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RECENSIONI

LAMANTEA

ROBERTO LAMANTEA, LO STRAPPO BIANCO – INTERNO POESIA

Forse già dalle epigrafi che Roberto Lamantea (Padova, 1955) ha scelto come introduttive al suo libro di versi Lo strappo bianco, possiamo intuire quale sia il filo conduttore della sua riflessione poetica.

Louise Glück e Adam Zagajewski, scrivendo della “luce bianca / non più travestita da materia”, della “luce delicata che erra, svanisce / e ritorna”, sembrano alludere al dileguarsi del reale nella sua concretezza, quando sfuma in una impalpabile, evanescente luminosità. Luce bianca incorporea che, rischiarando ogni orizzonte, finisce tuttavia per confondere lo sguardo umano, incapace di spingersi oltre la consistenza delle cose.

Luce e bianco sono termini ricorrenti nel volume di Lamantea, quando parla del paesaggio “di luce in luce sfinito”, o del candore di ovatta cipria neve latte luna biancospino: bianco che si oppone al nero, alla minaccia della negatività. Questa luce, questo bianco dovrebbero rimandare al fiabesco, all’infanzia, alla genuinità, in contrapposizione alla prosaicità del reale… Ma “il metro del mondo / non sarà / un girotondo di fate /   e   zucchero e albe”, perché la storia non è mai innocente nelle sue vicende collettive e private, e il poeta ne è ben consapevole: “con le mani di terra / e corteccia / e linfa e spine / abbiamo arato colline / e sgozzato conigli // dalle zolle affiorano mani / e teschi”.

Il sangue versato da tutte le vittime di guerre a Treblinka, in Siria, in Iraq ne costituisce indelebile testimonianza.

Nemmeno la natura viene risparmiata da violenze e crudeltà, agite o patite. La metafora del bosco si ripresenta in tutte le sezioni del libro, anche in quelle dedicate a fugaci figure femminili che danno “sapore a un attimo distratto”, o a ricordi di vacanze adolescenziali. Il bosco, a cui è dedicata la prima sezione della raccolta, diventa simbolo di adesione panica all’esistenza, in un’apoteosi del vegetale (licheni foglie erbe rametti baccelli fronde muschi sterpi rami germogli rose glicini betulle) e dell’animale (scarabei insetti serpi ragni), in un tripudio di verde selvatico non addomesticabile, ma contemporaneamente può rappresentare una minaccia, nelle improvvise, abbaglianti visioni di pericolo e morte: “per mano ti portano per mano / nel bosco – non sentieri dossi rune / l’intrìco di rìvoli ex nidi / e spiume slavato è lingua / i fossi e rivi e cune / di terra dune piogge e brevi / d’attese, forse, e di slavati / sguardi – i cardi selvatici / di spine”. Subisce prepotenza e soprusi, il bosco, quando anche i suoi alberi vengono abbattuti e trasformati in carta, utile a stampare “poesia noiosa”; nello stesso tempo però si fa asilo e protezione di aggressive brutalità.

Chiaro e scuro si rincorrono in questa raccolta, sottolineati anche da frequenti variazioni nel registro stilistico: alla sonorità tutta giocata tra ripetizioni, rime e assonanze, innocui calembour – nostalgico richiamo ai girotondi, alle ninnenanne, alle cantilene dei bambini – si contrappone un audace sperimentalismo linguistico che utilizza allitterazioni, artifici eufonici, martellamenti ritmici, secondo la più collaudata lezione surrealistica. Eccone alcuni esempi: “snuda notte snìdia / in gola sfiorata / notte senza labbra vento senza labbra / notte sgozzata”, “ai denti fuoco e gioco / m’imbavo e rinasco / baco nel nido di terra nudo nel nudo di terra nido m’imbivo e bibo bulbo / e ovulo e ibisco e fiele / in vischio m’innesto e miele in ameba in ovulo // a rinascere terra // a rinascere terra”.

Anche i versi, differenziandosi nella lunghezza, variano da strofe pacatamente distese a distici contratti nell’allusività del significato: “nel giardino il sonno / tra le dita di un ragno”, e l’impressionismo descrittivo di molte composizioni si converte nella seconda parte del volume in una visionarietà più intimidatoria e ostile.

Una varietà di forme e contenuti che Lamantea ben riassume nel titolo ossimorico, dove lo strappo – di solito associato al rosso del sangue, al nero dell’affronto – esibisce la sua inoffensività nel bianco della resa.

 

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net                    10 dicembre 2023

 

 

 

 

RECENSIONI

LAMARQUE

VIVIAN LAMARQUE
LA BAMBINA CHE MANGIAVA I LUPI – MURSIA, MILANO 1992
LA BAMBINA DI GHIACCIO – ELLE, MILANO 1992
IL SIGNORE DEGLI SPAVENTATI – PEGASO, VIAREGGIO 1992

