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RECENSIONI

LEARDINI

ISABELLA LEARDINI, UNA STAGIONE D’ARIA – DONZELLI, ROMA 2017

Isabella Leardini, nata a Rimini nel 1978, presente in diverse antologie italiane e straniere, nel 2002 ha pubblicato il volume di poesie La coinquilina scalza, premiato e bene accolto da importanti critici. Con questa seconda prova si cimenta in un canzoniere amoroso che ambisce a mettere in scena non solo la sua tensione e sofferenza individuale, ma anche la condizione generazionale di tante giovani donne italiane, bloccate tra un’educazione tradizionale soffocante (fatta di aspirazioni limitate e di docile accettazione del proprio destino) e un desiderio di autonomia difficile da raggiungere.

Le cinque sezioni che compongono Una stagione d’aria mantengono una coerenza stilistica rigorosa, lontana da qualsiasi volontà di sperimentalismo, e anzi fedele alla musicalità del metro più classico della nostra letteratura, l’endecasillabo, con cui si aprono quasi tutte le composizioni, richiamato anche all’interno di esse. Sembra quasi che il rumore costante del mare (così presente in questi versi) abbia dettato la sua cadenza, cullante e regolare, alla voce poetica dell’autrice. E risulta di non poco contrasto la moderazione pacata e dolce della resa formale, con la durezza rassegnata e quasi affranta del narrato. Lo scenario su cui si dipana la rappresentazione è quello della riviera romagnola che ha nutrito la vicenda umana di Isabella, e la stagione raccontata è ovviamente quella estiva, che nell’immaginario collettivo si ricollega al turismo e alle vacanze, alla musica, ai flirt da spiaggia. Un’esistenza che mantiene in sé qualcosa di irreale e sospeso, lusinga di distrazione inesauribile, specchio di superficialità esibita, di disimpegno e piacevole futilità.

Paradossalmente, invece, l’ambiente riminese diventa per chi ci vive una sorta di trappola, una condanna all’insegna della precarietà e di promesse intraviste ma continuamente rinviate. Non suona strano, quindi, l’ossessivo ripetersi nelle poesie di verbi quali “restare”, “rimanere”, “piantare”, “tenere”, declinati in tutti i tempi e modi; di sostantivi che rimandano a un impedimento (blocco, muro, ringhiera, chiodi), di immagini che indicano l’impossibilità di una fuga liberatoria, ma insieme la necessità di ancorarsi e radicarsi a un terreno che si teme instabile e inghiottente: «E noi restiamo qui come le radio / dimenticate accese in piena notte, / insegne che hanno perso qualche luce / ma cercano lo stesso di brillare», «Rimango nel disordine, l’estate / ritorna con le sue mattine sole».

La parabola di crescita dell’autrice, la sua giovinezza sognante avviata ora a un’età adulta che inizia a tracciare un bilancio del vissuto, pare tutta racchiusa nella dimensione di un amore sofferto e deludente, di un progetto futuro mai realizzato, di un’attesa perpetua. “Vuoto” e “buio” sono termini che si rincorrono spesso, e rinviano a una storia di solitudine e di fiducia tradita: «Non sai qual è il buio dei passi / di chi continua a cadere dal nido / e credere che l’aria sarà un volo», «Noi due restiamo appesi alle pareti / come quadri che aspettano solo / il giorno in cui cadranno all’improvviso», «Resto sospesa come le tende / che aspettano che il vento le apra», «Come una pianta che con poca luce / sappia fiorire molte volte senza cure / ho deciso di aspettarti ancora», «Sono quella che rimane a letto / dentro un buio di parole buie».

