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RECENSIONI

KEATS

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KEATS

JOHN KEATS, LA VALLE DELL’ANIMA. LETTERE SCELTE 1815-1820 . ADELPHI, MILANO 2021

Di John Keats (Londra,1795 – Roma,1821), unanimemente considerato uno dei massimi poeti romantici, Adelphi pubblica, con il titolo La valle dell’anima, la più ampia scelta delle lettere mai edita in Italia, a cura di Alessandro Gallenzi.

Cinque anni, dal 1815 al 1820, di vertiginoso, febbrile epistolario, che – oltre a documentarci nella maniera più completa e veritiera sull’esistenza quotidiana del poeta – ci fornisce preziose indicazioni sulla sua produzione poetica, e sull’estetica che ne è sottesa. In esso Keats rivela, attraverso una prosa contraddittoriamente raffinata e colloquiale, frizzante e ponderata, compita e familiare (talvolta addirittura approssimativa nella sintassi e nella grammatica), ogni emozione, paura e aspirazione, l’amore tormentato e passionale per Fanny Brawne, l’affetto per i fratelli e gli amici, l’arguta considerazione per i poeti coetanei Hunt, Reynolds, Shelley. Ma non si limita a un colloquio circoscritto ai sentimenti, poiché spesso travalica la contingenza comunicativa per affrontare argomenti filosofici, valutazioni di profondo spessore critico, bozzetti satirici e resoconti di viaggi, inframmezzati da poesie di ogni tipo: ballate, sonetti, stralci di tragedie, canzoni, odi, epistole in versi. La grafia, costretta a sfruttare ogni spazio offerto dai fogli onde evitare lo spreco di carta, è fitta e nervosa; lo stile vigoroso, perennemente esaltato, ricco di intuizioni folgoranti. Egli stesso è consapevole di una certa trasandatezza formale, dell’eccitata incoerenza che lo porta ad affastellare vari temi e impulsi, e così se ne giustifica con gli amici: “Continuo a saltare di palo in frasca…”, “Quando scribacchio una lunga lettera, devo essere in grado di seguire i miei ghiribizzi… di essere pesantissimo o leggerissimo per pagine intere… di essere bizzarro e immune da tropi e figure… di poter giocare a dama come voglio…”.

I primi due anni di corrispondenza sono perlopiù dedicati all’esuberante e briosa descrizione dei viaggi intrapresi nel Galles, in Scozia, in Irlanda, nelle isole di Wight e di Staffa, in cui ammirate raffigurazioni naturali di boschi, laghi, brughiere si mescolano a osservazioni pungenti sugli abitanti e sui loro costumi, e all’elenco puntuale di incontri, cene, lunghe camminate. Al culto del sublime si contrappongono commenti più banali e il gusto di battute grossolane, ma anche la consapevolezza che quel lungo vagabondare a piedi avrebbe arricchito la sua anima e la sua scrittura: “Anche prima di vederli, si possono ben immaginare i grandi spazi, la vastità dei monti e delle cascate, ma la loro fisionomia, le loro tonalità spirituali superano ogni potere immaginativo e sfuggono al ricordo. È qui che imparerò la poesia… e d’ora in poi scriverò sempre di più, nel tentativo poco concreto di aggiungere un minuscolo contributo a quella mole di bellezza che le più eccelse menti traggono da questi grandiosi materiali, dando       vita a qualcosa di celestiale per dilettare i propri simili”.

Qualsiasi esperienza vitale serve a Keats da arricchimento e sprono alla produzione poetica. La riflessione sulla poesia è infatti il tema più appassionatamente ribadito, poiché nella sua visione ideologica ed esistenziale, scrittura e vita si identificano completamente; alla propria opera il poeta ha il dovere e il compito di dedicare ogni attimo delle sue giornate, sacrificando qualsiasi soddisfazione materiale, anche pagando con la solitudine, il fallimento professionale, l’incomprensione sociale, la povertà, pur di farsi portavoce dell’Assoluto, della Bellezza, della Verità. Nelle due composizioni in versi che aprono l’epistolario, dirette all’amico George Felton Mathew e al fratello George così scrive: “Potessi dedicare ogni mio istante        /       alla musa restia, vivrei distante / da questa città buia e insieme a lei   /         senza riserve mi diletterei”, “Ma a chi ama l’alloro a volte avviene /   di riuscire a scordare le sue pene: / abbagliato, non pensa che ci sia – / nell’acqua, in terra e in aria – che poesia”. Il poeta, devoto all’immaginario, all’estasi e alla trascendenza, annulla se stesso nell’invenzione. Solo così la poesia può nascere sorgiva, spontanea, naturale: “La mia immaginazione è un monastero, di    cui io sono il monaco”, “Ho pensato così tanto e così a lungo e di continuo alla poesia che la notte        non riuscivo a dormire”, “Sento di non poter esistere senza poesia… senza la poesia eterna”, “La cosa bella della poesia è che rende interessante tutto, tutti i luoghi”.

