Dublino: un autodafé nuovo e privato”. Si vendicò anche in versi contro l’ottusità cattolicamente becera dei suoi connazionali: “O Irlanda mio primo e unico amore / Dove Cristo e Cesare sono culo e camicia!”
L’appassionata postfazione del volume, per firma di Sofia Cavazzoni, ci restituisce l’atmosfera claustrofobica e persecutoria che ha circondato e preso di mira le pubblicazioni dei capolavori joyciani, ricostruendo puntualmente tutte le vicissitudini editoriali che le hanno accompagnate per mezzo secolo.

 

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 25 luglio 2024

RECENSIONI

JUENGER

ERNST JÜNGER,  VISITA A GODENHOLM– ADELPHI, MILAN0 2008

Questo volumetto, pubblicato nella Piccola Biblioteca Adelphi, raccoglie due racconti di Ernst Jūnger: La caccia al cinghiale e Visita a Godenholm.

La novella iniziale, perfetta nella sua classica brevità, narra della prima emozionante esperienza di caccia di due adolescenti, in un bosco innevato e silenzioso, «di uno splendore principesco». Inaspettatamente si para davanti ai due ragazzi, accolti con superiore benevolenza in una compagnia di battitori adulti, il muso feroce e ingrugnito di un possente cinghiale. Uno di loro spara, istintivamente e senza prendere la mira, provocando la fuga affannosa dell’animale. Rimproverato con severità dagli altri cacciatori, il giovane godrà di un’insperata rivincita, quando si verrà a scoprire che la bestia, colpita al cuore, era andata a morire nel folto della boscaglia.

«Imparò lì per la prima volta che i fatti modificano le circostanze attraverso le quali si è giunti a essi». Ma i due ragazzi imparano soprattutto a valutare quanto la nobiltà innocente del cinghiale ucciso sia superiore rispetto alla tronfia crudeltà degli altri cacciatori, impegnati subito a sventrarne e dileggiarne il corpo.

Prima di passare a esaminare il secondo racconto, è forse il caso di presentare in breve la personalità di Ernst Jūnger (1895-1998). Scrittore e filosofo, figura complessa dell’intellettualità tedesca del XX secolo, ebbe vita lunghissima e fuori dagli schemi. Ecologista e zoologo, nazionalista aristocratico e antiborghese, combattente eroico e superdecorato in entrambe le guerre mondiali, lettore di Nietzsche ma convinto pacifista, spirituale e platonico tuttavia appassionato di qualsiasi progresso scientifico e tecnico, profetizzava nei suoi scritti una catastrofe epocale che avrebbe coinvolto l’intero pianeta, se l’umanità non si fosse riconvertita a una profonda e coraggiosamente anarchica interiorizzazione. Produsse un enorme quantità di opere: romanzi, racconti, diari, saggi, tutti inconfondibili per il loro stile elevato sino alla ricercatezza.

In Visita a Godenholm, Jūnger si misura con i temi della trascendenza, dell’utopia, dello scavo nell’inconscio, della liberazione dell’io. Ogni personaggio viene scolpito fisicamente e caratterialmente con pochi tratti magistralmente incisi: il misterioso Maestro-filosofo-sciamano Schwarzenberg, che vive solitario a Godenholm, villaggio semidisabitato in un’isoletta del Mare del Nord, dedicandosi a studi esoterici e teologici. Provvedono alla sua sopravvivenza materiale tre enigmatici e silenziosi servitori: il pescatore Gaspar, dal petto istoriato di ferite e tatuaggi, la grassa e infida cuoca Erdmuthe, la sguattera Sigrid con movenze di bertuccia. La magione turrita e lugubre del Maestro viene periodicamente visitata da tre ospiti, desiderosi di immergersi in una conoscenza del tutto illuminati dal suo insegnamento. Sono una vitale e tellurica Ulma, il paleontologo Einar e l’inquieto scienziato Moltner, sempre alla ricerca del suo vero Sé, e di una risposta alle molte domande che gli arrovellano mente e anima. Schwarzenberg non offre soluzioni alle loro richieste spirituali ed etiche, si esprime con metafore e antiche frasi sapienziali, suggerendo un percorso iniziatico verso il mistero che li possa portare alla scoperta dell’Uno che governa l’universo. Ma una sera fa vivere loro l’esperienza allucinata di visioni infernali e celestiali, in una natura improvvisamente muta e assordante, serena e tenebrosa, preistorica e futuribile, nell’assenza di qualsiasi scansione temporale e nel superamento di ogni localizzazione. Sconvolti e increduli, i tre amici vorrebbero dal Maestro ancora indicazioni di salvezza. Ma impenetrabile ed etereo, lui li congeda con queste parole: «La mia casa è come una locanda spagnola. Gli ospiti non vi trovano niente di più di quello che hanno portato con sé».

