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RECENSIONI

JUNG

CARL G. JUNG, RISPOSTA A GIOBBE — BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2012

«Il libro non dev’essere altro che l’interrogante voce di un singolo, che spera o attende d’incontrare la pensosità dei suoi lettori». Così scriveva Carl G. Jung nel tentativo di giustificare «scherno e sarcasmo» spesso affioranti in questo suo volume del 1952, in cui si era proposto di affrontare da psichiatra i dilemmi fondamentali della visione religiosa, quali si esprimono nelle Sacre Scritture.
E soprattutto di approfondire la questione più problematica e imbarazzante per chi crede, cioè la giustificazione del male e della sofferenza, e la loro conciliazione con la fede in un Dio buono e paterno. Partendo quindi dall’esame del libro di Giobbe, e da questa figura emblematicamente giusta e pia, costretta a patire crudeli sofferenze morali e fisiche, che ardisce interrogare Yahwèh, e «attende aiuto da Dio contro Dio», lo psicanalista svizzero prende quasi rabbiosamente le parti del mite oppresso, dell’uomo indifeso e perseguitato, contro la «selvatichezza e perversità divina… un Dio smodato nelle sue emozioni… roso dall’ira e dalla gelosia». La colpa di Giobbe, secondo Jung, risiede nella sua coraggiosa intelligenza e indipendenza di giudizio: «Giobbe individua l’antinomia interna di Dio, e con ciò la luce della sua conoscenza personale raggiunge essa stessa una numinosità divina». Nella sua istintiva identificazione con il personaggio biblico, Jung mena fendenti rabbiosi contro la potenza sovrumana del creatore: «Quest’uomo abbandonato, indifeso e senza diritti, alla mercé del suo nemico, appare a Yahwèh tanto manifestamente pericoloso da ritenere necessario demolirlo con i colpi della sua artiglieria più pesante».

E quindi l’ansia esegetica dello psicanalista arriva polemicamente ad affrontare non solo le intenzioni inconsce di Dio (talmente invidioso dell’uomo da volersi incarnare nel Figlio), ma tutta la storia dell’Antico e Nuovo Testamento, e addirittura dei testi apocrifi (quindi parte della Genesi e il Libro di Enoch, Ezechiele e il Salmo 89, i Vangeli e l’Apocalisse) e dei più importanti protagonisti delle Scritture.
Di tutti Jung traccia ritratti impietosi. «Nel carattere di Cristo si fa notare una certa irascibilità e, come spesso avviene nelle nature emotive, pure una certa mancanza di autoriflessione»; «Pietro possiede poco dominio di sé e un carattere instabile»; «Paolo appartiene a quelli il cui inconscio era in preda a turbamento e dava luogo a delle estasi di rivelazione», «Giovanni potrebbe avere facilmente dei cattivi sogni che non appaiono nel suo programma cosciente… una vasta rete di risentimenti e di pensieri di vendetta».

In queste personalità poco equilibrate, in preda a irrazionali e ingestibili turbamenti, Jung rileva un fondamento comune a tutti i tipi psicologici religiosi: «Nell’inconscio è presente tutto quanto è stato respinto dal conscio, e quanto più il conscio è cristiano tanto più l’inconscio si atteggia a pagano». Forse solo di Maria, di cui nel 1950 era stato proclamato il discusso dogma dell’Assunzione, Jung riesce a salvare l’aspetto simbolico di Mediatrix archetipica, risalente ai miti orientali della Donna-Sole, della Sakti indiana, della Sophia alessandrina: mito necessario all’umanità (e incompreso dai protestanti), nella sua aspirazione alla pace, all’equilibrio, all’intercessione materna.
Tesi stimolanti, queste junghiane, anche se indubbiamente datate dal punto di vista dell’antropologia e della storia delle religioni, e comunque rivelatrici dell’ego ipertrofico di molti indagatori della psiche, sempre pronti a scandagliare isterismi e patemi altrui, individuali o collettivi, sorvolando sui propri complessi e incoerenze comportamentali.

 

«incroci on line», 5 aprile 2015

RECENSIONI

JUNG

CARL GUSTAV JUNG, IL SIMBOLISMO DELLA MESSA — BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2013

“Dato che il drammatico svolgimento della messa rappresenta la morte, il sacrificio e la resurrezione di un dio (nei quali sono compresi e ai quali partecipano il sacerdote e i fedeli), la sua fenomenologia può certo essere messa in relazione con usi cultuali fondamentalmente simili, anche se primitivi. C’è così il rischio, è vero, che il sentimento trovi sgradevole che si confronti ‘ciò che è piccolo con ciò che è grande’; ma per rendere giustizia alla psiche primitiva debbo sottolineare che il ‘timore sacro’ degli uomini civilizzati non si differenzia essenzialmente da quello dei primitivi, e che il Dio presente e agente nel Mysterium è per entrambi un mistero. Per quanto appariscenti possano essere le differenze esteriori, non si deve perciò trascurare la somiglianza o l’equivalenza del significato” (pag.72). In questo dottissimo e documentatissimo testo del 1942, Carl Gustav Jung si accosta al rito della Messa cristiana con il rispetto quasi sacrale che si deve appunto a un mistero, che è il mistero universale ed antico della trasformazione, dell’elevazione e della spiritualizzazione. In una parola, della salvezza. E lo fa cercando le analogie con i riti magici dei popoli primitivi (il “mangiare dio” degli aztechi ), i miti greci ( lo scorticamento di Marsia o la morte e risurrezione di Attis), i sacrifici animali del mithraismo, le tradizioni rabbiniche, le alchimie dello gnostico Zosimo, o lo studio di abitudini rituali presso tribù bantù contemporanee. E lo fa soprattutto attraverso l’indagine sul simbolismo di cui si serve la celebrazione della messa: pane, vino, acqua, incenso, formule, gesti. Quale sia il substrato psichico che si cela nel momento cruciale della celebrazione eucaristica, è ciò che preme a Jung di dimostrare: “il mistero e il miracolo della trasformazione di Dio che si compie nell’ambito umano, della sua incarnazione e del suo ritorno all’Essere in sé e per sé”.

