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RECENSIONI

KIPLING

RUDYARD KIPLING, SARAI UN UOMO, FIGLIO MIO – GARZANTI, MILANO 2021

Soggiogata da improvvise e incontenibili nostalgie senili, da un po’ di tempo ho ripreso in mano, con scontata commozione, le letture che hanno segnato la mia infanzia: Pattini d’argento, Piccole donne, I ragazzi della Via Paal, Davide Copperfield, Capitani coraggiosi e, ovviamente, Il libro della giungla. Mowgli, Baloo, Kaa, Bagheera, Shere Khan, Rikki Tikki Tavi. Mi riecheggiano nella memoria addirittura le battute più famose dei protagonisti: “Siamo dello stesso sangue, voi e io!”

Quindi, appena ho scoperto tra le ultime pubblicazioni di Garzanti una riedizione della poesia più nota di Rudyard Kipling, con un saggio interpretativo di Vittorino Andreoli, mi sono precipitata ad acquistarla nel conveniente formato ebook. Il titolo originale della composizione, If, è stata tradotto in maniera più accattivante, rielaborandone l’ultimo verso: Sarai un uomo, figlio mio.

Kipling (Bombay 1865Londra, 1936), premio Nobel a 41 anni nel 1907, famosissimo nella cultura di massa per i suoi romanzi e racconti – rivisitati dal cinema, osannati da movimenti religiosi e scoutistici, sfruttati dalla fantascienza – fu spesso osteggiato dalla critica per la sua appartenenza alla massoneria e per la sua visione ideologica e politica favorevolmente orientata verso il colonialismo e l’imperialismo: rimane comunque uno dei pilastri della letteratura mondiale novecentesca.

If è una missiva poetica dall’andamento sermoneggiante scritta nel 1895, pensata avendo come modello un uomo politico e avventuriero inglese, di cui l’autore ammirava la statura umana e militare. Nel 1910, in occasione della pubblicazione, Kipling la dedicò al figlio tredicenne John.

La poesia incoraggia in un figlio immaginario le virtù più rispondenti alla costruzione di una personalità ideale: audacia, indipendenza di giudizio, pazienza, fede nei propri principi, rispetto verso gli altri, resistenza alle offese e alle calunnie, capacità di rialzarsi dopo un fallimento, autocontrollo emotivo e fisico, attitudine al sogno e alla creatività, premurosa attenzione per ogni istante vissuto. In pratica, si tratta un’esortazione a raggiungere la perfezione morale. Il testo della poesia, accompagnato dalla versione in lingua inglese, consta di una trentina di versi liberi, in cui tredici strofe iniziano con l’ipotetico “If you can”: se saprai, se riuscirai, se potrai.

Il saggio di Vittorino Andreoli ripercorre le vicende biografiche dello scrittore britannico, e sonda con perizia e sensibilità le dinamiche che intercorrono nel rapporto generazionale padre-figlio, partendo proprio dall’esperienza vissuta dai padri nella loro posizione di figli.

Rudyard Kipling, nato in India da genitori insegnanti in una scuola d’arte, seguito amorevolmente in famiglia e dalla servitù indigena, a sei anni fu mandato con la sorellina in Inghilterra per motivi di studio, a pigione in una famiglia di rigorosa fede evangelica, in una situazione “di sradicamento, se non di abbandono”. Le umiliazioni e la mancanza di affetto patita negli anni di formazione senz’altro ne minarono il carattere, ma in qualche modo spiegano anche le ragioni per cui la sua scrittura fu prevalentemente rivolta al mondo fantastico dell’infanzia, a compensare un vuoto, e a riappropriarsi di un “oggetto perduto”. Il figlio John era il suo terzogenito, e l’unico maschio: Kipling fece in modo di farlo arruolare come ufficiale allo scoppio della guerra, e il giovane cadde in battaglia, appena diciottenne, il 27 settembre 1915.

Andreoli valuta il contenuto di If dal punto di vista pedagogico, poiché suo primo intento è quello di insegnare a vivere comportandosi con correttezza e magnanimità. La poesia non è didascalica in maniera impositiva e autoritaria, ma suggerisce benevolmente obiettivi concretizzabili per raggiungere la piena dimensione umana. Kipling padre si rivolge anche al suo passato di figlio, a cui sono mancati incoraggiamenti affettivi ed esempi da seguire. Secondo lo psichiatra veronese “È importante che un educatore sappia far riferimento a propri modelli, mostrando così che anch’egli si trova all’interno di un processo di apprendimento, di educazione”.

Kipling ha messo in luce nel testo alcune fondamentali qualità caratteriali e intellettuali individuate ed elogiate anche nel suo personaggio più famoso, Mowgli, che, pur inserito in un ambiente estraneo e difficile come la giungla, riesce a creare intorno a sé uno spazio vitale favorevole e condiviso.

La composizione è permeata di influenze filosofiche positiviste, che orientando i propri criteri educativi entro i confini del binomio “comprendere” e “volere”, sottovalutavano o addirittura escludevano l’affettività, cioè l’insieme delle emozioni, dei sentimenti e dei piaceri, considerati ostacoli nell’esercizio oggettivo dell’agire e del dovere.