Tra la fine del ’92 e l’inizio di quest’anno, Vivian Lamarque ha messo a segno un tris editoriale di titoli diversi per genere e tipo di pubblicazione, ottenendo comunque risultati di uguale, alto prestigio. Da una quindicina d’anni questa scrittrice (milanese di adozione, ma trentina di nascita) può godere di un pubblico convinto e appassionato, fedele testimone della sua voce poetica, sincero estimatore sia del suo particolarissimo timbro affabulatorio, sia del suo spessore -diciamo così- “umano”. Già dalle prime prove poetiche, contrassegnate da uno stile leggero e cantilenante, fintamente infantile – perché oscillante tra candore e spavento, tra malizia e gentilezza d’animo- sino alla produzione recente, letterariamente più mediata e accorta, culturalmente filtrata dall’esperienza analitica junghiana, Vivian Lamarque ha saputo scavarsi una nicchia sicura e incontestabile nel nostro panorama letterario, saggiando appunto vari generi: dalla fiaba alla filastrocca, dalla poesia al frammento alla traduzione. E questa nicchia, negli anni, se l’è lavorata, l’ha ampliata e abbellita, servendosene come di un rifugio cui tornare sempre, alla ricerca di temi e toni che rimangono solidamente gli stessi, ma con incursioni frequenti e spavalde in un esterno ogni volta più ampio e seducente.
Leggera e quasi incorporea, malinconica fata turchina dei Navigli, la Lamarque ha sfidato e modificato anche la tradizione più collaudata, quella favolistica, come nel recente volume La bambina che mangiava i lupi, uscito nell’indovinata collana  Beccogiallo per i tipi di Mursia. Ecco quindi una Cappuccetto Rosso rovesciata, di nome Bambina (un archetipo, quindi? o una vaga riminiscenza delle storie assurde per l’infanzia di Ionesco?), che ama i lupi al punto di mangiarseli, a volte lessi a volte arrosto. Bambina ha una gallina che si chiama Gallina, e insieme vivono in cima a un albero altissimo, in una capanna che ha tutto, e anche il balconcino in più. Di lì si sporgono a prendere il fresco, Bambina felice e Gallina tremante. D’inverno le due protagoniste del racconto girovagano affamate per il bosco, finché Bambina, quasi per caso, si trasforma in cacciatrice, cuoca e divoratrice di lupi. E a questo punto, all’understatement della Lamarque, sottilmente crudele nella sua fantastica levità, viene in soccorso l’illustratrice Donata Montanari, che ci propone una Bambina streghetta dai capelli rossi-aculei e dalle gambe sottili, intenta ad assaggiare sorniona una zuppa di lupo con orecchie, coda e zampe che sporgono da diverse pentolacce. Per farla breve, questa Bambina diventa presto il terrore dei lupetti che vanno a trovare le nonne, ed è temuta al punto che si vede costretta a travestirsi da lupo, «e a travestirsi bene, se no poi i lupi le dicevano ‘Ma che zampe bianche hai!… Ma che bocca piccola hai!’», e diventa essa stessa lupo, in un esopismo rivisitato sadicamente. Morale della favola: «E dunque non abbiate troppa paure dei lupi, bambini. Dentro di loro batte un cuore di bambina», in cui il messaggio consolatorio e rassicurante svela la considerazione perversa per cui è meglio la naturalezza ferina rispetto all’atrocità infantile.
Un’altra bambina è protagonista del secondo volume di cui vogliamo occuparci: La bambina di ghiaccio e altri racconti di Natale, pubblicato da Elle Edizioni in un volumetto illustrato in bianconero, con una splendida dedica che rimanda alla biografia sofferta dell’autrice: «A tutti i bambini (ma a quelli soli di più)». Tradotto dalla stessa Lamarque anche in francese, è uscito recentemente presso Albin Michel, nella collana  Ippomée. Si tratta di cinque storie particolari, che narrano Natali diversi, sospesi tra realtà sogno e immaginazione. Storie levissime e trasparenti come il cristallo, che si può spezzare e allora ferisce, punge; gelide e nitide come il ghiaccio, che esprime incomunicabilità e sofferenza. Ancora una bambina, quindi, espressione di un topos letterario in Vivian Lamarque, a metà strada tra Gretel e la piccola fiammiferaia, tra astuzia e generosità sacrificale, una bambina quasi eterna e quasi perfetta, ma condannata all’ombra e al gelo, e a non poter superare la soglia del suo millesimo anno di vita. Anche in questa delicata ma amara fiaba resistono echi lontani di leggende alpine e di balletti russi, stemperati da una sensibilità poetica eccezionale. Molto riuscite tutt’e cinque, queste storie, e in particolare le due finali: Natale in cielo e Natale in mare, dominate dallo struggimento della solitudine, dell’incompiutezza, della nostalgia per qualcosa o qualcuno che non si avrà mai.
A quest’ultimo tema possiamo forse riallacciarci per commentare il terzo volume preso in considerazione, Il signore degli spaventati, frammenti poetici che si collegano a un’altra opera della Lamarque (Il signore d’oro, Crocetti 86), omaggio all’analista junghiano con cui da molti anni l’autrice è in terapia. Sono quaranta composizioni non comprese in quella pubblicazione, e che ora appaiono con una prefazione di Giovanni Giudici presso le Edizioni di Pegaso di Viareggio, in un elegante cofanetto che comprende altri tre volumetti di illustri autori: Mario Tobino, Antonio Delfini, Gabriella Sica. Anche qui, un rapporto infelice, impossibile, di due persone che in qualche modo sono -per poco e per sempre- una nell’altra, e non dovrebbero. La signora spaventata che vorrebbe e non può, il signore spaventato che non deve.

«L’Arena», 13 maggio 1993

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LAMARQUE

VIVIAN LAMARQUE, POESIE DANDO DEL LEI – GARZANTI, MILANO 1989

Due sono i nomi di rilievo nella nuova poesia femminile italiana di questo decennio, non a caso gli unici citati da Maurizio Cucchi nel suo Dizionario della poesia contemporanea: Patrizia Valduga (nata nel 1953) e Vivian Lamarque (nata nel 1946). Si tratta di due poetesse in qualche modo antitetiche, che tuttavia hanno in comune il fatto di possedere un timbro di scrittura inconfondibile e una notevole abilità nel gestire la propria forte personalità poetica. Più decisa nello sperimentare moduli linguistici innovativi e tematiche provocatorie, più “colta” nel mescolare ascendenze remote e nell’esibire plagi recenti, Patrizia Valduga ha rivelato un suo “animus” di poeta razionale talvolta esasperante e sempre esacerbato, mentre Vivian Lamarque mostra più direttamente (senza ricorrere a paludamenti o a sovrastrutture intellettuali) la sua “anima” sicuramente femminile, istintiva. Conosco Vivian da parecchi anni e ne vorrei qui parlare con l’affetto che ha contraddistinto i nostri rapporti, trasformandoli in un’amicizia discreta, non invadente: da quando nell’81 mi rispose per ringraziarmi di una recensione al suo libro Teresino (premio Viareggio opera prima), contestandomi gentilmente l’unico appunto negativo che le avevo mosso. Da allora ci siamo riviste più volte, a Milano o a Zurigo, io rarefacendo le mie discese in Lombardia, lei intensificando le sue visite in Svizzera, soprattutto in omaggio al mito di C.G. Jung. In questi anni Vivian Lamarque si è fatta conoscere anche come autrice di fiabe e di ninnenanne, di traduzioni dal francese e di altri due volumi di versi: Il signore d’oro (Crocetti ’86), forse il suo libro migliore, e l’ultimo Poesie dando del lei (Garzanti ’89), entrambi frutto di un travagliato ed esaltante percorso di analisi junghiana. Il signore d’oro, il dio a cui si rivolge per essere salvata, è ovviamente l’analista, divenuto catalizzatore di ogni premura affettiva, di tutto il bene sperato e di tutto il male patito. Al suo “Dottore”, a questa sua nuova “Madre”, cui obbligatoriamente si deve avvicinare “dando del lei” – cioè accettando un diaframma di professionale distacco -, Vivian dedica più di mille poesie, rimaste inedite tranne una settantina che appunto Garzanti propone nella sua collana di agili volumetti dalla copertina argentea. La faccia dell’autrice sbuca a fare cucù sotto il titolo e il suo nome: ed è un cucù sorridente e disperato insieme, come il tono dei suoi versi; leggero, aereo, ma di una gaiezza d’improvviso spezzata, infranta, di una felicità straziata. Forse è il caso di esemplificare con alcune poesie, da cui apparirà subito chiara l’intensità fulminea dei suoi ingenui entusiasmi e delle sterzate dolorosamente pudiche.