Un destino, quindi, di abbandono che sembra riflettere quello della sua stessa città di mare, impazzita di gioia e di vivacità nei pochi mesi dell’estate, e rassegnata al silenzio e all’isolamento nel resto dell’anno. Nella sua storia privata, Isabella Leardini riscrive quella della famiglia, titolare per decenni della pensione “Irene”, affollata di ospiti nella stagione balneare, e poi contesa dagli eredi, per venire infine venduta ad estranei. Le spiagge deserte, gli ombrelloni chiusi, il mare che lascia sulla battigia conchiglie e rifiuti, aspettando un nuovo inizio, una rinascita con i primi tepori di maggio: «Sono una stagione che si rivolta / ce l’ho in faccia come un inganno / quest’aria aperta da città di mare». Il destino di giovane donna sola, con «l’aria di chi ha perso ancora prima / che inizi la partita», è lo stesso di molte altre ragazze della sua riviera, «le gelose, le mai abbastanza amate», «le mogli dell’ombra… // Ferme come le sedie in una casa / dove in fondo non si siede mai nessuno»: una sorte che accomuna nella malinconia, in una rassegnata e antica remissività, un’intera generazione di donne fuori tempo, non più giovani e non ancora mature, in un disagio esistenziale e sentimentale di cui la poetessa si fa sirena: «Siamo una razza che non esiste più / quelle ragazze con la lanterna accesa / che non vogliono, non sanno addormentarsi».

 

© Riproduzione riservata          «Nazione Indiana», 20 gennaio 2018

 

RECENSIONI

LECOMTE

MIA LECOMTE, INTANTO IL TEMPO – LA VITA FELICE, MILANO 2012

Gabriela Fantato, nella prefazione a questo nuovo libro di Mia Lecomte (critica letteraria, autrice teatrale e per l’infanzia, traduttrice ed esperta della letteratura di emigrazione), scrive: «Mia sa conferire la parola ai corpi esposti nella loro nudità…guarda il mondo nei suoi lati meno interrogati e nella sua memoria dimenticata, e lo riscatta, offrendo parola, calore e colore a tutto, così che anche a ciò che sembra di poco conto, che si dimentica e va a finire nei ripostigli, della casa e della memoria, si mostra a noi che leggiamo questi versi in un’altra luce».

In effetti, sembra essere proprio la materialità degli oggetti, l’affollarsi delle cose intorno a noi, ciò che cattura maggiormente l’attenzione poetica dell’autrice, come nella bella poesia intitolata Ikea: «Letti armadi librerie divani / mensole sedie scrivanie / lampade stoffe cuscini / pentole tende tappeti / piatti vasi bicchieri / giochi posate // viti bulloni / automatici / chiodi // istruzioni // non trovi cosa resterà di te / dopo tutto questo vivere / cosa resterà da vivere». L’elencazione minuta e assediante di ciò che riempie lo spazio, («dettagli che non lasciano scampo all’azzurro»; la «chincaglieria/ più ingannevole») è resa più ansante e ossessiva dall’assoluta mancanza della punteggiatura, in un’atmosfera che si fa via via più minacciosa e destinata alla fragilità inesorabile della decomposizione (i titoli di alcune poesie sono emblematici: Darkroom, Rovine, Inventario, Casa di bambola…): «e muore il sacchetto nella teiera / lo spago morsicato dal gatto / carta straccia nello zaino di scuola / il cappotto destinato al suo gancio // per solidarietà di cose / apparente».

Altre sezioni del volume dedicate ai personaggi del circo o alle protagoniste femminili delle fiabe giocano comunque con la malinconica consapevolezza di un inevitabile equilibrismo femminile tra quotidianità e aspirazione all’assoluto, come in questi versi dedicati alla Principessa sul pisello: «In equilibrio tra la lana e le piume / volto e rivolto il nucleo del mio giacere…// se potessi levarmi domani / riposata in eterno a squarciagola». Così giustamente Elio Grasso sottolinea nella postfazione: «Un poema sul tempo e le favole, sulle storie delle rovine casalinghe e dei letti rifatti, dei bicchieri vuoti e di tutte le cose che esistono intorno ma che spariscono con facilità perché sembra non vogliano più avere a che fare con noi». Cose a cui la poesia sa e deve dare voce, perché sono loro ad ancorarci alla vita, se «intanto il tempo» scorre veloce, e noi con lui.