Alla nostra sensibilità contemporanea, If, mancando di un orizzonte emozionale di rilievo, appare forse pedagogicamente discutibile e inopportuna, addirittura paternalisticamente ricattatoria, troppo responsabilizzante e retorica. Recentemente è stata oggetto di una forte contestazione da parte degli studenti dell’Università di Manchester, che rifiutando la visione razzista e imperialista esibita dall’autore in alcuni suoi libri, l’hanno rimossa da un’esposizione, perché limitativa dell’emancipazione e delle libertà individuali.

© Riproduzione riservata    «Gli Stati Generali», 15 novembre 2021

 

 

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KIS

DANILO KIS, DOLORI PRECOCI – ADELPHI, MILANO 1993

Un vero monumento di parole “alla ricerca del tempo perduto”, questo splendido libro di Danilo Kis: scrigno prezioso di ricordi, miniera di sentimenti e nostalgie. Ma quanto distante dalle atmosfere proustiane, rarefatte e aristocratiche, e invece abitato da oggetti e persone semplici, da affetti raccontati con pudore e discrezione, da ambienti umili e popolari, lontani dalla Storia, e da essa trascurati e travolti. Qui l’aristocrazia è solo quella dell’anima dell’autore, che torna malinconicamente a ripercorrere le tracce lasciate dal suo sé bambino, un ragazzino ebreo cresciuto in una famiglia povera e dignitosa dell’Europa centrale negli anni ’40. Questo Andreas Sam sensibilissimo, il migliore a scuola in composizione, innamorato della mamma e della compagna di classe Julija con cui scambia baci e promesse di matrimonio nel fienile: che si vergogna di bagnare il letto per l’umiliazione di vedersi deriso dalla sorella, ma è continuamente e crudelmente preso in giro dagli amici per il suo linguaggio educato e pulito. Andreas che osserva il mondo dal buco della serratura, ama le fiabe di cui vorrebbe cambiare il finale tragico, si inebria del profumo dei campi e delle acrobazie degli zingari nel circo. Danilo Kis, nel suo viaggio a ritroso nel tempo, non è più sicuro dei suoi ricordi: “Dopo tanti anni, Andreas forse non sono nemmeno io”, e ne chiede conferma ai fantasmi dei parenti (“Dimmi, Anna, ho forse inventato tutto questo?”) e ai fantasmi dei luoghi: che sono irreparabilmente cambiati (“Dovrò chiedere ad altri, ci sarà pure qualcuno che si ricorda di quella strada”), cancellati dagli uomini, dalla guerra, dalle stagioni impietose. La memoria, tuttavia, può salvare e salvarsi, aiutata dalla poesia: “Tornava al villaggio seguendo la riva. Vincitore sul tempo, sempre impotente di fronte ai fiori e al prato”.

IBS, 9 gennaio 2014

RECENSIONI

KRAUS

KARL KRAUS, ESSERE UOMINI É UNO SBAGLIO – EINAUDI, TORINO  2012

Paola Sorge, nella prefazione a questo volume di Aforismi e pensieri di Karl Kraus, suggerisce diverse definizioni dello scrittore austriaco (1874-1936): “fustigatore della società… profeta… cattiva coscienza di Vienna… apocalittico direttore di ‘Die Fackel'”, offrendo al lettore una descrizione sintetica della sua vita, ma soprattutto un’analisi della sua produzione letteraria. Così veniamo a conoscenza delle sue origini ebraiche poi rinnegate, della sua conversione al cattolicesimo successivamente rifiutata, della sua passione per il teatro e per l’oratoria, del suo profondo e tormentato amore per una nobildonna ondivaga, della sua coraggiosa lotta al nazismo nascente. Ma soprattutto del suo innato e polemico anticonformismo, che lo portò a creare e dirigere per trentasette anni un “antigiornale” di denuncia come “Die Fackel”, in cui prendeva di petto l’ipocrisia e la corruzione della società contemporanea, ricavandone applausi e querele, successi e ostilità incancrenite nelle coscienze austriache per decenni. Nell’antologia einaudiana i sette capitoli che suddividono per argomento i più originali tra i suoi aforismi, inquadrano i bersagli favoriti del sarcasmo feroce di Kraus: tra i principali, le istituzioni (dalla Chiesa alla famiglia alla politica), le categorie professionali (giornalisti, psicanalisti, attori, critici letterari, artisti), i miti contemporanei (dal progresso alla pubblicità alla finanza), i vizi privati e le pubbliche virtù di una città provinciale e farisaica come la sua Vienna. Alcuni di essi ricalcano saggezze da manuale spirituale (“Chi ha il cuore vuoto, ha la bocca che trabocca”), altri imbarazzano per la ferocia gratuita (“L’uomo ha cinque sensi, la donna ne ha uno solo”, “La maggior parte dei miei simili è la triste conseguenza di un aborto che non è stato commesso”), altri ancora divertono per la loro pungente sagacia (” Lo psicanalista è un padre confessore che ha voglia di ascoltare anche i peccati dei padri”).

