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L’ULTIMO VOLO – RICORDO DI SIRO ANGELI

La Biblioteca e l’Amministrazione Comunale di Cavazzo Carnico, insieme ad alcuni illustri studiosi e a preziosi e competenti volontari, da qualche anno stanno promuovendo il recupero dell’opera letteraria di Siro Angeli, nato a Cesclans nel 1913 e morto a Tolmezzo nel 1991. Molto volentieri, in qualità di seconda moglie di Siro, e in accordo con le nostre figlie Daria e Silvia, abbiamo donato al Comune la sua casa natale, i libri conservati nel suo appartamento di Roma, e parte dell’epistolario in nostro possesso. Un ricco fondo di documenti era già stato affidato alle cure attente dell’Università di Trieste alcuni anni fa. Ma qui mi preme offrire una testimonianza personale, un ricordo affettivo dell’uomo e del poeta, quale io l’ho conosciuto a partire dagli anni 70, e a cui sono stata vicina per un ventennio. Già dalle primissime letture della scuola elementare avevo subito il fascino della parola poetica, in cui avvertivo istintivamente una concentrazione di senso e una seduzione musicale che la prosa non mi regalava. Se quindi da bambina erano i versi di Novaro e di Gozzano («Tita singhiozza forte in mezzo all’orto», «Consòlati Maria del tuo pellegrinare»), e più tardi quelli di Ungaretti e di Saba a commuovermi in maniera particolare, al ginnasio e al liceo le mie letture si rivolsero appassionatamente e autonomamente (senza, cioè, venire orientate e dirette da qualche insegnante o guida adulta) verso qualsiasi produzione poetica riuscissi ad avvicinare. Ricordo ancora i primi due libri di poesie acquistati con le mance domenicali: le  Liriche cinesi  e  L’Antologia di Spoon River  della Nuova Universale Einaudi. In seguito, in maniera confusa e entusiastica, lessi Montale e Cardarelli, Pavese e Palazzeschi, Prévert e Tagore, fino ai disorientanti sperimentalismi della neovanguardia. Accompagnavo questi studi con l’ascolto dei cantautori italiani (Endrigo, Tenco, De André, soprattutto) e degli chansonnier francesi, affinando così una sensibilità forse eccessiva per quel miracolo del pensiero e del sentimento che chiamiamo “poesia”. Cominciai anche a buttare giù dei versi – molto banali e zoppicanti, a rileggerli adesso- che custodivo gelosamente in segreto. Fu in prima liceo classico che la professoressa di italiano ci fece acquistare un’antologia: Poesia contemporanea, edizione Le Monnier, curata da Rispoli e Quondam. Lì trovai Siro, a pagina 521. I versi riportati erano tratti da quello che rimane forse il suo libro più intenso e ispirato,  L’ultima libertà, dedicato alla sua amatissima prima moglie Liliana, morta molto giovane, nel 53. Ricordo ancora a memoria alcune di quelle poesie: Come si fa di brace,  Nel deserto del letto, Volevi essere mia, e il turbamento che mi provocava ripeterle tra me e me. Non so quale istinto o segno del destino mi convinse a prendere la penna, il 24 gennaio 1970 – avevo sedici anni – e a scrivergli una lettera, che indirizzai alla Rai, dove allora lui ricopriva la carica di vicedirettore del terzo programma radiofonico. Voglio riportarla per intero, così timida e impudente come mi appare adesso, insieme alla sua risposta pacata e commossa.

Caro Signor Angeli, sono una studentessa liceale di Verona; le scrivo dopo aver letto alcune sue poesie su un’antologia di poeti contemporanei. Devo confessarle che non sapevo neppure che lei esistesse: a scuola non si curano certo di farci apprezzare la poesia moderna; tuttavia le sue poesie mi sono piaciute. Molto. Non mi interessa sapere se la sua poesia è contrapposta a ogni inutile sperimentalismo, oppure se risalta a prima vista l’elaborazione e la rinnovazione degli endecasillabi e dei settenari (come ha scritto Ravegnani): io bado ai fatti e le sue liriche sono delicate e sincere. Per questo mi sono piaciute. Le ho scritto per chiederle se può mandarmi un suo volume: non credo infatti che i suoi libri siano stampati in edizione economica, e io non ho mai abbastanza soldi per permettermi un’edizione di “lusso”. Se un giorno riuscirò a scrivere poesie belle come le sue, anch’io le manderò un volume gratis. Volevo dirle inoltre che mi dispiace molto che la sua “Lilith, Eva, Maria” sia morta. Affettuosi saluti. Alida Airaghi

Cara Alida, scusa se ti do del tu: penso che la mia età, e soprattutto lo slancio spontaneo che ti ha sollecitata a scrivermi, mi consentano di farlo. Dirti che la tua lettera mi ha recato piacere è poco. Accorgersi che le nostre parole hanno lasciato una traccia nell’animo di qualcuno è assai consolante: non (almeno nel mio caso) perché ciò soddisfa la nostra vanità, ma perché l’impulso a scrivere nasce proprio dal bisogno di comunicare, di confidarsi, di stabilire un rapporto di comprensione e di intesa con gli altri, insito in ogni essere umano. Adesso io per te esisto, e tu esisti per me. Se da me ti è venuto qualcosa, senza che io l’abbia espressamente voluto (e questo mi sembra anche più bello) tu mi hai dato altrettanto scrivendomi, e forse di più. Ti mando volentieri il mio ultimo libro di versi. Confido che non ti deluda; e attendo che un giorno tu possa ricambiarmi con un libro che rechi la tua firma, e sia migliore del mio. Io l’ho scritto perché non potevo farne a meno, per disperazione e per vincere la disperazione. La vita mi aveva concesso, con mia moglie, moltissimo; e, forse perché è stabilito che il bene si debba pagare più del male, poi me l’ha tolto. Io ho cercato di recuperare questo grande dono nelle parole, non potendolo recuperare nella realtà. Ricambio i tuoi affettuosi saluti e ti auguro che si avveri quello che desideri, per i tuoi studi e per la tua vita. Siro Angeli

La nostra corrispondenza si protrasse fino al 1973, quando scesi a Roma con alcune compagne di studi per incontrarlo. E continuò, pressoché quotidiana da parte sua, anche nei primi anni della nostra relazione, fino al trasferimento a Zurigo, alla nostra convivenza e poi al matrimonio. Un esilio dorato, il nostro, grazie soprattutto alla nascita delle nostre bambine, all’amicizia fedele di pochi amici, alla sicurezza economica che ci garantiva il mio insegnamento per il Ministero degli Esteri. Ma sempre esilio, a cui ci aveva convinto l’ostilità – dapprima feroce, poi attutita, poi di nuovo manifestamente esibita, dopo la scomparsa di lui – delle nostre famiglie, a Roma e a Verona, scandalizzate dall’abisso di anni che ci divideva. La morte di Siro, inattesa e imprevedibile, non è comunque riuscita ad offuscare in me il ricordo riconoscente del suo severo insegnamento, morale e letterario, e la volontà di rimanervi fedele. In quel lontano agosto del 91, Siro ci aveva preceduto a Cesclans, dove eravamo soliti passare due settimane ogni anno, mentre io e le bambine eravamo rimaste a Verona, trattenute lì dalla leucemia che aveva colpito mia madre, e che l’avrebbe uccisa quasi contemporaneamente a Siro. Ma io l’avevo poi raggiunto per accompagnarlo all’ospedale a un controllo, suggeritogli dal medico a causa di quella che gli era stata diagnosticata come una tracheite. Avevamo partecipato insieme alla Messa di Ferragosto, e ancora adesso mi rimprovero di non aver intuito la gravità del suo male, anche al di là delle reticenze dei dottori e dei parenti. Rammento la sua ultima frase, prima del commiato la sera del sabato in cui fu colpito da un ictus: «Non mi sento ancora del tutto a posto. Tu però vai, vai a dormire, ci vediamo domani». Il rientro a Zurigo con le sole bambine, il dover dire loro che non avrebbero più rivisto il papà adorato, il silenzio terribile e prolungato di tutti, la cattiveria covata e mai da me prima sospettata, ed esplosa in seguito con virulenza, con perfidia: tutto questo non si può dimenticare. Ma dopo tanto tempo risulta attutito, quasi mitigato con clemenza dal bene che è rimasto, dai ricordi belli. Anche dalle raccomandazioni “letterarie” con cui seguiva quello che io scrivevo, esortandomi e correggendomi. Per cui se io leggo una mia breve, lieve composizione tratta dal libro  Il silenzio e le voci («L’elegante betulla è spoglia. / Solo una foglia, esitante, resiste. / Un poco trema, appesa ad un nulla; / e aspetta triste il suo ultimo volo»), risento la sua voce grave e severa: «Attenzione alla metrica! E le rime, le rime sono importanti: non rimare aggettivo con aggettivo, verbo con verbo, nome con nome…  Mai cercare la via più facile, affidarsi troppo all’orecchio!». E mi accorgo di quanto ho ereditato dal suo insegnamento, anche a livello inconscio, se paragono i miei versi a quelli suoi di cinquant’anni fa, così profondi filosoficamente, echeggianti il suo ammirato Bergson: «Impara dalla foglia di novembre / che vedi sciogliersi dalla spoglia pianta / nella precaria luce in punta di piedi; / dalla foglia che sa prima d’esser morta, / persuadendosi a un lieve gioco / col filo d’aria che alla terra la porta, /  fare di ciò che deve l’ultima libertà».

