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RECENSIONI

ANGELI

SIRO ANGELI, IL GRILLO DELLA SUBURRA – SCHEIWILLER , MILANO 1990

Nella sua prefazione al volume di poesie Il grillo della Suburra di Siro Angeli (Roma, Barulli 1975), ripreso quindici anni dopo dall’editore Vanni Scheiwiller nella collana All’insegna del pesce d’oro (Milano 1990), Alfonso Gatto definiva «scorbutico, freddo e ardente insieme» il poemetto che dà il titolo al volume, e su cui ora vorrei soffermarmi. Scorbutico nel senso di scostante, di poco accattivante, ombroso come un puledro ribelle alle redini di qualsiasi lettore-cavaliere. Freddo perché meditato (premeditato) in ogni verso e rima, costruito in un’architettura rigida e severa, che non lascia spazio a nessuna improvvisazione o scarto fantastico. Ardente perché animato da una vis polemica savonaroliana, da una feroce critica morale nei riguardi della società odierna. A ragione Gatto parlava, a proposito di questa poesia, di «frenata incandescenza», perché Siro sapeva che se la poesia è visione, allucinazione, ispirazione allo stato larvale, tale non deve rimanere, e prima di arrivare alla pagine deve essere “frenata”, appunto, lavorata, limata, con umiltà artigianale che mal sopporta la presunzione dell’estemporaneità. «Poesia difficile, impervia, in virtù della sua chiarezza», proseguiva Gatto, e infatti questi versi, lontani da ogni sperimentalismo alla moda, totalmente rispettosi di metrica e punteggiatura, non presentano punti oscuri, di difficile interpretazione: dicono tutto, senza lasciare al lettore alcuno spazio di interpretazione soggettiva e di co-invenzione. Eppure sono versi da leggere con un occhio al vocabolario per la quantità e la qualità delle voci usate, rare nelle pagine dei nostri poeti contemporanei (sanie, contrafforti, altane, tabe, annonari, subornarli, annaspo, elitre, abigeati, erebo, sinodali, sirti, latebre, offa, fomiti, arcosoli, lemuri, miasmi, falansteri, ectoplasmi, abbrivi, sinusoidi, incalchi, inflorescenza, esborsi, antelucani, lacerto: sono solo alcuni dei vocaboli che mi si presentano, nella loro inusuale peculiarità, a una veloce rilettura); versi anche sintatticamente spigolosi, contorti, graduati in un climax di crescente sospensione, di intensi rimandi e posticipazioni: si noti che il primo punto fermo si offre allo sconcertato lettore solo al 119° verso, alla conclusione della III sezione e della diciassettesima strofa. Questo accenno mi offre lo spunto per parlare della struttura del poemetto, genere senz’altro molto praticato nella poesia del dopoguerra (si pensi al primo Caproni, o all’ultimo Bertolucci), eppure mai, credo, con tanta rigorosa acrimonia ed esclusiva, inflessibile disciplina come ne  Il grillo. Si tratta di nove sezioni, ciascuna articolata in un numero di strofe che varia da cinque a undici, di sette versi in novenari con un’originalissima mobilità accentuativa. Proprio questa scelta del novenario , verso imparisillabo tra i meno usati nella nostra tradizione letteraria, e invece prediletto da Siro, la dice lunga sulla sua aristocratica tendenza ad andare contro corrente, a porsi sempre fuori dalle mode: la dice lunga anche sulla sua abilità compositiva, sull’attenzione posta a non ripetersi, scartando magari le soluzioni più facili (si badi a questi quattro versi della nona sezione: «le bràci delle sigarétte / adescatrìci di passànti / ritardatàri si diràdano / attravèrso i vetri accostàti»: con accenti sulla II e VIII, sulla IV e VIII, sulla IV e VII, sulla III e VIII). Anche il gioco delle rime è quanto mai abile e dotto, con un prevalere ossessivo di rime ricche su quelle povere, di rime interne, derivative, imperfette. Se consideriamo le cinque strofe della terza sezione, troviamo le seguenti rime, per lo più molto dislocate nella sezione o interne ai versi: giunto-punto-assunto, ariosità-città, quieta-pietra, foresta-finestra-agreste, lassù-più, aspro-annaspo, momento-casamento-sbattimento, interdetto-tetto-dirimpetto, strepito-trepida, celi-dice-tace-voce, disperso-universo-verso, moto-immoto-monotono-remoto, stillicidio-dissidio, voce-atroce, confonde-riprende-rispondersi, elitre-celi, cornice-dice, stridore-ore, muove-dove, evidenti già a una prima, parziale indagine. Sempre in questa sezione, in cui per la prima volta compare l’immagine positiva del grillo, foriero di salvezza, con la sua «trepida voce / che si confonde nello strepito / atroce come un’eco», è proprio il suo verso di «grumo disperso / di vita» ad essere onomatopeicamente reso con una serie incalzante di “r” seguite o precedute da consonante: grillo, agreste, estranea, pietra, crepita, spremere, attrito, aspre, elitre, stridore, credere, crepa, interdetto, travi, cornice, grumo, disperso, universo, verso, trepida, strepito, atroce, sino alla sventagliata finale «e subito riprende tra unisono / e controcanto nel suo gracile / metro a interrogarsi e rispondersi».
Il grillo della Suburra, completamente riveduto e in parte riscritto a Zurigo tra l’87 e il 90, era però stato composto a Roma, negli anni 1955-75, anni difficilissimi per Siro che aveva appena perso la prima moglie (a cui nel ’64 aveva dedicato i versi memorabili de L’ultima libertà, ed. Mondadori), e si era trovato per sopravvivere a dover abbandonare la sua professione di sceneggiatore cinematografico, impiegandosi alla RAI dove avrebbe presto raggiunto qualifiche e responsabilità elevate. Di Roma questo poemetto vive, una Roma pagana e blasfema, cristiana e purissima, corrotta e corruttrice, inquinata e stupenda. Una Roma toponomasticamente citata in versi (da Via dei Selci a Via Lanza, da Termini a Piazza dei Cinquecento, dalla «cicatrice di Via Cavour» alla «laguna dei Fori» fino ai «vicoli della Suburra»), ma metaforicamente personificata – vittima e carnefice insieme – in una tentacolare giungla, in un’«estranea foresta / di pietra che ha nome di città». Questa Roma viene descritta in una torrida notte di fine luglio, in cui l’estate assume sembianze animate e animalesche, minacciose se non addirittura ributtanti, e «uscendo da paludi / sciroccali…// aggredisce…// la pendice / esquilina con denti e unghie», e solo verso mattino si placa nella memoria di una natura ancestrale e incorrotta:

ora che il cuore della notte / trasale ad un presentimento / d’alba e gli asfalti e i selciati / si preparano ai freschi annaffi / zampillanti dall’autobotte / rammemorando spente estati / quando furono anch’essi folti / boschi, prati e orti antelucani (IX,6).