IBS, 29 gennaio 2014

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KAPLLANI

GAZMEND KAPLLANI, LA STRADA SBAGLIATA – DEL VECCHIO, FIRENZE 2023

Il secondo romanzo pubblicato da Gazmend Kapllani con l’editore Del Vecchio, dopo Breve diario di frontiera del 2015, si intitola La strada sbagliata. Kapllani è uno degli scrittori albanesi di maggiore spessore internazionale: nato a Lushnje nel 1967, esiliato in Grecia nel 1991, oggi è docente universitario a Boston, e si occupa di razzismo, nazionalismi, sistemi totalitari, persecuzioni etniche, migrazioni, censure culturali e linguistiche.

Il protagonista de La strada sbagliata si chiama Karl, e torna nella città natale di Ters, in Albania, ventisette anni dopo averla lasciata. Torna per partecipare al funerale del padre, e trova il suo paese ancora più desolato e imbruttito di quando l’aveva lasciato, deturpato dalla cementificazione e dagli abusi edilizi favoriti dai governi succeduti alla caduta del comunismo. Nella piazza centrale osserva spaesato e senza alcuna simpatia i suoi concittadini: “Davanti a quei volti familiari ed estranei, agli edifici deformati della città nuova e alla città vecchia sulla collina che pareva immutata da sempre, Karl si sentiva in una terra di mezzo: straniero nella propria città, nativo in una città straniera”. Questa estraneità, non appartenenza, crisi identitaria accompagnerà il protagonista del racconto, alter ego dell’autore, nello svolgersi di tutta la narrazione, insieme al dualismo che ne investe ogni aspetto: nella struttura a due voci, distinte anche graficamente tra tondo e corsivo, nel contrapporsi di vita e morte, presente e passato, tradizione e novità, inquietudine e immobilismo. Una duplicità rappresentata soprattutto dal confronto-scontro con la figura del fratello Frederik, rimasto in patria, arroccato a un’ideologia obsoleta e a pregiudizi morali, ferito costantemente dal senso di inferiorità nei confronti di Karl, superiore a lui in età, in esperienza, cultura: “Karl aveva vissuto sotto cieli eterogenei, aveva parlato e scritto in lingue differenti, aveva amato donne di nazionalità diverse. Frederik aveva vissuto nella stessa città dove era nato, nello stesso palazzo, allo stesso piano, nella stessa casa, realizzando così quell’ideale paterno legato alla continuità delle generazioni, senza fratture, che secondo lui costituiva l’unica possibilità per diventare un uomo felice e di sani principi”. I due fratelli, che il padre insegnante comunista e convinto sostenitore del regime di Enver Hoxha aveva voluto chiamare con i nomi di Marx ed Engels, non riescono a rompere la barriera che li separa ideologicamente e affettivamente nemmeno davanti alla bara del genitore.

Karl ripercorre le vicende che l’hanno condotto a emigrare, prima in Grecia, poi in America, a partire dalla laurea discussa all’università di Tirana nel febbraio del 1991, quando la ribellione contro il governo aveva incendiato la città, negli scontri tra polizia e studenti in cui si era trovato coinvolto. La decisione successiva di procurarsi un visto falso per superare la frontiera lo aveva accomunato alla scelta di moltissimi altri albanesi, che da quell’anno decisero di espatriare in massa: “Dopo mezzo secolo di completo isolamento dal mondo, in tanti si affrettavano a lasciare il paese, come prigionieri in fuga dalle carceri o colpevoli che scappano dalla scena del crimine”. L’incontro con una donna greca più anziana di lui, Clio, la loro convivenza durata quasi vent’anni aveva fatto di Karl un uomo nuovo: “Bello, giovane, potente e fragile allo stesso tempo, desideroso di correre verso il futuro, per trovare una nuova patria, un nuovo io”. Diventato presto ad Atene un “immigrato integrato con successo”, pur continuando a lavorare come receptionist in un lussuoso hotel del centro di Atene, Karl aveva iniziato a pubblicare saggi e volumi sulla questione dell’emigrazione albanese, firmando sul suo blog una serie di denunce contro il razzismo che ben presto gli avevano attirato odio e minacce da parte dell’opinione pubblica più retriva e dei nazionalisti di Alba Dorata. Abbandonata Clio, si era concesso una serie di avventure erotiche effimere, roso da un’inquietudine che presto lo condusse a lasciare l’Europa per iniziare un’esistenza più libera, accanto a una nuova compagna, negli Stati Uniti.