Sacerdote di un esperire visionario, di una verità archetipica nell’ombra, Keats si dichiara pronto a immolarsi sull’altare della poesia (“Ammiro la natura umana, ma non mi piacciono gli uomini… voglio scrivere cose che facciano onore all’uomo, ma su cui non possano mettere le grinfie gli uomini”). Lo anima ed esalta un ardente desiderio di gloria e fama immortale, nella compiaciuta consapevolezza della propria grandezza: “Considererò sempre gli altri   debitori verso di me per le mie poesie, non   io verso di loro per la loro ammirazione… cosa di cui   posso fare a meno”. Eppure, le difficoltà della vita materiale e la fragilità fisica spesso minano le sue sicurezze, angosciandolo: “Dentro di me spunta di tanto in tanto un terribile temperamento morboso… Sono convinto che se ne avessi avuto la possibilità sarei stato un angelo ribelle”.

Fonte principale d’ispirazione è l’amore per Fanny Browne, cui indirizza trentasette lettere, tra il luglio del 1819 e l’agosto del 1820, ribadendo ossessivamente i suoi sentimenti di dipendenza affettiva, di ansia di possesso e fusione, di gelosia: “Non avevo mai conosciuto un amore come quello che mi hai fatto provare. Non       credevo che esistesse: lo immaginavo con terrore, te mendo che potesse consumarmi del tutto”, “Non riesco a vivere senza di te. Dimentico ogni altra cosa… penso solo a rivederti… Mi assorbi del tutto. Sarei pronto a morire per te. Il mio credo è l’amore, e tu sei il suo unico dogma”, “Mia adorata, io ti amo di un amore eterno, senza riserve. Più ti conosco e più ti amo… Persino la mia gelosia è un tormento d’amore: persino quando ne ero accecato avrei dato la mia vita per      .te…Tu sei sempre nuova ai miei occhi. Il tuo ultimo bacio è sempre il più dolce, il tuo ultimo sorriso il più splendente, il tuo ultimo gesto il più    grazioso”, “Rassicurami, amore mio. Se non avrò qualche rassicurazione, morirò di dolore. Se è vero che ci amiamo, non dobbiamo vivere come gli altri uomini e le altre donne”. L’ultima commovente missiva così si conclude: “Il fatto è che non posso lasciarti, e non potrò mai assaporare un minuto di gioia se il destino non mi consentirà di vivere insieme a te per sempre… Nonostante questo, sono contrario a incontrarti. Non posso sopportare di essere abbagliato e poi tornare di nuovo nelle mie tenebre… Vorrei tanto stare fra le tue braccia pieno di fiducia o essere colpito da un fulmine. Che Dio ti benedica, J.K.”.

Sentimenti di profondo affetto, stima e confidenza uniscono il giovane letterato agli amici più cari: Brown, Bailey, Haydon, Taylor, Dilke, Severn (“Ho molti buoni amici disposti ad aiutarmi… e quindi sono tenuto ancor di più a stare attento ai soldi che mi       prestano”). Degli amatissimi fratelli George, Tom e della sorellina Fanny scrive: “L’amore per i miei fratelli, a causa della prematura perdita dei nostri genitori e anche di sventure precedenti, si è trasformato in un sentimento più dolce dell’amore delle donne”.

Altro motivo affiorante con la stessa trepida insistenza e affezione è quello della morte, percepita come vicina e inevitabile. Struggente ci appare l’ultima lettera diretta all’amico Charles Brown da Roma, il 30 novembre 1820: “Ho la costante sensazione che la mia vita reale sia già passata e che stia vivendo un’esistenza postuma… continuo a pensare che moriremo tutti giovani… Se dovessi guarire, farò il possibile per rimediare a tutte le cose che ho mancato di fare durante la malattia… in caso contrario, mi verrà tutto perdonato…. Riesco a malapena a dirti addio, persino per lettera. Sono sempre uscito con un goffo inchino. Che Dio ti benedica!”

Queste lettere, che T.S. Eliot definì “le più straordinarie e importanti che siano mai state scritte da un poeta inglese”, costituiscono secondo il curatore del volume Alessandro Gallenzi “un’autobiografia spirituale”, da cui emerge “la figura di un giovane generoso, socievole, in continuo fermento e in costante trasformazione, insoddisfatto e consapevole dei propri limiti, incessantemente alla ricerca del bello e della perfezione poetica”. Il letterato classicheggiante, solenne, marmoreo dell’Endimione e dell’Iperione, trova in esse una dimensione più profondamente umana e spontanea, ricca di sfaccettature, incongruenze e idiosincrasie. Un epistolario privato che, forse aldilà delle intenzioni dell’autore, ha assunto in due secoli la levatura e l’importanza di capolavoro, al pari della sua celebrata produzione in versi. Tanto maggiormente opportuna, quindi, la proposta di Adelphi, che ha saputo valersi dell’ottima traduzione (particolarmente felice nelle versioni poetiche) di Gallenzi, che in sessanta pagine di note puntuali e scrupolose ha fornito al lettore vitali strumenti di conoscenza e interpretazione.

 

© Riproduzione riservata              «L’Indice dei Libri del Mese” n. 5, maggio 2022

 

 

 

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KELLER

GOTTFRIED KELLER, LETTERE D’AMORE TRADITE – ELLIOT, ROMA 2015

Di Gottfried Keller (1819-1890), il più famoso scrittore svizzero dell’Ottocento, l’editore Elliot ha pubblicato nel 2015 un romanzo breve molto godibile, Lettere d’amore tradite, che unisce in sé i caratteri dello studio sociale, dell’introspezione psicologica e della commedia degli equivoci.