Così, rileggendo questi suoi splendidi versi, mi viene da pensare che Siro, nel suo ultimo volo, ha fatto come la foglia novembrina che scendendo verso terra gioca con l’aria, libera nonostante la necessità: anche Siro ha scelto di finire i suoi giorni nella sua Carnia amata, di riposare per sempre al suo paese, come tante volte mi aveva ripetuto di voler fare. E come giustamente ricorda la poesia incisa nella lapide sulla sua casa: «’I si dopo tanc’ ans / tornât al gnò paîs…».

 

© Riproduzione riservata   «L’Immaginazione» n. 269, maggio 2012

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SIRO ANGELI, IL GRILLO DELLA SUBURRA – SCHEIWILLER, MILANO 1990

Siro Angeli, scomparso a Tolmezzo lo scorso agosto, era autore prolifico e multiforme: i suoi interessi spaziavano dalla poesia al teatro al cinema (fu sceneggiatore di una quindicina di film di successo: dell’ultimo, Maria Zef, di Vittorio Cottafavi, aveva interpretato anche uno dei ruoli principali) al romanzo. Come narratore aveva pubblicato presso le Edizioni Paoline Figlio dell’uomo, romanzo-saggio basato su una coraggiosa ipotesi teologica, che gli era valso nel dicembre del ’90 il Premio Camposampiero.
Vorrei qui occuparmi del suo ultimo volume di poesie, dedicandogli una recensione che ho a lungo evitato e rimosso, e che sarà scritta con affettuosa nostalgia verso chi mi è stato vicino per più di vent’anni, con stima per un uomo di cultura raffinata e vasta, di moralità rigida e scabra.
Il grillo della Suburra raccoglie versi scritti da Angeli nell’arco di un ventennio, dal ’55 al ’75, anni da lui vissuti a Roma alle prese con una sofferta situazione familiare e con l’impegnativa responsabilità di alto funzionario radiofonico. Il volume, pubblicato nel ’75 da Barulli, con una partecipe e sapiente prefazione di Alfonso Gatto, non fu mai distribuito nelle librerie per varie vicissitudini editoriali, ma arrivò comunque finalista al Premio Viareggio di quell’anno.
Ristampato nel ’90, grazie anche all’interessamento di Dante Isella, nella preziosa collana All’insegna del pesce d’oro di Vanni Scheiwiller, era stato da Angeli completamente rivisto e riscritto, con un’ossessiva attenzione alle varianti anche minime, e un incessante lavoro di lima.
Consta di tre parti: Il grillo della Suburra, poemetto in nove sezioni di novenari, San Pietro in Vincoli e altre poesie, sempre in forme chiuse, ma spazianti dagli endecasillabi ai settenari, Approssimazione all’arte poetica, in settenari. Del poemetto che dà il titolo al volume, ostico -quasi- alla prima lettura, «impervio in virtù della sua chiarezza», come suggeriva Gatto, basti qui accennare alla rigidità formale in cui si trova, per così dire, ingabbiato: nove sezioni di cinque o più strofe di sette versi, tutti in novenari, con un gioco elegantissimo di rime interne e esterne, con un’attenzione quasi barocca alla scelta di vocaboli inusuali e inquietanti. Rigidità formale che rimanda e sottende un’altrettanto e forse più severa rigidità morale. Molto prima di qualsivoglia risveglio verde dei nostri ecologisti dell’ultima ora, Angeli chiama un grillo «non sai come giunto / dall’ariosità di una tana / agreste o di un’aia quieta / qui in un’estranea foresta / di pietra che ha nome di città» a testimone inorridito e inadeguato del degrado umano e ambientale cui è arrivata la metropoli odierna, coacervo di abitudini corrosive, di veleni fisici e psicologici, di aggressioni visive e uditive. Testimone di ciò, ma anche emblema di una fisicità buona, di una natura da recuperare, di una poesia non riconosciuta ma sempre presente nelle cose, il grillo è montalianamente messaggero di salvezza, cristianamente simbolo di speranza e redenzione. Nell’ultima sezione, classicamente intitolata Approssimazioni all’arte poetica, sono quindici i componimenti brevi in settenari cui Angeli affida il compito di esprimere il suo complesso rapporto con il “mestiere” di poeta, inteso sempre da lui come lavoro assiduo sulla parola: che va cercata, scelta tra tante, e poi lavorata limata incastonata come una gemma nel giusto contesto.
C’era, in Angeli, figlio di un muratore emigrato in Francia e di una contadina, questo rispetto sacro per la magia della creazione intellettuale, mista a una passione artigianale per la fatica fisica dello scrivere, e a una diffidenza tutta carnica verso la faciloneria delle improvvisazioni mistificanti. Tutto questo lo rendeva durissimo nei riguardi degli altri e di se stesso, e il dialogo che fingeva nei versi con un “tu”, lettore solo supposto, era in realtà un monologo. A se stesso, quindi, rivolgeva l’invito a non scrivere: «Se ti resta un talento / di tanto spreco fatto / sul bianco delle pagine, / spendilo in vita: l’atto / può adeguarsi all’intento, / non il segno all’immagine», «La verità, la vita / non fanno vive e vere / le parole che scrivi», «Dato che prima o poi, / anche senza motivi / come avviene tra amici, / tradisci o ti tradiscono / le parole che scrivi / quanto quelle che dici, / unico scampo al rischio / è il tacere, se puoi».
Ma come non riusciva a non parlare, Angeli non riusciva a non scrivere: e se con pessimismo attuale e metafisico insieme considerava il tradimento della scrittura rispetto al pensiero o all’azione, tuttavia ad essa continuava ad attribuire la speranza di un riscatto: «Molto ti sembrerà / se fra tante parole / tue da spazzare via / almeno una racchiuda // in sé l’ombra che dia / la speranza del sole, / l’errore che ti illuda / di qualche verità», e ancora: «Un indizio dell’eden / prima della caduta / dalle parole ambivi. // Ora ti basta chiedere / loro quanto ti aiuta / a vivere tra i vivi».
Nella sezione centrale del libro, San Pietro in Vincoli, sono raccolte singole poesie, più sciolte e abbandonate rispetto a quelle che abbiamo appena preso in considerazione. Ritratti di persone e ambienti familiari (chiese, fiumi, amici, e poi spazzini, fantesche, pannocchie), ma soprattutto versi indaganti il mistero dell’essere, del vivere qui e ora. Si tratta in qualche modo di poesie filosofiche, ma non intellettuali: in esse la razionalità sembra cedere il posto a un’istintualità fisica positiva, ottimista. Bergsonianamente, Siro Angeli credeva nell’irrompere del nuovo, del caso, dell’imprevisto, a vanificare ogni costruzione simmetrica della necessità: credeva nel miracolo che può accadere a tutti, ogni giorno, modificando il già scritto. Per cui, tra lo sparo e il raggiungimento del bersaglio, voleva potersi affidare alla possibilità di uno scarto della pallottola, o alla stravolgente autonomia di un refuso sulle bozze di stampa, o alla non necessarietà delle scadenze temporali; auspicando «il nascere di una nuova / stagione in un altro universo / dove il conto non torni esatto».
Scriveva Gatto: «Questa poesia di Angeli, lontana da ogni remissività, è una sentenza contro il numero, l’estrema salvezza di un filo superstite». Da tali premesse teoriche derivava un insegnamento di vita: «tu lascia che domani / come improvvisi scrosci / di pioggia sulla via / ti colgano gli eventi», «Meglio se a passi discontinui / procedi, quasi allo sbaraglio , / lasciando che qualcosa s’insinui / tra lo scopo e te», «Non ridurre allo scatto / d’un congegno gli eventi». Polemico contro i ragionieri dell’esistere, che misurano i propri passi sui listini di borsa, asseriva: «lascia il calcolo esatto / di mezzi e fini, a trarne / utile e vanto, ad altri».
Il volersi giocare, con azzardo, la vita, non era solo atteggiamento mentale: all’età in cui ci si pensiona era stato capace di inventarsi una nuova esistenza, abbandonando la Rai e Roma, trasferendosi a Zurigo, offrendo vita nuova ai suoi anni. Un miracolo, un regalo del destino, amava definire la nascita tardiva delle nostre bambine: sicuro che se i suoi occhi si fossero chiusi, altri occhi, in altro modo suoi, sarebbero rimasti aperti sul futuro, meravigliati e grati di esserci.