Il quarto e ultimo complesso capitolo del romanzo di Kapllani sembra voler riassumere gli spunti narrativi e le riflessioni sparse nelle pagine precedenti, recuperando la descrizione delle giornate trascorse a Ters dal protagonista. Alle considerazioni di Karl sulla natura e la storia della sua città natale e sui mutamenti verificatisi nei costumi e nel linguaggio degli abitanti, fanno da contraltare i severi giudizi di Frederik sulla corruzione derivata dall’offuscamento dei valori tradizionali: “Capita che Ters soffochi, irriti e spaventi… la salvezza è il ritorno all’identità forte e al nazionalismo. Il nazionalismo non è odio per gli altri, è amore per te stesso, per la tua lingua, per la tua nazione, per le tue radici, per la tua razza. Il nazionalismo è disciplina, gerarchia, ordine, purezza, rispetto della natura umana. È il fuoco che purificherà e porterà a sé questo mondo che sta uscendo di senno…”.

Il dissidio tra i due uomini si concretizzerà intorno alla partecipazione ai funerali di una ragazza incinta uccisa dal suo amante, ricco uomo d’affari, stimato e temuto nella comunità: in Karl prevale pietà e comprensione, nel fratello, arroccato nei pregiudizi della maggioranza silenziosa, condanna e riprovazione.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net            9 settembre 2023

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

GAZMEND KAPLLANI, LA TERRA SBAGLIATA – DEL VECCHIO, FIRENZE 2023, p. 182

Trad. di Ermal Rrena e Rossella Monaco

RECENSIONI

KATZENELSON

ITZHAK KATZENELSON, CANTO DEL POPOLO YIDDISH MESSO A MORTE – FELTRINELLI, MILANO 2019

Itzhak Katznelson (Karėličy1886-Auschwitz 1944) è stato un poeta polacco di origine ebraica, vittima dell’Olocausto. Nato nel 1886 a Karėličy, vicino a Minsk, si trasferì presto con la famiglia a Łódź, dove crebbe e studiò letteratura. Fu insegnante e drammaturgo: fondò una compagnia teatrale con cui si esibiva in Polonia e Lituania, mettendo in scena suoi testi in yiddish ed ebraico. In seguito all’invasione nazista del 1939, riparò a Varsavia, dove fu recluso con la moglie e i tre figli nel ghetto, riuscendo comunque a crearvi una scuola per l’infanzia. Scampato alla deportazione e all’uccisione dei suoi parenti nel campo di Treblinka, partecipò alla sollevazione del Ghetto di Varsavia il 18 aprile 1943. Gli amici gli procurarono un passaporto falso per l’Honduras, ma prima che potesse mettersi in salvo la Gestapo lo catturò e rinchiuse nel campo di transito francese di Vittel: qui in due mesi compose il suo capolavoro in 900 versi, Canto del popolo yiddish messo a morte, nascondendo il manoscritto in tre bottiglie che sotterrò sotto un albero, da dove venne recuperato nel 1945 grazie alle indicazioni di una compagna di prigionia sopravvissuta, Miriam Novitsch, quindi pubblicato in francese per la prima volta a Parigi nello stesso anno. A fine aprile del 1944, Itzhak Katzenelson e il figlio maggiore Tzyi furono condotti ad Auschwitz e immediatamente inviati alla camera a gas il primo maggio dello stesso anno. Al poeta è stato intitolato il “Museo dei Combattenti dei Ghetti” ad Acri, nel nord di Israele.

Il suo Canto (Dos Lid, in yiddish) conobbe numerose traduzioni e ristampe in tutte le lingue del mondo. In Italia fu pubblicato privatamente a Torino nel 1966 (ediz. Amici di Lohamei Haghettaoth) con prefazione di Primo Levi, poi da Giuntina nel 1995, quindi da Mondadori nel 2009, e ora esce da Feltrinelli con traduzione e postfazione di Erri De Luca. Il testo si articola in quindici brani poetici, ciascuno composto da quindici strofe di quattro versi lunghi, che rievocano le tappe dell’annientamento dell’ebraismo polacco, dall’invasione nazista al rogo del ghetto di Varsavia. Primo Levi così ne scrisse, commentandone la tragica testimonianza di morte, disperazione, cieca e imperdonabile violenza: “È la voce di un morituro, uno fra centinaia di migliaia di morituri, atrocemente consapevole del suo destino singolo e del destino del suo popolo. Non del destino lontano, ma di quello imminente: Katzenelson scrive e canta nel mezzo della strage, la morte tedesca si aggira intorno a lui, ha già compiuto il massacro più che a metà ma la misura non è ancora colma, non c’è tregua, non c’è respiro: sta per colpire ancora e ancora, fino all’ultimo vecchio e all’ultimo bambino, fino alla fine di tutto”.

Si può scrivere mentre si assiste a un genocidio, in attesa della propria indifferibile scomparsa, dopo aver osservato inermi la distruzione di un popolo, il martirio delle persone più care? A un poeta non rimane che un unico modo di esprimersi: l’urlo di dolore, di rabbia feroce, di protesta contro il destino e contro il cielo immobile, nella rievocazione commossa di chi ha perduto. Alle vittime innocenti immolate dalla furia tedesca, Katzenelson chiede, prima di sparire a sua volta, di alzare un grido che risuoni in eterno, scuotendo le coscienze dei posteri:

“Come faccio a cantare se per me il mondo è vuoto? / Come posso suonare con le mani spezzate? / Dove sono i miei morti? / Cerco i miei morti, Dio, in ogni letame, / in ogni mucchio di cenere, ditemi dove siete. // Gridate, da ogni sabbia, gridate, da sotto ogni pietra / da tutte le polveri gridate e da tutte le fiamme, da ogni fumo. / C’è il vostro sangue e succo, c’è il midollo delle vostre ossa, / c’è vostra carne e vita. Gridate forte, in alto. // Gridate dalle viscere delle bestie selvatiche del bosco, dal pesce nello stagno. / Vi hanno inghiottito. Gridate dalle fornaci della calce, grandi e piccoli gridate. / Voglio da voi un grido di pericolo, un grido di dolore, una voce, / grida popolo yiddish messo a morte, grida e grida forte. // […] Venite tutti da Treblinka, da Sovibor, da Oshventshim, / da Belgiz venite, venite da Ponari e da altri posti ancora e ancora e ancora. / Con gli occhi fuori dalle orbite, un grido congelato di soccorso ma senza la voce, / dalle paludi, dal fango in cui foste sprofondati, dalle muffe marcite. // Venite, disseccati, tritati, macinati, venite, disponetevi / in cerchio, una ruota gigante intorno a me, un solo girotondo. / Nonni, nonne, padri, madri con i bambini in grembo, / ossa yiddish venite dalla polvere, dai pezzi di sapone. // Apparitemi, mostratevi a me tutti, venite tutti, / voglio vedervi tutti, voglio guardarvi, voglio / sul popolo mio messo a morte posare lo sguardo zitto / ammutolito. / Allora canterò, sì, ecco l’arpa, io suono”.

Canta in versi, Katzenelson, e ricostruisce la storia ebraica, a partire dal profetismo dell’Antico Testamento, cadenzato dalle implorazioni dei Salmi, già premonitore delle sofferenze del popolo eletto, per attraversare poi la diaspora, i pogrom medievali, e arrivare alle persecuzioni novecentesche, alla Shoah, al dolore collettivo dei giudei polacchi e a quello suo individuale: “Dolori voi v’ingrandite in me, crescete di misura / per quale tormento? Per trapanarmi dentro o per strapparvi via? / Non vi strappate via da me, dolori. Crescete dentro di me, state in silenzio, / zitti mentre mi lacerate, dolori miei che diventate grandi”.

Itzhak Katzenelson rivive nelle strofe del suo poema l’invasione nazista del ’39, la fuga disperata di intere popolazioni dalle proprie città, il tentativo di cercare scampo a Varsavia: quindi la reclusione nel ghetto con la paura di una cattura improvvisa, il sospetto nei riguardi dei vicini, le delazioni reciproche. Infine i rastrellamenti, le prime deportazioni, il freddo e la denutrizione degli scampati. Ricompone con nostalgia il ricordo della moglie Hanna e dei due bambini più piccoli che non è riuscito a salvare (“Ti ho chiamato fuori dalla tua pace, / non riposare, Hannele, che mai possa guarire in un dimenticare l’ulcera mia infinita. // Siediti qui con me, ti amo così tanto”), la rabbia contro i collaborazionisti e l’indifferenza degli ignavi, il rimorso per la propria vigliaccheria incapace di ribellarsi (“Guai a me, perché sapevo e i miei vicini pure e ogni e qualunque yid, / noi tutti, grandi e piccoli, dal vecchio al giovane, noi lo sapevamo. / Ma dalla bocca non è uscito niente, sst. / Hanna, se gli sparavo in quel momento, se in quel minuto avevo tra le mani di che farlo, / salvavo tutto il popolo, te, me stesso, pure i nostri bambini”.

Tutto ciò viene espresso dal poeta in tono concitato, impetuoso, privo di filtri. L’odio verso i nazisti invasori, capaci di affamare e trucidare infanti e anziani, fuoriesce irrefrenabile, come una maledizione e una condanna senza appello, che si estende a tutto il popolo tedesco, complice di ogni atrocità nel suo silenzio corrivo, e agli ebrei conniventi e corresponsabili dell’orrore: “Sfondavano le porte, irrompevano gridando per ingiuria ‘Aiuto, aiuto’ / dentro le case yiddish barricate, sollevando bastoni tra le mani. / Ci hanno scovati, bastonati e spinti nei vagoni … “.

Dio non c’è, in questi versi acri, esasperati, come fa giustamente notare Erri De Luca nel suo commento: Dio qui è una presenza irrilevante, muta, mai partecipe a ciò che accade: “È solo un bene che non esista un dio, anche se è male, assai, senza di lui. / Ma se ci fosse, pure peggio sarebbe”. La responsabilità degli eventi storici è solamente umana, di chi li provoca e di chi ci si adegua. Non esiste giustificazione per chi ha commesso e permesso la strage: “Per che cosa? Non chiedete, nessuno al mondo, eppure tutto, tutto chiede: per cosa? Per che cosa? / Ascolta, ascolta. // … C’è stato un popolo, c’è stato, e non esiste più. / C’è stato un popolo, c’è stato, e adesso niente”.