Il racconto esplora ironicamente i meandri dell’animo smanioso e risentito del protagonista, il commerciante Viktor Störteler, chiamato da tutti Viggi, sposato con una signora semplice e gentile, Gritli, soddisfatta del tranquillo ménage domestico e dell’esistenza piccolo borghese nel paesino di Seldwyla.

A differenza delle scarse ambizioni sociali della moglie, Viggi nutre tormentanti aspirazioni letterarie, una smodata brama di successo e di riconoscimenti culturali. Inizia a redigere alcuni saggi di costume, che invia a riviste locali, senza riceverne alcun riscontro. Passa allora a scrivere con lo pseudonimo di Kurt Dalbosco racconti che di tanto vengono pubblicati sui giornaletti della provincia, gonfiandolo di borioso orgoglio. Frequenta circoli di aspiranti artisti, riuniti nei locali pubblici della zona, tutti impegnati a commentare reciprocamente le proprie composizioni, con la speranza di ottenere imperitura fama nel mondo delle lettere. Nel tempo libero dal lavoro che lo porta spesso a girare per il cantone di Berna, Viggi si dedica all’osservazione puntuale delle persone, dei luoghi, della natura circostante, cercandovi ispirazione e prendendo appunti su un taccuino per una successiva rielaborazione formale. Si fa crescere i capelli e inforca sul naso occhiali con lenti di vetro, convinto così di assumere un aspetto più intellettuale. Ovviamente, diventa senza accorgersene oggetto di scherno per gli abitanti del paese, ma continua imperterrito a produrre articoli e novelle, nella convinzione di poter ottenere la meritata popolarità.

Improvvisamente gli attraversa la mente una luminosa idea: quella di includere l’ingenua mogliettina Gritli nella sua attività letteraria, utilizzando la formula dell’epistolario amoroso. Cerca pertanto di coltivare l’istruzione della sua sposa, imponendole approfondite letture filosofiche. Alla spaventata e sprovveduta donna il compito risulta da subito arduo e deprimente, in particolare quando il marito inizia a inviarle pretenziose lettere d’amore pretendendo da lei risposte stilisticamente adeguate.

Sentendosi incapace di esaudire le pretese di Viggi, Gritli escogita quindi un sotterfugio per uscire dall’umiliante situazione in cui si trova costretta. Il vicino di casa Wilhelm, un giovane maestro timido e introverso, affascinato dalle donne che non riesce ad avvicinare per un opprimente complesso di inferiorità, le sembra lo strumento più appropriato cui ricorrere per salvarsi. Ricopiando le lettere del marito e modificandone intestazione, suffissi e pronomi, fa credere al giovane che siano messaggi d’amore diretti a lui, e ne riceve di rimando risposte eleganti e appassionate. Di nuovo intervenendo sui testi, invia l’epistolario, sempre più fitto e intenso, a Viggi, che rimane commosso e grato.

Quando per un caso fortuito l’inganno viene alla luce, i rapporti tra i due coniugi diventano tesissimi, arrivando addirittura a un processo e al successivo divorzio. Ma mentre Gritli vive con dignitoso sollievo la separazione, Viggi sconta a caro prezzo il suo presuntuoso maschilismo. Finisce infatti per risposarsi con una donna avida e lagnosa, e per sfuggire dalle grinfie di lei si immerge con sempre maggiore testardaggine nelle sue insulse composizioni. L’unica persona che trae vero profitto da tutta questa vicenda è il giovane maestro Wilhelm, che allontanato dall’insegnamento per lo scandalo di cui era stato inconsapevole protagonista, finisce per dedicarsi con successo all’agricoltura e alla meditazione, creandosi nei dintorni la fama di eremita dispensatore di saggezza e spiritualità. E poiché tutto è bene quel che finisce bene, il romanzo di Gottfried Keller si conclude, secondo i canoni della narrativa popolare ottocentesca, in maniera inaspettata e romantica, che spetterà all’eventuale lettore scoprire.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net        31 luglio 2023

 

 

 

 

 

RECENSIONI

KENNY

ANTHONY KENNY, UN AFFETTUOSO ADDIO ALLA CHIESA – CAROCCI, ROMA 2016

Anthony Kenny (Liverpool, 1931), figura di spicco del pensiero filosofico inglese, è stato presidente della British Academy e vicerettore dell’Università di Oxford. Su invito dell’editore romano Carocci ha scritto Un affettuoso addio alla Chiesa, un’autobiografia esplicitamente realizzata per il pubblico italiano. Non si tratta, in verità, solo della puntuale rivisitazione degli avvenimenti della sua lunga vita, ma anche di una riflessione approfondita e partecipe sul cattolicesimo contemporaneo e sul futuro della Chiesa.