IBS, 9 luglio 2013

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KRAUSPENHAAR

FRANZ KRAUSPENHAAR, LE BELLE STAGIONI – MARCO SAYA, MILANO 2014

Le belle stagioni di Franz Krauspenhaar partono dall’inverno e all’inverno tornano («Ho fatto tutto / un giro scrivendo le mie pene, / roba che non preme a nessuno»), attraversando primavera estate e autunno, in quattro sezioni intitolate in olandese e chiosate da citazioni di altrettanti pittori fiamminghi (Bosch, Jan Van Eyck, Pieter Bruegel il vecchio, Van Gogh). Non tanto, come fa giustamente notare il prefatore del volume Andrea Caterini, perché questa poesia esprima una particolare sensibilità figurativa o coloristica, quanto perché il rimando ai Paesi Bassi costituisce nelle pagine un discreto ma costante leit motiv. Krauspenhaar, infatti (nato a Milano nel 1960 da padre tedesco), immagina una sua discendenza da un antenato olandese del 1400 – Frans Kroeshaar-, costretto a lasciare le sue terre per una persecuzione politico-economica: «sono assorto a scrivere / di Frans e so che scrivo di me, / con vesti antiche», «Sono l’uomo di oggi / e quello di ieri, il soldato del cuore e della mano, / il mercante, il religioso, il bandito. Il nome che ho sempre avuto è del nobile signore / Frans Kroeshaar»,

Un evidente pretesto letterario, la metaforizzazione di un’esigenza profonda, quella di un’individuazione, di una definizione del proprio io mai del tutto compreso e ricostruito: «Sono l’uomo delle stagioni, sono l’uomo / di tutti e di nessuno, sono l’anno diviso / per quattro». La ricerca del sé, delle radici familiari e ambientali, il recupero di un passato che possa rendere meno sfocato il presente affiora ovunque, insieme a una sorta di disamore, di sprezzante fastidio per la propria vicenda esistenziale: «io son diventato / una luce intermittente, un fanale / che perfora la nebbia, e non sa dove / s’è lasciato sfondare», «l’agonia / mi segue da decine d’anni», «Dove sei, dove vai, da nessuna parte, / nemmeno dentro di me, sono la superficie / del silenzio»,«Negro / di te stesso, nemmeno ti fai pena», «Usuraio di te stesso, limbo di te stesso», «Dove sei, me stesso».

Le parole si fanno violente, rabbiose, nei confronti della propria vita e di quella altrui, senza nessuna clemenza nei riguardi del mondo, delle donne, della cultura contemporanea (editoria, libri, vernissages e letture in pubblico, politica corrotta) e dell’ambiente circostante – illividito, triviale, blasfemo. Milano risulta sopportabile solo in virtù dei ricordi giovanili (le partite dell’Inter a San Siro, con l’allucinazione di uno stratosferico Jair che palleggia nella nebbia meneghina), ma è comunque definita «città morta, doppia, nordica e mentecatta», abitata da signore «stronze con il cane», «queste puttane luride». Roma è odiata e vilipesa («città di sobborghi e di spurghi, di immani / immondizie… / solo volgare vecchio / catarro», con un Vaticano di religiosi «impiantati nella merda / coi loro culi estinti». Forse solamente la musica può salvare dalla disperazione (il sax di Coltrane, il samba di Vinicius, e Piero Ciampi, gli Who, gli Air), perché l’amore è ormai ridotto a qualche stanca tenerezza con amiche comprensive e fugaci, o a una sessualità vissuta con ordinaria violenza in posti casuali e deprimenti. Formalmente, la poesia di Krauspenhaar si definisce al meglio proprio quando appare più esasperata, torrenziale, debordante, come nel primo capitolo dedicato all’inverno. Qui potremmo senz’altro trovare un ascendente nei versi inferociti e bestemmianti di Bukowski (accomuna i due poeti, ad esempio, lo stesso disprezzo per le festività borghesi del Natale e del Capodanno; oppure la descrizione di incontri clandestini in hotel loschi, le frequenti allusioni ai cessi sporchi e alla prostituzione). Nelle altre sezioni, l’autore sembra voler esagerare nei contenuti, con riferimenti talvolta fuorvianti o poco giustificabili alla storia mondiale e ai suoi protagonisti (dal Medioevo con le sue torture, al nazismo, all’America onnivora di plastica, a Papa Francesco), lasciandosi prendere la mano sia da un descrittivismo eccessivo, sia da una sentenziosità didascalica e alquanto retorica, o da reprimende moralistiche: «C’è questa paura / di parlare di vocazione; il nostro mondo che ha / risolto Dio, dentro l’evidenza della non presenza, / non vuol sentirne parlare, perché essi vogliono / la schiavitù e al contempo la molla dello spasso, / così che si vive soltanto per la fuggevole nomina».  Un’ansia di sfogo e di indignazione, che arriva a inficiare nella sua sovrabbondanza l’incisività altrimenti considerevole di queste poesie.

«Poesia» n.308, ottobre 2015

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KRISTOF

AGOTA KRISTOF, IERI – EINAUDI, TORINO 2016

Come tutti i libri di Agota Kristof, anche questo Ieri (uscito in Francia nel 1995 e da poco ripubblicato da Einaudi) rimane chiuso nell’unica dimensione del dolore e del rimpianto, in cui i personaggi si muovono senza alcuna possibilità di proiettarsi in un futuro positivo, nell’assenza totale di qualsiasi prospettiva di riscatto.
Il protagonista del romanzo è Tobias Horvath, nato e cresciuto in un paesino poverissimo, da una giovane prostituta sfruttata da tutti gli abitanti del villaggio, contadini sordidi e ottusi, e dal maestro che per prima l’ha sedotta. «Mia madre veniva in cucina per lavarsi il sedere in un secchio, s’asciugava con uno straccio, se ne tornava a letto. Non mi parlava quasi per niente e non mi ha mai baciato».