La mia superficie è felice,
ma venga venga a vedere
sotto la vernice.

Credevo non mi amasse
perché è vietato
forse invece non mi ama
perché non è innamorato.

Appena cominciata
si è già disperata
la mia giornata.

Per essere felice
senza disturbare
al Suo numero
leggermente sbagliato
devo telefonare.

Giustamente nell’81 Vittorio Sereni aveva parlato per la poesia della Lamarque di «repentini rovesciamenti di fronte, per cui a volte due versi a chiusura di una cantilena quanto mai puerile arrivano imprevisti come una coltellata». La protagonista di questi versi, così scopertamente autobiografici, si offre al lettore con un candore disarmato, davvero puerile, di bambina che supplica («Sorpresa! / Attraverso il Suo finestrino abbassato / un furtivo sacchetto di pane fresco fresco / ho infilato… / La prego diventi innamorato!»). Ma, a proposito dell’infantilità di questo atteggiamento poetico, forse che i bambini non sanno stupirci con i loro imprevedibili passaggi dal riso al pianto, le loro illuminanti associazioni, la loro comprensione profonda e mai ipocrita del dolore? C’è tutta una tradizione letteraria, una vena nella nostra poesia, da S. Francesco ad Ariosto a Gozzano, che privilegia l’ironia rispetto al dramma, la leggerezza rispetto all’angoscia: quali nomi fare, allora, come ascendenti della poesia lamarquiana? Senz’altro alcune cose di Saba, molti versi di Penna (anche lui, così struggente nella sua fiduciosa scalfibilità): però non mi viene in mente nessun nome di donna, se non alcuni frammenti di Saffo, i più gioiosi… C’è un rischio che corre questa poesia, ed è quello di inchiodare l’autrice a un cliché riduttivo, da “mondo dei balocchi”, come suggeriscono esplicitamente alcuni suoi versi; oppure, che il lettore possa sospettarvi un autocompiacimento atteggiato. In realtà, la faccia di Vivian che sbuca ammiccante dal libro, ha la stessa espressione della sua faccia vera, quando fa capolino dal finestrino del treno; i suoi entusiasmi letterari rispecchiano quelli a cui si lascia andare davanti alla torta di fragole e panna preparata per il suo compleanno, o in giro per Zurigo con la Polaroid pronta allo scatto. Davvero Vivian ricorda un personaggio delle fiabe, forse la fatina di Peter Pan, facile preda di lacrime e sorrisi, di voli alle stelle e inabissamenti sottomarini. Proprio così, stupite di esistere, bambine, sono le anime dei poeti.

«Agorà» (Svizzera), 13 dicembre 1989

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LAMARQUE

VIVIAN LAMARQUE, TERESINO – SOCIETA’ DI POESIA, 1981

Di questo volume edito recentemente dalla Società di Poesia, Teresino, Vivian Lamarque aveva offerto anticipazioni già nel ’76, quando suoi versi erano usciti in un’antologia di Savelli, e nel ’78, quando un’intera plaquette era stata pubblicata in un quaderno collettivo di Guanda. Già allora si era notato il timbro particolare dei suoi versi, pressoché unico, inequivocabile, nel panorama piuttosto omogeneizzato della giovane produzione letteraria, dove a un autore può benissimo capitare di essere scambiato per un altro. La Lamarque no, riconoscibilissima già da quelle prime pubblicazioni, proprio per la sua indovinata scoperta di un tono tra il cantilenante e il favoloso. Tuttalpiù la si leggeva con la riserva che un esperimento del genere potesse durare lo spazio di una mini-raccolta, andasse bene come antipasto, come assaggio: ma sarebbe stato in grado di reggere per un libro intero? Eccola, dunque, alla prova del nove: il libro intero. Sette sezioni, scandite da epigrafi in francese tratte dalla fiaba di Pollicino. Pollicino che lascia dietro a sé una traccia, è la traccia per entrare nel libro, per leggerlo senza rimanerne infastiditi: “farsi minimi per vincere gli orchi”, diventare trascurabili per risultare poi essenziali. Vivian inventa poesia per vincere i suoi fantasmi, che son tutti privati, elementi di un puzzle femminile comune a molte: grande amore, matrimonio, figlia, abbandono, solitudine, nuovo amore, nuovo abbandono. Riesce a evitare la trappola del luogo comune col vestire la sua storia adulta di un linguaggio infantile, minimo appunto, in cui non si mimano solo le espressioni dei bambini (gli “anche”, gli “ecco”, i “per esempio”, conclusivi e sottolineanti) ma addirittura le loro strutture logiche (il paradosso, la non consequenzialità dei concetti) e i sentimenti (puntiglio, dispetto). Avviene in questo modo che la poesia della Lamarque si ridimensioni, si prenda in giro nei contenuti (evitando l’accentuazione di passioni e sofferenze) ed esasperi fino alla provocazione la quotidianità, la trascuratezza della forma. In  L’amore mio è buonissimo, una trentina di “pensierini” vengono modulati sulla falsariga dei componimenti che i bambini svolgono alle elementari: «l’amore mio se morirà prima lui non creda! / perché anch’io morirò immediatamente / e così dopo due giorni riceverà una lettera  / con dentro l’ultima poesia/ e anche con spiegato come sono morta; l’amore mio a prima volta che è un po’ distratto me lo prendo e me lo porto via; io un giorno ho messo sotto il tergicristallo dell’amore mio un bigliettino / lui ha pensato a una multa invece no ero io».