Nella prima parte del volume l’autore si sofferma sulle vicende, piuttosto tormentate, della sua infanzia: presto orfano di padre, cresciuto dalla mamma e da uno zio prete, fu spinto dalla sua indole riservata e meditativa, e dai suoi interessi precocemente culturali, a entrare in seminario, dove percorse tutto il ciclo degli studi inferiori e secondari, in un regime educativo rigoroso e sessuofobo ma altamente qualificato.
Inviato dai superiori a Roma per completare gli studi di teologia all’Università Gregoriana, Anthony Kenny fu ordinato sacerdote a ventiquattro anni, e quindi indotto a specializzarsi ulteriormente con un duplice dottorato in linguistica sia in Italia sia a Oxford. Proprio in questo periodo, in cui era assorbito in studi di prestigioso livello, iniziarono a tormentarlo i primi dubbi sull’effettiva veridicità di alcuni dogmi della Chiesa (la transustanziazione nell’eucarestia, l’infallibilità del papa) e sulla sua dottrina sociale (le direttive sul comportamento sessuale), e addirittura sull’esistenza stessa di Dio, come essere onnipotente, onnisciente, onnipresente, secondo le cinque prove addotte da Tommaso d’Aquino. “Una mente divina sarebbe una mente senza storia. Nel concetto di mente che applichiamo agli esseri umani il tempo rientra in vari modi; ma in Dio non c’è variazione, né ombra di cambiamento. Dio non cambia idea, non impara, non dimentica, non immagina, non desidera… Se è solo alle creature corporee quali noi siamo che si può attribuire una qualunque attività mentale, come possiamo ritenere sensata l’idea di un ente divino, incorporeo e indifferente?”

Convintosi a soprassedere alle sue inquietudini spirituali, Kenny accettò poi l’incarico di curato presso una parrocchia di Liverpool, “famosa per il degrado urbano e il disordine civile”. Ma anche la frequentazione quotidiana sia del clero sia dei fedeli cattolici contribuirono a minare la sua fede, scossa dall’osservazione di un fariseismo e di un affarismo diffusi, ben lontani dall’insegnamento evangelico. Per tali motivi, nel 1964 chiese la riduzione allo stato laicale. “Avevo portato un tale sconquasso nella mia vita che sentivo di non potere più aspettarmi di essere felice. Ma almeno non ero più un ipocrita”.

I suoi timori di aver deluso parenti, amici e la comunità dei credenti con la rinuncia al sacerdozio venne però smentita dai fatti, e la sua esistenza così rivoluzionata conobbe un’improvvisa, inaspettata felicità. Non solo ottenne un gratificante incarico di insegnamento a Oxford, ma iniziò a pubblicare saggi filosofici di successo, e soprattutto conobbe e si innamorò di una cantante americana con cui convolò presto a nozze, e da cui ebbe due figli. Immediatamente scomunicato dalla Chiesa, non si rinchiuse tuttavia in uno sterile e rancoroso atteggiamento di ribellione, rimanendo invece aperto al confronto e a una sincera constatazione dei meriti del cattolicesimo: “Una delle cose per cui ancora oggi sono grato dell’insegnamento ricevuto da giovane cattolico è la nozione di sistema morale, in contrapposizione a quell’economia del benessere che molti pensatori spacciano per moralità”.

Se già tutta questa prima parte del libro è scritta in uno stile pacatamente denotativo, quasi impersonale, nella seconda parte Kenny esibisce una scientificità argomentativa del tutto essenziale e obiettiva, sia quando tratta gli argomenti teologici più coinvolgenti (storicità di Gesù, resurrezione, veridicità delle Sacre Scritture, sacramenti, autorità pontificia), sia quando discute le indicazioni più concretamente politiche della Chiesa (contraccezione, aborto, omosessualità, pena di morte, eutanasia, ordinazione sacerdotale delle donne). Rimanendo sempre serenamente coerente con la sua dichiarazione di agnosticismo, “posizione di chi non sa se Dio esiste oppure no. Un’affermazione di conoscenza ha bisogno di essere verificata; l’ignoranza ha solo bisogno di essere ammessa”.

 

© Riproduzione riservata   

www.sololibri.net/affettuoso-addio-Chiesa-Kenny.html               20 agosto 2016

 

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KERANGAL

MAYLIS de KERANGAL, LAMPEDUSA – FELTRINELLI, MILANO 2016

Maylis de Kerangal, autrice francese di successo (Tolone, 1967), dopo i molti riconoscimenti ottenuti nel 2014 con il romanzo Riparare i viventi, storia dolorosa di un trapianto cardiaco, ha pubblicato questo pamphlet, Lampedusa, scritto su commissione per un festival turistico, che in francese si presentava con tutt’altro titolo (Á ce stade de la nuit): titolo senz’altro più indovinato di quello scelto dalle edizioni Feltrinelli. Sì, perché il nome dell’isola – che subito richiama emotivamente il lettore alla tragedia degli sbarchi dei migranti – e l’immagine del mare in copertina, in realtà c’entrano poco con il contenuto del testo, tutto ruotante intorno alle fantasie notturne (letterarie, visionarie e geografiche) dell’autrice. La quale, la notte del 3 ottobre 2013, mentre da sola sorbisce una caffè in cucina, rimane colpita dalla notizia radiofonica dell’affondamento di un barcone a due chilometri dall’isola siciliana, e dalla conseguente morte di oltre trecento persone.

La sua attenzione emotiva e intellettuale, tuttavia, più che alla strage di quegli innocenti, corre subito al film di Visconti Il Gattopardo, tratto dal romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e al suo protagonista Burt Lancaster («Corpo atletico, mascella squadrata, naso dritto, sorriso leggendario – pelle bianca, salute, ottimismo, volontà di potenza»). Da questa seduttiva immagine virile, si trasferisce poi per analogia a un altro film recitato dallo stesso attore, The swimmer, che condivide con la prima pellicola «lo stesso splendore del corpo». Di fantasia in fantasia, Kerangal, appena distratta dalla voce dello speaker che fornisce altri drammatici dettagli sul naufragio, si attarda a descrivere i propri viaggi, gli incontri, le letture, le riflessioni culturali e antropologiche, rimembranze giovanili, riservando alle ultime e scarne tre paginette finali qualche empatica considerazione sui disastri umanitari che hanno fatto di Lampedusa una martire mondiale della solidarietà umana.