 

«L’Arena», 24 febbraio 1992

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SIRO ANGELI, IL GRILLO DELLA SUBURRA – SCHEIWILLER , MILANO 1990

Nella sua prefazione al volume di poesie Il grillo della Suburra di Siro Angeli (Roma, Barulli 1975), ripreso quindici anni dopo dall’editore Vanni Scheiwiller nella collana All’insegna del pesce d’oro (Milano 1990), Alfonso Gatto definiva «scorbutico, freddo e ardente insieme» il poemetto che dà il titolo al volume, e su cui ora vorrei soffermarmi. Scorbutico nel senso di scostante, di poco accattivante, ombroso come un puledro ribelle alle redini di qualsiasi lettore-cavaliere. Freddo perché meditato (premeditato) in ogni verso e rima, costruito in un’architettura rigida e severa, che non lascia spazio a nessuna improvvisazione o scarto fantastico. Ardente perché animato da una vis polemica savonaroliana, da una feroce critica morale nei riguardi della società odierna. A ragione Gatto parlava, a proposito di questa poesia, di «frenata incandescenza», perché Siro sapeva che se la poesia è visione, allucinazione, ispirazione allo stato larvale, tale non deve rimanere, e prima di arrivare alla pagine deve essere “frenata”, appunto, lavorata, limata, con umiltà artigianale che mal sopporta la presunzione dell’estemporaneità. «Poesia difficile, impervia, in virtù della sua chiarezza», proseguiva Gatto, e infatti questi versi, lontani da ogni sperimentalismo alla moda, totalmente rispettosi di metrica e punteggiatura, non presentano punti oscuri, di difficile interpretazione: dicono tutto, senza lasciare al lettore alcuno spazio di interpretazione soggettiva e di co-invenzione. Eppure sono versi da leggere con un occhio al vocabolario per la quantità e la qualità delle voci usate, rare nelle pagine dei nostri poeti contemporanei (sanie, contrafforti, altane, tabe, annonari, subornarli, annaspo, elitre, abigeati, erebo, sinodali, sirti, latebre, offa, fomiti, arcosoli, lemuri, miasmi, falansteri, ectoplasmi, abbrivi, sinusoidi, incalchi, inflorescenza, esborsi, antelucani, lacerto: sono solo alcuni dei vocaboli che mi si presentano, nella loro inusuale peculiarità, a una veloce rilettura); versi anche sintatticamente spigolosi, contorti, graduati in un climax di crescente sospensione, di intensi rimandi e posticipazioni: si noti che il primo punto fermo si offre allo sconcertato lettore solo al 119° verso, alla conclusione della III sezione e della diciassettesima strofa. Questo accenno mi offre lo spunto per parlare della struttura del poemetto, genere senz’altro molto praticato nella poesia del dopoguerra (si pensi al primo Caproni, o all’ultimo Bertolucci), eppure mai, credo, con tanta rigorosa acrimonia ed esclusiva, inflessibile disciplina come ne  Il grillo. Si tratta di nove sezioni, ciascuna articolata in un numero di strofe che varia da cinque a undici, di sette versi in novenari con un’originalissima mobilità accentuativa. Proprio questa scelta del novenario , verso imparisillabo tra i meno usati nella nostra tradizione letteraria, e invece prediletto da Siro, la dice lunga sulla sua aristocratica tendenza ad andare contro corrente, a porsi sempre fuori dalle mode: la dice lunga anche sulla sua abilità compositiva, sull’attenzione posta a non ripetersi, scartando magari le soluzioni più facili (si badi a questi quattro versi della nona sezione: «le bràci delle sigarétte / adescatrìci di passànti / ritardatàri si diràdano / attravèrso i vetri accostàti»: con accenti sulla II e VIII, sulla IV e VIII, sulla IV e VII, sulla III e VIII). Anche il gioco delle rime è quanto mai abile e dotto, con un prevalere ossessivo di rime ricche su quelle povere, di rime interne, derivative, imperfette. Se consideriamo le cinque strofe della terza sezione, troviamo le seguenti rime, per lo più molto dislocate nella sezione o interne ai versi: giunto-punto-assunto, ariosità-città, quieta-pietra, foresta-finestra-agreste, lassù-più, aspro-annaspo, momento-casamento-sbattimento, interdetto-tetto-dirimpetto, strepito-trepida, celi-dice-tace-voce, disperso-universo-verso, moto-immoto-monotono-remoto, stillicidio-dissidio, voce-atroce, confonde-riprende-rispondersi, elitre-celi, cornice-dice, stridore-ore, muove-dove, evidenti già a una prima, parziale indagine. Sempre in questa sezione, in cui per la prima volta compare l’immagine positiva del grillo, foriero di salvezza, con la sua «trepida voce / che si confonde nello strepito / atroce come un’eco», è proprio il suo verso di «grumo disperso / di vita» ad essere onomatopeicamente reso con una serie incalzante di “r” seguite o precedute da consonante: grillo, agreste, estranea, pietra, crepita, spremere, attrito, aspre, elitre, stridore, credere, crepa, interdetto, travi, cornice, grumo, disperso, universo, verso, trepida, strepito, atroce, sino alla sventagliata finale «e subito riprende tra unisono / e controcanto nel suo gracile / metro a interrogarsi e rispondersi».
Il grillo della Suburra, completamente riveduto e in parte riscritto a Zurigo tra l’87 e il 90, era però stato composto a Roma, negli anni 1955-75, anni difficilissimi per Siro che aveva appena perso la prima moglie (a cui nel ’64 aveva dedicato i versi memorabili de L’ultima libertà, ed. Mondadori), e si era trovato per sopravvivere a dover abbandonare la sua professione di sceneggiatore cinematografico, impiegandosi alla RAI dove avrebbe presto raggiunto qualifiche e responsabilità elevate. Di Roma questo poemetto vive, una Roma pagana e blasfema, cristiana e purissima, corrotta e corruttrice, inquinata e stupenda. Una Roma toponomasticamente citata in versi (da Via dei Selci a Via Lanza, da Termini a Piazza dei Cinquecento, dalla «cicatrice di Via Cavour» alla «laguna dei Fori» fino ai «vicoli della Suburra»), ma metaforicamente personificata – vittima e carnefice insieme – in una tentacolare giungla, in un’«estranea foresta / di pietra che ha nome di città». Questa Roma viene descritta in una torrida notte di fine luglio, in cui l’estate assume sembianze animate e animalesche, minacciose se non addirittura ributtanti, e «uscendo da paludi / sciroccali…// aggredisce…// la pendice / esquilina con denti e unghie», e solo verso mattino si placa nella memoria di una natura ancestrale e incorrotta:

ora che il cuore della notte / trasale ad un presentimento / d’alba e gli asfalti e i selciati / si preparano ai freschi annaffi / zampillanti dall’autobotte / rammemorando spente estati / quando furono anch’essi folti / boschi, prati e orti antelucani (IX,6).