E’ una poesia degli affetti (da cui sembra esclusa come scelta più che come possibilità la dimensione cerebrale, la manipolazione linguistica) che indulge persino al parolierismo canzonettistico, con l’uso di frequenti ripetizioni in funzione musicale, refrain, rime, assonanze che tendono a riprodurre l’effetto magico-fiabesco delle filastrocche: «Sempre più mi sembri una persona innamorata / e so che con me questo non ha a che vedere / e so che con me questo non ha a che vedere; Tua moglie che allegra lì fuori / ti fermi e la guardi che mangia la neve / ti fermi e la guardi che mangia la neve».

Se ascendenze, riferimenti letterari si possono supporre in un lavoro così originale, due nomi dovrebbero farsi: Rodari («Il mio primo amore il mio primo amore / erano due. / Perché lui aveva un gemello / e io amavo anche quello».) e il Giudici de  La Bovary c’est moi e di Persona femminile: «Per esempio portami per strade che tu vuoi / con la tua macchina / e ridi. / Ti sono affidata fino alla maggiore età. / Prendimi a cuore. / Dimmi di mangiare; Devastata da un suo guardare / se questo ancora è possibile cosa resta?»

Ci sono dei cedimenti, delle stanchezze improvvise in alcune sezioni, soprattutto dove l’eccedere di ingenuità, di candore, diventa simulazione, autocompiacimento: è il caso delle poesie più lunghe, e in particolare dell’ultimo capitolo,  Teresino, che dà il titolo alla raccolta (nel titolo stesso si avverte una certa affettazione, una sorta di manierismo). Ma ci sono anche segnali di un probabile e augurabile sviluppo futuro, quando il “minimo” si troverà a dover crescere, e sceglierà tra la dimensione favolosa (già annunciata in Pesce che vola) o quella ironico-parodistica («sta dietro ai vetri / un po’ più del normale / intendo i vetri di casa / se fossero vetrine / allora sì che direste che è normale), oppure quello autobiografica più matura, come in  Ridimensionare: «Quest’operazione / che la costringete sempre a fare / “ridimensionare”/ non è come stringere un vestito / non è indolore / si taglia la pelle del cuore».

INEDITO – 1981          © Riproduzione riservata

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LAMARQUE

VIVIAN LAMARQUE, IL SIGNORE D’ORO – CROCETTI, MILANO 2020

Il terzo libro pubblicato da Vivian Lamarque nel 1988, Il signore d’oro, viene oggi riproposto dallo stesso editore di allora, Nicola Crocetti. Si tratta di composizioni risalenti al biennio 1984-1986, che non è del tutto congruo classificare come poesie (nonostante spesso ci si imbatta in frasi che sono endecasillabi, o endecasillabi più settenari, abilmente camuffati), Né sarebbe appropriato parlare di aforismi, poiché non spacciano ricette di vita o di saggezza usa e getta: piuttosto esibiscono incertezze, implorano conferme.

Potremmo concordare di chiamarle brevi prose poetiche, sottintendendo tuttavia che si tratta di messaggi, di probabili S.O.S. inviati più che al lettore, al protagonista stesso del volume, un signore d’oro definito con attributi ben poco caratterizzanti (bello e meraviglioso, accarezzabile, alato, intoccabile, lontano, profumato, studioso, gentile, notturno), con l’esplicita intenzione di lasciarlo sospeso in un’immateriale levità fantastica. Di lui sappiamo che veste un loden grigio lupo, che probabilmente si identifica con il dottore della dedica, il quale incontra regolarmente nel chiuso di un seminterrato una signora, nel reiterarsi di un rapporto riducibile in realtà a una terapia analitica.

Ma “La realtà non c’era, era abdicata. / Splendidissima regnava la vita immaginata”: ciò che conta è il sogno, inteso più che come materiale onirico, come favola. Il tono narrativo è appunto quello – tipico di Vivian Lamarque, nota anche come scrittrice per l’infanzia e traduttrice dal francese – fiabesco, scandito da insistenti anafore e da numerose anastrofi (“per eventualmente salire”, “la pensata fotografia”), dalla formula enunciativa dell’incipit (“Era un signore…”), dall’uso iperbolico di aggettivi, esclamativi e soprattutto avverbi, spesso reiterati (sempre sempre, lontano lontano, basso basso, fitto fitto, piano piano…), dalla costante pratica di interrogazioni retoriche, parodianti le cantilene infantili.

Co-protagonista del racconto è una signora quarantenne (“Però gli anni non erano durati veramente un mese”), i cui contorni rimangono ancora più nel vago di quelli del “signore d’oro”, definita com’è non tanto da attributi, quanto da una serie di azioni a senso unico: “Una signora voleva dargli dei baci…; stava diventando gelosa…; voleva tenerlo fino a persempre con sé…; aspettava… non lo sapeva che il signore non arrivava…; in fretta lo adorava…; gli scriveva lunghi foglietti…; lo guardava fisso e gli faceva dei piccoli inchini di pensiero sulle scale d’oro del trono…”.

I fili che reggono queste brevi illuminations avvolgono il lettore in un bozzolo di incantata leggerezza, invitando chi legge ad abbandonarsi a una berceuse di parole recitate con voce innamorata; se non che i frequenti bruschi risvegli richiamano a una realtà disperata, proprio nel senso di senza speranza: “Era un signore andato via. / A lei qui rimasta tantissimo mancava. / La traccia di lui lasciata segnava / ovunque intorno a lei l’aria. / Come un quadro spostato per sempre segna la parete”.