E se c’è qualcosa da aggiungere sullo stile di questo volumetto, forse è la tendenza comune a molta narrativa (e, ahinoi!, poesia) contemporanea di attardarsi in sterili elencazioni o classifiche di oggetti, azioni, toponimi, personaggi letterari o cinematografici, quasi a voler colmare vuoti di interesse nel lettore, o cali di ispirazione in chi scrive. Ad esempio, quando la protagonista cerca affannosamente una sigaretta nel cassetto per placare la sua tensione, si sente in dovere di comunicarci tutto quello le capita tra le mani: «bottoni, pennarelli secchi, resti di Playmobil, campioncini di crema emolliente, bustine di zucchero raccattate al bar, un cucchiaio antico, biglie, gomme americane, un telefonino morto, Kleenex…», e così via per una paginetta. Oppure, ancora: «continente, oceano, nazione, mari, fiumi, capitali, catene montuose e vette celebri, deserti, città…». E di nuovo: «mi accovaccio, sollevo, giro, sposto, divido, riaccatasto, crolla tutto…». Infine: «Calipso, Napoleone, Capitan Nemo, Edmond Dantès, Marlon Brando, Finbarr Peary, Adele H…».

E la povera Lampedusa? Puro pretesto letterario.

 

«Lo Straniero» n.146, ottobre 2016

 

 

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KERENYI

KÁROLY KERENYI, NEL LABIRINTO – BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2016

Di uno dei maggiori antropologi, filosofi, storici delle religioni antiche del Novecento, l’ungherese Károly Kerényi (1897-1973), Bollati Boringhieri pubblica un importante volume che raccoglie sei studi, introdotti da un’erudita prefazione di Corrado Bologna.
L’immagine enigmatica e affascinante del labirinto ha attraversato un po’ tutte le culture mondiali, dalle epoche primitive a quelle moderne, sia negli aspetti religiosi e rituali, sia in quelli artistici e psicologici. Nel labirinto, quindi, ritroviamo specchiati i nostri incubi e i percorsi interiori, discese agli inferi e ascensioni verso la luce e la libertà; metafora stessa dell’esistenza – dei suoi inganni, traviamenti, recuperi, approdi – il labirinto può indicare, nella sua complessità, sia un processo mitologico-iniziatico, sia un percorso dialettico-filosofico, sia una strategia politica, o una rappresentazione simbolico-iconografica.

Il primo e più importante studio presentato in questo volume fu scritto nel 1941, gli altri sono contributi e interventi occasionali, tesi ad arricchire le idee-base di quel lavoro inaugurale. E di tali idee-base la più essenziale e fondante risiede nell’intuizione che il viaggio labirintico sia una ricerca, un progetto di attraversamento, una sfida nell’immersione del buio verso una via d’uscita, un affondamento nella morte per riemergere alla vita.
Il labirinto, di cui troviamo traccia già in epoca primitiva e in tutti i continenti, più che costituire un problema dal punto di vista scientifico, si presenta in realtà come un mistero: non solo reperibile a Cnosso, quindi, con Minosse-Teseo-Arianna, ma anche in Mesopotamia, Nord Europa, Africa, India, Italia, Nuova Zelanda… Non indica solamente una discesa nel mondo degli inferi, ma può rispecchiare la raffigurazione anatomica delle viscere umane e del grembo materno, la descrizione della planimetria di un edificio, la traccia di danze rituali, o un’esperienza di giochi infantili. Si tratta di un simbolo antichissimo, che è stato recuperato persino dalla cristianità e che possiamo scoprire nella pavimentazione di molte chiese e cattedrali, probabilmente utilizzato come percorso penitenziale.

Se la sua configurazione principale è quella della spirale (e il volume ce ne offre un’ampia galleria fotografica), lo troviamo disegnato anche in forme più geometriche e ondeggianti, in meandri che sempre suggeriscono l’idea di una linea senza fine. Come uscirne, come ritrovare il varco verso la libertà? O volando, come fece Dedalo, primo costruttore del mitico labirinto di Cnosso, o seguendo un filo, sull’esempio di Teseo (non sarà un caso, quindi che le antiche danzatrici greche accompagnassero i loro passi tenendo tra le mani una fune).
In ogni modo, secondo Károly Kerényi caverne e labirinti indicano sempre qualcosa di mortale e mortifero, un imprigionamento, un’oscurità e una condanna: mentre la danza e il volo simboleggiano la vita, la leggerezza, l’apertura verso la verità.