Tuttavia prima di raggiungere questa quiete dimenticata dagli uomini, è stata protagonista e preda di un’assordante e impietosa babele di veicoli:

lì dove l’assenza di semafori / e di trasbordi vessatori / viepiù lo scalmana in saturnali / estivi e la falla immissaria / da Via Lanza lo muta in fiumana / mentre rifluendo su a raffiche / un’altra corrente lo contraria (II,3);

di persone:

i passanti / alfine sottratti all’usura / pagata nel giorno agli orari / si avventurano per una tabe / varia di rumori discordi / lasciando a tratti che trabocchi / la stanchezza in discorsi annonari (II,1);

di luci:

lo sfaglio d’una duplice rampa / su cui insegue ed epitaffi / si innalzano riverberanti / e come a additare un confine / in lettere cubitali si stampano / nel buio ogni volta che schiaffi / di fari li prendono a bersaglio (II,4);

di rumori:

le giunture morse dai freni / scricchiolano con un bramito, / svampano subitanei baleni / dall’attrito fra cavi e ruote, / porte a pneumatici battenti / scattano alla preda che s’offre / stridendo come denti (VII,5-6)

La fauna umana è descritta senza alcuna simpatia o partecipazione, è incubo, è carne animale quando si asserraglia nelle metropolitane per compiere il rito domenicale della gita al mare:

tuberi imponenti di crani / espansi a fondere in un lardo / solidale nuche e doppimenti, / volumi matronali che esuberano / renitenti in flaccidi emisferi / su cui le stagioni sinodali / declinano verso i climateri; // compagni di muscoli irti / su toraci dediti all’azzardo / delle palestre e delle gare, / scompigli di capelli spioventi / su facce addette a ruminare / mucillagini interminabili / di gomme tra frasi e sbadigli; // seni assolati nella salsa / vampa delle domeniche in sirti / proletarie, a rivalsa dei tedi / stanziali durati dentro celle / d’uffici tra battiti di tasti / o nelle cucine tra lavabi / guasti ed odori di cibarie (IV, 5-6-7);

o nei bar:

… chissà quale essenza / di lete ch’essi bevono a sorsi / ingordi credendo di estinguere / con la sete ricordi e rimorsi (VIII,3);

o nelle sale d’aspetto delle stazioni:

in mezzo a una turba consorte / che dagli accessi in lunghe tratte / si sperpera sulle banchine, / dai ventrilòqui ininterrotti / degli altoparlanti agli agguati / tesi dai carrelli onerari, / dagli scrosci delle latrine / ai ronzii dei locomotori (VIII,5);

o nello squallore di una periferia desolata:

attraverso gasometri e scali, / rimesse e cisterne di benzina, / mercati rionali e barriere / daziarie, officine e terminali / di tram, cimiteri di macchine / dove la vita in una messe / d’ortiche e gramigne si ostina (V,2).

In tale implacabile inferno, visionaria e minacciosa ossessione, unico scampo, brandello di umanità (montalianamente: occasione, miracolo) sono poche immagini che si salvano dal delirio farneticante cui abbiamo ridotto il nostro vivere quotidiano: la luna che persevera nella sua pacata indagine notturna:

ora che la lama della luna / umida ancora di salsedine / sparsa da mari interstellari / scalfisce con miti fendenti la scorza indurita del tempo / per restituire alle parvenze / la pura nudità dei momenti (I,5);

il trasalimento pudico delle adolescenti che si offrono a impietosi sguardi altrui:

ma soffi più leni lambiscono / la gracilità che ad impuberi / fanciulle incava guance e sterno, / e nelle guardate di sottecchi, / nei rossori che si propagano scontrosi / dalle confezioni domestiche / rimproverate dagli specchi, / impara a cogliere pretesti / apprensivi perché si riveli / una grazia ormai adolescente / nelle iridi che ardono ignare (IV,9-10);

o finalmente nel grillo che, nascosto chissà dove in una Roma sub-umana, insiste a ripetere a se stesso il suo verso, implorazione o denuncia. Grillo poesia, grillo poeta, che nessuno ascolta e di cui nessuno si cura, presenza gratuita e necessaria, sacrificale e salvifica, che rende possibile con il suo canto il perpetuarsi del prodigio magico dell’esistenza che si rinnova, se solo qualcuno gli presti orecchio:

il grillo, poco più d’un punto / nel buio, un grumo disperso / di vita in sé scisso ed assunto / nel magma in cui l’universo / fluisce, ti chiedi che dice / e ripete a sé solo per ore / ed ore, che cosa lo muove // a quello sbattimento, verso / dove o chi trepida la voce / che si confonde nello strepito / atroce come un’eco, tace / e subito riprende tra unisono / e controcanto nel suo gracile / metro a interrogarsi e rispondersi (III,22-35).

Questo è quanto, in questo momento di pena, di strazio provocato dalla sua improvvisa scomparsa, sono riuscita a scrivere su Siro Angeli poeta, da lettrice appassionata che si occupa di critica solo a livello dilettantesco, con il massimo, però, di distacco emotivo possibile. Quanto vorrei scrivere di Siro uomo è per me infinitamente più doloroso e pudico. Vorrei fosse davvero possibile, anche solo per un attimo, il miracolo di un’inversione di tendenza nel percorso del tempo, e averlo qui, reale come mi sembra adesso che ne scrivo, piccolo e ossuto, azzurro negli occhi e profondo nella voce; mio padre putativo e padre delle nostre bambine, nostro grillo e poeta domestico, “del focolare”. Vorrei potergli mostrare questi quattro fogli, e che lui sorridesse appena, incerto tra soddisfazione e imbarazzo, si sistemasse gli occhiali sul naso, prima di darmi il voto di sempre: 6+.

 

«Bloc Notes» n.25, giugno 1992

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SIRO ANGELI, INCONTRO – PACINI FAZI, LUCCA 1993

Testo teatrale in tre atti che Siro Angeli scrisse nel 1939, e che mantiene ancora oggi una sua fiera originalità. I due protagonisti ventenni, Carlo e Silvia, si affrontano in un serratissimo dialogo fatto di battute brevi, ironiche, timidamente scontrose, asciutte al limite dell’essenziale, nella ricerca di un terreno di comunicazione condiviso, in cui far nascere un sentimento d’amore esclusivo, assoluto, addirittura esasperato. Carlo è un giovane poeta che snobba il successo letterario, i riti salottieri, le banalità delle chiacchiere quotidiane; Silvia è una sorta di femminista ante litteram, che esibisce scarsa stima per gli uomini, di cui afferma severamente: «Certe volte li disprezzo, certe volte mi fanno pietà…Tutti quelli che ho conosciuto io sono così. Burattini». Carlo le fa da intransigente eco: «Io non posso amare una ragazza che sia stata baciata da un altro». In questo reciproco rincorrere un’inarrivabile purezza, i due finiscono per incontrarsi e amarsi: indifferenti al mondo intorno (i tre atti si svolgono sulla stessa terrazza, di sera, senza nessuna scenografia di sfondo), estranei alla storia che sta per precipitare in un disastroso conflitto mondiale, compresi solo della «partita amorosa» che li riguarda. Nella sua affettuosa introduzione, Italo Alighiero Chiusano, amico ed estimatore di Siro Angeli per tutta la vita, parla di «calvinismo dell’amore… pudore pressoché bisbetico, pochissima o nessuna atmosfera, casta e inesorabile… spazio nudo e astratto», citando tra gli ispiratori del testo le schermaglie sentimentali del teatro settecentesco francese, o addirittura i furori estremi di un Alfieri. In realtà, la sensibilità teatrale di Siro Angeli, che fu essenzialmente e soprattutto poeta, pare più vicina a certi sofferti interni cechoviani, o alle sfumature psicologiche di Ibsen, in questi suoi appostamenti delicati e partecipi al rigoroso assolutismo degli amori adolescenziali, nella bruciante adesione a una spiritualità inflessibile.

In Per il teatro di Siro Angeli, Maria Pacini Fazi, Lucca 2013

 

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ANGELI

SIRO ANGELI, POESIE IN FRIULANO

Siro Angeli (Cavazzo Carnico 1913-Tolmezzo 1991) è stato poeta, sceneggiatore cinematografico e radiofonico, drammaturgo, romanziere. Laureato alla Scuola Normale di Pisa, visse a lungo a Roma (con la funzione di dirigente RAI), e a Zurigo, svolgendovi un’intensa e apprezzata attività culturale. La sua produzione poetica in lingua italiana, più volte premiata a livello nazionale, coniugava la rigorosa tradizione classica e umanistica a un profondo interesse per l’ermetismo. I volumi più rilevanti furono L’ultima libertà (Milano, Mondadori, 1962) e Il grillo della Suburra, con prefazione di Alfonso Gatto, pubblicato a più riprese tra il 1975 (Barulli, Roma) e il 1990 (Scheiwiller, Milano). In friulano scrisse L’Âga dal Tajament, (Roma, Tolmezzo, Udine 1970-1976-1986) e Barba Zef e jò (Tolmezzo, 1981). Per il teatro firmò otto rappresentazioni sceniche, dalla trilogia friulana di argomento sociale (La casa, 1937; Mio fratello il ciliegio, 1937; Dentro di noi, 1939), ad altre più intimistiche (Assurdo, 1942; Male di vivere, 1951; Odore di terra, 1957) e spirituali (Grado Zero, 1977). Nel dopoguerra collaborò alla sceneggiatura di una quindicina di film, soprattutto per il regista Vittorio Cottafavi (La fiamma che non si spegne, Una donna ha ucciso, Traviata ’53, Avanzi di galera), fino all’ultimo Maria Zef  (1980), tratto dall’omonimo racconto di Paola Drigo, in cui rivestì anche il ruolo del protagonista. Con le Edizioni Paoline pubblicò nel 1989 il romanzo di argomento teologico Figlio dell’uomo.