Tuttavia prima di raggiungere questa quiete dimenticata dagli uomini, è stata protagonista e preda di un’assordante e impietosa babele di veicoli:

lì dove l’assenza di semafori / e di trasbordi vessatori / viepiù lo scalmana in saturnali / estivi e la falla immissaria / da Via Lanza lo muta in fiumana / mentre rifluendo su a raffiche / un’altra corrente lo contraria (II,3);

di persone:

i passanti / alfine sottratti all’usura / pagata nel giorno agli orari / si avventurano per una tabe / varia di rumori discordi / lasciando a tratti che trabocchi / la stanchezza in discorsi annonari (II,1);

di luci:

lo sfaglio d’una duplice rampa / su cui insegue ed epitaffi / si innalzano riverberanti / e come a additare un confine / in lettere cubitali si stampano / nel buio ogni volta che schiaffi / di fari li prendono a bersaglio (II,4);

di rumori:

le giunture morse dai freni / scricchiolano con un bramito, / svampano subitanei baleni / dall’attrito fra cavi e ruote, / porte a pneumatici battenti / scattano alla preda che s’offre / stridendo come denti (VII,5-6)

La fauna umana è descritta senza alcuna simpatia o partecipazione, è incubo, è carne animale quando si asserraglia nelle metropolitane per compiere il rito domenicale della gita al mare:

tuberi imponenti di crani / espansi a fondere in un lardo / solidale nuche e doppimenti, / volumi matronali che esuberano / renitenti in flaccidi emisferi / su cui le stagioni sinodali / declinano verso i climateri; // compagni di muscoli irti / su toraci dediti all’azzardo / delle palestre e delle gare, / scompigli di capelli spioventi / su facce addette a ruminare / mucillagini interminabili / di gomme tra frasi e sbadigli; // seni assolati nella salsa / vampa delle domeniche in sirti / proletarie, a rivalsa dei tedi / stanziali durati dentro celle / d’uffici tra battiti di tasti / o nelle cucine tra lavabi / guasti ed odori di cibarie (IV, 5-6-7);

o nei bar:

… chissà quale essenza / di lete ch’essi bevono a sorsi / ingordi credendo di estinguere / con la sete ricordi e rimorsi (VIII,3);

o nelle sale d’aspetto delle stazioni:

in mezzo a una turba consorte / che dagli accessi in lunghe tratte / si sperpera sulle banchine, / dai ventrilòqui ininterrotti / degli altoparlanti agli agguati / tesi dai carrelli onerari, / dagli scrosci delle latrine / ai ronzii dei locomotori (VIII,5);

o nello squallore di una periferia desolata:

attraverso gasometri e scali, / rimesse e cisterne di benzina, / mercati rionali e barriere / daziarie, officine e terminali / di tram, cimiteri di macchine / dove la vita in una messe / d’ortiche e gramigne si ostina (V,2).

In tale implacabile inferno, visionaria e minacciosa ossessione, unico scampo, brandello di umanità (montalianamente: occasione, miracolo) sono poche immagini che si salvano dal delirio farneticante cui abbiamo ridotto il nostro vivere quotidiano: la luna che persevera nella sua pacata indagine notturna:

ora che la lama della luna / umida ancora di salsedine / sparsa da mari interstellari / scalfisce con miti fendenti la scorza indurita del tempo / per restituire alle parvenze / la pura nudità dei momenti (I,5);

il trasalimento pudico delle adolescenti che si offrono a impietosi sguardi altrui:

ma soffi più leni lambiscono / la gracilità che ad impuberi / fanciulle incava guance e sterno, / e nelle guardate di sottecchi, / nei rossori che si propagano scontrosi / dalle confezioni domestiche / rimproverate dagli specchi, / impara a cogliere pretesti / apprensivi perché si riveli / una grazia ormai adolescente / nelle iridi che ardono ignare (IV,9-10);

o finalmente nel grillo che, nascosto chissà dove in una Roma sub-umana, insiste a ripetere a se stesso il suo verso, implorazione o denuncia. Grillo poesia, grillo poeta, che nessuno ascolta e di cui nessuno si cura, presenza gratuita e necessaria, sacrificale e salvifica, che rende possibile con il suo canto il perpetuarsi del prodigio magico dell’esistenza che si rinnova, se solo qualcuno gli presti orecchio:

il grillo, poco più d’un punto / nel buio, un grumo disperso / di vita in sé scisso ed assunto / nel magma in cui l’universo / fluisce, ti chiedi che dice / e ripete a sé solo per ore / ed ore, che cosa lo muove // a quello sbattimento, verso / dove o chi trepida la voce / che si confonde nello strepito / atroce come un’eco, tace / e subito riprende tra unisono / e controcanto nel suo gracile / metro a interrogarsi e rispondersi (III,22-35).

Questo è quanto, in questo momento di pena, di strazio provocato dalla sua improvvisa scomparsa, sono riuscita a scrivere su Siro Angeli poeta, da lettrice appassionata che si occupa di critica solo a livello dilettantesco, con il massimo, però, di distacco emotivo possibile. Quanto vorrei scrivere di Siro uomo è per me infinitamente più doloroso e pudico. Vorrei fosse davvero possibile, anche solo per un attimo, il miracolo di un’inversione di tendenza nel percorso del tempo, e averlo qui, reale come mi sembra adesso che ne scrivo, piccolo e ossuto, azzurro negli occhi e profondo nella voce; mio padre putativo e padre delle nostre bambine, nostro grillo e poeta domestico, “del focolare”. Vorrei potergli mostrare questi quattro fogli, e che lui sorridesse appena, incerto tra soddisfazione e imbarazzo, si sistemasse gli occhiali sul naso, prima di darmi il voto di sempre: 6+.

 

«Bloc Notes» n.25, giugno 1992

RECENSIONI

ANGELI

SIRO ANGELI, INCONTRO – PACINI FAZI, LUCCA 1993

Testo teatrale in tre atti che Siro Angeli scrisse nel 1939, e che mantiene ancora oggi una sua fiera originalità. I due protagonisti ventenni, Carlo e Silvia, si affrontano in un serratissimo dialogo fatto di battute brevi, ironiche, timidamente scontrose, asciutte al limite dell’essenziale, nella ricerca di un terreno di comunicazione condiviso, in cui far nascere un sentimento d’amore esclusivo, assoluto, addirittura esasperato. Carlo è un giovane poeta che snobba il successo letterario, i riti salottieri, le banalità delle chiacchiere quotidiane; Silvia è una sorta di femminista ante litteram, che esibisce scarsa stima per gli uomini, di cui afferma severamente: «Certe volte li disprezzo, certe volte mi fanno pietà…Tutti quelli che ho conosciuto io sono così. Burattini». Carlo le fa da intransigente eco: «Io non posso amare una ragazza che sia stata baciata da un altro». In questo reciproco rincorrere un’inarrivabile purezza, i due finiscono per incontrarsi e amarsi: indifferenti al mondo intorno (i tre atti si svolgono sulla stessa terrazza, di sera, senza nessuna scenografia di sfondo), estranei alla storia che sta per precipitare in un disastroso conflitto mondiale, compresi solo della «partita amorosa» che li riguarda. Nella sua affettuosa introduzione, Italo Alighiero Chiusano, amico ed estimatore di Siro Angeli per tutta la vita, parla di «calvinismo dell’amore… pudore pressoché bisbetico, pochissima o nessuna atmosfera, casta e inesorabile… spazio nudo e astratto», citando tra gli ispiratori del testo le schermaglie sentimentali del teatro settecentesco francese, o addirittura i furori estremi di un Alfieri. In realtà, la sensibilità teatrale di Siro Angeli, che fu essenzialmente e soprattutto poeta, pare più vicina a certi sofferti interni cechoviani, o alle sfumature psicologiche di Ibsen, in questi suoi appostamenti delicati e partecipi al rigoroso assolutismo degli amori adolescenziali, nella bruciante adesione a una spiritualità inflessibile.