 

«Leggendaria» n.99, marzo 2013

RECENSIONI

LECOMTE

MIA LECOMTE, AL MUSEO DELLE RELAZIONI INTERROTTE – LIETOCOLLE, FALOPPIO 2016

Quarantacinque poesie per puntellare luoghi dell’anima più che del mondo, quelle che Mia Lecomte ha raccolto in questo libro suggellato da un titolo lapidario nella sua definitezza constatativa. Relazioni interrotte ma non perdute, fissate musealmente in un album fotografico mentale, recuperabili, quindi, in una memoria visiva e sentimentale incapace di rancore, e in grado sempre di considerare un arricchimento qualsiasi esperienza vitale, del presente o del passato. Poesie che, come spiega l’autrice nella nota iniziale, prendono spunto da un accadimento localizzato in un dove preciso, dei tanti da lei percorsi, nel suo viaggiare assiduo tra Parigi (dove vive) e Roma, Lugano, Toscana, Milano, Londra: mete imposte alla sua inquietudine dagli impegni familiari e lavorativi, dalla sua attività teatrale e di organizzatrice culturale. Parigi, città d’elezione, con la casa «sul confine tutto interno al guardare», diventata estranea e ostile dopo un abbandono. Casa in cui ti perdi come in un labirinto, e da cui non puoi uscire «perché fuori non ti è rimasto altro». Casa che racconta la tua solitudine: «Ho confidato all’uomo che non c’era / questo letto è troppo grande per me sola //… non osi la luce separare / ciò che il mio grande vuoto ha unito».
Mia Lecomte si confronta con il suo vissuto senza assolutizzarlo, anzi inserendo la sua vicenda personale nel destino comune a tutti, di nascita-crescita-invecchiamento-morte; descrive treni, aerei, ospedali, cimiteri, nozze, sfilate di moda, spettacoli, incontri e nuovi amori, angosce e impreviste felicità («la luce è tornata alla luce // regolo il volume alla radio l’acqua in gradi / del dolore ho fatto mediocre poesia / e il gatto l’abbiamo seppellito nel fiume». Dall’episodio particolare sa alzare lo sguardo alla vicenda cosmica, dal mito alla scienza, dalla cronaca alla storia senza soluzione di continuità: non c’è nemmeno un punto fermo, in tutto la raccolta. Orgogliosa della propria femminilità, ne accetta sia la fisicità ormonale, sia l’abitudine materna alla dedizione, mai arresa tuttavia alla sottomissione: prova nostalgia per i figli ormai adulti e lontani, ma sa scuotersi da ogni lamentevole autocompatimento, convinta che ogni provvisorietà e ogni imperfezione nascondano la possibilità di un rinnovamento, di una sorpresa, dell’avverarsi della poesia: «Arriva un bastimento carico di, / sto dicendo, ora io ci salgo».

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/museo-relazioni-interrotte-Lecomte.html     27 novembre 2016

«Le Monde Diplomatique», Il Manifesto, 15 settembre 2016

 

 

 

 

 

 

 