I versi in friulano (lingua dell’infanzia, degli affetti familiari e del sogno), ideati e rielaborati da Angeli in diversi momenti, recuperano l’immutato accento della frazione natia, Cesclans, nel comune di Cavazzo Carnico, a cui tornava ogni estate, nel desiderio di disintossicarsi dalle incombenze lavorative e dalle atmosfere romane, ritenute meno autentiche e schiette. Qui è sepolto, e qui è visitabile la casa in cui nacque (figlio di un muratore e di una contadina, in una famiglia di severe radici cristiane), oggi allestita a museo. I ritratti della madre, del padre, dei compaesani, delle acque e delle montagne della sua Carnia, si stagliano nitidi e privi di retorica, appena velati di una nostalgia che comunque mai arriva a essere rimpianto: consapevole di quanto fosse difficile, faticosa e spesso spietata l’esistenza della sua gente, con gli uomini costretti alla guerra o all’emigrazione, e le donne indurite dal lavoro nei campi e nelle stalle, il poeta cercava scampo nel recupero delle parole con cui si era affacciato alla vita e al pensiero: parole bambine (peràulas frutas) che tornarono a trovarlo da adulto (a mi ciàtin massa cressût), fornendogli nuova linfa creativa.

 

Las scarpas

Cui lu ten, dopo tant / ch’al las spietava, cui / ai las giàvia dai pîs / par puartàlu tal jèt? // Il scriciâ che si sint / a ogni pas pas stradas / tra suèla e pièl, al dîs / a la nèif e a la int // che so pàri compradas / las à propri par lui / chesta volta, nol met / plui chês dal fradi grant.

 Le scarpe (Chi lo tiene, dopo tanto / che le aspettava, chi / gliele cava dai piedi / per portarlo a letto? // Lo scricchiolio che si sente / a ogni passo per le strade / tra suola e pelle, dice / alla neve e alla gente // che suo padre comprate / le ha proprio per lui / questa volta, non mette / più quelle del fratello grande.)

 

Il beciâr

“Chesta volta, da nestra vacia plena, / a osservâla cemût ch’ai ven la panza, / mi samèa ch’a nus nasci una vigela” / a dîs nôna, lavant i plaz da cena. / “Di sigûr a nus cressarà su biela, / l’ûri tant che so mâri sglonf di lat. / No conservâ la razza al è un peciât”. / “Ben, tigninla, se propri a è un câs râr”. “E s’al nasc’ un vigèl?”. Jèi no mi ciala. / “Par lui i decidarìn quant ch’a lu à fat”, / al dîs nôno. A si sint dal cop svuèidât / l’âga scori in ta bûsa dal seglâr. / Mi lu figûri vîf dentri da stala / cul muscìc su la teta, e za mi pâr / si sèi dut scunsumât il timp ch’ai vanza / prima ch’al vegni a ciòlilu il beciâr.

Il macellaio (Questa volta, dalla nostra mucca gravida, a osservarla come le viene la pancia, / mi sembra che ci nasca una vitella”, / dice nonna, lavando i piatti della cena. / “Di sicuro ci crescerà su bella, / le mammelle quanto sua madre gonfie di latte. / Non conservare la razza è un peccato”. / “Bene, teniamola, se proprio è un caso raro”. / “E se nasce un vitello?”. Lei non mi guarda. / “Per lui decideremo quando lo avrà fatto”, / dice nonno. Si sente dal ramaiolo vuotato / l’acqua scorrere nella buca dell’acquaio. / Me lo raffiguro vivo dentro la stalla / con il muso sulla poppa, e già mi pare / si sia tutto consumato il tempo che gli avanza / prima che venga a prenderlo il macellaio.)

 

Ban

Chel che si clama Ban / ancimò al si cunsuma / la bîl cuintra il destin / sassin, cuintra la blava // dai bastàrz che lu àn / scartât da fa l’alpin. / A nol bandona mai / nancia quant ch’al durmisc’ / il ciapièl cu la pluma / ch’al si è rangiàt, e guài / se qualchidun jàl giava: / al cierza il so curtisc’.

Ban (Quello che si chiama Ban / ancora si consuma / la bile contro il destino / assassino, contro la genìa / dei bastardi che lo hanno / scartato dal fare l’alpino. / Non abbandona mai / nemmeno quando dorme / il cappello con la piuma / che si è arrangiato, e guài / se qualcuno glielo toglie; / assaggia il suo coltello.)

 

Tal cûr da Ciargna

Propri culì, s’j’ vess / jò podùt sciegli il puest / dulà nasci, in tal cûr / da Ciargna il gno paîs // al saress, propri chest / como ch’al è, plui pôr / ancia, como ch’al era / una volta, stentàt // a alzàsci su di mûr / in mûr framiez un grîs / di cret e un vert di prât / a fuarza di clap dûr, / malta e sudôr; l’istess che in sort al mi è tociât…

Nel cuore della Carnia (Proprio qui, se avessi / potuto scegliere il posto / dove nascere, nel cuore / della Carnia il mio paese / sarebbe, proprio questo / com’è, più povero / ancora, come era / una volta, stentato / ad alzarsi su di muro / in muro, fra un grigio / di rupe e un verde di prato, / a forza di sasso duro, / calce e sudore lo stesso / che in sorte mi è toccato…)

 

 Il mistîr

Gno pâri muradôr / tâl e quâl che so pâri, / al à doprât madòn, / pièra, malta, ziment, / par alzâ simpri dret / il mûr, al pâr da vita. // Tal gno mistîr da lôr / doi al sarà ch’j’ impari, / se un qualchi alc di bon / al mi ven indiment / in ta fadìa ch’j’ met / su la pagina scrita.

Il mestiere (Mio padre, muratore / tale e quale suo padre, / ha adoperato mattone / pietra, malta, cemento, / per alzare sempre diritto / il muro, al pari della vita. // Nel mio mestiere da loro / due sarà che imparo, / se qualche cosa di buono / mi viene alla mente / nella fatica che metto / sulla pagina scritta.)

 

Un grande amore per la sua terra, quindi, in Siro Angeli, e per il paesaggio scabro sconvolto dal terremoto del 1976, che aveva provocato lutti e sofferenza, svelandone però anche la forza e la fierezza nella volontà di ricostruzione degli abitanti. Un ricordo grato del paese abbandonato dopo il liceo, dapprima per la Toscana degli studi universitari, quindi per la Roma della professione e degli impegni culturali, poi per una Zurigo in cui ricreò, dopo molti anni di vedovanza, una nuova e giovane famiglia. Ma la Carnia rimaneva per lui rifugio affettivo e mentale, come si evince dal commento che il professor Rienzo Pellegrini gli ha dedicato nel Dizionario biografico dei friulani, III vol. (Forum Edizioni, 2011):

“Una Carnia aspra, con i suoi miti (la casa, che trascina con sé la legge della fatica, della parsimonia: con il fascino categorico di una vita disumana nella sua durezza) e il corollario doloroso delle partenze, tra accettazione e gesto ribelle… Negli ultimi versi friulani la chiave della memoria (comunque ruvida, mai placata) evolve ulteriormente, svincolandosi dagli itinerari collaudati, esorcizzando ogni barriera, senza timori per la dimensione cosmica: “Mai fidâsci di quant / che il pinsîr al cunfin / das Galassias si spuarz / fin dulà che las Quasars / a si strenzin al cûr…” (Mai fidarsi di quando / il pensiero al confine / delle Galassie si sporge / fin dove le Quasar / si stringono al cuore…). Il lessico si apre al tecnicismo duro, straniante, in uno schema metrico che non rinuncia alla rima…  ma senza farsi cantabile: big bang, implodere, Quasars, in un tessuto (e in un gioco combinatorio) inedito, a far reagire il perimetro contadino con un universo senza confini”.