 

«Gli Stati Generali», 3 novembre 2020, «La collina» n.9/10, giugno 1988

 

 

 

 

 

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LAMARQUE

VIVIAN LAMARQUE, LA GENTILÈSSA – STAMPA 2009, BRUNELLO (VA) 2019

La poesia dialettale milanese ha una lunga e celebrata tradizione letteraria, a partire già dal medioevo per arrivare ai giorni nostri. I poeti lombardi che hanno scritto versi in vernacolo si esprimevano preferibilmente in italiano nelle loro composizioni ufficiali, destinate a un pubblico di lettori più vasto (dal seicentesco Carlo Maria Maggi, a Giuseppe Parini, Alessandro Manzoni, Tommaso Grossi, Emilio De Marchi), forse in considerazione del fatto che la poesia dialettale si è sempre scontrata con il pregiudizio di utilizzare temi folkloristici, sentimentali, nostalgici o buffoneschi, prediligendo la descrizione di personaggi stereotipati, ridotti perlopiù a macchiette. Unica eccezione, il grande Carlo Porta (1775-1821), di cui recentemente Einaudi ha ripubblicato tutte le poesie, che ha composto esclusivamente in milanese, assurgendo a livelli di meritata fama nazionale. Nel ’900, due sono stati i poeti più importanti tra i “meneghini”, Delio Tessa (1886-1939) e Franco Loi (1930), la cui produzione si è riscattata dal bozzettismo, affrontando argomenti etici e di costume, di critica sociale e di affetti familiari, per lo più venati di un’inquietudine malinconica e assorta. Negli ultimi trent’anni, la poesia in dialetto ha conosciuto nel nostro paese una rinascita e uno specifico interesse anche da parte della critica più impegnata, che ha visto in essa una superiorità espressiva e un’originalità di contenuti in grado di opporsi all’omologazione culturale, contrapponendosi ideologicamente alle mode livellatrici e inautentiche del linguaggio ufficiale.

Vivian Lamarque, nata a Tesero (Trento) nel 1946, dall’età di nove mesi vive a Milano, dove ha lavorato come insegnante e traduttrice, autrice di testi per l’infanzia e collaboratrice di importanti testate giornalistiche, segnalandosi soprattutto in quanto poetessa tra le maggiori e le più originali del nostro paese. Nel 2009 ha pubblicato La gentilèssa, una raccolta di venti liriche dialettali, ora riproposta dalle edizioni Stampa 2009, con la prefazione di Maurizio Cucchi e un’interessante intervista rilasciata a Mary Barbara Tolusso. La sua scrittura in un milanese urbano, garbato (che magari ci riporta un po’ l’atmosfera e le ambientazioni di alcune canzoni di Gaber, di Jannacci, dei Gufi), ha le stesse tonalità sospese, leggere, delicatamente cantilenanti che troviamo in molte delle sue poesie in lingua:  «Milàn  brütta bèlla / lassem andà / ‘l me amur ‘l m’ama no / ‘l me amur  m’ama no», «adèss l’è grand / ‘l gh’à ‘lso de fa / i lusert de cercà / i bus de scavà / ‘l pustin de baià…».

Sono poesie che Vivian ha scritto molto tempo fa, tra il 1972 e il 1975, «in anni oscuri» in cui ha sofferto e fatto soffrire, come scrive in esergo. Allora il dialetto diventa la lingua che accoglie e accarezza, benché non sia quella nativa della poetessa, nata in Trentino e poi adottata da una coppia milanese: ma è comunque una lingua respirata nell’aria degli anni ’50, tra la gente in strada, nei negozi, nei cortili dei giochi. Come giustamente commenta Cucchi “è un ulteriore tentativo naturale di portarsi a una condizione primaria di innocenza”: lingua del sogno, della fiaba, della memoria e dell’innamoramento.

Le immagini che si rincorrono nelle pagine risultano commoventi nella loro discrezione, mai retoriche o abusate. Sia quando descrivono l’attesa di una lettera con un’intestazione affettuosa («la data / e sott la parola ‘cara’ / cara e ‘l me nom visin»), ma che non si apre temendo un addio, o l’emozione di una telefonata a cui per troppa gioia non si sa rispondere, o la richiesta al papà di poter fare un giro in bici («Sto ferma ferma / moeuvi no i gamb / mèti no i pé in di roeud / parli no / famm fa un gir in bicicletta / gh’oo ses an / pesi minga tant, papà»).

Il libro è omaggio alla virtù ormai tanto trascurata, quando non vilipesa, della gentilezza: nei rapporti con le persone, con gli animali, con la città, il cielo e le nuvole. Gentilezza che è anche comprensione, indulgenza, fine attenzione ai sentimenti altrui, e che fa sorridere il cuore, gli occhi e persino gli occchiali: «Come me pias a mi la gentilèssa / come me pias diventi matta / duu parulitt al moment giust / ‘n attenzion minimissima de nient / ‘l foo parè no ma diventi matta / me riden el coeur i ceucc / e financa i occiaj / come l’è bèlla la gentilèssa / come l’è gentil / la me fa tant ben ma tant / denter de mi / che diventi matta».

Vengono in mente, leggendo queste poesie esili e cortesi di Vivian Lamarque, due bei versi di un altro poeta gentile, Sandro Penna: «La tenerezza tenerezza è detta / se tenerezza cose nuove dètta».

 

© Riproduzione riservata           https://www.sololibri.net/La-gentilessa-Lamarque.html

20 maggio 2019

 

 

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LAMARQUE

VIVIAN LAMARQUE, UNA QUIETA POLVERE – MONDADORI, MILANO 1996

 

Nel 1996 Vivian Lamarque venne premiata dal prestigioso Pen’s Club per il libro di versi Una quieta polvere, che indicava una svolta importante nella sua produzione, una precisa e coraggiosa volontà di cambiamento contenutistico e formale rispetto ai volumi precedenti. Attiva già da un quindicennio in campo letterario, gratificata da molte e meritate attenzioni critiche, Lamarque era stata letta fino ad allora soprattutto, anche se non esclusivamente, attraverso le categorie della favola, dell’ironia, dell’analisi junghiana: elementi certo presenti nella sua scrittura, ma che non ne esaurivano il significato.