In Per il teatro di Siro Angeli, Maria Pacini Fazi, Lucca 2013

 

RECENSIONI

ANGELI

SIRO ANGELI, POESIE IN FRIULANO

Siro Angeli (Cavazzo Carnico 1913-Tolmezzo 1991) è stato poeta, sceneggiatore cinematografico e radiofonico, drammaturgo, romanziere. Laureato alla Scuola Normale di Pisa, visse a lungo a Roma (con la funzione di dirigente RAI), e a Zurigo, svolgendovi un’intensa e apprezzata attività culturale. La sua produzione poetica in lingua italiana, più volte premiata a livello nazionale, coniugava la rigorosa tradizione classica e umanistica a un profondo interesse per l’ermetismo. I volumi più rilevanti furono L’ultima libertà (Milano, Mondadori, 1962) e Il grillo della Suburra, con prefazione di Alfonso Gatto, pubblicato a più riprese tra il 1975 (Barulli, Roma) e il 1990 (Scheiwiller, Milano). In friulano scrisse L’Âga dal Tajament, (Roma, Tolmezzo, Udine 1970-1976-1986) e Barba Zef e jò (Tolmezzo, 1981). Per il teatro firmò otto rappresentazioni sceniche, dalla trilogia friulana di argomento sociale (La casa, 1937; Mio fratello il ciliegio, 1937; Dentro di noi, 1939), ad altre più intimistiche (Assurdo, 1942; Male di vivere, 1951; Odore di terra, 1957) e spirituali (Grado Zero, 1977). Nel dopoguerra collaborò alla sceneggiatura di una quindicina di film, soprattutto per il regista Vittorio Cottafavi (La fiamma che non si spegne, Una donna ha ucciso, Traviata ’53, Avanzi di galera), fino all’ultimo Maria Zef  (1980), tratto dall’omonimo racconto di Paola Drigo, in cui rivestì anche il ruolo del protagonista. Con le Edizioni Paoline pubblicò nel 1989 il romanzo di argomento teologico Figlio dell’uomo.

I versi in friulano (lingua dell’infanzia, degli affetti familiari e del sogno), ideati e rielaborati da Angeli in diversi momenti, recuperano l’immutato accento della frazione natia, Cesclans, nel comune di Cavazzo Carnico, a cui tornava ogni estate, nel desiderio di disintossicarsi dalle incombenze lavorative e dalle atmosfere romane, ritenute meno autentiche e schiette. Qui è sepolto, e qui è visitabile la casa in cui nacque (figlio di un muratore e di una contadina, in una famiglia di severe radici cristiane), oggi allestita a museo. I ritratti della madre, del padre, dei compaesani, delle acque e delle montagne della sua Carnia, si stagliano nitidi e privi di retorica, appena velati di una nostalgia che comunque mai arriva a essere rimpianto: consapevole di quanto fosse difficile, faticosa e spesso spietata l’esistenza della sua gente, con gli uomini costretti alla guerra o all’emigrazione, e le donne indurite dal lavoro nei campi e nelle stalle, il poeta cercava scampo nel recupero delle parole con cui si era affacciato alla vita e al pensiero: parole bambine (peràulas frutas) che tornarono a trovarlo da adulto (a mi ciàtin massa cressût), fornendogli nuova linfa creativa.

 

Las scarpas

Cui lu ten, dopo tant / ch’al las spietava, cui / ai las giàvia dai pîs / par puartàlu tal jèt? // Il scriciâ che si sint / a ogni pas pas stradas / tra suèla e pièl, al dîs / a la nèif e a la int // che so pàri compradas / las à propri par lui / chesta volta, nol met / plui chês dal fradi grant.

 Le scarpe (Chi lo tiene, dopo tanto / che le aspettava, chi / gliele cava dai piedi / per portarlo a letto? // Lo scricchiolio che si sente / a ogni passo per le strade / tra suola e pelle, dice / alla neve e alla gente // che suo padre comprate / le ha proprio per lui / questa volta, non mette / più quelle del fratello grande.)

 

Il beciâr

“Chesta volta, da nestra vacia plena, / a osservâla cemût ch’ai ven la panza, / mi samèa ch’a nus nasci una vigela” / a dîs nôna, lavant i plaz da cena. / “Di sigûr a nus cressarà su biela, / l’ûri tant che so mâri sglonf di lat. / No conservâ la razza al è un peciât”. / “Ben, tigninla, se propri a è un câs râr”. “E s’al nasc’ un vigèl?”. Jèi no mi ciala. / “Par lui i decidarìn quant ch’a lu à fat”, / al dîs nôno. A si sint dal cop svuèidât / l’âga scori in ta bûsa dal seglâr. / Mi lu figûri vîf dentri da stala / cul muscìc su la teta, e za mi pâr / si sèi dut scunsumât il timp ch’ai vanza / prima ch’al vegni a ciòlilu il beciâr.

Il macellaio (Questa volta, dalla nostra mucca gravida, a osservarla come le viene la pancia, / mi sembra che ci nasca una vitella”, / dice nonna, lavando i piatti della cena. / “Di sicuro ci crescerà su bella, / le mammelle quanto sua madre gonfie di latte. / Non conservare la razza è un peccato”. / “Bene, teniamola, se proprio è un caso raro”. / “E se nasce un vitello?”. Lei non mi guarda. / “Per lui decideremo quando lo avrà fatto”, / dice nonno. Si sente dal ramaiolo vuotato / l’acqua scorrere nella buca dell’acquaio. / Me lo raffiguro vivo dentro la stalla / con il muso sulla poppa, e già mi pare / si sia tutto consumato il tempo che gli avanza / prima che venga a prenderlo il macellaio.)

 

Ban

Chel che si clama Ban / ancimò al si cunsuma / la bîl cuintra il destin / sassin, cuintra la blava // dai bastàrz che lu àn / scartât da fa l’alpin. / A nol bandona mai / nancia quant ch’al durmisc’ / il ciapièl cu la pluma / ch’al si è rangiàt, e guài / se qualchidun jàl giava: / al cierza il so curtisc’.

Ban (Quello che si chiama Ban / ancora si consuma / la bile contro il destino / assassino, contro la genìa / dei bastardi che lo hanno / scartato dal fare l’alpino. / Non abbandona mai / nemmeno quando dorme / il cappello con la piuma / che si è arrangiato, e guài / se qualcuno glielo toglie; / assaggia il suo coltello.)

 

Tal cûr da Ciargna

Propri culì, s’j’ vess / jò podùt sciegli il puest / dulà nasci, in tal cûr / da Ciargna il gno paîs // al saress, propri chest / como ch’al è, plui pôr / ancia, como ch’al era / una volta, stentàt // a alzàsci su di mûr / in mûr framiez un grîs / di cret e un vert di prât / a fuarza di clap dûr, / malta e sudôr; l’istess che in sort al mi è tociât…

Nel cuore della Carnia (Proprio qui, se avessi / potuto scegliere il posto / dove nascere, nel cuore / della Carnia il mio paese / sarebbe, proprio questo / com’è, più povero / ancora, come era / una volta, stentato / ad alzarsi su di muro / in muro, fra un grigio / di rupe e un verde di prato, / a forza di sasso duro, / calce e sudore lo stesso / che in sorte mi è toccato…)

 

 Il mistîr

Gno pâri muradôr / tâl e quâl che so pâri, / al à doprât madòn, / pièra, malta, ziment, / par alzâ simpri dret / il mûr, al pâr da vita. // Tal gno mistîr da lôr / doi al sarà ch’j’ impari, / se un qualchi alc di bon / al mi ven indiment / in ta fadìa ch’j’ met / su la pagina scrita.

Il mestiere (Mio padre, muratore / tale e quale suo padre, / ha adoperato mattone / pietra, malta, cemento, / per alzare sempre diritto / il muro, al pari della vita. // Nel mio mestiere da loro / due sarà che imparo, / se qualche cosa di buono / mi viene alla mente / nella fatica che metto / sulla pagina scritta.)