 

© Riproduzione riservata                  «La poesia e lo spirito», 28 luglio 2019

RECENSIONI

ANGIULI

LINO ANGIULI, APPELLO DELLA MANO – ARAGNO, TORINO 2010

Secondo la puntuale e approfondita postfazione di Daniela Marcheschi, questo libro di poesie di Lino Angiuli manifesta un «entusiasmo della lingua», un «gusto spiccato della parola» che evidenzia «tensione di corporea fisicità… concretezza… invenzione verbale… tono assertivo… all’insegna del molteplice trionfante». E infatti questa ricchezza esuberante di significati, la positività comunicativa del messaggio, la pienezza inventiva del lessico, coniugate a un severo controllo formale, rendono la scrittura del poeta pugliese decisamente originale nel panorama piuttosto minimalista, scarsamente coraggioso e innovativo della nostra poesia contemporanea. C’è senz’altro ironia nei suoi versi, ma anche un risentito richiamo etico al dovere civile di osservazione e comprensione di ciò che ci circonda, e l’invito a una solidarietà partecipe verso chi rimane ai margini, della società e della vita. Allora il titolo del volume sembra suggerire la necessità di una presa di posizione: una mano che si alza, si apre e si schiera, sia per interrogare che per esprimere la sua decisa intenzionalità. Come forse dovrebbe saper fare anche la poesia, al di là delle incertezze ed esitazioni di tono e di senso tanto di moda oggi. I versi di Angiuli non sembrano soffrire crisi di valori, le parole si rincorrono nette e affollate, quasi prive di segni di interpunzione e sospensione: solo ribadite dal punto fermo finale, che è anche e sempre una constatazione di realistica volontà affermativa.
Nelle sei sezioni che costituiscono il volume la polifonia delle immagini è soprattutto indirizzata allo scandaglio dell’alterità, piuttosto che all’introspezione egotistica. Lo sguardo del poeta è rivolto al fuori di sé, con un interesse partecipe e vivace a tutto ciò che è “mondo”. Il paesaggio, innanzi tutto, con la sua vegetazione mediterranea fatta di mentuccia, limoni, gerani, arance, peperoncini, capperi, cipolle rosse, rosmarino e pomodori. E poi la terra argillosa, la sabbia, i golfi e il mare («Io e il mare siamo due fratelli / e certe volte lui mi piglia in braccio / mi parla greco dei suoi pomeriggi»), in una «geografia salata» concretissima e immersa nella fisicità. Si stagliano imperiosamente sulla pagina come in un bassorilievo i visi e i corpi delle persone, le loro voci e storie, i loro amori e lavori che dalle vicende particolari di esistenze minime assurgono a una universalità paganeggiante: «Niente è più sacro del respiro nostro / che riesce a incollare il principio e la fine». Sebbene infatti i riferimenti a una religiosità popolare abbondino in tutta la raccolta (spiritosanto, altarini, erode e pilato, breviario, miracoli, reliquie, avvento, resurrezione e «il signore sia con voi andate in pace»), il ciclo delle esistenze raccontate appartiene a una corale e antica tradizione impastata di natura e leggende, più profane che devote. Il cielo non confina tanto con lo spirito, quanto con l’ «azzurro che / confonde pesci e uccelli», e nella sezione più originale del libro («In lungo e in largo- orazioni settimanali»), scandita in sette sermoni laici, ciascuno formato da sette strofe di sette versi “narrativi”, il poeta riesce a trovare una sua voce pietosa e profetica insieme, clamans nel deserto dell’indifferenza morale che ci livella tutti: sia che mediti sulla morte, sulla guerra o sull’emigrazione, sia che sbeffeggi sarcastico le mode alimentari o salutistiche («pesce azzurro tre volte a settimana e la verdura cruda / occhio alla bilancia occhio al grasso occhio alla ruga»), o elevi una preghiera scandalizzata e polemica al dio dell’ufficialità ecclesiastica.
La rigorosa struttura e la disciplina formale in cui Angiuli sembra voler controllare la foga travolgente del suo dettato poetico è evidente ancora in altre due sezioni del volume: nelle otto composizioni di  S’io fossi donna, immedesimate in una sensibilità assolutamente attenta al femminile, composte tutte da due quartine di otto versi quasi sempre formati da due ottonari, e nelle  Tre tredicine di tredici versi, molto giocati linguisticamente. Angiuli riesce infatti a ben destreggiarsi tra neologismi, accostamenti spiazzanti, invenzioni lessicali, plurilinguismi, divertissment, irridendo ogni paludata e autocompiaciuta seriosità letteraria, con la consapevolezza di chi sa di avere qualcosa da dire, e sa anche come dirlo.

«Qui Libri», dicembre 2012

RECENSIONI

ANGIULI

LINO ANGIULI, LA PENNA IN FONDO ALL’OCCHIO – STILO EDITRICE, BARI 2013

«Che senso ha una raccolta di scritti paralleli alla scrittura cosiddetta ‘creativa’?», si chiede il poeta Lino Angiuli nella premessa a questo importante volume di contributi critici, che nella sua lunga carriera letteraria hanno affiancato con severe e puntigliose prese di posizione la produzione di versi. E così si risponde nelle stesse pagine: «Sono… dell’avviso che la scrittura cosiddetta ‘creativa’ non possa fare a meno, come ogni altra forma di manifestazione artistica, di un diuturno esercizio critico da praticare in primo luogo addosso alla propria voce, intrattenendo nel frattempo rapporti dialettici con il mondo circostante e contribuendo, così, a superare quella distanza che finisce per cristallizzare i ruoli e le ‘competenze’».

A questo “diuturno esercizio critico”, indice di consapevolezza e serietà professionale portata avanti con coerenza negli anni, Angiuli rende omaggio appunto con la pubblicazione di questo volume, che si presenta al lettore suddiviso in tre parti fondamentali, più un’appendice di brevi recensioni. Nella prima sezione viene riproposta un’indagine sulla poesia di Guido Gozzano, esplorata dall’autore sin dalla sua tesi di laurea conseguita a Bari nel 1972, e poi continuamente rivisitata con appassionata dedizione. Nel saggio argutamente intitolato “Dal maiuscolo al minuscolo”, Angiuli segue la parabola della scrittura gozzaniana dagli esordi suggestionati dalla visione estetizzante e superomistica di D’Annunzio, al rinnegamento del titanismo nella ricerca linguistica, ironica e dialogico-narrativa, de I Colloqui.
Nella seconda parte del volume vengono ripubblicati saggi e articoli, annoverati come Altri Esercizi, che Lino Angiuli ha scritto nell’arco degli ultimi quarant’anni, ripercorrendo la letteratura italiana dalle origini della Scuola Siciliana, attraversando poi la produzione leopardiana, per approdare alla contemporaneità, soprattutto commentata affettuosamente nei risultati raggiunti dagli scrittori della sua Puglia (Raffaele Nigro,Vittorio Bodini, Pietro Gatti). Particolare in questo senso risulta la sua riflessione sul senso di colpa dell’intellettuale meridionale («che scatta sempre sul versante della perdita di un mondo smarrito e dell’elaborazione fantastica del lutto»), sui suoi complessi edipici di inferiorità nei riguardi della letteratura europea, e sull’uso del dialetto («una variante del culto dei morti, l’applicazione letteraria di quella ritualità che costituisce l’epicentro inossidabile delle civiltà tradizionali»).
Partendo da queste premesse, si entra nel cuore pulsante degli interventi critici del volume, la cui terza sezione è dedicata ai  Ragionamenti. E qui Angiuli sfodera le appuntite armi del suo impegnato interventismo critico, indagando con appassionata coscienza civile «il rapporto tra politica e letteratura, poesia ed engagement», e stigmatizzando la produzione letteraria che non sappia o non voglia fare i conti con la Storia, concretizzata in un tempo e in uno spazio reali, definiti:«Non esistono il poeta e la poesia in assoluto, se non come astrazioni che vanno costantemente storicizzate, contestualizzate, materializzate…Dichiarerò che, tra le mille poesie possibili, preferisco quella che aspira testimoniare piuttosto la piccolezza contraddittoria che la grandezza finta e illusoria dell’animale uomo».

Parole forti e coraggiose, memori anche di un’utopia sessantottesca mai rinnegata, e decise nel rifiutare una letteratura solipsistica ed esangue, scarnificata e sacrale, che finisce «per santificare il corpo mistico del testo, grazie al riciclaggio di neo- o tardo- simbolismi più o meno ‘innamorati’».
Una vera e propria, orgogliosa, dichiarazione di estetica, questa di Angiuli, intesa a proporre un’ipotesi di «critica relazionale», in grado di porsi – rispetto al testo e al suo autore – in uno stato di «ascolto vicinanza comprensione empatia sintonia», e anche di «consapevolezza emotiva», rifuggendo dagli schematici rigorismi interpretativi imposti dalla «cultura logocentrica». Amare la parola scritta, quindi, «impossessarsene»: incoraggiare la pars costruens della letteratura, magari privilegiando «le composizioni supportate da progettazione poematica», tanto in disuso nella produzione in versi attuale, così minimalista, epigrammatica, orfica.
Il messaggio ottimistico, propositivo e profondamente poetico di Angiuli si conclude quindi con parole di speranza e incoraggiamento:«Alla denuncia, al risentimento, alla critica, all’amara invettiva contro la malarealtà preferisco la valorizzazione di quello che c’è e di quello che è possibile…Una delle manovre esistenziali più proficue è quella di cercare un ‘noi’ in cui stemperare la centralità dell’io…Un noi che non esclude l’io, ma che non escluda l’altro».