Nel volume di cui ci occupiamo apparve come una novità il tema dominante della morte, del lutto e della sua elaborazione a livello etico e intellettuale. Già dal titolo, tratto da Emily Dickinson, è evidente il richiamo alla dissoluzione finale del corpo. Nel poemetto omonimo, le nove sezioni sono scandite da immagini funebri di una presenza minacciosamente incalzante, rifiutata con terrore e quasi infantile testardaggine (“Io non voglio la morte Giardiniera / io voglio un giardino”, “io non voglio essere polvere”, “io non sono morta io sono nata”, “quando muoiono gli altri / non è come morire noi in persona”, “io al mattino voglio svegliarmi e alzarmi”), con un procedimento tipico e collaudato nell’autrice già dalla prima raccolta (Teresino, premio Viareggio nell’81), fondato su frasi lapalissiane, ribadite con ostentata e ingenua caparbietà. La morte, vissuta come buio, freddo e immobilità, è sofferta soprattutto in quanto distacco, conclusione definitiva di ogni sentire e patire, di ogni devozione e dedizione agli affetti: incomprensibile assurdità che ulcera l’anima e annulla il bene fatto e ricevuto. Da respingere, quindi, con paura e ostinazione, in nome della vita e dell’amore. Vivian Lamarque si ribella all’allontanamento, all’essere divisi in due, quando invece vorrebbe poter aspirare alla fusione totale e totalizzante.

La vicenda biografica dell’autrice offre un’evidente motivazione a questa penosa angoscia. Segnata da una serie di abbandoni già dalla nascita in provincia di Trento, poi adottata da una famiglia milanese presto colpita dalla morte del padre, in seguito vittima-protagonista di altre separazioni sentimentali, a partire da quella, fondamentale, avvenuta nel proprio matrimonio.

Nella prima sezione del volume, Madri padri figli, la storia personale dell’autrice è rielaborata con i toni fiabeschi di Hansel e Gretel, divenuti d’un tratto tragedia, incubo: la madre vera si trasforma in matrigna, il padre vero non si fa più vivo come il taglialegna di Grimm: l’abbandono diventa allora il più imperdonabile dei tradimenti, la più feroce delle violenze. La bambina cresce ferita, dimezzata, scissa: impara troppo presto a tacere e a negarsi (“Col punto erba / col punto croce / diligente si cuciva le labbra / faceva il nodo”), intuisce la sua diversità che diventa subito un marchio distintivo, promessa di infelicità futura (“Cenavo sola / o in altre case”, “Venti anni che trascina il ricordo / di quel riso bianchissimo / di una sera / da qualcuno da mangiare”, “Basta: alle dieci c’è da ringraziare / e scendere le scale”). Vivian bambina in prestito, passata da una casa popolare del dopoguerra a una colonia, a nuove e diverse case di vicini compiacenti, con la consapevolezza di qualcosa che le è stato negato per sempre (“Quei bambini in cortile / potevo essere io”). Poi l’età adulta, il marito, la figlia Miryam e una volontà inseguita affannosamente di ricreare un puzzle familiare che sapesse profumo di natali e compleanni,  di trepidazioni condivise per febbri ed esami e assilli quotidiani: invece sopravviene ancora una volta un distacco, una rottura dolorosissima (“Non mi ero separata / padre madre figlia / la famiglia continuava unita / oh il percorso bello della vita”).

La ricerca di una famiglia è anche ricerca di una casa in cui stare e ritrovarsi, ancorandosi a qualcosa di fermo e luminoso: c’è in Vivian Lamarque questa esigenza concreta di luce e pulizia, di solidità e certezza, che si rispecchia anche nella resa formale della sua poesia, riconoscibilissima nel nostro panorama letterario proprio per il suo particolare timbro di limpidezza.

Cercasi: poesie per un trasloco è la quinta sezione del volume, dedicata appunto alla ricerca di un appartamento-guscio. La casa è vista come interno che difenda e permetta di ritrovarsi (“Cercasi casa / cercasi casa con sole /… cercasi casa / con dentro famiglia”), ma nello stesso tempo metta in relazione con altre realtà (il condominio, il quartiere, la città): “Quanto cara mi è questa finestra / che mi separa, e unisce a Milano”. La metropoli di fine millennio è abitata da nuove divinità: ladri distinti, governanti sussiegose, cani viziati, piccioni e piccioni, e “Persone / che chiamano Vù Cumprà”. Soprattutto a questi “nuovi milanesi di colore” va l’intenzione dell’autrice in un ideale testamento di solidarietà.

Se è nuova nella Lamarque questa corda del “sociale”, dell’interesse per ciò che è pubblico, con una accentuata sensibilità anche verso le tragedie mondiali, più consona e sua appare invece la voce intimista nell’accenno alla pratica di analisi junghiana. Dopo tre libri dedicati allo psicanalista con cui è stata in cura per molti anni, temi e toni rimangono costanti: un minimalismo formale e di pensiero (“Sonnambulina l’amavo / leggermente stordita”, “Caro Dottore / un amore vorrei / uguale uguale / a Lei”), per cui la poetessa si fa piccola, bambina,  per essere guidata da chi può salvarla; un continuo e ricattatorio bisogno di donare per rendersi gradita (“Le ho portato / basilico rosmarino aghi di pino”); un’esibita adorazione, ingenua e auto-compatita (“Oh fossi io / la pagina di libro / che Lei / così fortemente riga”, “Io guardo / la forma del suo sguardo”, “quando Lei sarà albero / e io fogliolina / nessun ottobre / nessun novembre / riuscirà a staccarmi / scommettiamo? / dal Suo ramo”); il ricorrente pensiero della morte come separazione ma anche come unico modo per arrivare a una simbiosi definitiva (“Caro Dottore / quando La chiamerò nell’aldilà / ci sia mi raccomando / (e ci sia l’Eternità)”.