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LEDDA

GAVINO LEDDA, LINGUA DI FALCE – FELTRINELLI, MILANO 1977

Dopo Padre Padrone, ormai alla quattordicesima ristampa, letto riletto commentatissimo filmato e premiato, quindi del tutto innocuo e digerito, Gavino Ledda ha scritto questo Lingua di falce per riproporre la storia della sua liberazione, del suo passaggio da uno stadio di vita sub-umana a uno stadio di consapevolezza critica. Ancora una volta il motivo di fondo è la volontà di conseguire, con tenacia e violenza, quella cultura con tutti i carismi dell’ufficialità (istitutore a Salerno, privatista a Sassari fino alla maturità, laureato a Roma) di cui si sente in credito, anzi defraudato. La narrazione di questa ricerca, di questo rapporto con la cultura che finisce per essere desiderio fisico, ansia di possesso, è interrotta e sottolineata da episodi di vita contadina, di paese, che hanno l’unica funzione di contrapporsi, come ostacolo e confronto, alla scelta rabbiosa e individuale di Gavino. Lingua di falce è la sola lingua posseduta da chi lavora o si esprime col corpo; perché la falce è un’appendice del braccio dei contadini, perché si muove con il ritmo che dovrebbero avere il canto e la parola quando cantano la fatica o l’amore, o qualsiasi altro aspetto della vita. Ledda vorrebbe riuscire a usare la parola, a manovrarla, con la stessa abilità con cui ha saputo usare la falce: come strumento di lavoro, quindi, ma anche come oggetto in sé, da costruire e limare continuamente. Questo è forse il progetto dei libri di Ledda, usare la parola come un’arma (la falce appunto), che ferisca e squadri ben chiari i confini in cui ci si muove. La falce racconta un passato (mito, tradizioni, ignoranza, pregiudizi), e spiana la strada a un riscatto. Questo è il progetto: politicamente, c’è il rischio che si riveli un’avventura isolata, la scalata dell’eroe a una montagna per i più inaccessibile. Infatti i colori che tendono a fare di Gavino un eroe sono tanti e accesissimi: Gavino ringhioso, Gavino indomito, sentenzioso, ammirato e invidiato, ma sempre irrimediabilmente solo. La comunità, il paese, gli altri sono sempre ostili, avversari, a ribadire lo scontro traumatico che il figlio ha con il padre. Per cui i compagni di scuola, la commissione d’esame, la città, la donna, sono tutti fantasmi che si sovrappongono a quello unico, enorme, paterno. Letterariamente, la lingua è felice quando appunto rimane falce, contadina per descrivere contadini, quando si lascia andare, mezza sarda e mezza italiana. Quando invece affronta il mondo borghese, allora non taglia più, arranca, si fa faticosa, diventa borghese e spesso brutta, troppo carica e eccessiva, troppo alla moda, con tutti quei “il mio io” e “gestire” che imitano senza ironia le menate della pseudo-psicanalisi. Così, quando il protagonista parla da dentro il suo ambiente, ne escono dialoghi svelti, incisivi, favole e storie di paese raccontate secondo le più antiche tradizioni narrative (dai nostri “exempla” medievali alle leggende russe); quando Gavino si racconta in opposizione agli altri, allora anche semplici conversazioni tra emigrati diventano requisitorie da tribune elettorali, prediche noiose e compunte, molto didascaliche. Se Ledda continuerà a scrivere, dovrà adesso affrontare la sua nuova cultura acquisita, dovrà saperci dire quanto di veramente liberatorio ha trovato in essa; e speriamo che la sua lingua di pastore non scelga la via dell’artificio letterario, da lingua di falce a lingua di best-seller.

«Quotidiano dei Lavoratori», 17 dicembre 1977

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LEGRENZI

PAOLO LEGRENZI, I SOLDI IN TESTA – LATERZA, BARI 2011

Paolo Legrenzi, Professore Emerito all’Università di Venezia, applica allo studio di questa importante scienza, colpevolmente trascurata dai media perché di difficile comunicazione e comprensione, le leggi fondamentali della psicologia, invitando i lettori a una gestione più consapevole e meditata delle poprie scelte finanziarie. Non è sempre scontato capire cosa c’è veramente alla base delle decisioni che prendiamo quando abbiamo a che fare con il nostro portafoglio, con le perdite e i guadagni dei nostri investimenti: perché, insomma, attribuiamo tutte le colpe dei nostri insuccessi in campo economico alla irrazionalità e volatilità dei mercati, quando invece dovremmo avere l’onestà di ammettere la nostra ignoranza, le paure, i pregiudizi che ci attanagliano se dobbiamo fare i conti con il patrimonio che abbiamo a disposizione. Così come in ogni campo della nostra esistenza ci affidiamo ad esperti (quando si tratta di curarci, di viaggiare, di affrontare problemi legali), spesso ci succede di metterci nelle mani di consulenti finanziari che tendono a fare più gli interessi della loro banca che i nostri. Quindi sarebbe bene riuscissimo ad alfabetizzarci nella finanza, insegnando anche ai nostri figli i rudimenti del comportamento economico: quali spese è meglio evitare, quali è conveniente incoraggiare, come non spaventarsi di fronte a un fallimento monetario, quale tipo di investimento scegliere. Legrenzi introduce a una comprensione del vocabolario economico di base:  le differenze tra prezzo nominale e relativo, tra inflazione vera e percepita, tra fondi-obbligazioni-azioni, tra comportamenti previdenti e audaci o dettati dalla paura di perdite, sprechi e rischi. Anche attraverso divertenti esempi tratti da mondo animale, che molto può insegnare al nostro quotidiano, e con convincenti delucidazioni su questioni che alla maggior parte di noi possono sembrare astruse.