 

Un grande amore per la sua terra, quindi, in Siro Angeli, e per il paesaggio scabro sconvolto dal terremoto del 1976, che aveva provocato lutti e sofferenza, svelandone però anche la forza e la fierezza nella volontà di ricostruzione degli abitanti. Un ricordo grato del paese abbandonato dopo il liceo, dapprima per la Toscana degli studi universitari, quindi per la Roma della professione e degli impegni culturali, poi per una Zurigo in cui ricreò, dopo molti anni di vedovanza, una nuova e giovane famiglia. Ma la Carnia rimaneva per lui rifugio affettivo e mentale, come si evince dal commento che il professor Rienzo Pellegrini gli ha dedicato nel Dizionario biografico dei friulani, III vol. (Forum Edizioni, 2011):

“Una Carnia aspra, con i suoi miti (la casa, che trascina con sé la legge della fatica, della parsimonia: con il fascino categorico di una vita disumana nella sua durezza) e il corollario doloroso delle partenze, tra accettazione e gesto ribelle… Negli ultimi versi friulani la chiave della memoria (comunque ruvida, mai placata) evolve ulteriormente, svincolandosi dagli itinerari collaudati, esorcizzando ogni barriera, senza timori per la dimensione cosmica: “Mai fidâsci di quant / che il pinsîr al cunfin / das Galassias si spuarz / fin dulà che las Quasars / a si strenzin al cûr…” (Mai fidarsi di quando / il pensiero al confine / delle Galassie si sporge / fin dove le Quasar / si stringono al cuore…). Il lessico si apre al tecnicismo duro, straniante, in uno schema metrico che non rinuncia alla rima…  ma senza farsi cantabile: big bang, implodere, Quasars, in un tessuto (e in un gioco combinatorio) inedito, a far reagire il perimetro contadino con un universo senza confini”.

 

© Riproduzione riservata                  «La poesia e lo spirito», 28 luglio 2019

RECENSIONI

ANGIULI

LINO ANGIULI, APPELLO DELLA MANO – ARAGNO, TORINO 2010

Secondo la puntuale e approfondita postfazione di Daniela Marcheschi, questo libro di poesie di Lino Angiuli manifesta un «entusiasmo della lingua», un «gusto spiccato della parola» che evidenzia «tensione di corporea fisicità… concretezza… invenzione verbale… tono assertivo… all’insegna del molteplice trionfante». E infatti questa ricchezza esuberante di significati, la positività comunicativa del messaggio, la pienezza inventiva del lessico, coniugate a un severo controllo formale, rendono la scrittura del poeta pugliese decisamente originale nel panorama piuttosto minimalista, scarsamente coraggioso e innovativo della nostra poesia contemporanea. C’è senz’altro ironia nei suoi versi, ma anche un risentito richiamo etico al dovere civile di osservazione e comprensione di ciò che ci circonda, e l’invito a una solidarietà partecipe verso chi rimane ai margini, della società e della vita. Allora il titolo del volume sembra suggerire la necessità di una presa di posizione: una mano che si alza, si apre e si schiera, sia per interrogare che per esprimere la sua decisa intenzionalità. Come forse dovrebbe saper fare anche la poesia, al di là delle incertezze ed esitazioni di tono e di senso tanto di moda oggi. I versi di Angiuli non sembrano soffrire crisi di valori, le parole si rincorrono nette e affollate, quasi prive di segni di interpunzione e sospensione: solo ribadite dal punto fermo finale, che è anche e sempre una constatazione di realistica volontà affermativa.
Nelle sei sezioni che costituiscono il volume la polifonia delle immagini è soprattutto indirizzata allo scandaglio dell’alterità, piuttosto che all’introspezione egotistica. Lo sguardo del poeta è rivolto al fuori di sé, con un interesse partecipe e vivace a tutto ciò che è “mondo”. Il paesaggio, innanzi tutto, con la sua vegetazione mediterranea fatta di mentuccia, limoni, gerani, arance, peperoncini, capperi, cipolle rosse, rosmarino e pomodori. E poi la terra argillosa, la sabbia, i golfi e il mare («Io e il mare siamo due fratelli / e certe volte lui mi piglia in braccio / mi parla greco dei suoi pomeriggi»), in una «geografia salata» concretissima e immersa nella fisicità. Si stagliano imperiosamente sulla pagina come in un bassorilievo i visi e i corpi delle persone, le loro voci e storie, i loro amori e lavori che dalle vicende particolari di esistenze minime assurgono a una universalità paganeggiante: «Niente è più sacro del respiro nostro / che riesce a incollare il principio e la fine». Sebbene infatti i riferimenti a una religiosità popolare abbondino in tutta la raccolta (spiritosanto, altarini, erode e pilato, breviario, miracoli, reliquie, avvento, resurrezione e «il signore sia con voi andate in pace»), il ciclo delle esistenze raccontate appartiene a una corale e antica tradizione impastata di natura e leggende, più profane che devote. Il cielo non confina tanto con lo spirito, quanto con l’ «azzurro che / confonde pesci e uccelli», e nella sezione più originale del libro («In lungo e in largo- orazioni settimanali»), scandita in sette sermoni laici, ciascuno formato da sette strofe di sette versi “narrativi”, il poeta riesce a trovare una sua voce pietosa e profetica insieme, clamans nel deserto dell’indifferenza morale che ci livella tutti: sia che mediti sulla morte, sulla guerra o sull’emigrazione, sia che sbeffeggi sarcastico le mode alimentari o salutistiche («pesce azzurro tre volte a settimana e la verdura cruda / occhio alla bilancia occhio al grasso occhio alla ruga»), o elevi una preghiera scandalizzata e polemica al dio dell’ufficialità ecclesiastica.
La rigorosa struttura e la disciplina formale in cui Angiuli sembra voler controllare la foga travolgente del suo dettato poetico è evidente ancora in altre due sezioni del volume: nelle otto composizioni di  S’io fossi donna, immedesimate in una sensibilità assolutamente attenta al femminile, composte tutte da due quartine di otto versi quasi sempre formati da due ottonari, e nelle  Tre tredicine di tredici versi, molto giocati linguisticamente. Angiuli riesce infatti a ben destreggiarsi tra neologismi, accostamenti spiazzanti, invenzioni lessicali, plurilinguismi, divertissment, irridendo ogni paludata e autocompiaciuta seriosità letteraria, con la consapevolezza di chi sa di avere qualcosa da dire, e sa anche come dirlo.

«Qui Libri», dicembre 2012

RECENSIONI

ANGIULI

LINO ANGIULI, LA PENNA IN FONDO ALL’OCCHIO – STILO EDITRICE, BARI 2013

«Che senso ha una raccolta di scritti paralleli alla scrittura cosiddetta ‘creativa’?», si chiede il poeta Lino Angiuli nella premessa a questo importante volume di contributi critici, che nella sua lunga carriera letteraria hanno affiancato con severe e puntigliose prese di posizione la produzione di versi. E così si risponde nelle stesse pagine: «Sono… dell’avviso che la scrittura cosiddetta ‘creativa’ non possa fare a meno, come ogni altra forma di manifestazione artistica, di un diuturno esercizio critico da praticare in primo luogo addosso alla propria voce, intrattenendo nel frattempo rapporti dialettici con il mondo circostante e contribuendo, così, a superare quella distanza che finisce per cristallizzare i ruoli e le ‘competenze’».