Il tema della fine, del disfacimento del corpo, conclude tutto il volume nella sezione Come i fiori, viva di una umanità dolce e dolente, di una malinconia consapevole, che tutto accomuna perché tutto si sa degno di pietas (terra, insetti, fiori): ma anche gli amici che ci hanno preceduto nell’addio alla vita, anche Pasolini, e coloro che per caso ci hanno accompagnato nel viaggio terreno (“A vacanza conclusa dal treno vedere / chi ancora sulla spiaggia gioca si bagna / la loro vacanza non è ancora finita: sarà così sarà così / lasciare la vita?”).

Una teologia della quotidianità, una metafisica degli affetti, fanno di Vivian Lamarque una voce particolare nella nostra poesia contemporanea, subito riconoscibile tra tante, che da tempo abbiamo imparato ad apprezzare.

 

 

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https://www.sololibri.net/Una-quieta-polvere-Lamarque.html              6 aprile 2020

RECENSIONI

LAMARQUE

VIVIAN LAMARQUE, IL SIGNORE D’ORO – CROCETTI, MILANO 2020

Il terzo libro pubblicato da Vivian Lamarque nel 1988, Il signore d’oro, viene oggi riproposto dallo stesso editore di allora, Nicola Crocetti.

Si tratta di composizioni risalenti al biennio 1984-1986, che non è del tutto congruo classificare come poesie (nonostante spesso ci si imbatta in frasi che sono endecasillabi, o endecasillabi più settenari, abilmente camuffati), Né sarebbe appropriato parlare di aforismi, poiché non spacciano ricette di vita o di saggezza usa e getta: piuttosto esibiscono incertezze, implorano conferme.

Potremmo concordare di chiamarle brevi prose poetiche, sottintendendo tuttavia che si tratta di messaggi, di probabili S.O.S. inviati più che al lettore, al protagonista stesso del volume, un signore d’oro definito con attributi ben poco caratterizzanti (bello e meraviglioso, accarezzabile, alato, intoccabile, lontano, profumato, studioso, gentile, notturno), con l’esplicita intenzione di lasciarlo sospeso in un’immateriale levità fantastica.

Di lui sappiamo che veste un loden grigio lupo, che probabilmente si identifica con il dottore della dedica, il quale incontra regolarmente nel chiuso di un seminterrato una signora, nel reiterarsi di un rapporto riducibile in realtà a una terapia analitica.

Ma “La realtà non c’era, era abdicata. // Splendidissima regnava la vita immaginata”: ciò che conta è il sogno, inteso più che come materiale onirico, come favola. Il tono narrativo è appunto quello – tipico di Vivian Lamarque, nota anche come scrittrice per l’infanzia e traduttrice dal francese – fiabesco, scandito da insistenti anafore e da numerose anastrofi (“per eventualmente salire”, “la pensata fotografia”), dalla formula enunciativa dell’incipit (“Era un signore…”), dall’uso iperbolico di aggettivi, esclamativi e soprattutto avverbi, spesso reiterati (sempre sempre, lontano lontano, basso basso, fitto fitto, piano piano…), dalla costante pratica di interrogazioni retoriche, parodianti le cantilene infantili.

Co-protagonista del racconto è una signora quarantenne (“Però gli anni non erano durati veramente un mese”), i cui contorni rimangono ancora più nel vago di quelli del “signore d’oro”, definita com’è non tanto da attributi, quanto da una serie di azioni a senso unico: “Una signora voleva dargli dei baci…; stava diventando gelosa…; voleva tenerlo fino a persempre con sé…; aspettava… non lo sapeva che il signore non arrivava…; in fretta lo adorava…; gli scriveva lunghi foglietti…; lo guardava fisso e gli faceva dei piccoli inchini di pensiero sulle scale d’oro del trono…”.

I fili che reggono queste brevi illuminations avvolgono il lettore in un bozzolo di incantata leggerezza, invitando chi legge ad abbandonarsi a una berceuse di parole recitate con voce innamorata; se non che i frequenti bruschi risvegli richiamano a una realtà disperata, proprio nel senso di senza speranza: “Era un signore andato via. // A lei qui rimasta tantissimo mancava. // La traccia di lui lasciata segnava / ovunque intorno a lei l’aria. // Come un quadro spostato per sempre segna la paret

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«Gli Stati Generali», 3 novembre 2020, «La collina», n. 9-10, giiugno 87

 

RECENSIONI

LAMBERTI

ANGELO LAMBERTI, IL SIGNOR FRANZ K. – LCE EDIZIONI, CASTEL FRANCO VENETO 2015

Angelo Lamberti, poeta e drammaturgo nato nel 1942 in provincia di Mantova, attivo animatore culturale nel suo territorio padano, ha appena pubblicato nella  Biblioteca dei Leoni  curata da Paolo Ruffilli un volume di versi scandito in sei sezioni. Se vogliamo iniziare il nostro commento proprio dalla poesia conclusiva, diciamo che si tratta di una preghiera alla Signora con la falce, un’implorazione affinché agisca con clemenza, senza crudeli differimenti: «e vorrei che arrivassi all’improvviso… // Ti chiedo: non rendermi difficile / il facile che mi aspetta». La morte è protagonista anche di un altro capitolo del libro, intitolato Livello di calpestio, in cui si muovono ombre aggredite dalla fine più o meno attesa, più o meno desiderata. Anziani stanchi o centauri imprudenti, anonimi clochard o iracondi viveurs… Ma non è senz’altro il finis vitae quello che interessa maggiormente raccontare a Lamberti: invece la tenerezza dei ricordi, la nostalgia per ogni bellezza naturale, l’inquietudine della ricerca metafisica, l’amore per l’espressione scritta. Ecco allora la descrizione del suo primo lavoro, quando, bambino dodicenne, si ritrovava in treno tra adulti insonnoliti o disincantati: «Tra i compagni di viaggio c’è chi porta / gli occhiali tristi della persona istruita / e chi il malodore di ascelle sudate», chiosando con malinconia: «La conquista del pane quotidiano / sfregia le stagioni dell’infanzia». Ancora, in una sezione dedicata a Dieci nomi, sono presenze di familiari o amici a riemergere dal buio della memoria: «Gli occhi docili e spauriti / della sua razza storpiata / da fatiche seminate alla terra», è un omaggio poetico a una contadina cui la vita non ha saputo rendere giustizia (allora, anche la bestemmia educata, «dio invasore», per vendicare un malato di cancro, trova una sua umana giustificazione). Ma l’autore è uomo di lettere, autodidatta appassionato cultore di classici, e il suo confronto con i grandi della letteratura è fecondo e continuo: quindi Shakespeare, Calderon, Poe, Céline, l’amato concittadino Umberto Bellintani, e soprattutto Franz Kafka diventano interlocutori assidui e maestri venerati. Perciò in Teatro instabile e in Il signor Franz K. il gioco di sovrapposizioni tra il poeta e gli scrittori celebrati, le trasfigurazioni e le citazioni che segnano «le tappe di un’affinità letteraria intuita, cercata, coltivata e consolidata» (come giustamente sottolinea la prefatrice Chiara Prezzavento) si rincorrono quasi a voler recuperare in uno specchio rifrangente un’ambita eredità di pensiero, un tentativo di riconoscersi allievo in perenne e inquieta ricerca: «lui, / che nel territorio degli eruditi blablabla / arranca la stesura di versi controversi». La sua inquietudine si rivela tale non solo in termini letterari, ma soprattutto in ansie esistenziali, là dove Lamberti trova un proprio tormentato alter-ego in ogni esiliato, in ogni piccolo messia in incognito, nel malinteso, nel fuori catalogo, in chi «Porta in salvo l’innocenza delle cose / percorrendo a ritroso la strada»(Un angelo in esilio), alla ricerca di quella modesta ma salvifica luce che chiamiamo poesia.