 

© Riproduzione riservata        

www.sololibri.net/Nel-labirinto-Karoly-Kerenyi.html      13 ottobre 2016

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KEROUAC

JACK KEROUAC, MEXICO CITY BLUES – GUANDA, PARMA 1978

Jack Kerouac è uno dei narratori più conosciuti della “beat generation” americana, per il suo On the road, storia di un viaggio-vagabondaggio attraverso gli Stati Uniti. Ma, come poeta, Kerouac è stato spesso snobbato dalla critica, e poco tradotto anche da noi, nonostante la sua poesia metta in evidenza temi e formule tipiche della sua produzione letteraria. Recentemente è stata pubblicata una scelta di poesie dal Mexico City Blues, da lui scritto nel ’55, spesso sotto l’influsso della droga. La droga, infatti, l’esaltazione del trip, dello sballo, è uno degli elementi che stanno alla base di queste composizioni. Altri temi sono quelli che ritornano anche nei romanzi: la polemica contro la società americana e la sua cultura (sia quella di massa sia quella accademica), il conservatorismo politico, la ritualizzazione della vita di gruppo, l’elogio della sregolatezza e della pazzia. L’irrazionale è insieme un punto di arrivo (ci si arriva infatti liberandosi dall’etica e dalle strutture borghesi, quindi con la fuga dal lavoro, dai doveri, dalle convenzioni) e un punto di partenza, il primo passo verso il misticismo, per arrivare a dio o al sogno o alla morte. Lavorando su questi motivi, la beat generation si è bruciata, e oggi sa dirci ben poco, forse perché come scrive Carlo Corsi nell’introduzione al libro: «L’elemento irrazionale fa sempre il gioco del sistema e artisticamente non è mai stato di per sé creativo». Però della dissacrazione operata sui testi da questi poeti è rimasto parecchio: per esempio il connubio poesia-musica, o quello poesia-oralità. Questi di Kerouac sono “refrain” che si rifanno alla tecnica jazzistica dell’improvvisazione su uno stesso tema, usando un ritmo ossessivo costruito sulla dimensione psico-fisica dell’autore, sulle sue allucinazioni.

33esimo refrain:

Una vasta caverna,uh? / Mi fermo & salto in altro campo / E voi vi trascinate / Come prigionieri giapponesi / In Salt Lake Cities / Nel disastro delle fogne /di San Francisco. / “Un esploratore di cuori e città” / “Uno sballato schifoso / Che ha scoperto / che l’essenza della vita / si trova solo nella pianta di papavero / con l’aiuto dell’odio / il tossicomane esplora / il mondo daccapo / e crea un suo mondo / a sua immagine / con l’aiuto di Madama / Papavero / Sono un idealista / che ha superato / il mio idealismo / non ho niente da fare / per il resto della vita / tranne che farlo / e il resto della vita / per farlo”.

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 11 luglio 1978

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KEUCHEYAN

RAZMIG KEUCHEYAN, I BISOGNI ARTIFICIALI – OMBRE CORTE, VERONA 2021

L’ultimo volume di Razmig Keucheyan pubblicato in Italia si intitola I bisogni artificiali, e riporta un sottotitolo esplicativo: Come uscire dal consumismo. Keucheyan, nato in Svizzera nel 1975, è docente di sociologia all’Università Paris-Descartes. Famoso in Francia per essere uno dei massimi conoscitori dell’opera di Antonio Gramsci, è redattore delle riviste Contretemps e Actuel Marx, ha pubblicato numerosi testi di critica politica, di ecologia e di pratiche di resistenza sociale. Dal 2008 è membro del Nouveau Parti anticapitaliste. In Italia è stato pubblicato nel 2019 – sempre da Ombre Corte – il suo La natura è un campo di battaglia, che affronta il fenomeno del razzismo ambientale e della geo-strategia climatica, secondo cui il capitalismo internazionale concorre alla catastrofe ecologica grazie a strategie di profitto finanziario, localizzando le discariche di rifiuti tossici nelle aree povere del mondo, e adottando risposte militari per frenare le migrazioni dovute al surriscaldamento globale.

In quest’ultimo volume si analizza invece in maniera critica e appassionata il problema del consumismo che, corrompendo abitudini e coscienze degli abitanti del pianeta-Terra, induce in loro bisogni artificiali sempre nuovi, destinati a rimanere insoddisfatti e continuamente replicati. Già vent’anni fa Zygmunt Bauman indicava nella gratificazione dei desideri stimolata dal consumismo l’esigenza capitalistica di mantenere alta e sempre inappagata le domande degli acquirenti, pena la stagnazione economica del mercato internazionale. Razmig Keucheyan riprende ed estremizza le tesi del pensatore polacco, facendo proprie anche le istanze espresse da numerosi filosofi e sociologi contemporanei (Jean Baudrillard, Serge Latouche, Amartya Sen, Pierre Bourdieu, Bruno Latour …), polemicamente avversi alla sovrapproduzione delle merci e alla loro idolatria.

Scegliendo come esergo una frase di Karl Marx, “Una rivoluzione radicale può essere soltanto la rivoluzione dei bisogni radicali”, in otto capitoli (alcuni a tema, dedicati all’inquinamento luminoso, al consumo compulsivo e alla garanzia dei beni, altri più teoricamente collegati alla filosofia politica marxista), l’autore si propone di distinguere i bisogni legittimi, derivati da effettive necessità di mantenimento personale e sociale, da quelli egoistici e indifendibili dal punto di vista della salute pubblica e del sostentamento planetario.