È raro oggi trovare chi postuli programmaticamente una letteratura non autoreferenziale, ma aperta alla realtà, e capace di progetti, di sogni: chapeau, quindi, alla voce giovane e vitale di un uomo di cultura nato nel 1946 nel nostro antico Sud.

 

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www.sololibri.net/La-penna-in-fondo-all-occhio-Lino.html         14 settembre 2015

 

RECENSIONI

ANIL

ALESSANDRO ANIL, VERSANTE D’ESILIO – MINERVA, BOLOGNA 2019

La casa editrice bolognese Minerva ha aperto una collana di poesia – curata da Cinzia Demi e Giancarlo Pontiggia, intitolata Cleide, nome della figlia di Saffo -, con l’intento di ospitare giovani autori under 40 capaci di “raccontare la verità della vita, la bellezza feroce, gioiosa e dolorosa del suo mistero che incanta, innamora e chiede di essere detto”. Tra questi poeti, particolarmente degno di nota mi è parso Alessandro Anil, nato nel 1990 in India, nel villaggio di Santiniketan, sede della scuola filosofica di Tagore, e lì vissuto fino ai sedici anni. Trasferitosi in seguito in Europa, dopo la laurea in Inghilterra, risiede oggi in Italia, dove si occupa di teatro, filosofia e traduzione.

Versante d’esilio, suo libro d’esordio, consta di tredici sezioni, introdotte da un’intervista in cui l’autore definisce fonti ed esiti della sua scrittura in versi, dichiarando i propri debiti verso i grandi maestri della letteratura europea novecentesca (Rilke, Eliot, Celan, Luzi…), e verso le correnti di pensiero indirizzate alla ricerca etica e metafisica: “Una poesia vuole essere un atto d’amore, un atto di liberazione o di sprofondamento”.

In effetti, tutte queste tre esigenze espressive sono ben riconoscibili nelle pagine, a partire dall’esperienza erotica che travalica sempre il dato fisico, scorporata da ogni materialità: “Esco dalla tua soglia, dal condominio del tuo corpo”. Il tu destinatario del messaggio è sì una figura femminile, ma eterea ed evanescente, mai descritta nella sua consistenza materiale. Alterità che non si riesce a raggiungere e possedere, vago abbaglio che splende e subito si dilegua, senza mantenere la promessa di un incontro definitivo: “Chi sei tu, seduta nella stanza, di solitaria veste / dopo anni ritrovata, chi sono io che ti parlo”. Ombra, sostantivo declinato anche al plurale, è uno dei termini più ricorrenti nella raccolta (“l’ombra di un nome che tu guardi”, “le senti / le ombre”, “Ho lasciato che l’ombra entrasse”, “Ovunque passi un uomo ne seguono le ombre”, “quando le ombre / iniziano ad allungarsi”, “cambia il corso di un’ombra”, “da quante ombre / deve essere un uomo attraversato” …), insieme a silenzio, a solitudine, a nulla, a fine.

Oltre a proporsi come atto d’amore, la poesia è liberazione. Libertà dalla costrizione del proprio minuscolo io, dalla miseria della biografia e della memoria, dall’ “inferno della carne”, e ascesi a una sovra-realtà non vincolata al contingente: “Il mio corpo è nel ventre, lo sguardo altrove. / Il mio corpo, nato dalla terra, lo sguardo altrove. / Le membra inondate di luce portano ancora / una lingua dispersa”, “Niente. Interminabile cerchio, margine o percorso, assenza…”. La fede dichiarata da Alessandro Anil supera i confini di un qualsiasi credo religioso, aspira a un assoluto non circoscrivibile teologicamente: “Invoco un silenzio oltre i secoli, apice di pura forma, / minuto chiuso nel duro segno che all’uomo sia dato ritrarsi / facendo di sé un seguito più lieve della sabbia”.

Appare naturale che l’interpunzione più presente nel libro siano i puntini di sospensione, a indicare che nulla è mai definitivo, che il viaggio verso la consapevolezza e la conoscenza di sé e del mondo dura per sempre, secondo gli insegnamenti che il poeta ha evidentemente assimilato nella terra nutrita di spiritualità in cui è nato e cresciuto. La sua è poesia sapienziale, metodo di conoscenza, mistica del pensiero: quindi, oltre che amore e liberazione, anche sprofondamento, ricerca di significato e verità, mezzo e fine per comprendere se stessi e il mondo, e tutto ciò che si cela “dietro lo schermo inevitabile degli avvenimenti”. Fa piacere leggere un poeta trentenne che non utilizzi la parola solo come artificio, ma demandi ad essa la capacità di una rivelazione, senza paludamenti oracolari, e invece con l’attesa di un’illuminazione, di un ancoraggio, anche solo di una carezza: “Ho camminato, con me stesso / dentro me stesso, un’infinita solitudine, anima tenera / come hai fatto ad amare così tumultuosamente?”

Il Versante d’esilio del titolo, allora, è la consapevolezza del proprio esistere fuori dalla cronaca del tempo in cui si è stati gettati, in un luogo che può essere ovunque, interno o esterno ai propri confini, comunque molto vicino a ciò che impropriamente chiamiamo anima.

 

© Riproduzione riservata                 «Gli Stati Generali», 2 novembre 2021

 

RECENSIONI

ANIL

ALESSANDRO ANIL, TERRA DEI RITORNI – SAMUELE EDITORE, FANNA (PN) 2023

 

L’ultimo libro di versi di Alessandro Anil, Terra dei ritorni, incluso nella dozzina finalista del Premio Strega Poesia 2024, segue altre due raccolte del 2019, Versante d’esilio e Come tradurre la neve, in cui l’autore aveva già dato prova della sua maturità espressiva e di una particolare tensione spirituale, non circoscrivibile solo teologicamente.

Anil è nato nel 1990 in India, nel villaggio di Santiniketan, sede della scuola filosofica di Tagore, e lì è vissuto fino ai sedici anni. Trasferitosi in seguito in Europa, dopo la laurea in Inghilterra, risiede oggi in Italia, dove si occupa di teatro, filosofia e traduzione. Della sua origine orientale mantiene tuttora una disposizione naturale alla meditazione ascetica, al superamento delle contingenze quotidiane nella ricerca della verità, prediligendo lo scavo interiore e solidi ancoraggi etici per conquistare la libertà interiore. La sua scrittura si propone quindi come metodo di conoscenza, nel raggiungimento di una consapevolezza non unicamente sensoriale.

Terra dei ritorni si compone di tre sezioni poetiche, sia tipograficamente sia formalmente vicine alla struttura della prosa filosofica, nel ritmo pacato dell’esposizione riflessiva, dell’argomentazione equilibrata, che non conosce scarti linguistici destabilizzanti o sperimentalismi provocatori, ma predilige l’armonia di una narrazione priva di discrepanze.

Già a partire dall’epigrafe, il lettore intuisce nel richiamo al nascondimento e alla rivelazione, all’ombra e alla luce, alla presenza e all’assenza che continuamente si inseguono, l’eco del pensiero classico e l’insegnamento di religioni millenarie sul transeunte che permea la realtà: “Noi siamo uno nell’altro nascosti / e ci apprendiamo quale l’uno il nascosto dell’altro. / Alternando, ci mostriamo quando siamo più nascosti / e ci nascondiamo quando più ci mostriamo”. Nell’intenzione gnomica dell’avvertimento, come non ripensare all’oscurità delle formule eraclitee, al “lathe biôsas” di Epicuro, allo svelamento del tempo di Heidegger, all’elogio dell’ombra di Borges, fino alle teorie più recenti della psicanalisi sulla duttilità delle esperienze umane e l’indefinibilità dell’inconscio?

Così nella lettera iniziale, il cui destinatario rimane ignoto (tutti o nessuno, l’io dell’autore o una presenza amata), il tema – ripreso poi nel corso delle pagine – è quello dell’esilio, dell’allontanamento (da sé stessi e dalle origini, dalla società e da asfissianti legami sentimentali) connesso a quello del ritorno, di un rimpatrio, di un rifugio protettivo nell’alveo materno della natura, del corpo femminile, della casa: “L’inermità del riposo richiede la protezione della tana”. Fuga e rientro, inizio e fine, alba e crepuscolo, primavera e autunno si rincorrono nelle immagini e nelle ostentate ripetizioni di alcuni concetti.