Il ragazzo, umiliato in casa e fuori casa, assiste impotente agli accoppiamenti della mamma, finché una notte, esasperato, arriva ad accoltellare lei e l’amante, dopo aver scoperto che quest’ultimo non era solo il suo insegnante, ma anche il padre che non aveva voluto riconoscerlo. Tobias scappa, convinto di essere un omicida, fugge in un altro paese, cambia il suo nome in quello di Sandor Lester. «Non avevo che un desiderio: partire, andare, morire, era uguale. Volevo allontanarmi, non tornare più, scomparire, dissolvermi nel bosco, nelle nuvole, non ricordare più, dimenticare, dimenticare».

Tobias-Sandor arriva in un paese straniero, trova lavoro in una fabbrica di orologi, abita in un bilocale periferico, frequenta pochi disperati tra altri emigrati come lui, si ammala psichicamente. Le pagine più riuscite del racconto sono proprio queste (rese in uno stile secco, essenziale, severo), che raccontano lo squallore di un’esistenza espropriata di qualsiasi dignità e speranza.
Fornito di una nuova identità, usurpata e illegale, Sandor si trascina nella sua vita proletaria assediata da ricordi, incubi e allucinazioni, aggrappandosi a due sole illusioni, presto trasformatesi in ossessioni: l’utopia di diventare uno scrittore famoso, e il desiderio di incontrare la donna dei suoi sogni, una Line che conserva i tratti misteriosi di un incontro infantile e quelli immaginari della fantasia. E anche se improvvisamente questo fantasma si concretizza nella presenza reale e dolcissima di un amore sconvolgente e proibito, Sandor sa di doversi adattare a una quotidianità di sudditanza materiale e affettiva, rassegnato a un lavoro umiliante e ripetitivo, marito e padre abulico e disincantato, a cui solo poche immaginarie visioni colorate, sospese nell’aria, riescono a portare conforto . Nell’odissea del giovane (ripresa nel bel film di Silvio Soldini  Brucio nel vento) Agota Kristof riflette evidentemente il suo destino di “erranza”: esiliata dall’Ungheria dopo l’invasione sovietica del ’56, rifugiata nella Svizzera francese con la famiglia, operaia dapprima e poi scrittrice costretta a esprimersi in una lingua non sua, mai completamente dominata.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/Ieri-Agota-Kristof.html          24 giugno 2016

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KRISTOF

AGOTA KRISTOF, LA VENDETTA – EINAUDI, TORINO 2009

Venticinque racconti brevissimi, lapidari e inclementi, questi della scrittrice ungherese Agota Kristof, originariamente intitolati C’est egal, a significare l’indifferenza imperturbabile con cui l’autrice racconta la sofferenza: «Fa lo stesso. In ogni caso si sta male ovunque», e riproposti da Einaudi con il titolo La vendetta.

Non propriamente di vendetta si tratta, infatti: quello che i protagonisti patiscono o infliggono in queste pagine non è desiderio di rivalsa, esigenza di giustizia riparatrice, esplicitazione di rancore insopprimibile. La cattiveria dei gesti e dei pensieri è vissuta ed espressa senza particolare emozione, senza effettiva partecipazione. Risiede immodificabile e irredimibile nella natura delle cose e degli animi: come nella moglie che uccide con una scure il marito che russa («ci sono una quantità di cose che accadono così, stupidamente»), o nell’alunno che sevizia e impicca il professore di lettere per ammirazione e «immenso affetto», o nella crudeltà di numeri sbagliati al telefono. I personaggi sembrano tutti assolutamente spaesati, privi di riferimenti spazio-temporali: vagano in strade deserte, allucinate, in un silenzio che le rende simili a paesaggi metafisici. Strade che non portano in nessun posto, oppure a case del passato distrutte, a treni che non partono, a incontri destabilizzanti, in un’atmosfera da incubo continuo: «Qualche giorno più tardi se ne andò senza dire nulla a nessuno. Da un posto all’altro, da una città all’altra, prendeva aerei, navi, treni. Sempre altrove, là dove niente gli assomigliava. È smarrito, non riconosce più i luoghi, non riesce a ritrovare la propria strada, la propria casa».

Il destino di Agota Kristof, esule politica costretta a reinventarsi un’esistenza e una lingua in Svizzera, balza prepotentemente accusatorio da ogni riga: «Come si può diventare ricchi con niente, quando si viene da altrove, da nessuna parte, e senza il desiderio di diventarlo?»

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/La-vendetta-Agota-Kristof.html      30 giugno 2016

 
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KRISTOF

ÁGOTA KRISTÓF, CHIODI – CASAGRANDE, BELLINZONA 2018

L’editore ticinese Casagrande propone, con la traduzione di Fabio Pusterla e Vera Gheno, le poesie che Ágota Kristóf scrisse in ungherese prima del suo forzato esilio a Neuchâtel, andate perdute in quel tragico frangente. Ricostruite successivamente nella memoria, ad esse furono aggiunti nuovi versi, composti sia nella lingua materna sia direttamente in francese durante gli anni trascorsi in Svizzera.