In Visita a Godenholm, Ernst Jünger ripercorre i temi che l’hanno reso famoso come filosofo dell’utopia ed esploratore degli abissi dell’anima.

 

© Riproduzione riservata                  «Il Pickwick», 6 ottobre 2017

 

 

 

 

 

RECENSIONI

JULLIAN

PHILIPPE JULLIAN, IL CIRCO DEL PÈRE LACHAISE – MEDUSA, MILANO 2022

Il circo del Père Lachaise è un elegante volume di schizzi, disegni e caricature commentate dallo stesso geniale illustratore: Philippe Jullian, nato a Bordeaux nel 1919 e morto suicida a Parigi nel 1977. Romanziere, critico d’arte, autore di numerose biografie, collezionista, viaggiatore cosmopolita, fu un esteta decadente, salace animatore dei salotti parigini, e appassionato indagatore di temi omoerotici e sadomasochistici. La sua propensione verso la sensualità e il macabro era attraversata da una feroce vena satirica, rivolta soprattutto all’inconsistente futilità culturale dell’alta borghesia, e all’aristocratica classe politica che ne era l’espressione.

Il volume appena pubblicato dalle edizioni Medusa, uscito in Francia nel 1957, ci accompagna in una sarcastica e crudele passeggiata lungo i vialetti, i sepolcri e gli ossari del Père Lachaise, il cimitero più famoso di Parigi, dove riposano artisti, politici, eroi di guerra, filosofi e insomma il beau monde della cultura e della società internazionale. Un circo di esibizionisti vanitosi, questo camposanto raccontato da Jullian, che di santo ha molto poco: i defunti mantengono gli stessi vizi e le stesse smanie che li abitavano in vita, indossano uguali drappeggi, si muovono con la flemma o il parossismo che li caratterizzava durante la loro esistenza terrena. Di notte si incontrano tra di loro, uscendo dalle tombe, offendendosi e lusingandosi a vicenda; durante il giorno spiano i visitatori dietro le sbarre delle cappelle, o dalle fessure delle tombe di famiglia, soddisfatti se si scoprono rimpianti e lodati, delusi quando si sentono trascurati.

La mappa della necropoli mantiene la topografia della gloriosa capitale, suddivisa in zone che ricalcano la distribuzione demografica degli arrondissement, con i quartieri più emarginati a est (colombari, sepolture provvisorie), e quelli eleganti a ovest. Le sezioni centrali, fiorite e affollate di turisti curiosi, richiamano i grandi e trafficati boulevards, con la vivace offerta di distrazioni ed estrose stravaganze. La varia umanità che Jullian rappresenta con schizzi incisivi e impietosi è composta da famiglie dispotiche, vedove inconsolabili, accademici boriosi, avventuriere, austeri generali, vegliardi incartapecoriti. Ci sono anche gli straccioni, irriguardosi e irridenti la spocchia di chi si vanta dell’immortalità, pur sapendo di essere destinato come tutti all’oblio perenne. I commenti salaci dell’autore chiosano illustrazioni altrettanto, o forse più, mordaci, che raffigurano volti deturpati dal vizio, corpi sfasciati, in un tripudio di carnevalesche oscenità, accompagnate da orchestrine stridule e balli indecorosi.

La convivenza delle mummie livella ogni diseguaglianza: “Deve ricevere nella tomba di famiglia i parenti poveri a cui proibiva il suo salotto”; gli scrittori famosi “sono molto suscettibili e non cessano di stabilire i loro titoli”; rimasto solo e dimenticato, “l’egoista si annoia”, e i suicidi ostentano orgogliosamente lo strumento con cui si sono uccisi. C’è anche il trenino del piacere, che conduce le anime gaudenti al parco delle attrazioni. Sull’intera comunità aleggiano gli spiriti guardoni, quando non vengono evocati da tavolini traballanti in sedute serali di ascetici irrazionalisti.