“Chiamo artificiali i bisogni che, da un lato, non sono ecologicamente sostenibili, che danno luogo a un sovrasfruttamento delle risorse naturali, dei flussi energetici, delle materie prime; dall’altro, i bisogni che l’individuo o la collettività sentono che in qualche modo danneggiano la soggettività, i bisogni che non danno luogo a forme di soddisfazione duratura. Bisogni alienanti, in un certo senso. L’ossessione per l’ultimo ritrovato della tecnologia, per l’ultimo capo di abbigliamento, per l’ultimo modello d’auto, questa ossessione per la novità insita nel sistema capitalista è una delle dimensioni del carattere artificiale dei bisogni”. Esistono infatti bisogni biologici assoluti (mangiare, bere, ripararsi dal freddo), bisogni qualitativi e radicali (culturali, affettivi, sessuali) e bisogni standardizzati creati per rispondere alle richieste di consumatori divenuti essi stessi standardizzati nelle aspirazioni, nei gusti, nei modelli di vita.

Partendo dall’enunciazione delle attuali forme di alienazione individuale e di distruzione ambientale, Keucheyan ricostruisce il percorso storico dello sviluppo economico nelle società capitalistiche, con le relative interpretazioni critiche (Karl Marx, Antonio Gramsci, André Gorz, Agnes Heller), per passare quindi a un’analisi dei comportamenti soggettivi delle persone ostaggi di bisogni artificiali. Nel creare rapporti feticistici con gli oggetti di consumo, anche l’individuo-cliente viene trasformato in merce sfruttabile, illuso nel desiderio di prestigio sociale, di accettazione da parte della comunità di appartenenza, di adeguamento conformistico al lifestyle imposto dai media. “L’oniomania, vale a dire la mania dell’acquisto, compare nell’ultima versione del DsM (2013, il “DsM-5”) sotto la denominazione “disturbi del controllo degli impulsi”, assieme alla cleptomania, alla piromania e al gioco d’azzardo. Viene spesso stabilita una vicinanza con i disturbi ossessivo-compulsivi e i disturbi della personalità”. Una vera e propria malattia, quindi, alimentata prepotentemente dall’utilizzo di internet, che permette di comprare qualsiasi cosa, a qualsiasi ora, senza uscire di casa, utilizzando forme di pagamento “astratte”, per potersi avvicinare nel momento del possesso a un sé idealizzato e a un mondo da cui ci si teme esclusi, ma entrando così in un circuito di sentimenti incontrollabili: eccitazione, senso di colpa, rabbia, euforia, frustrazione. Senza poi riuscire a godere affettivamente dell’acquisto, e venendone invece indotti a cercare articoli sostitutivi più nuovi e appaganti.

L’indagine dell’autore si sposta poi dalle abitudini degli utenti alla realtà oggettiva del mercato e alla produzione industriale oggi caratterizzata da serialità, livellamento, concorrenzialità, organizzazione gerarchizzata del lavoro intellettuale e manuale, tipiche di un cosmo-capitalismo produttivista e consumista, che per mantenere i propri livelli di profitto utilizza i canali della pubblicità, del credito finanziario, dell’obsolescenza dei prodotti da sostituire in continuazione. Molto interessante risulta l’excursus sulla nascita, lo sviluppo e le clausole legali del concetto di garanzia che si accompagna alla vendita dei prodotti.

In conclusione, gli effetti del consumismo esasperato sono numerosi e deleteri: l’aggravarsi della crisi ambientale, lo spreco di materie prime, la dequalificazione del personale addetto alla produzione e al commercio, la dipendenza psicologica dei clienti, l’alterazione dei rapporti interpersonali e il decadimento di valori fondanti nella vita comunitaria.

Per limitare le conseguenze negative di questo sfrenato accaparramento di “cose”, Razmig Keucheyan propone un progetto politico in grado di mobilitare grandi settori sociali e culturali (e in primo luogo le classi popolari), attraverso coalizioni di consumatori capaci – con interventi organizzati di discussione, educazione e dissuasione – di consapevolizzare le persone sulla disutilità di accumulare beni materiali che non rispondano a effettive esigenze vitali: sensibilizzandole a modificare le proprie abitudini di acquisto, e convincendole a scegliere prodotti durevoli ed “emancipati”, con requisiti di sostenibilità ambientale, eticamente attenti alle condizioni di produzione dei lavoratori e delle aziende.  “Si tratta di ripristinare il ‘repertorio d’azione’ delle associazioni dei consumatori più combattive: etichette sindacali, liste bianche, boicottaggio, buycott, denuncia della pubblicità ingannevole, testing ecc.”, solidarizzando con le maestranze della logistica, costrette a turni di lavoro massacranti per ottimizzare i profitti delle grandi multinazionali delle e-commerce.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 12 aprile 2021

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

KHAYYAM

’OMAR KHAYYÂM, QUARTINE ‒ RIZZOLI, MILANO 2013

Il poeta persiano ’Omar Khayyâm, vissuto intorno al 1100 d.C., fu anche filosofo, astronomo, matematico; la sua produzione letteraria fu piuttosto esigua, ma di grande fascino e profondità. Era costituita in genere da composizioni con finalità didascaliche, esortanti a godere la vita in ogni sua manifestazione, e ad apprezzare la bellezza della natura e dell’arte.