Come un mantra ribadito in una nenia tranquillizzante, troviamo infatti la supplica “lasciami entrare” rivolta alla donna salvezza e rifugio, e la continua affermazione della vanità e inconsistenza dell’essere: “niente resterà qui, niente”, “Niente, niente resterà, solo oscurità”, “Resteranno solo ombre, solo ombre”, “la luce senza oscurità è ombra perpetua, tenebra senza luce”. Ombra e penombra alludono alla quiete della sera, quando un inedito ulisse riapproda alla sua itaca abbandonata, cercando l’abbraccio protettivo e accogliente del corpo dell’amata. “Lasciami entrare” viene ripetuto ventitré volte, è una preghiera e insieme una richiesta perentoria a una presenza erotica immateriale, sfuggente e indefinibile e tuttavia persistente. Roccia àncora culla dimora letto. Concretezza e astrattezza insieme, la donna chiamata “amica mia”, moglie fidanzata madre di figli futuri, è soprattutto colei che aspetta, offrendo fiducia e consolazione a chi è andato via e ritorna trasformato, avendo finalmente trovato risposte alla propria inquietudine. Le dichiarazioni d’amore sono insistenti, come la richiesta di un perdono, di una

generosità immeritata: “se io sono partito è perché sapevo che tu eri qui ad attendermi. / Lasciami entrare. Impossibile non pensare l’amore come a una terra”, “la mia sete appartiene al tuo corpo”, “il corpo può continuare ad appagarci nonostante il dolore”, “Le mie mani sono ossessionate da te”.

Dopo la prima sezione che dà il titolo al volume, le due successive (Note sulla melodia dell’acqua e Cartografia della voce) si accentrano su due tematiche fondamentali nella riflessione teorica di Alessandro Anil: l’elemento liquido e il suono. L’acqua trova ancora importanti riferimenti mitologici e filosofici nella tradizione culturale di ogni tempo e latitudine: il fiume Lete che cancella la memoria, lo scorrere inarrestabile del fiume eracliteo, la purificazione del Gange, il battesimo di Cristo, immagini che tutte si riassumono nei versi del poeta: “il fiume misteriosamente dà forma al tempo”, “il rivolo d’acqua negli anni scava la via del ritorno”. L’acqua canta, trasporta melodie, e secondo l’autore “La musica è la tentazione del linguaggio di tornare nell’origine da cui ha dovuto astrarsi per esistere… Se la misteriosa forma del tempo è la musica, siamo il tentativo della materia di trasformarsi in vibrazione, una melodia, un suono che bussa sulla soglia del niente”.  L’ultima breve sezione del volume, è dedicata appunto al suono, alla magia della voce umana come si era espressa dolorosamente in alcuni ricordi infantili, avvicinando il pensiero al buio ineluttabile della morte, o come più gentilmente ha accompagnato la scoperta vitale della rinascita, della bellezza ritrovata in piccoli fiori spuntati al mattino, nel volo notturno delle falene, che rivelano “il dominio della grazia… vita che si ritrova nel minimo, nel nulla quasi essenziale”.

 

© Riproduzione riservata       «Odissea», 2 settembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ANNINO

CRISTINA ANNINO, ANATOMIE IN FUGA – DONZELLI, ROMA 2016

Cristina Annino (Arezzo, 1941) negli anni ’70 aveva dato prove di sé e della sua energica tempra di poetessa pubblicando volumi con editori minori, e diverse e apprezzate plaquettes: nel 1984 era poi uscita una sua raccolta di versi nell’antologia einaudiana Nuovi Poeti Italiani 3, con prefazione di Walter Siti. Che in quell’occasione si era espresso in termini elogiativi e gratificanti sulla sua poesia: «Non posso nascondere la mia simpatia per i testi della Annino, per quel suo ’io’ maschile molto al di là delle zone banali della nevrosi, segnato da una disarticolazione ’estatica’ che in un lampo ci mostra gli spazi e i rapporti svincolati dai pregiudizi della percezione e della personalità».

In quella pubblicazione era presente anche una mia silloge, L’appartamento, e ricordo perfettamente l’impressione che mi aveva fatto la voce perentoria di lei, senz’altro la più originale del volume, al punto che mi ero promessa di rinsanguare sul suo esempio la mia vena poetica, sempre timorosa e troppo limpida, nella decina d’anni d’età che ci dividevano (pio desiderio rimasto tale!).

Dopo molto, prolungato e regale silenzio, ora Cristina Annino pubblica da Donzelli un volume che ripropone parzialmente le poesie di allora, arricchito da altre eccezionali prove. Il carattere della sua scrittura mostra la stessa fierezza, la stessa incisività e concretezza anche dopo tre decenni: anzi, si nota qui una più consapevole adesione alla fisicità del reale, come giustamente suggerisce Maurizio Cucchi nella prefazione, e allo scontro con «il disagio e gli attriti dell’esserci».
In queste Anatomie in fuga è infatti la realtà contingente del vivere (corpi, gesti, facce, dialoghi, rapporti umani, viaggi, oggetti e animali… ) che offre ai versi materia di descrizione, spesso ironica, o turbata, rabbiosa, persino disgustata: «Giacché ogni persona / di questa vita, ogni Cosa / che incontro mi toglie identità, / mi precipita, voglio dire, mi dà crampi / di invidia e non trovo servile essere meno».

Sì, l’invidia, l’odio, l’imperfezione, lo schifo addirittura, sono sentimenti dichiarati e privilegiati, come il disordine e la follia, l’eccesso e l’impazienza, la ribellione e il sarcasmo. Il rifiuto dell’armonia e della sana razionalità, lo sberleffo all’equilibrio e al decoro si manifestano nello stile sempre frantumato, ripido, sintatticamente incoerente. Frequentissimi gli incisi, le imprecazioni, il tono colloquiale basso, i punti esclamativi e interrogativi, le aggettivazioni stranianti, i termini isolati seguiti dal punto fermo, l’alogicità dei nessi, le sovrapposizioni e contrapposizioni.
Non si tratta di velleitario sperimentalismo, piuttosto di un’adesione istintiva agli scarti improvvisi del pensiero e dell’immaginazione. Nei contenuti, poi, nessuna retorica, nessuna elegia, nessun descrittivismo idilliaco: mai paesaggi o panorami, nella poesia di Cristina Annino, e invece una folla di personaggi, raccontati anche sadicamente nei loro tic e difetti, con tanto di nomi veri o fittizi: Diego, Wailer, Lutri, Birghitta, Lusi, mentre il soggetto parlante si fa camaleonticamente sguardo esterno, maschile o femminile, animalesco o artificiale. E ovunque un esibito relativismo ideologico, l’assenza di qualsiasi divinità o fede, lo scherno per ogni ideologia e presa di posizione politico-culturale.

Memorabili paiono alcuni incipit: «Le poesie d’amore le do / in appalto ai droghieri; Ho mal di denti e mi duole la vista; Porto un etto di morte sulla spalla; Fumo albicocca; che altro?». Altrettanto memorabili certe chiuse: «Si girò con fatica di marmo; Ed è morta; Trattava Dio alla pari; E scende muto dalle case afflitte». Là dove potrebbe prendere il sopravvento una qualche tenerezza, come nello straordinario Ottetto per madre, la sterzata correttiva riporta nel giusto binario ogni tentazione di sentimentalismo per la scomparsa della «vecchia canina mamma»: «Una donnina tutta lepre, sveglia, / s’accontenta della giornata e beve acqua / com’una spugna. Ehi, non ho mica cent’anni / per aspettare che te ne vada. Sembri Lazzaro!» Per cui anche il dolore va affrontato chirurgicamente, quasi in un’asettica autopsia degli affetti: «Fuori il sole fa foia. Ma qui! Muore / la mamma come un uccello. / Pari dignità. Bisogna / dirlo, che sta andando via. È tutta / nel becco, tutta lì, tutta vecchie / penne senza più cervello».

Tra le signore della nostra poesia che danno lezione di polemica vitalità, di corposo anticonformismo, di aggressiva energia stilistica (in primis Cavalli, Valduga, Insana), credo che meriti una posizione di primissimo piano proprio Cristina Annino: una bella lezione di forma e sostanza a tanti versificatori più giovani, esangui e banalmente ripetitivi.

 

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www.sololibri.net/Anatomie-in-fuga-Cristina-Annino.html      12 maggio 2016