A questo “diuturno esercizio critico”, indice di consapevolezza e serietà professionale portata avanti con coerenza negli anni, Angiuli rende omaggio appunto con la pubblicazione di questo volume, che si presenta al lettore suddiviso in tre parti fondamentali, più un’appendice di brevi recensioni. Nella prima sezione viene riproposta un’indagine sulla poesia di Guido Gozzano, esplorata dall’autore sin dalla sua tesi di laurea conseguita a Bari nel 1972, e poi continuamente rivisitata con appassionata dedizione. Nel saggio argutamente intitolato “Dal maiuscolo al minuscolo”, Angiuli segue la parabola della scrittura gozzaniana dagli esordi suggestionati dalla visione estetizzante e superomistica di D’Annunzio, al rinnegamento del titanismo nella ricerca linguistica, ironica e dialogico-narrativa, de I Colloqui.
Nella seconda parte del volume vengono ripubblicati saggi e articoli, annoverati come Altri Esercizi, che Lino Angiuli ha scritto nell’arco degli ultimi quarant’anni, ripercorrendo la letteratura italiana dalle origini della Scuola Siciliana, attraversando poi la produzione leopardiana, per approdare alla contemporaneità, soprattutto commentata affettuosamente nei risultati raggiunti dagli scrittori della sua Puglia (Raffaele Nigro,Vittorio Bodini, Pietro Gatti). Particolare in questo senso risulta la sua riflessione sul senso di colpa dell’intellettuale meridionale («che scatta sempre sul versante della perdita di un mondo smarrito e dell’elaborazione fantastica del lutto»), sui suoi complessi edipici di inferiorità nei riguardi della letteratura europea, e sull’uso del dialetto («una variante del culto dei morti, l’applicazione letteraria di quella ritualità che costituisce l’epicentro inossidabile delle civiltà tradizionali»).
Partendo da queste premesse, si entra nel cuore pulsante degli interventi critici del volume, la cui terza sezione è dedicata ai  Ragionamenti. E qui Angiuli sfodera le appuntite armi del suo impegnato interventismo critico, indagando con appassionata coscienza civile «il rapporto tra politica e letteratura, poesia ed engagement», e stigmatizzando la produzione letteraria che non sappia o non voglia fare i conti con la Storia, concretizzata in un tempo e in uno spazio reali, definiti:«Non esistono il poeta e la poesia in assoluto, se non come astrazioni che vanno costantemente storicizzate, contestualizzate, materializzate…Dichiarerò che, tra le mille poesie possibili, preferisco quella che aspira testimoniare piuttosto la piccolezza contraddittoria che la grandezza finta e illusoria dell’animale uomo».

Parole forti e coraggiose, memori anche di un’utopia sessantottesca mai rinnegata, e decise nel rifiutare una letteratura solipsistica ed esangue, scarnificata e sacrale, che finisce «per santificare il corpo mistico del testo, grazie al riciclaggio di neo- o tardo- simbolismi più o meno ‘innamorati’».
Una vera e propria, orgogliosa, dichiarazione di estetica, questa di Angiuli, intesa a proporre un’ipotesi di «critica relazionale», in grado di porsi – rispetto al testo e al suo autore – in uno stato di «ascolto vicinanza comprensione empatia sintonia», e anche di «consapevolezza emotiva», rifuggendo dagli schematici rigorismi interpretativi imposti dalla «cultura logocentrica». Amare la parola scritta, quindi, «impossessarsene»: incoraggiare la pars costruens della letteratura, magari privilegiando «le composizioni supportate da progettazione poematica», tanto in disuso nella produzione in versi attuale, così minimalista, epigrammatica, orfica.
Il messaggio ottimistico, propositivo e profondamente poetico di Angiuli si conclude quindi con parole di speranza e incoraggiamento:«Alla denuncia, al risentimento, alla critica, all’amara invettiva contro la malarealtà preferisco la valorizzazione di quello che c’è e di quello che è possibile…Una delle manovre esistenziali più proficue è quella di cercare un ‘noi’ in cui stemperare la centralità dell’io…Un noi che non esclude l’io, ma che non escluda l’altro».

È raro oggi trovare chi postuli programmaticamente una letteratura non autoreferenziale, ma aperta alla realtà, e capace di progetti, di sogni: chapeau, quindi, alla voce giovane e vitale di un uomo di cultura nato nel 1946 nel nostro antico Sud.

 

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www.sololibri.net/La-penna-in-fondo-all-occhio-Lino.html         14 settembre 2015

 

RECENSIONI

ANIL

ALESSANDRO ANIL, VERSANTE D’ESILIO – MINERVA, BOLOGNA 2019

La casa editrice bolognese Minerva ha aperto una collana di poesia – curata da Cinzia Demi e Giancarlo Pontiggia, intitolata Cleide, nome della figlia di Saffo -, con l’intento di ospitare giovani autori under 40 capaci di “raccontare la verità della vita, la bellezza feroce, gioiosa e dolorosa del suo mistero che incanta, innamora e chiede di essere detto”. Tra questi poeti, particolarmente degno di nota mi è parso Alessandro Anil, nato nel 1990 in India, nel villaggio di Santiniketan, sede della scuola filosofica di Tagore, e lì vissuto fino ai sedici anni. Trasferitosi in seguito in Europa, dopo la laurea in Inghilterra, risiede oggi in Italia, dove si occupa di teatro, filosofia e traduzione.

Versante d’esilio, suo libro d’esordio, consta di tredici sezioni, introdotte da un’intervista in cui l’autore definisce fonti ed esiti della sua scrittura in versi, dichiarando i propri debiti verso i grandi maestri della letteratura europea novecentesca (Rilke, Eliot, Celan, Luzi…), e verso le correnti di pensiero indirizzate alla ricerca etica e metafisica: “Una poesia vuole essere un atto d’amore, un atto di liberazione o di sprofondamento”.

In effetti, tutte queste tre esigenze espressive sono ben riconoscibili nelle pagine, a partire dall’esperienza erotica che travalica sempre il dato fisico, scorporata da ogni materialità: “Esco dalla tua soglia, dal condominio del tuo corpo”. Il tu destinatario del messaggio è sì una figura femminile, ma eterea ed evanescente, mai descritta nella sua consistenza materiale. Alterità che non si riesce a raggiungere e possedere, vago abbaglio che splende e subito si dilegua, senza mantenere la promessa di un incontro definitivo: “Chi sei tu, seduta nella stanza, di solitaria veste / dopo anni ritrovata, chi sono io che ti parlo”. Ombra, sostantivo declinato anche al plurale, è uno dei termini più ricorrenti nella raccolta (“l’ombra di un nome che tu guardi”, “le senti / le ombre”, “Ho lasciato che l’ombra entrasse”, “Ovunque passi un uomo ne seguono le ombre”, “quando le ombre / iniziano ad allungarsi”, “cambia il corso di un’ombra”, “da quante ombre / deve essere un uomo attraversato” …), insieme a silenzio, a solitudine, a nulla, a fine.

Oltre a proporsi come atto d’amore, la poesia è liberazione. Libertà dalla costrizione del proprio minuscolo io, dalla miseria della biografia e della memoria, dall’ “inferno della carne”, e ascesi a una sovra-realtà non vincolata al contingente: “Il mio corpo è nel ventre, lo sguardo altrove. / Il mio corpo, nato dalla terra, lo sguardo altrove. / Le membra inondate di luce portano ancora / una lingua dispersa”, “Niente. Interminabile cerchio, margine o percorso, assenza…”. La fede dichiarata da Alessandro Anil supera i confini di un qualsiasi credo religioso, aspira a un assoluto non circoscrivibile teologicamente: “Invoco un silenzio oltre i secoli, apice di pura forma, / minuto chiuso nel duro segno che all’uomo sia dato ritrarsi / facendo di sé un seguito più lieve della sabbia”.

Appare naturale che l’interpunzione più presente nel libro siano i puntini di sospensione, a indicare che nulla è mai definitivo, che il viaggio verso la consapevolezza e la conoscenza di sé e del mondo dura per sempre, secondo gli insegnamenti che il poeta ha evidentemente assimilato nella terra nutrita di spiritualità in cui è nato e cresciuto. La sua è poesia sapienziale, metodo di conoscenza, mistica del pensiero: quindi, oltre che amore e liberazione, anche sprofondamento, ricerca di significato e verità, mezzo e fine per comprendere se stessi e il mondo, e tutto ciò che si cela “dietro lo schermo inevitabile degli avvenimenti”. Fa piacere leggere un poeta trentenne che non utilizzi la parola solo come artificio, ma demandi ad essa la capacità di una rivelazione, senza paludamenti oracolari, e invece con l’attesa di un’illuminazione, di un ancoraggio, anche solo di una carezza: “Ho camminato, con me stesso / dentro me stesso, un’infinita solitudine, anima tenera / come hai fatto ad amare così tumultuosamente?”