Ágota Kristóf (1935-2011), conosciuta da noi soprattutto come autrice di romanzi e racconti (splendida e terribile la sua Trilogia della città di K.), nacque a Csikvánd, un villaggio dell’Ungheria “privo di stazione, di elettricità, di acqua corrente, di telefono”. Nel 1956, in seguito all’intervento sovietico, fu costretta a lasciare il suo paese con il marito e la prima figlia di pochi mesi, riparando a Neuchâtel, dove visse fino alla morte. In Svizzera per cinque anni lavorò come operaia in una fabbrica di orologi, studiando il francese senza riuscire mai a dominarlo completamente. In questa lingua, avvertita come straniera ed estraniante, scrisse tutte le sue opere, in uno stile forzatamente asciutto, essenziale, severo. Il senso di inappartenenza a una lingua e a una nazione, l’esclusione affettiva dal mondo circostante, la chiusura emotiva in una dimensione di desolazione e rimpianto, si rispecchiavano nei suoi personaggi, costretti a vivere nell’assenza totale di una prospettiva di riscatto, nello squallore di un’esistenza espropriata di dignità e speranza, rassegnati a una quotidianità di sudditanza materiale e intellettuale. Lo smarrimento della conoscenza di sé, il disorientamento, il sentirsi persi, si riflettono anche nelle poesie di Chiodi, in cui tornano i temi propri della narrativa: l’esilio, l’attesa, il desiderio, la paura, l’isolamento, lo sconcerto, la rabbia, il rancore.

La voce di Ágota Kristóf, che nella postfazione Fabio Pusterla definisce “contemporaneamente atroce e struggente”, si esprime in una lingua che occupa uno spazio intermedio tra due culture: quella nativa, della memoria e del dolore, dell’abbandono e del tradimento, e quella franco-elvetica, avvertita sempre come alterata e condizionante, imposta da necessità esteriori. Così, sospesa tra due tradizioni letterarie mai del tutto assimilate, la sua poesia rivela uno stile assolutamente personale, secco, ridotto all’essenziale, privo di punteggiatura e con scarsa aggettivazione. Molti dei caratteri, delle immagini e delle situazioni tratteggiate nei versi di Chiodi ispirarono alcuni dei magistrali racconti successivi, inseriti in due raccolte edite da Einaudi ‒ Ieri e La vendetta ‒, che ne riproponevano addirittura i titoli, nonché le atmosfere, inclementi nel resoconto della sofferenza. In una dichiarazione, l’autrice aveva affermato: «Un libro, per quanto triste sia, non può essere così triste come una vita»: di questa sua tristezza (risalente non solo all’esilio, ma agli anni difficili dell’adolescenza in collegio, all’arresto del padre per motivi politici e al conseguente disfacimento familiare) si nutrono le poesie qui presentate. I titoli stessi manifestano mortificazione e avvilimento (Non mangio più, Solitari, I sopravvissuti, L’umiliato, Giorni perduti, Senza ali, Su campi freddi, Commiato…); i colori prevalenti sono il bianco e il grigio; la stagione più descritta è l’autunno, con la nebbia, la pioggia, il fango delle pozzanghere.

Vuoto, abbandono, squallore caratterizzano ogni ambiente: finestre e porte chiuse, corridoi bui, panchine azzoppate, giardini deserti, vie polverose. La natura, vegetale e animale, nasconde qualcosa di minaccioso e violento («monti rabbiosi crebbero tra noi // … erano calate le cavallette sul campo / e gli avvoltoi sugli alberi oscillanti»). Anche le allusioni alla morte, e in particolare al suicidio sono frequenti: «E amo gli amici morti che / non sono riusciti a sopportare / la lontananza e bella è la corda / quando culla corpi freddi / e bello è il veleno il gas il coltello», «domani uscirò in strada morti camminano / per queste vie anche io sarò pallida se solo sapessi / dove andare da chi e perché», «chiodi / puntuti e smussati / chiudono porte montano grate / tutt’attorno sulle finestre / così si edificano così si edifica / la morte».

In numerose composizioni è evidente il contrasto tra un passato di estrema miseria economica, ma nutrito di affetti e amicizie, e vissuto in simbiosi con ciò che è intorno, e un presente più solido e sicuro, eppure arido, sconfortato: «Ieri era tutto più bello il canto / tra le fronde degli alberi / tra i miei capelli il vento // …Ora nevica sulle mie palpebre / il mio corpo / è pesante come roccia / e non c’è motivo di cambiare marciapiede / e non c’è motivo per / andare alle montagne». A questa desolazione non ci si può ribellare, se non rifugiandosi nel sarcasmo, nella violenza rabbiosa, come avviene in una poesia dedicata ai professori, ottusi e ignoranti, a cui la poetessa bambina opponeva un’insonnolita resistenza, mangiandosi poi il gessetto che le veniva lanciato addosso: «amavo i professori e il gessetto / a causa della mia carenza di calcio / all’epoca mi mangiavo molti gessetti / ciò mi faceva venire una leggera febbre ma mai saltavo / la scuola per questo / dal momento che amavo i professori specialmente / il talentuoso insegnante di letteratura / perciò per pietà / dopo l’assassinio di una poesia / a mezzogiorno alle dodici e mezza / sulla strada di casa / nel parco / posi fine alle sue sofferenze». L’odio di classe è percepibile nei versi dedicati agli operai, agli emigranti, ai diseredati, solidali tra loro nella pretesa di rivendicazioni sociali, quasi presaga però di una futura inevitabile sconfitta. Ad essa ci si prepara con la stessa rassegnata indifferenza rivolta a qualsiasi altro aspetto dell’esistenza: Fa lo stesso è il titolo di una poesia ripreso poi da uno dei racconti de La vendetta (in francese, C’est egal, a significare l’imperturbabilità a cui è opportuno ricorrere contro l’angoscia): «qualcuno canta qualcosa / fa lo stesso tanto non è bella / è una canzone vecchia vecchia // e domani ti alzi dove vai / da nessuna parte oppure sì / magari vado da qualche parte / fa lo stesso tanto non c’è posto dove si stia bene».