Teschi, scheletri, orbite incavate, tibie e scapole sporgenti da vesti sontuose o da stracci, sono il perpetuo memento della caducità, del transeunte. Eppure, alcuni perseverano nelle illusioni mondane: (“Le persone di mondo che devono essere salvate dall’oblio tramite Proust si accalcano nel suo palco”), altri non temono il ridicolo delle esibizioni circensi collettive, altri ancora pagano il giusto fio del contrappasso (“Signora attorniata dai bambini che ha preferito non avere”, “Le poetesse rivali in scena, ciascuna obbligata a recitare le poesie della sua nemica, all’unisono”).

Scrive Pasquale Di Palmo nella sua dotta postfazione: “Come una medievale danza macabra che il tempo ha provveduto in parte a cancellare, gli ectoplasmi di Jullian sfilano carichi di tutto il loro retaggio di onorificenze e gioielli, reso ormai patetico quanto il loro aspetto repellente, proiettandosi in un passato che li condanna a ripetere all’infinito azioni prive di valenze oltremondane”. La rassegna del grottesco e della volgarità che l’autore di questo lussureggiante e disperato carosello ci offre, si presenta come uno sberleffo fatto alla morte e alla vita che l’ha preceduta, meritando l’inferno o il purgatorio in cui è precipitata: mai, assolutamente mai, il paradiso.

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 28 marzo 2022

RECENSIONI

JULLIEN

FRANÇOIS JULLIEN, CINQUE CONCETTI PROPOSTI ALLA PSICANALISI 
LA SCUOLA, BRESCIA 2014

Il filosofo e sinologo francese François Jullien, molto noto anche in Italia per i suoi studi comparativi tra la filosofia orientale e quella occidentale, in questo volume pubblicato da La Scuola nel 2014 (Cinque concetti proposti alla psicanalisi) individua nell’eccesso di spirito critico della cultura europea (nel suo razionalismo spinto all’estremo, nel suo spietato nichilismo masochista) la minaccia che sta distruggendo l’arte e il pensiero giudaico-cristiano di formazione classico-borghese. La soluzione proposta da Jullien è che la nostra intelligenza teorica si debba decostruire, aprendosi con più umiltà a ciò che ha rimosso per quasi tremila anni: all’impensato, all’ombra, a ipotesi culturali che arrivino da altre civiltà, trascurate se non addirittura svalutate.
Anche la psicanalisi, e più in particolare l’elaborazione freudiana, si è inserita nella tradizione culturale occidentale, applicando presuntuosamente a livello universale interpretazioni che probabilmente riguardano solo il soggetto culturale europeo, non riuscendo ad adeguare alla pratica clinica di scandaglio analitico un’ altrettanto penetrante riflessione teorica. Per questo Jullien suggerisce che alcuni concetti propri della filosofia cinese possano soccorrere alle lacune della cultura occidentale, in primo luogo sanando la scissione di origine platonica tra soma e psyche, corpo e anima.
Il pensiero cinese non si è rinchiuso nella logica della causalità, non si è interrogato sul deciframento del mondo, sull’esistenza di Dio e di una verità ultima, sull’azione politica del logos o sull’interpretazione psicanalitica. Ha usato altri metodi di avvicinamento all’esistenza, più allusivi e sfumati, meno frontalmente aggressivi. A questi metodi la psicanalisi dovrebbe prestare attenzione, soprattutto per ciò che riguarda la relazione tra analista e paziente nel corso della seduta. Si tratta di cinque concetti ben noti alla filosofia cinese, e sfruttabili, importabili anche da parte dell’analisi clinica di stampo freudiano: disponibilità, allusività, sbieco, obliquo e influenza.
Metodiche che privilegiano l’evoluzione e la trasformazione lenta, silenziosa; non l’identificazione ma l’interazione; non l’irrigidirsi in qualsiasi intransigenza, ma il rimanere aperti ad ogni possibilità; non l’imporre la propria egoità; non l’usare linguaggi impositivi o denotativi, bensì alludere, aggirando l’ostacolo senza affrontarlo direttamente.
In Cina non esiste la figura dello psicanalista: ad essa si preferisce quella del Maestro. «Il Maestro non si mette né completamente davanti (con la pretesa di mostrare la via), né completamente a lato (limitandosi ad accompagnare). Perché sa che può indurre, ma non guidare; che è meglio influenzare che insegnare». E l’influenzamento del maestro agisce in modo diffuso e sottile, trasforma silenziosamente nel tempo, come un’eco a distanza e una risonanza reciproca, senza pretendere di persuadere: libera e non costringe, ristabilisce i passaggi ostruiti, sgomberando la via all’affioramento del sotterraneo, alla cura che è già guarigione.
Il contadino non costringe il grano a crescere tirando i germogli: lo aiuta innaffiandolo, smuovendo la terra intorno.