 

© Riproduzione riservata    

www.sololibri.net/I-soldi-in-testa-Paolo-Legrenzi.html          20 novembre 2017

RECENSIONI

LEGRENZI

PAOLO LEGRENZI, REGOLE E CASO – IL MULINO, BOLOGNA 2017

Nella collana Icone recentemente inaugurata dall’editrice bolognese Il Mulino, Paolo Legrenzi –  professore emerito di Psicologia all’università Ca’ Foscari di Venezia –, ha pubblicato Regole e caso, un testo stimolante in cui utilizza gli strumenti peculiari della sua materia e quelli, meno consueti, della critica d’arte per affrontare temi di notevole spessore filosofico, transitando anche attraverso letteratura ed economia. Nel rivisitare la produzione pittorica di Jackson Pollock e la sua vicenda esistenziale, Legrenzi ci guida con leggerezza e maestria a sondare le motivazioni consce e inconsce che dirigono le nostre scelte quotidiane e i nostri programmi di vita.

Pollock (1912-1956) nacque a Cody, Wyoming, in una famiglia contadina, ultimo di cinque fratelli, e trascorse la giovinezza nel West, tra l’Arizona e la California, dove ebbe modo di conoscere i nativi americani accompagnando il padre nei suoi viaggi di lavoro. Durante quegli incontri rimase particolarmente colpito da una loro particolare tecnica di pittura, praticata con sabbia su di una superficie piatta e orizzontale che potevano avvicinare da ogni lato. Dopo aver studiato arte a Los Angeles e a New York, nel 1945 sposò la pittrice Lee Krasner, trasferendosi con lei a Springs, Long Island. Qui iniziò a dipingere stendendo le tele sul pavimento del suo studio e mettendo in atto un nuovo metodo creativo, definito successivamente “dripping” (in italiano “sgocciolatura”). Applicava il colore servendosi di pennelli induriti, pezzetti di legno o siringhe da cucina, muovendosi freneticamente intorno al quadro in una sorta di invasamento che coinvolgeva tutto il corpo. Così spiegò il suo modo di dipingere, in un’intervista uscita su Possibilities nel 1947: «La mia pittura non nasce sul cavalletto. Non tendo praticamente mai la tela prima di dipingerla […] ho bisogno della resistenza di una superficie dura. Sul pavimento mi sento più a mio agio. Mi sento più vicino, più parte del quadro, perché, in questo modo, posso camminarci intorno, lavorare su quattro lati, ed essere letteralmente nel quadro. È un metodo simile a quello degli indiani del West che lavorano sulla sabbia. Mi allontano sempre più dagli strumenti tradizionali del pittore come il cavalletto, la tavolozza, i pennelli, ecc. Preferisco la stecca, la spatola, il coltello e la pittura fluida che faccio sgocciolare, o un impasto grasso di sabbia, di vetro polverizzato e di altri materiali extrapittorici. Quando sono nel mio quadro, non sono cosciente di quel che faccio. Solo dopo una specie di «presa di coscienza» vedo ciò che ho fatto. Non ho paura di fare dei cambiamenti, di distruggere l’immagine, ecc., perché un quadro ha una vita propria. Tento di lasciarla emergere. Solo quando perdo il contatto col quadro il risultato è caotico. Altrimenti c’è armonia totale, un rapporto naturale di dare e avere e il quadro riesce».

I dipinti di Pollock riprodotti e commentati da Legrenzi nel suo volume sono Number 1A (1948), Foresta incantata (1947), La donna luna (1942), Occhi nel caldo (1946), Movimento gracidante (1946). Un’attenzione particolare è rivolta al primo, capolavoro esposto al MoMa di New York: «Un’opera che espande il nostro mondo, costringendoci a incorporare un mondo nuovo… non rappresenta nulla, se non emozioni… pure, amplificate». La novità sconvolgente di questa pittura è dovuta al suo rifiuto totale della rappresentazione figurativa: non esplora l’ambiente, né lo riproduce, ma inventa una nuova realtà, che intrappola l’osservatore con un effetto ipnotico, aprendogli prospettive differenti, quasi imponendogli una “chiamata”, un’epifania rivelatrice. Questo è ciò che avviene in chi guarda, perdendosi nella fascinazione di linee e colori.In Pollock invece, che ha creato il quadro, secondo lo psicologo cognitivista Paolo Legrenzi si è instaurato un rapporto indefinito tra progetto e casualità, libertà e regola. Utilizzando la tecnica del dripping, l’artista era consapevole del tragitto percorso da ogni goccia di colore? I suoi gesti erano istintivi oppure ogni movimento vincolava quello successivo? Esisteva una catena deterministica che stabiliva per ciascuna causa un certo effetto, o, secondo il modello darwiniano, la sua creazione procedeva attraverso prove ed errori? Sta di fatto che, se anche non era consapevole del percorso fatto nel produrre il dipinto, alla fine il quadro era lì, compiuto e perfetto in se stesso. Un po’ la stessa cosa avviene nella musica jazz, dove l’improvvisazione del musicista introduce su una trama stabilita variazioni estemporanee dettate dal suo estro.