Nel racconto citato la Kristof ribadiva: «Fa lo stesso. In ogni caso si sta male ovunque». Anche nella narrativa, quello che i protagonisti patiscono o infliggono non è tanto desiderio di rivalsa, esigenza di giustizia riparatrice, esplicitazione di rancore insopprimibile. La cattiveria dei gesti e dei pensieri è vissuta ed espressa senza particolare emozione, senza effettiva partecipazione. Risiede immodificabile e irredimibile nella natura delle cose e degli animi: nella moglie che uccide con una scure il marito che russa («ci sono una quantità di cose che accadono così, stupidamente»), o nell’alunno che sevizia e impicca l’insegnante per ammirazione e «immenso affetto», o nella crudeltà di numeri di telefono sbagliati apposta. Come nelle poesie, i personaggi sembrano tutti assolutamente spaesati, privi di riferimenti spazio-temporali: vagano in strade deserte, allucinate in un silenzio che le rende simili a paesaggi metafisici. Strade che non portano in nessun posto, oppure a case del passato distrutte, a treni che non partono, a incontri destabilizzanti, in un’atmosfera da incubo perenne: «Qualche giorno più tardi se ne andò senza dire nulla a nessuno. Da un posto all’altro, da una città all’altra, prendeva aerei, navi, treni. Sempre altrove, là dove niente gli assomigliava», «è smarrito, non riconosce più i luoghi, non riesce a ritrovare la propria strada, la propria casa». Il destino della Kristof, esule politica costretta a reinventarsi un’esistenza in Svizzera, si riflette prepotentemente accusatorio in ogni riga della sua scrittura, in versi e in prosa: condizione esistenziale dell’erranza, di un risarcimento impossibile.

 

© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 7 maggio 2018

 

 

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RECENSIONI

KUBIN

ALFRED KUBIN, DEMONI E VISIONI NOTTURNE – ABSCONDITA, MILANO 2016

Spesso le autobiografie appaiono poco veritiere, più o meno consciamente levigate da chi le ha scritte, con l’obiettivo di rendere più apprezzabili i propri trascorsi esistenziali, le scelte ideologiche, i percorsi artistici o le battaglie politiche. Non fa eccezione il succinto resoconto che nel 1959 Alfred Kubin stese della sua vita, pubblicato da Abscondita nel 2004 e ristampato nel 2016, con il titolo di Demoni e visioni notturne, in cui solo a poche e veniali turbolenze giovanili vengono attribuite l’intemperanza e i conflitti di un’intera vita, trascorsa per lo più con moderata bonomia.

Alfred Kubin (Leitmeritz, Boemia, 1877- Zwickledt, Austria, 1959), tra i più interessanti illustratori del primo ’900, si era ispirato in gioventù alle opere grafiche di O. Redon, J. Ensor, E. Munch, M. Klinger, Goya, e così perfezionatosi nella sua arte aveva poi illustrato la Bibbia, le opere di G. Hauptmann, Dostoevskij, Poe, Gogol’, Hoffmann, Bürger, Kafka, ricavandone grande fama internazionale. I suoi disegni, caratterizzati da tematiche raccapriccianti, manifestavano un gusto quasi maniacale per l’orrido e il misterioso. Il suo mondo onirico aveva trovato felice espressione anche nel romanzo Die andere Seite del 1909 (riproposto da Adelphi nel 2001).