 

© Riproduzione riservata                  «La poesia e lo spirito», 24 maggio 2019

 

 

 

 

RECENSIONI

KAVAFIS

COSTANTINO KAVAFIS, LE POESIE – EINAUDI, TORINO 2015

Con un’esauriente ed empatica prefazione di Nicola Crocetti, escono da Einaudi tutte le poesie di Costantino Kavafis: le 154 canoniche, più una quarantina di inedite (le “nascoste” e le “rifiutate”) ed alcune prose. La prima edizione italiana del corpus poetico del poeta alessandrino risale al 1961, quando Filippo Maria Pontani presentò ai lettori italiani un’antologia di testi accompagnati da un’egregia traduzione. La versione di Crocetti appare parimenti fedele e attenta, tesa a rendere soprattutto l’eleganza musicale della lingua di colui che rimane, dopo circa un secolo, il più grande e conosciuto tra i poeti ellenici.
Il volume è suddiviso in cinque capitoli, che scandiscono cronologicamente la produzione in versi, parca e controllata, di Kavafis: dal 1905 alla morte. Costantino Kavafis nacque ad Alessandria d’Egitto nel 1863, e vi morì nel 1933, allontanandosene solo durante l’adolescenza, trascorsa in Inghilterra con la famiglia, o per brevi soggiorni all’estero: nella sua città condusse una vita ritirata e modesta, lavorando per trent’anni come impiegato part-time al ministero dei Lavori Pubblici. «Poeta vissuto ai margini di tutto», scrive il prefatore del volume: «dell’impero geografico e delle lettere, della vita sociale e professionale, dell’editoria e della critica». Eppure, i suoi versi (che in vita circolarono quasi clandestinamente tra pochi amici ed estimatori, o in riviste di scarsa diffusione) hanno mantenuto nei decenni un fascino e un richiamo costante per la loro nitida classicità, e per l’intensità delicata e sensuale con cui esplorano ogni aspetto dell’esistere. A partire proprio dall’amatissima città natale, raccontata nel suo mare e nei suoi vicoli, nei caffè e nei bordelli, negli odori e negli incontri fugaci. Alessandria inevitabile come un destino: «Ti verrà dietro la città. Per le stesse strade / girerai. Negli stessi quartieri invecchierai; / e in queste stesse case imbiancherai»,

Appunto, le case. Abitazioni povere, male arredate, in cui l’unica stanza di rilievo è sempre e solo la camera da letto, dove godere voraci amori: «La camera era povera e triviale, / nascosta sull’equivoca taverna. / Dalla finestra si vedeva il vicolo / sudicio e angusto. //…E lì, sull’infimo e sordido giaciglio, / ebbi il corpo d’amore…», «Se la conosco bene questa stanza. //…Ah, come mi è familiare questa stanza. //…Di fianco alla finestra c’era il letto / su cui ci amammo tante volte», «So che tutto è povero qui dentro, / che ben altri ornamenti meritavano / gli amici miei…».

E poi le strade (strette, buie, sporche, rumorose), i negozi, i mercati, i bar, gli alberghi equivoci («Andai nelle camere segrete / e su quei letti mi distesi e giacqui.»). E il mare, con la sua grandiosità luminosa: «Mare al mattino, cielo senza nubi/ d’un viola splendido, riva gialla; tutto/ grande e bello, fulgido nella luce». Kavafis, votato alla bellezza – da cui veniva sedotto e rapito in una sorta di estatica gratitudine – la cercava ansiosamente ovunque: negli oggetti, nella natura, nei volti («Che bel ragazzo; che meriggio divino / l’ha catturato per addormentarlo.- / Resto così a guardarlo a lungo.»), quasi però col timore di sciuparla, avvicinandosi troppo ad essa. Nello stesso modo anche gli amori, vissuti talvolta con vergognoso abbandono, più spesso erano vagheggiati da lontano, o recuperati solo nel ricordo: «Non ti ebbi, né mai ti avrò, suppongo. / Qualche frase, un accostamento / come l’altr’ieri al bar, nient’altro», «Ricordo appena gli occhi; erano azzurri, credo…/ Ah sì, azzurri, uno zaffiro azzurro», «S’è ancora vivo, si saranno imbruttiti gli occhi grigi, / si sarà sciupato il bel viso. // Serbali tu com’erano, memoria. / E, memoria, di quel mio amore tutto ciò che puoi, / quanto più puoi riportami stasera».

Il sentimento del trascorrere inarrestabile del tempo, della caducità dei sentimenti, del deterioramento fisico era avvertito con timore e ribrezzo: la vecchiaia temuta come uno spettro inevitabile, e descritta più negativamente della morte.
Tuttavia il passato non era solamente nostalgia, rimorso o rimpianto, per Kavafis: domina in tutta la sua produzione poetica una considerazione altissima, orgogliosa, esaltante della storia antica, dei personaggi (eccelsi anche quando appartengano ai ceti più umili e trascurati) che avevano resa celebre con le loro imprese o con l’arte la grandezza della civiltà ellenica. Persino la sua personale omosessualità andava alla ricerca di una nobile affinità e consacrazione nella cultura classica dedita agli amori efebici, e lì trovava la sua giustificazione, il suo riscatto.
Lari privati ed Erinni pubbliche, sovrani e tiranni, guerre e processi, vittorie e sconfitte: tutto torna, dal palcoscenico della storia, a riverberare nella coscienza ulcerata e pietosa di chi scrive. «Accadranno / le stesse cose, accadranno di nuovo -/ gli stessi istanti ci trovano e ci lasciano», uguali e comuni per tutti gli uomini, nei secoli e nei minuti, sebbene riconosciuti nella loro divina unicità dalla sensibilità di pochi: «Non credete solo a ciò che vedete. / E’ più acuto lo sguardo dei poeti».