Il Versante d’esilio del titolo, allora, è la consapevolezza del proprio esistere fuori dalla cronaca del tempo in cui si è stati gettati, in un luogo che può essere ovunque, interno o esterno ai propri confini, comunque molto vicino a ciò che impropriamente chiamiamo anima.

 

© Riproduzione riservata                 «Gli Stati Generali», 2 novembre 2021

 

RECENSIONI

ANIL

ALESSANDRO ANIL, TERRA DEI RITORNI – SAMUELE EDITORE, FANNA (PN) 2023

 

L’ultimo libro di versi di Alessandro Anil, Terra dei ritorni, incluso nella dozzina finalista del Premio Strega Poesia 2024, segue altre due raccolte del 2019, Versante d’esilio e Come tradurre la neve, in cui l’autore aveva già dato prova della sua maturità espressiva e di una particolare tensione spirituale, non circoscrivibile solo teologicamente.

Anil è nato nel 1990 in India, nel villaggio di Santiniketan, sede della scuola filosofica di Tagore, e lì è vissuto fino ai sedici anni. Trasferitosi in seguito in Europa, dopo la laurea in Inghilterra, risiede oggi in Italia, dove si occupa di teatro, filosofia e traduzione. Della sua origine orientale mantiene tuttora una disposizione naturale alla meditazione ascetica, al superamento delle contingenze quotidiane nella ricerca della verità, prediligendo lo scavo interiore e solidi ancoraggi etici per conquistare la libertà interiore. La sua scrittura si propone quindi come metodo di conoscenza, nel raggiungimento di una consapevolezza non unicamente sensoriale.

Terra dei ritorni si compone di tre sezioni poetiche, sia tipograficamente sia formalmente vicine alla struttura della prosa filosofica, nel ritmo pacato dell’esposizione riflessiva, dell’argomentazione equilibrata, che non conosce scarti linguistici destabilizzanti o sperimentalismi provocatori, ma predilige l’armonia di una narrazione priva di discrepanze.

Già a partire dall’epigrafe, il lettore intuisce nel richiamo al nascondimento e alla rivelazione, all’ombra e alla luce, alla presenza e all’assenza che continuamente si inseguono, l’eco del pensiero classico e l’insegnamento di religioni millenarie sul transeunte che permea la realtà: “Noi siamo uno nell’altro nascosti / e ci apprendiamo quale l’uno il nascosto dell’altro. / Alternando, ci mostriamo quando siamo più nascosti / e ci nascondiamo quando più ci mostriamo”. Nell’intenzione gnomica dell’avvertimento, come non ripensare all’oscurità delle formule eraclitee, al “lathe biôsas” di Epicuro, allo svelamento del tempo di Heidegger, all’elogio dell’ombra di Borges, fino alle teorie più recenti della psicanalisi sulla duttilità delle esperienze umane e l’indefinibilità dell’inconscio?

Così nella lettera iniziale, il cui destinatario rimane ignoto (tutti o nessuno, l’io dell’autore o una presenza amata), il tema – ripreso poi nel corso delle pagine – è quello dell’esilio, dell’allontanamento (da sé stessi e dalle origini, dalla società e da asfissianti legami sentimentali) connesso a quello del ritorno, di un rimpatrio, di un rifugio protettivo nell’alveo materno della natura, del corpo femminile, della casa: “L’inermità del riposo richiede la protezione della tana”. Fuga e rientro, inizio e fine, alba e crepuscolo, primavera e autunno si rincorrono nelle immagini e nelle ostentate ripetizioni di alcuni concetti.

Come un mantra ribadito in una nenia tranquillizzante, troviamo infatti la supplica “lasciami entrare” rivolta alla donna salvezza e rifugio, e la continua affermazione della vanità e inconsistenza dell’essere: “niente resterà qui, niente”, “Niente, niente resterà, solo oscurità”, “Resteranno solo ombre, solo ombre”, “la luce senza oscurità è ombra perpetua, tenebra senza luce”. Ombra e penombra alludono alla quiete della sera, quando un inedito ulisse riapproda alla sua itaca abbandonata, cercando l’abbraccio protettivo e accogliente del corpo dell’amata. “Lasciami entrare” viene ripetuto ventitré volte, è una preghiera e insieme una richiesta perentoria a una presenza erotica immateriale, sfuggente e indefinibile e tuttavia persistente. Roccia àncora culla dimora letto. Concretezza e astrattezza insieme, la donna chiamata “amica mia”, moglie fidanzata madre di figli futuri, è soprattutto colei che aspetta, offrendo fiducia e consolazione a chi è andato via e ritorna trasformato, avendo finalmente trovato risposte alla propria inquietudine. Le dichiarazioni d’amore sono insistenti, come la richiesta di un perdono, di una

generosità immeritata: “se io sono partito è perché sapevo che tu eri qui ad attendermi. / Lasciami entrare. Impossibile non pensare l’amore come a una terra”, “la mia sete appartiene al tuo corpo”, “il corpo può continuare ad appagarci nonostante il dolore”, “Le mie mani sono ossessionate da te”.

Dopo la prima sezione che dà il titolo al volume, le due successive (Note sulla melodia dell’acqua e Cartografia della voce) si accentrano su due tematiche fondamentali nella riflessione teorica di Alessandro Anil: l’elemento liquido e il suono. L’acqua trova ancora importanti riferimenti mitologici e filosofici nella tradizione culturale di ogni tempo e latitudine: il fiume Lete che cancella la memoria, lo scorrere inarrestabile del fiume eracliteo, la purificazione del Gange, il battesimo di Cristo, immagini che tutte si riassumono nei versi del poeta: “il fiume misteriosamente dà forma al tempo”, “il rivolo d’acqua negli anni scava la via del ritorno”. L’acqua canta, trasporta melodie, e secondo l’autore “La musica è la tentazione del linguaggio di tornare nell’origine da cui ha dovuto astrarsi per esistere… Se la misteriosa forma del tempo è la musica, siamo il tentativo della materia di trasformarsi in vibrazione, una melodia, un suono che bussa sulla soglia del niente”.  L’ultima breve sezione del volume, è dedicata appunto al suono, alla magia della voce umana come si era espressa dolorosamente in alcuni ricordi infantili, avvicinando il pensiero al buio ineluttabile della morte, o come più gentilmente ha accompagnato la scoperta vitale della rinascita, della bellezza ritrovata in piccoli fiori spuntati al mattino, nel volo notturno delle falene, che rivelano “il dominio della grazia… vita che si ritrova nel minimo, nel nulla quasi essenziale”.

 

© Riproduzione riservata       «Odissea», 2 settembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ANNINO

CRISTINA ANNINO, ANATOMIE IN FUGA – DONZELLI, ROMA 2016

Cristina Annino (Arezzo, 1941) negli anni ’70 aveva dato prove di sé e della sua energica tempra di poetessa pubblicando volumi con editori minori, e diverse e apprezzate plaquettes: nel 1984 era poi uscita una sua raccolta di versi nell’antologia einaudiana Nuovi Poeti Italiani 3, con prefazione di Walter Siti. Che in quell’occasione si era espresso in termini elogiativi e gratificanti sulla sua poesia: «Non posso nascondere la mia simpatia per i testi della Annino, per quel suo ’io’ maschile molto al di là delle zone banali della nevrosi, segnato da una disarticolazione ’estatica’ che in un lampo ci mostra gli spazi e i rapporti svincolati dai pregiudizi della percezione e della personalità».