Il racconto di un’infanzia “selvaggia” e dell’adolescenza inquieta, vissute tra Salisburgo e Zell am See, ci rende l’immagine di una mai cancellata sofferenza, determinata sia dal rifiuto di ogni costrizione (la severità del padre, la rigidità dell’istituzione scolastica), sia da una serie di lutti familiari, tra cui la dolorosa morte della madre a lungo malata di tubercolosi, avvenuta quando Alfred aveva solo dieci anni. In quei primi anni formativi affiorarono elementi del suo carattere che sarebbero rimasti come tipici dell’attività artistica: oltre alla passione per il disegno, l’amore per la natura e il paesaggio, un’inclinazione verso il misticismo, l’interesse per le fiabe e il fantastico, la disposizione alla lettura, e una curiosità morbosa per ogni tipo di violenza, di scene agghiaccianti, di cataclismi distruttivi, di decomposizioni corporali. Il temperamento suscettibile segnato da eccitazione nervosa, convulsioni e frequenti deliri febbrili, lo portò a cambiare spesso scuole e impieghi, inducendolo addirittura a un tentativo di suicidio. Fu il trasferimento a Monaco, e l’iscrizione alla locale Accademia di Pittura a fornirgli un solido appiglio emotivo, indicandogli la strada da percorrere per approfondire la sua vocazione artistica. In quegli anni conobbe personalmente De Chirico, Munch, Klee; studiò gli scritti di Schopenhauer e l’opera grafica dei maggiori illustratori dell’epoca; iniziò a esporre i suoi disegni in diverse gallerie, trovando estimatori e clienti, e infine raggiunse una relativa stabilità economica e familiare sposandosi nel 1904. La scoperta della pittura di Bruegel (“miscuglio di pazzia e santità”), i viaggi a Vienna, a Parigi, a Venezia, lo misero in contatto con nuove forme d’arte. Prima dei trent’anni, Kubin acquistò un piccolo podere sulle rive dell’Inn, a Zwickledt, che diventò il suo rifugio fino alla morte: fu in questi anni che compose il romanzo fantastico L’altra parte, e abbracciò un nuovo personalissimo stile artistico: “Ora mia attirava di più la vita universale, che opera così misteriosamente negli uomini, negli animali, nelle piante, in ogni pietra, in ogni cosa animata e inanimata. Erano ancora masse umane e greggi di animali, splendore e marciume, il vizio rigoglioso e la nauseante putrefazione, il culto del sublime e il dolore incomposto. Insomma tutto ciò che da sempre aveva occupato il mio cuore…”. I sogni, gli incubi, le fantasie più deliranti divennero per lui una miniera di ispirazione per le sue opere grafiche, pubblicate in raccolte divenute celebri (Serie dei sogni, Sette peccati mortali, Danza dei morti, Animali feroci, Notte di brina). Nemmeno la conversione al buddhismo, e una regola di vita spartana, lontana dalle angosce del mondo – allora precipitato nella catastrofe della prima guerra mondiale – riuscirono a rasserenare il suo umore: le allucinazioni visive e sonore che lo tormentavano prendevano corpo nei suoi disegni febbrili, di cui il volume pubblicato da Abscondita rende puntale testimonianza attraverso la riproduzione di scheletri, belve sanguinarie, fantasmi, battaglie, agonie. “Tutti questi oggetti mi venivano incontro come spettri e larve che mi ghignassero in faccia”, Nonostante le tante difficoltà incontrate nell’esistenza, e i demoni interiori che avevano assediato i suoi giorni a partire dall’infanzia, Alfred Kubin rimase convinto che il significato dell’arte fosse quello di coprire come un velo “l’assurdo nonsenso della vita”, e che nel tumulto abissale della coscienza la creazione potesse diffondere uno spiraglio di luce. Nella postfazione, Giacomo Debenedetti così commenta la sua opera: “Kubin, attraverso tutti i suoi disegni, le sue tempere, le sue illustrazioni, finisce in realtà coll’illustrare un solo, inquietissimo testo: la storia di una generazione destinata a scontrarsi, in un misto di atavico terrore e di inaudita lucidità, col caos, i mostri, le rivelazioni informi o sublimi della psiche… La sua breve autobiografia è la goticheggiante e paurosamente moderna confessione psichica di un figlio del tempo che trapassa verso l’era cosmica”.

 

© Riproduzione riservata       «SoloLibri», 19 marzo 2025

 

 

 

RECENSIONI

KUREISHI

HANIF KUREISHI, RACCONTI – BOMPIANI, MILANO 2013

Alcuni di questi racconti dello scrittore anglo-pakistano Hanif Kureishi (1954) coprono poche pagine, altri hanno la rilevanza di un romanzo breve. Quasi tutti ambientati in una Londra crudele e indifferente («Londra era piena di gente drogata, inutile, che non ascoltava quello che gli altri dicevano, ma pensava solo, tutto il tempo, a come poteva distrarsi, non parlava mai di niente di serio, finché poi precipitava»; «Londra sembra essere fatta solo di materiali duri e di polvere che non riesce a poggiarsi; tutto è spigoloso, specialmente la gente».), indagano esistenze ed esperienze disparate, per lo più avvilite e inconsolabili: come imparare a sopravvivere a se stessi, ai propri fallimenti, inventandosi improbabili vie d’uscita, quasi ad accelerare una catastrofe sempre inevitabile. Troviamo quindi lo sceneggiatore cocainomane di successo che invidia le giornate squallide ma non programmate degli scarti umani, ai margini della società; il padre di famiglia fotografo amatoriale che si fa irretire da una coppia voyeuristica; lo scrittore tradito dalla moglie che desidera solo umiliarla e vendicarsi; l’attore che spia l’amante sposata seguendola anche in vacanza con il marito. Personaggi che si assomigliano tutti nella rinuncia a qualsiasi prospettiva di vita felice, annoiati dalla banalità del quotidiano, rassegnati a rapporti fittizi sia nelle amicizie che negli amori, desiderosi solamente di far passare il tempo più velocemente, stordendosi con le droghe o nel sesso più degradato e ripetitivo, in una ricerca morbosa e ossessiva di rapporti affettivi autentici: «La gente si sposta da una moglie all’altra, da un marito all’altro. Una città di vampiri d’amore che girano da persona a persona in cerca di quella che farà la differenza».