 

«Lo Straniero» n.181, luglio 2015

RECENSIONI

KAWABATA

YASUNARI KAWABATA, IL SUONO DELLA MONTAGNA – BOMPIANI, MILANO 2002

Il suono della montagna (Bompiani, 2002) è un romanzo che non esce dai confini della famiglia, e dai tesi rapporti che si instaurano all’interno di essa, mantenendo nel corso di tutta la narrazione un suo ritmo pacato e lineare, risolto in frasi brevi ma non perentorie, bensì modulate quasi seguendo la pudica circospezione con cui i personaggi esprimono i loro sentimenti. I dialoghi sembrano alludere a emozioni taciute o rimosse; le descrizioni attente, eppure mai troppo dettagliate o pedanti.
È lo stile magistrale del grandissimo Yasunari Kawabata, qui esibito in una delle sue rese migliori: la trama, ridotta a scarni e poco più che banali avvenimenti, viene messa in secondo piano dalla delicatezza con cui lo sguardo del narratore si sofferma sulle sfumature di gesti, discorsi, moti dell’animo dei protagonisti.
Shingo è un professionista sessantenne, che negli anni ’50 vive in un sobborgo di Tokyo con la sua famiglia. Si trova a fare i conti sia con l’invecchiamento fisico (sordità, insonnia, cali di memoria), sia con la trasformazione dell’ambiente che lo circonda (perdita di parenti e amici, problemi economici, ricostruzione postbellica, deterioramento dei rapporti sociali), sia soprattutto con le problematiche irrisolte all’interno della suo nucleo familiare. La moglie gli è sempre più estranea, chiusa in un ottuso e rassicurante egoismo: l’unica confidenza tra loro è quella della vicinanza nel sonno, tormentato però dal russare di lei, e dal contatto con i suoi piedi ghiacciati. La figlia, indisponente e rancorosa, tornata nella casa paterna con le due bambine piccole dopo il fallimento del matrimonio, non gli nasconde la sua ostilità.
Il figlio, alcolizzato e violento, tradisce la giovane moglie con crudele ostentazione.
È solo con questa sua dolcissima nuora che Shingo riesce a vivere la tenerezza di un rapporto fatto di reciproca dedizione, cura, e riconoscente adesione alla bellezza della natura: questo affetto casto e profondo unisce i due in un nobile e consolatorio riscatto dal mondo circostante.

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/Il-suono-della-montagna-Yasunari.html    21 gennaio 2016

RECENSIONI

KAWABATA

YASUNARI KAWABATA, IL MAESTRO DI GO – EINAUDI, TORINO 2012

Il più grande scrittore giapponese del secolo scorso, evocatore di atmosfere e tradizioni, Yasunari Kawabata si è misurato nel 1938 con l’arte di un gioco di tradizione millenaria, ricavandone un romanzo fuori dagli schemi, nato da un’esperienza giornalistica: Il maestro di go (Einaudi, 2012).
Un quotidiano l’aveva incaricato di documentare quella che sarebbe stata l’ultima, importantissima partita di go tra l’anziano e invincibile campione Shusai e l’emergente Otaka: sfida che si protrasse per sei mesi, e si concluse con la sconfitta e la morte del maestro. La cronaca dell’avvenimento venne trasfigurata poi da Kawabata, nella stesura del romanzo che richiese sedici anni di lavoro, in un omaggio al Giappone che stava sparendo, alla saggezza della vecchiaia, all’eleganza silenziosa delle donne, al rispetto per la vita in ogni sua manifestazione, all’obbedienza mansueta alle leggi inesorabili del trascorrere del tempo.
Cos’ è il go? «In Giappone è  ‘una via’, un’arte che trascende la nozione stessa di forza e di gioco. In essa confluiscono la mistica e la nobiltà dell’Oriente».

Kawabata non solo descrive minuziosamente ogni mossa della partita, ma segue i due giocatori nelle loro espressioni facciali, nei rituali che accompagnano i loro gesti, nelle diverse filosofie che esprimono con le loro contrapposte esistenze. Il vecchio ascetico, solenne, solitario, parco di parole e movimenti, piccolo e ossuto; il giovane robusto, vitale, nervoso, conviviale, pur nell’ammirazione ossequiosa del maestro.
A noi occidentali rimane ostico penetrare il fascino meditativo dell’attesa, della sospensione, dell’introspezione che emana dal gioco del go, e non ci è sempre facile seguirne la descrizione attenta e scrupolosa nella pagine di questo romanzo. Rimaniamo tuttavia incantati dalla raffinata leggerezza con cui Kawabata ci racconta questo universo in via d’estinzione, e la sua malinconia nel comporne l’epitaffio.

 

© Riproduzione riservata        

www.sololibri.net/Il-maestro-di-go-Yasunari-Kawabata.html     8 febbraio 2017

 

 

RECENSIONI

KAWABATA

YASUNARI KAWABATA, IL LAGO – GUANDA, MILANO 2015

Ginpei Momoi, protagonista del romanzo Il lago, che Yasunari Kawabata scrisse nel 1954, quattordici anni prima di ricevere il Nobel, è un professore trentaquattrenne di Tokyo, ossessionato da tutte le figure femminili che incontra, al punto di sentirsi costretto a pedinarle, a spiarle, a sognarne non solo il possesso, ma addirittura l’annientamento. Alla base di questa sua nevrosi erotica (tratteggiata dall’autore, come in ogni suo libro, senza alcun cedimento alla volgarità, o alla descrizione esplicita del rapporto sessuale), Ginpei riconosce in se stesso un trauma infantile, risalente al difficile rapporto con la madre, e al rifiuto sentimentale impostogli dalla cugina Yayoi, molto amata e desiderata, con cui usava passeggiare sulle rive gelate del lago del paese. «Sulle acque si addensava la nebbia, celando il mondo fatto di ghiaccio che pareva estendersi all’infinito, al di là della riva». Il gelo introiettato di quel rapporto e di quelle lontane giornate, porta il giovane a reiterare perpetuamente una ricerca di rispondenza affettiva, proprio laddove si suppone inevitabilmente sconfitto. Il complesso insuperabile di avere piedi ossuti e sgraziati, al limite della deformità, lo induce ad attribuire alla scarsa avvenenza del suo fisico qualsiasi sconfitta in campo sentimentale.