L’esistenza di Khayyâm, protrattasi per quasi un secolo, rimase circondata da un alone di mistero e di leggende: gli si attribuiva un carattere polemico e irascibile, amante del vino e dei piaceri sensuali, poco disposto all’impegno sociale e politico, e invece appassionato di qualsiasi aspetto della ricerca scientifica. Si asteneva dal frequentare la corte imperiale, aborriva l’adulazione e i compromessi a cui erano costretti i poeti panegiristi, preferendo non avere alcun incarico ufficiale che limitasse la sua libertà di pensiero e di espressione. Venne accusato spesso di empietà e di scarsa adesione alle pratiche religiose, ma proprio questa sua particolare indipendenza morale e ideologica lo rendeva caro agli strati più umili e anticonformisti della popolazione (“Tu sei il mio Creatore e sei Tu ad avermi creato così / Folle amante del vino e delle canzoni // Poiché Tu mi creasti molto prima del Tempo, / Perché poi mi getti all’inferno?”).

La poesia di ’Omar Khayyâm si espresse in Quartine composte da due versi, suddivisi in quattro emistichi, di cui tre rigorosamente rimati, scritte soprattutto per essere declamate a voce alta e davanti a un pubblico, con una funzione esortativa o moraleggiante. Numerose sono le composizioni di ’Omar che affrontano il tema della morte, da cui nessuno può sfuggire: ma la fine della vita non viene sentita dal poeta come un fatto tragico o temibile, poiché appartiene al corso naturale dell’esistenza, e ne garantisce la liberazione da mali e affanni: “Che sia di duecento, trecento o mille anni la tua vita / Da questo vetusto palazzo sarai fatalmente cacciato. // Il sultano e il mendico del bazar: / Tutti e due avranno un valore solo, alla fine”. Molto frequente è anche il tema della memoria, così come l’ammonimento a non preoccuparsi troppo per il futuro, angustiando il presente con preoccupazioni vane: “O Amico, che cos’è tanta ansia del futuro / Con cui affliggi l’anima e il corpo? // Vivi felice e trascorri il tuo tempo in letizia / All’inizio non ti misero in mano le briglie del mondo!”

Poiché il senso ultimo della vita è inconoscibile, e i disegni del destino sono imperscrutabili, l’unica strada percorribile dall’uomo è il godimento di ogni attimo di felicità: “O cuore, fa’ conto d’avere tutte le cose del mondo, / Fa’ conto che tutto ti sia giardino delizioso di verde, / E tu su quell’erba fa’ conto d’esser rugiada / Gocciata colà nella notte, e al sorger dell’alba svanita”; “Con bella fanciulla in riva a un ruscello, con vino e con rose / Finché mi è concesso farò bella vita e sarò in allegria. // Fintanto che fui, sono e sarò in questo mondo / Ho bevuto, bevo e berrò sempre del vino”.

La sottile ironia spesso esercitata da Khayyâm assume le sembianze della burla giocosa contro le persone troppo rigide e tronfie, e vuole perlopiù essere un monito e un invito alla leggerezza e al sorriso; lo stile scorrevole e pacato, lontano da ogni formalismo, è esso stesso un suggerimento a evitare quanto più possibile ogni inutile difficoltà e sofferenza. Da filosofo e poeta qual era, ’Omar Khayyâm riuscì ad innalzarsi a figura di maestro, e come tale continua a essere letto, tradotto e ammirato in tutto il mondo.

 

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https://www.sololibri.net/Quartine-Khayyam.html                   2 ottobre 2018

 

 

 

RECENSIONI

KIERKEGAARD

SOEREN KIERKEGAARD, IL GIGLIO NEL CAMPO E L’UCCELLO NEL CIELO – DONZELLI, ROMA 2011

I discorsi “edificanti” che Sören Kierkegaard pubblicò tra il 1849 e il 1851 con il suo vero nome (mentre tutte le altre opere, che lo resero famoso nel mondo, furono firmate con diversi pseudonimi, non essendo ritenute dall’autore altrettanto considerevoli eticamente e religiosamente) circolarono per decenni in edizioni semiclandestine, e furono poco tradotti. Questo genere letterario, rifacentesi in parte alla mistica medievale e forse anche alle Prediche di Schleiermacher, venne poi completamente abbandonato dopo questi sermoni del filosofo danese, il quale tenne sempre a precisare la sua intenzione esortativa di comunicazione fraterna ai credenti, da “poeta del cristianesimo” quale amava definirsi. Pur avendoli scritti con la finalità di una lettura ad alta voce, Kierkegaard non li pronunciò mai in chiesa, non essendo tra l’altro mai stato ordinato pastore. Donzelli ne ripropone qui nove, con una approfondita introduzione di Ettore Rocca: essi sono strutturalmente articolati in una preghiera iniziale, nella proposta di un brano evangelico e quindi nell’interpretazione del brano stesso. Lo scopo di questi scritti è esplicitamente quella di liberare l’anima del lettore dalla disperazione derivante da un’eccessiva attenzione al proprio io, aprendolo invece all’amore verso Dio e il prossimo. In questo senso, i discorsi più ragguardevoli ed efficaci sono i primi tre, dedicati al commento dei versetti di Matteo 6, 24-34, in cui Gesù esorta i discepoli ad affidarsi alla provvidenza, e a vivere come i gigli del campo e gli uccelli del cielo, senza preoccuparsi troppo del futuro, del proprio tornaconto personale e del successo mondano. Nostri maestri in semplicità, gigli e uccelli ci devono insegnare il tacere, l’obbedienza e la gioia, affinché impariamo a “saper ripiegare davanti a Dio tutti i progetti fino a ridurli, semplicemente, a qualcosa che prenda meno spazio di un punto, e produca meno clamore dell’inezia più insignificante: fino a ridurli al silenzio”.

IBS, 31 marzo 2014