Le famiglie, soprattutto quelle inglesi, appaiono spaccate e rancorose, con madri superficiali e distratte, e padri che hanno perso qualsiasi ruolo e funzione educativa.
Kureishi segue i suoi personaggi pedinandoli negli spostamenti fisici, nei gesti quotidiani, nei tic comportamentali: mai, tuttavia, scavando nei meandri della psiche o nei conflitti interiori, quasi a voler sottolineare che i suoi protagonisti vivono solo in superficie, bidimensionali, privi di profondità. C’è, costante, l’esplorazione analitica del corpo e della sessualità, che raramente arriva a essere conturbante, avvolta com’è in un’atmosfera di tragico disfacimento, di indifferente routine quotidiana. Come se l’autore volesse appiattirsi sulla descrizione di una cultura occidentale e cosmopolita oramai priva di slanci vitali, di entusiasmi, di calore umano, e rassegnata alla sua decadenza (l’ultima sezione, è emblematicamente intitolata Il declino dell’Occidente).
Ma non si salva nemmeno la civiltà asiatica importata, costretta a europeizzarsi controvoglia: i contrasti razziali e religiosi implodono nelle coscienze e all’interno delle mura domestiche. Ne è un esempio il bel racconto Mio figlio il fanatico, in cui un taxista indiano ormai integratosi nella vita anglosassone si vede rifiutato dal figlio convertito all’Islam più rigoroso ed estremista: drammatico esempio di due generazioni e due mondi che non riescono più a parlarsi.

 

© Riproduzione riservata     http://www.sololibri.net/Racconti-Hanif-Kureishi.html    1 settembre 2015

RECENSIONI

LA CAPRIA

RAFFAELE LA CAPRIA, LA NEVE DEL VESUVIO – MONDADORI, MILANO 1988

Sulla quarta di copertina, questo ultimo volume di Raffaele La Capria viene definito «un piccolo romanzo di formazione», e in effetti si tratta di circa un centinaio di pagine, suddivise in undici capitoli, che ripercorrono la prima infanzia di un bambino napoletano, Tonino, fino al momento in cui egli si affaccia allo spietato e banale mondo degli adulti. Non ci troviamo davanti, tuttavia, a una semplice rievocazione di episodi infantili, o a una riverniciatura nostalgica del proprio passato: nessun “vestivamo alla marinara”, quindi, nelle intenzioni dell’autore, piuttosto una riflessione critica e struggente sui momenti rivelatori che hanno infranto lo specchio magico dell’innocenza puerile, distruggendo il fantastico assoluto in favore del più realistico relativo. I primi racconti, narrati in tono favolistico e piano, ruotano pertanto intorno alle scoperte fondamentali che porteranno Tonino ad una graduale consapevolezza del suo essere “altro”, rispetto alla realtà che lo circonda: l’implacabilità del tempo, che fa sparire oggetti e persone amate (il palloncino, le foglie, il giorno e la notte); l’identificazione totale e sofferta con la mamma adorata («diffusa intorno», negli odori, nei colori, nei suoni) e, attraverso essa, la scoperta dell’affascinante e misterioso mondo femminile; la magia delle parole che non si lasciano ridurre a ciò che vogliamo, e hanno invece una loro segreta autonomia e dignità che va rispettata e quasi temuta; ma, soprattutto, la scoperta della propria individualità. L’io  si intitola il racconto forse più bello del libro, in cui Tonino, desideroso di inventarsi un fratello che gli faccia compagnia quando è solo, scopre nell’armadio materno, riflesso nello specchio, un altro Tonino che gli risponde con le sue stesse parole e le sue stesse smorfie, e lo elegge subito ad amico ideale, rassegnandosi ad ammettere che si tratta della sua stessa persona riflessa solo quando alle sue spalle compare la mamma, assolutamente identica alla mamma del bambino chiuso nell’armadio. Ecco che il mondo dei grandi, la loro verità a cui bisogna cedere, irrompe nella vita incantata di Tonino e la trasforma, e se ne impossessa. Ormai quasi ragazzo, Tonino scopre che anche i genitori hanno le loro debolezze e meschinità, che la natura (il mare, soprattutto, il mare tanto amato e percorso a nuoto, in barca, oppure solo con gli occhi) può essere crudele e rendere crudeli, che il proprio corpo conosce umiliazioni ed esaltazioni di cui si deve vergognare: impara, insomma, a fare i conti con la vita. E la vita, a sua volta, arriverà ai ferri corti con la storia, negli anni bui che precedono la seconda guerra mondiale. I ragazzi inglesi, compagni di giochi nel cortile di casa, diventano improvvisamente nemici; e la gita programmata insieme sul Vesuvio imbiancato dalla neve verrà rimandata per sempre. A Tonino non resta che cercare rifugio e salvezza nelle parole, che secondo l’insegnamento di un suo professore antifascista, sono sempre sacre:

Le idee non sempre sono sacre, ma le parole sì. Non fatevi incantare dalle parole. Imparate a usarle bene, non a gridarle. Neanche se le vedete scritte a lettere cubitali sui muri. Neanche se tutti le urlano insieme sulle piazze…

 

«Agorà» (Svizzera), 16 novembre 1988