 

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www.sololibri.net/Il-Signor-Franz-K-Angelo-Lamberti.html      1 ottobre 2015

RECENSIONI

LANARO

PAOLO LANARO, POESIE DALLA SCALA C – L’OBLIQUO, BRESCIA 2012

Delle sei sezioni che compongono questo elegante volume di versi, pubblicato da una piccola casa editrice bresciana, le prime due – Qui Rebus – sembrano dare l’impronta più profonda e caratterizzante all’intero corpus delle composizioni.  Rebus in realtà è un capitoletto di una settantina di illuminazioni in prosa, brevissimi brani che tanto si avvicinano alla poesia nel delineare con tenerezza e pudore la figura del padre dell’autore, ragioniere ed ex prigioniero di guerra dotato di «un senso appropriato delle relazioni, una sorta di costruita politesse». Un uomo anziano, garbato, che si sorveglia nei rapporti col mondo e con il suo inarrestabile, crudele tramonto fisico («Cammina con difficoltà. Dice: tanto, dove vado?»), un piccolo-borghese che passa il tempo a guardare fuori dalla finestra o a risolvere i rebus, a collezionare francobolli, rassegnato a una sorta di non vita e alla fine che si avvicina («Scivoliamo via lentamente»), fine che il figlio scrittore chiosa con una domanda crudele e retorica insieme: «Dunque in che modo termina la bellezza?». Alla bellezza Paolo Lanaro, poeta schivo e delicato, dedica i suoi versi migliori : «Ho visto il ricordo tramutarsi / in un frammento di bellezza», e sembra assaporarla in sorsi brevi, quasi con timore di sciuparla. La trova nei gesti minuti quotidiani, nei pensieri che si affacciano timidi e balenanti, in memorie sfocate, negli incontri più banali. O in affetti ( la moglie, i figli, i vicini della scala C) che non diventano mai passioni, ma servono comunque per andare avanti. Così come ancore di salvezza sono le cose piccole che ci circondano, e a cui non si presta mai abbastanza attenzione: l’erba, i fiori sul balcone, i mobili consunti, gli animali: «C’è da chiedersi come si potrebbe / essere amici di un uccello. / Come si fa a incontrarsi a una certa ora, / prestarsi le cose, dirgli che l’erba ci piace?», «Un giorno la lampadina scoppia, / lasciando il ricordo della luce». Sono gli eventi miracolosi e quasi inavvertiti che riescono a dare il significato più vivo all’esistenza: ««Un sasso schizza sul parabrezza, / frantumando la luce in piccolissime / fibre cieche. C’è un esito / delle cose che nessuno si aspetta». Niente ha più valore che trascorrere la giornata in un rituale semplice di azioni ripetute, come nella struggente poesia : «Che c’è da dire?», scandita da successivi «dopo» che elencano i gesti più triti insieme al passare delle ore, al modificarsi dell’ambiente esterno, al succedersi di pensieri e sentimenti diversi nel proprio intimo. Dunque, la filosofia che sorregge la vita non ha più nulla di ideologico, non combatte più con speranze, illusioni o lotte: «Tra un po’ seminerò l’asteria e il rosmarino. / Ormai credo soltanto a questo: all’erba / che germoglia al chiaro di luna, / che cresce e non ha nessuno scopo / salvo il suo splendore». E questo lasciarsi vivere, osservando ciò che intorno ci rassicura della nostra stessa esistenza, diventa una dichiarazione di poetica e di fede: «Questo non è che l’inizio di una serie / di piccoli fatti sconosciuti. // Il tappeto con un angolo sdrucito, / il barometro stabile, il ronzio del frigo… // Quando infine si risolve tutto / ascoltando il fragore del vento, // tagliandosi la barba, spazzolando / le scarpe, facendo pulizia».

E ancora «Mi sono successe varie cose / nelle ultime ore. // Infine è sceso il silenzio. Il lungo, infaticabile / coro del silenzio delle nuvole e della luna». I poeti amati, soprattutto i classici  (Orazio, Virgilio, Persio) fanno compagnia, così come alcuni contemporanei per cui si scrivono omaggi: ma sembra comunque che anche questo non basti, perché «Tutto scorre. Noi e anche voi, naturalmente. / Anche adesso. Anche senza saperlo». E una presenza femminile che avrebbe potuto offrire salvezza se ne è andata insieme agli anni giovani («Ma quali guinzagli ci volevano / per impedirti di fuggire? / E adesso quale lingua parli nel buio?»). Per cui non resta che rassegnarsi all’attesa, in compagnia della pioggia, degli abiti che indossiamo, degli oggetti cui ci aggrappiamo, per raggiungere la sola meta concessa: «Una sfatta dolcezza della mente».

 

«Poesia» n. 277, dicembre 2012