In quella pubblicazione era presente anche una mia silloge, L’appartamento, e ricordo perfettamente l’impressione che mi aveva fatto la voce perentoria di lei, senz’altro la più originale del volume, al punto che mi ero promessa di rinsanguare sul suo esempio la mia vena poetica, sempre timorosa e troppo limpida, nella decina d’anni d’età che ci dividevano (pio desiderio rimasto tale!).

Dopo molto, prolungato e regale silenzio, ora Cristina Annino pubblica da Donzelli un volume che ripropone parzialmente le poesie di allora, arricchito da altre eccezionali prove. Il carattere della sua scrittura mostra la stessa fierezza, la stessa incisività e concretezza anche dopo tre decenni: anzi, si nota qui una più consapevole adesione alla fisicità del reale, come giustamente suggerisce Maurizio Cucchi nella prefazione, e allo scontro con «il disagio e gli attriti dell’esserci».
In queste Anatomie in fuga è infatti la realtà contingente del vivere (corpi, gesti, facce, dialoghi, rapporti umani, viaggi, oggetti e animali… ) che offre ai versi materia di descrizione, spesso ironica, o turbata, rabbiosa, persino disgustata: «Giacché ogni persona / di questa vita, ogni Cosa / che incontro mi toglie identità, / mi precipita, voglio dire, mi dà crampi / di invidia e non trovo servile essere meno».

Sì, l’invidia, l’odio, l’imperfezione, lo schifo addirittura, sono sentimenti dichiarati e privilegiati, come il disordine e la follia, l’eccesso e l’impazienza, la ribellione e il sarcasmo. Il rifiuto dell’armonia e della sana razionalità, lo sberleffo all’equilibrio e al decoro si manifestano nello stile sempre frantumato, ripido, sintatticamente incoerente. Frequentissimi gli incisi, le imprecazioni, il tono colloquiale basso, i punti esclamativi e interrogativi, le aggettivazioni stranianti, i termini isolati seguiti dal punto fermo, l’alogicità dei nessi, le sovrapposizioni e contrapposizioni.
Non si tratta di velleitario sperimentalismo, piuttosto di un’adesione istintiva agli scarti improvvisi del pensiero e dell’immaginazione. Nei contenuti, poi, nessuna retorica, nessuna elegia, nessun descrittivismo idilliaco: mai paesaggi o panorami, nella poesia di Cristina Annino, e invece una folla di personaggi, raccontati anche sadicamente nei loro tic e difetti, con tanto di nomi veri o fittizi: Diego, Wailer, Lutri, Birghitta, Lusi, mentre il soggetto parlante si fa camaleonticamente sguardo esterno, maschile o femminile, animalesco o artificiale. E ovunque un esibito relativismo ideologico, l’assenza di qualsiasi divinità o fede, lo scherno per ogni ideologia e presa di posizione politico-culturale.

Memorabili paiono alcuni incipit: «Le poesie d’amore le do / in appalto ai droghieri; Ho mal di denti e mi duole la vista; Porto un etto di morte sulla spalla; Fumo albicocca; che altro?». Altrettanto memorabili certe chiuse: «Si girò con fatica di marmo; Ed è morta; Trattava Dio alla pari; E scende muto dalle case afflitte». Là dove potrebbe prendere il sopravvento una qualche tenerezza, come nello straordinario Ottetto per madre, la sterzata correttiva riporta nel giusto binario ogni tentazione di sentimentalismo per la scomparsa della «vecchia canina mamma»: «Una donnina tutta lepre, sveglia, / s’accontenta della giornata e beve acqua / com’una spugna. Ehi, non ho mica cent’anni / per aspettare che te ne vada. Sembri Lazzaro!» Per cui anche il dolore va affrontato chirurgicamente, quasi in un’asettica autopsia degli affetti: «Fuori il sole fa foia. Ma qui! Muore / la mamma come un uccello. / Pari dignità. Bisogna / dirlo, che sta andando via. È tutta / nel becco, tutta lì, tutta vecchie / penne senza più cervello».

Tra le signore della nostra poesia che danno lezione di polemica vitalità, di corposo anticonformismo, di aggressiva energia stilistica (in primis Cavalli, Valduga, Insana), credo che meriti una posizione di primissimo piano proprio Cristina Annino: una bella lezione di forma e sostanza a tanti versificatori più giovani, esangui e banalmente ripetitivi.

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/Anatomie-in-fuga-Cristina-Annino.html      12 maggio 2016

 

RECENSIONI

ANONYMOUS

ANONYMOUS, IL GIARDINO DELLE DELIZIE – ENRICO DAMIANI, SAL0′ 2015

L’elegante editore Enrico Damiani, che pubblica i suoi raffinati volumi di narrativa, arte e sociopolitica sulle rive bresciane del Lago di Garda, ha dato alle stampe un pamphlet anonimo, Il giardino delle delizie, con un sottotitolo allusivamente programmatico: Ovvero l’inganno democratico.

Negli ultimi anni, altri autorevoli politologi e commentatori di costume ci hanno intrattenuto sulla ambivalente e illusoria natura delle democrazie contemporanee (dal giovane vicedirettore de Il Fatto Quotidiano Stefano Feltri a Raffaele Simone), ma questo testo ha la particolarità di giocare letterariamente sul modello del carteggio epistolare settecentesco, proponendo una finzione strategica tra due disincantati intellettuali, impegnati in uno scambio di mail provocatorie e sarcastiche.

I due protagonisti della corrispondenza celano la loro identità sotto le spoglie di Thomas More ed Erasmo da Rotterdam, per discutere, con frequenti sogghigni, dei «fondamenti etici, religiosi, ideologici» della nostra democrazia, presieduta da «chierici mercantil-finanziari» che hanno «ridotto alla condizione di sudditi quelli che un tempo erano soggetti, trasformato diritti in obblighi, corvée, servitù». Gli strali dei due amici, legati tra loro da «comuni interessi filologici», si rivolgono con «inferocito fastidio» all’attuale deriva delle istituzioni democratiche, definite «follia, regime, incubo, naufragio; reality senza testo, regia, scopo; strage idiota di ogni bellezza e intelligenza; miserabile snervante ossessione umanitaria; decorosa spoglia progressista della boutique liberal-democratica», in un crescendo rabbioso di accuse rivolte contro chi impone al popolo, collettivamente e individualmente, il rispetto di una norma e di una morale uguale per tutti.

Per “Tom” ed “Er” la democrazia mondiale mira a «farci buoni, progrediti, tolleranti, multietnici», in realtà togliendoci ogni libero arbitrio, e violentandoci nell’intimo, limitandoci nei nostri desideri più legittimi, manipolando le nostre coscienze. In che modo? Attraverso i media, la religione, la psicanalisi. Freud ha preteso di razionalizzare l’assurdo, di «imbrigliare gli Dei», sacrificando ogni pulsione individuale per il bene della Società. E tutto il pensiero occidentale, a partire dalla Genesi per arrivare all’Apocalisse (attraverso i tragici greci, i filosofi utopistici e il marxismo) ha condizionato il libero espandersi della natura umana, il suo spirito alato, la sua ansia di libertà, il suo anticonformismo. A vivacizzare la corrispondenza tra i due intellettuali (che riprende, annacquandole, tesi non nuovissime: da Leopardi a Schopenhauer a Nietzsche…) si inserisce il contributo di una psicosessuologa, Ewa Von Kunt, che dal pulpito di una sua rubrica televisiva (“Perdersi”) esalta il ruolo del piacere sessuale, del godimento, della ribellione al potere castrante del Padre. Forse solo così, secondo lo sghignazzante Anonymus, l’umanità potrà liberarsi dal giogo asfissiante della democrazia, rifondando un suo liberatorio Giardino delle Delizie.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/giardino-delizie-Anonymous.html    23 febbraio 2017

 

 

RECENSIONI

APRILE

GUGLIELMO APRILE, APPUNTI EOLIANI – FARA, RIMINI 2024

Scandita in sette sezioni, la raccolta Appunti eoliani di Guglielmo Aprile (Napoli 1978) si offre al lettore in una scabra e severa verità, assunta dalla durezza dell’argomento affrontato, e dalla sua originale consistenza. Quanto di più duro e durevole, infatti, della roccia? Della sua costante stabilità, e persistente indifferenza? Al mondo minerale sono dedicati i versi del poeta, che a esso si adeguano

in ponderata classicità, scalpellati in un lessico privo di stratagemmi o virtuosismi sperimentali, e in una metrica sostanzialmente tradizionale che però affida alla spietatezza dei continui enjambements il suo ritmo accanito.