Il romanzo si apre, con pagine straordinarie, sull’arrivo di Ginpei in un bagno turco, e sulle cure, attente ma professionalmente neutrali, offertegli da una delicata massaggiatrice: cure che lui accetta con pudore misto a gratitudine, vergognandosi del suo corpo così poco attraente, e senza riuscire a stabilire con la ragazza un rapporto che superi le convenzioni abituali. La stessa cosa gli succede quando casualmente si imbatte in altre donne per strada, arrivando ad aggredirle verbalmente, seguendole con insistenza, o addirittura derubando una delle sue vittime della borsa che lei, spaventata, gli getta contro. L’abilità narrativa di Kawabata consiste nell’accompagnare il lettore alla scoperta dell’esistenza quotidiana di queste figure femminili, rivelandone cause ed effetti, antefatti e necessarie conseguenze: così veniamo poco a poco a scoprire sia una giovanile ed ipotetica paternità indesiderata di Ginpei, sia la seduzione di una sua allieva minorenne che l’aveva portato all’allontanamento dal lavoro e alla sua esclusione – in parte volontaria – dalla società. Attraverso l’interpretazione empatica dell’autore, il protagonista si ritiene autorizzato a giustificare le sue azioni ideologicamente, in modo da potersi assolvere da qualsiasi senso di colpa: «Come sarebbe possibile nell’essere umano il piacere di chi agisce se non esistesse quello di chi subisce?». (Teoria, tra l’altro, avallata dal sociologo Bourdieu nel suo “Il dominio maschile”). La dichiarazione in pectore che Gunpei rivolge alle fanciulle bramate risuona quasi patetica: «Nella prossima incarnazione sarò un giovane con i piedi belli. Tu dovrai rimanere così come sei. Danzeremo insieme un balletto luminoso». Il finale ansiogeno e caotico del romanzo ci sprofonda nella psiche allucinata del protagonista, nelle sue visioni che confondono presente e passato, ricordi veri e incubi: conducendoci verso un epilogo di straniante banalità.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Il-lago-Yasunari-Kawabata.html    12 gennaio 2017

 

 

 

RECENSIONI

KAWABATA

YASUNARI KAWABATA, LA DANZATRICE DI IZU – ADELPHI, MILANO 2018

Racconto scritto da Yasunari Kawabata nel 1926, La danzatrice di Izu è la storia dell’iniziazione sentimentale di uno studente che, per vincere i suoi “tormenti di ventenne”, si mette in cammino lungo la penisola di Izu. Il suo viaggio autunnale attraverso una natura incontaminata e suggestiva lo segnerà per sempre, convertendolo alla magia della bellezza, ovunque essa si annidi: nel paesaggio, nei gesti, nelle parole altrui, in sentimenti prima sconosciuti.
Una giovane artista girovaga, Kaoru, leggera ed elegante nei movimenti, nelle gambe e nei piedi affusolati, dolce e seduttiva nello sguardo, con un sorriso stupito e candido che le illumina il volto ed emana una totale e fiduciosa ingenuità, diventa per il protagonista il tramite – folgorante e miracoloso – della rivelazione di un nuovo e diverso approccio all’esistenza.

“La danzatrice, che giaceva proprio lì ai miei piedi, arrossì e si coprì il viso con le mani. Divideva il futon con una delle ragazze più grandi. Era ancora truccata dalla sera prima. Le restavano tracce di rosso sulle labbra e intorno agli occhi. Vederla appena svegliata, e così emozionata, mi diede una strana tenerezza. Forse infastidita dalla luce, si girò dall’altra parte, quindi, con le mani sempre sul viso, scivolò fuori dal futon e si sedette sul pavimento del corridoio. «Grazie per ieri sera» disse, poi si inchinò con delicatezza verso di me, che ero ancora in piedi, confondendomi”.

Il ragazzo, incantato dalla visione della leggadria di lei, la segue nel peregrinare della compagnia di danzatori ambulanti lungo sentieri di montagna, sotto la pioggia che imbianca i boschi di cipressi, i torrenti, il profilo del mare all’orizzonte; si ferma con i suoi compagni d’arte nelle locande e nei teatri improvvisati dei villaggi, partecipa ai loro giochi serali o legge ad alta voce un libro per intrattenerli prima del sonno notturno. Sempre sperando di potersi accompagnare a Kaoru, accontentandosi tuttavia anche solo di uno sguardo di lei. Infine, durante una sosta in una stazione termale, la scopre mentre tutta nuda si tuffa con gioia infantile nell’acqua, avvolta dal vapore caldo, rivelando nella fragile figura la sua reale essenza di bambina.
Il distacco inevitabile, per il giovane che deve tornare alla sua scuola di Tokyo, avviene in una umida mattina davanti al molo dove lo aspetta la nave che lo riporterà in città: la ragazza, accovacciata in silenzio sulla banchina e volgendo gli occhi altrove, si limita a sventolare un fazzoletto bianco in direzione di lui, che imbarcatosi, non riesce a trattenere le lacrime: “Mi sono appena separato da una persona… La mia mente era diventata acqua limpida che colava goccia a goccia, lasciandomi alla fine solo la dolce, piacevole sensazione che non restasse più nulla”.