 

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www.sololibri.net/Cinque-concetti-proposti-alla-143431.html        9 febbraio 2016
RECENSIONI

JULLIEN

FRANÇOIS JULLIEN, SULL’INTIMITÀ – RAFFAELLO CORTINA, MILANO 2014

Questo bellissimo e commovente saggio del sinologo-filosofo François Jullien è forse uno dei pochi testi (l’unico, anzi, che io conosca) che si permetta di contestare l’Amore sulla base di un sentimento o di un atteggiamento che lo travalica, e che potremmo definire come tenerezza, comprensione, vicinanza affettuosa, complicità: ma che l’autore propone di chiamare “intimità”.

«L’intimità è quell’esperienza limite che fa cadere la frontiera tra l’Altro e sé», non in maniera possessiva, violenta, eccitata, passionale e frastornante come fa l’amore; bensì attraverso la scoperta lenta del bene che ci unisce a un’altra persona.

L’Eros esige il desiderio, rivolto verso un esterno a noi, esibendo una barriera che tiene lontano l’Altro come fosse uno straniero, in modo tale che la relazione con lui sia di conquista, «affilata come una lama, brutale», frenando dolcezza e complicità per lasciare posto invece a una sorta di aggressione provocatoria, di eccitazione improvvisa, di teatralità giocosa e liberante. L’intimità è successiva, più lenta e sedata, più amichevole e intenerita. Privilegia l’intesa tacita e l’implicito, la discrezione e il rispetto. Tuttavia è necessario che il rapporto di intimità tra due che si amano non si addormenti in un’abitudine stanca e silenziosa, annoiata e assimilatrice, che arriva a cancellare l’altro, inglobandolo, rendendolo innocuo nel suo adeguarsi completamente a noi. Per questo, secondo Jullien, dobbiamo permettere che all’interno di una relazione si inserisca anche l’extimità, con il suo carico dirompente e fantasioso di novità capace di creare uno scarto, una frontiera, un distacco tra i partner che permetta loro di re-incontrarsi vicendevolmente, come due irriducibili diversi, ma reciprocamente arricchenti proprio nella diversità. Si tratta quindi di creare una dialettica «tra» due persone, evitando fusioni misticheggianti o simbiotiche, riattivando la transitività, bloccando l’osmosi rassegnata. Si può fingere l’amore, non l’intimità, che è un approdo, il risultato di un conoscersi e accettarsi in coppia. L’amore può essere non corrisposto: l’intimità è vissuta obbligatoriamente in due e da due.

François Jullien, in questo suo celebrato volume Sull’intimità, che ha come significativo sottotitolo Lontano dal frastuono dell’Amore, fornisce al lettore molti esempi letterari che nel nostro Occidente hanno affrontato il tema amoroso cercando di smitizzarne la retorica o di rivelarne gli infingimenti: a partire dal primo, coinvolgente e intenso, capitolo dedicato al romanzo di Georges Simenon Il treno, per risalire poi a Stendhal, a Rousseau, a Sant’Agostino (che definiva Dio «interior intimo meo») e arrivare ai greci, all’antica Cina. La scoperta di un sentimento diverso dall’Eros (inteso come seduzione, possesso, soddisfazione egotistica), che incoraggi l’immersione «in un dentro condiviso», spontaneo e gratuito, non alienante, né normativo, né soperchiante, potrebbe costituire una via d’uscita dalla morale asfittica e interessata che assedia questo «mondo storico in contrazione che è l’Europa». L’intimità con qualcuno ci insegna infatti a non essere più sospettosi, ad allentare i nostri sistemi di difesa e protezione, i calcoli e le ragioni, in una fiduciosa e intenzionale alleanza con chi ci è vicino, secondo modalità per cui non ci sentiamo più abbandonati e non abbandoniamo.

 

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www.sololibri.net/Sull-intimita-Francois-Jullien.html     20 dicembre 2016