Guglielmo Aprile si confronta con l’immutabilità dei sassi, degli scogli, con l’eternità di cielo e mare nel paesaggio solenne ed essenziale delle isole Eolie, e ne assimila l’austera segretezza. Delle rocce intuisce vibrazioni nascoste, vita palpabile che le rende simili alle creature animate, e in primo luogo a se stesso, al suo corpo “che si fa alga o pomice”, alla sua memoria, al suo interrogarsi sul destino umano e non umano: “io levo con lo sguardo un muto appello / e ad uno ad uno i vostri volti interrogo: / chi siete e chi sono io, qual è l’essenza / del vento, della pioggia, come nacquero / le lune, le montagne, i boschi; e a tratti / ho l’illusione che nei blocchi inerti / quasi un sussulto, un fremito si agiti / e che, dentro la pietra, delle bocche / si disegnino, a poco a poco: bocche / che stiano per parlarmi, che potrebbero / sciogliere un qualche oracolo, concedere / solo a me una risposta, rinnegando / il silenzio, il divieto che le tiene / da millenni nel sonno imprigionate”.

La personalizzazione del mondo minerale inizia già dal titolo della prima sezione, “Ha un’anima la pietra”, in cui sassi rocce scogli vengono osservati con stupefatta tensione, riconoscendo nelle loro grinze, negli squarci, negli ammassi i lineamenti di facce familiari: bocche si animano, occhi si spalancano con l’intenzione di comunicare qualcosa di essenziale, un segreto o forse un’ammonizione, l’avvertimento di un pericolo che sovrasta l’inconsapevole regno animale, l’innocente regno vegetale. Le pietre hanno anime e volti, “volti” citati ben diciassette volte nella raccolta, “sfigurati… esangui, stremati”, nati dal moto ondoso e subito costretti in forme immobili, “convertiti / in capricciose sculture che ostentano / fiere posture michelangiolesche”, “statue di calcare…immobili erme mute”. Rocce nate dal movimento del mare, affiorate da vortici di sabbia, che dai loro profili scolpiti in millenni di vento, pioggia, salsedine, fanno emergere sagome di titani, musi equini, erinni scomposte, opliti precipitati da alte rupi, danzatrici sacre, forzati rinchiusi nelle stive di una galea che sta per affondare. Migliaia di corpi vivi in un passato lontano sono rimasti bloccati in pose immutabili per chissà quale ingiusta sentenza, diventando fossili, pareti o dirupi incapaci di urlare la loro rabbia, la loro sofferenza: “Macigni condannati – è in voi che tutto / il dolore del mondo si è rappreso:/ nei vostri volti di tufo si è fatto / universale archetipo e ci parla”.  L’idea di una crudele violazione patita dai minerali inerti, viene ribadita in maniera ossessiva in moltissime poesie ad amplificarne la valenza emotiva, con il rischio tuttavia di renderla meno drammatica e pregnante, pur nella sua innegabile seduzione.

La terminologia a cui ricorre Aprile nella descrizione dell’arcipelago eoliano è consapevolmente puntuale (falesia calanchi frane calcare tufo magma granito basalto silice pomice megaliti obelischi bastioni) anche quando si apre a scenari meno materiali e concreti, più legati alla meteorologia, alla cosmologia e alla paesaggistica, o si infiamma in visioni mitologiche e leggendarie, in ricostruzioni storiche. Il poeta si fa archeologo, cartografo, esploratore e insieme veggente, illusionista. Affascinato dalle architetture naturali degli scogli, vede in esse draghi ed eserciti, asceti e divinità zoomorfe, re barbari e vestali, testimoni di un passato irrecuperabile, da cui sono stati strappati con cieca e ingiusta violenza. In attesa di venire di nuovo distrutte da qualche rovinosa forza naturale (un’eruzione, un diluvio o un sisma che le ridurrà a polvere, sprofondandole nel mare), le pietre appaiono fisse in espressioni corrucciate o furenti, desiderose di riscatto e di vendetta. Chi le osserva, scheggiate e percosse da marosi e turbini di vento, le paragona a mostruose figure di vegliardi sofferenti: “Sono mani di vecchi, certi scogli: / butterate da lividi e da nodi, / serrate a pugno, in atto di colpire, / rattrappite in posture innaturali / dall’artrosi, ustionate dalla lava / o corrose da un acido; monconi / deformati, dalle falangi rigide / come tese in un urlo o in uno spasmo, / dalle nocche che sporgono, rigonfie, / dalle palme spellate”.

Nelle sue estati siciliane, Guglielmo Aprile raggiunge le isole perlustrando in solitudine, lontano dal chiassoso consesso dei mortali, spiagge e anfratti (“vado in cerca / di luoghi ignorati dall’uomo, vergini:/ a piedi o a nuoto, a rischio di smarrirmi”, “cerco un angolo in cui sparire al mondo”, “Quasi un’ebbrezza, immergermi in queste acque: / non mi importa più di tornare a riva, / non ho più nessun vincolo con gli uomini”), in una segreta fratellanza con gli elementi naturali. Attratto dalla natura selvaggia e misteriosa di Stromboli e Vulcano, avverte nel frequentarle un silenzioso ammonimento a non offendere la loro scontrosa riservatezza, superando la soglia minacciosa di una potenza infera che potrebbe risucchiarlo e trasformarlo in materia sconosciuta.

L’animismo di cui il poeta riveste i minerali, i vegetali, il paesaggio terrestre e cosmico, rimanda filosoficamente alla teoria delle corrispondenze universali, “in cui credevano Swedenborg e gli alchimisti rinascimentali”, secondo quanto da lui stesso dichiarato. “Hanno, al pari degli uomini, pensieri / anche la pietra e il vento, anche l’olivo / e la ginestra, ha ogni cosa un’anima / e la esprime in un codice segreto”.

Al regno minerale che nasconde nel profondo un cuore pulsante, nel testo finale esprime un ringraziamento e una preghiera, insieme al vivo sentimento di sacralità e meraviglia per il gratuito regalo della benevolenza divina: “Pietre guerriere, insegnatemi voi / a resistere ai venti e al loro oltraggio, / voi più longeve del mio breve sangue; / e che mi sia il vostro orgoglio da esempio, / infondete anche in me un po’ del coraggio / con cui sf idano i vostri corpi il tempo”.

Rispetto alla nostra produzione poetica attuale, così spesso angusta nelle sue narcisistiche e tormentanti ambasce, e nelle tanto applaudite pubblicazioni in cui un ecologismo di maniera si risolve in filastrocche cantilenanti, il libro di Guglielmo Aprile indica un percorso originale di pensiero e illuminazione, proponendo una visionarietà immaginosa, intensa, sapiente.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 4 novembre 2024