Il delicato racconto proposto da Adelphi è il più celebre di Yasunari Kawabata, e tuttora nella penisola di Izu l’immagine dello studente in uniforme e della danzatrice è effigiata ovunque, su cartoline e calendari, sui souvenir, sulle scatole di dolciumi e sulle fiancate dei treni. La danzatrice di Izu riporta anche due famosi saggi che l’autore giapponese scrisse sulla cultura nipponica, elencando i temi più famosi della sua produzione letteraria: il rapporto con la tradizione, la purezza femminile, la solitudine, l’amore e la morte, la spiritualità dell’arte, la ricerca assidua della bellezza. Argomenti che Yukio Mishima citò in una lettera, quando propose Yasunari Kawabata per l’assegnazione del Nobel nel 1968: “In tutti i suoi scritti, dalla giovinezza ai giorni nostri, si ritrova, come un’ossessione, lo stesso tema: quello del contrasto tra la solitudine ineluttabile dell’uomo e l’inalterabile bellezza che si può cogliere in maniera intermittente nelle folgorazioni dell’amore, nello stesso modo in cui una luce può svelare, nel cuore della notte, i rami di un albero in piena fioritura”.

 

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https://www.sololibri.net/La-danzatrice-di-Izu-Kawabata.html                    8 gennaio 2018
RECENSIONI

KAWABATA

YASUNARI KAWABATA, BELLEZZA E TRISTEZZA – EINAUDI, TORINO 2007

In questo romanzo che Yasunari Kawabata pubblicò nel 1964, Bellezza e tristezza si intrecciano fondendosi a vicenda, quasi trascolorando l’una nell’altra, come evidenzia efficacemente il titolo. L’incanto e l’eleganza dei luoghi e della natura, dei visi e dei gesti, sembrano compenetrati di malinconia, sia nei lunghi silenzi dei personaggi (carichi a volte di rassegnazione, a volte di tensione se non addirittura di violenza), sia nelle loro azioni, determinate spesso da un fato imperscrutabile e severo. Gli interni delle abitazioni, degli alberghi, dei templi, dei treni sono oppressi da un senso di fredda immobilità, e si impongono con costrizione su chi li occupa: mentre tutte le descrizioni degli ambienti esterni mantengono una loro rasserenante e protettiva ariosità, quasi invitando i protagonisti a uscire da se stessi e dalle prigioni sentimentali in cui si sono volontariamente rinchiusi. Si tratta infatti di una storia di amori e rancori, tradimenti e vendette, in cui però anche la crudeltà morale riesce ad assurgere a una dimensione di rispettabile grandezza.

Ōki Toshio è uno scrittore cinquantacinquenne che a trent’anni, già sposato e padre, aveva avuto una tormentosa e appassionata relazione con un’adolescente, Otoko. Da quell’amore era nata una bambina, morta subito dopo il parto, e la giovane madre in conseguenza dello scandalo e della separazione forzata dal compagno, aveva tentato il suicidio ed era poi stata ricoverata in una clinica psichiatrica. I due protagonisti della vicenda non erano riusciti nei venticinque anni successivi a dimenticarsi, nonostante vivessero in città diverse e avessero intrapreso entrambi carriere di successo. Ōki, reso famoso soprattutto dal romanzo autobiografico La sedicenne, era diventato un rispettabile padre di famiglia e un celebrato autore; Otoko, nota pittrice, conviveva con la giovane e affascinante allieva Keiko in un morboso rapporto di reciproca dipendenza sentimentale e sessuale. Dopo un incontro piuttosto formale avvenuto tra i due ex amanti, il romanzo prende una piega inaspettata: si inserisce infatti nella storia la gelosia di Keiko, ossessivamente votata all’idea di vendicare l’antica sofferenza dell’adorata maestra. Il piano di rivalsa messo in atto dalla ragazza è pressoché diabolico. Puntellato da una continua schermaglia verbale e fisica tra lei e l’insegnante (intrisa di amore e odio, di accuse e richieste di perdono), il progetto di Keiko si concretizza in un crescendo di ostilità e di persecuzioni nei confronti di Ōki e della sua famiglia, nell’intento di far pagare allo scrittore gli errori commessi in passato nei riguardi di Otoko.

Kawabata è abile nel far risaltare soprattutto il meccanismo psicologico che imprigiona la giovane giustiziera in una sorta di godimento sadico. Keiko tormenta Ōki perché in realtà vuole torturare psicologicamente la sua amante Otoko, da cui teme di non essere abbastanza ricambiata nella dedizione incondizionata dei sensi e degli affetti. Preda di una passione accecante, sedotta dall’idea di conquistare e annientare, annullandosi, chi considera suo rivale, Keiko raggiunge il proprio scopo, programmando la vendetta in ogni particolare. Suo obiettivo sarà la distruzione dell’unico personaggio innocente tra i protagonisti del romanzo, il più puro e indifeso: perfetta vittima sacrificale.

 

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https://www.sololibri.net/Bellezza-e-tristezza-Kawabata.html      18 ottobre 2018