Analogamente, possiamo domandarci se nella vita quotidiana di ciascuno di noi ogni scelta è presupposta e indotta da una scelta precedente, o invece agiamo in assoluta libertà e indipendenza. A questo punto l’esplorazione di Legrenzi s’incammina lungo i sentieri seducenti della scienza probabilistica, del rapporto che intercorre tra certezza, incertezza, rischio e probabilità, indagato già da Pascal con la sua famosa “scommessa”, e dopo di lui da fisici, filosofi ed economisti. Il dubbio che attanaglia qualsiasi persona davanti a una decisione da prendere in campo morale, sentimentale, finanziario potrebbe essere razionalmente circoscritto differenziando gli investimenti economici, professionali ed emotivi, “distribuendo la fiducia, le speranze, i timori … tra più persone, tra più lavori, tra più occasioni d’ incontro… tra più passioni, insomma tra più futuri, e anche, purtroppo, tra più dolori. Le delusioni diluite ci feriscono meno di un singolo colpo al cuore”. Lo psicologo Legrenzi arriva a proporre anche un breviario di venti suggerimenti pedagogici – sull’esempio di molti manuali americani di self help – per imparare a soffrire di meno, ammonendoci: «È come viaggiare nella vita con una valigia non completamente piena, così se arriva qualcosa di attraente, c’è posto anche per lui. E, se smarrite la valigia, avete perduto poche cose». A tale saggezza non era evidentemente arrivato Jackson Pollock, che imbozzolato nella “timidezza ruvida del cowboy”, non era riuscito a resistere alle pressioni del mercato dell’arte, alla critica e ai media che lo volevano trasformare in un’icona. Cercò rifugio nell’alcol, che lo condusse a una morte precoce in un incidente automobilistico.

Eppure, è proprio l’arte, in tutte le sue espressioni (e Legrenzi cita molti scrittori, da Shakespeare ad Amos Oz, da Musil a Primo Levi) che ci aiuta a trasformare la regola in libertà, la costrizione in sorpresa, l’abitudine in stupore. Se non possiamo essere invulnerabili allo sfruttamento impostoci dalla società consumistica in cui viviamo, dobbiamo imparare (insegnandolo anche ai nostri figli, già da quando sono bambini) a diventare antivulnerabili, ribellandoci ai meccanismi che ci espropriano delle nostre potenzialità, “diventando soggetti attivi e non fruitori passivi”. L’incertezza allora, quella che Pollock ha esaltato distruggendo schemi imposti, ci può aiutare a spezzare le corazze che ci ingabbiano, a riscoprire la bellezza delle emozioni.

 

© Riproduzione riservata           «Il Pickwick», 22 novembre 2017

 

 

 

 

RECENSIONI

LEOPARDI

GIACOMO LEOPARDI, L’INFINITA SOLITUDINE – MARCO SAYA, MILANO 2020

Con la cura di Sonia Caporossi, l’editore Marco Saya ha pubblicato un’antologia ragionata delle poesie di Giacomo Leopardi, intitolata L’infinita solitudine. La raccolta dei Canti leopardiani, composti tra il 1818 (All’Italia) e il 1836 (La Ginestra), comprende – secondo le indicazioni dello stesso poeta – quarantuno composizioni: questa nuova edizione ne presenta ventiquattro, in base a una precisa volontà della curatrice.

Sonia Caporossi, musicista e critica letteraria, ha preferito infatti proporre ai lettori una scelta tematica delle poesie secondo il criterio unificante del “mistero del dolore”. Escludendo quindi i testi più contraddistinti storicamente e politicamente, ha organizzato il volume intorno al nucleo “della riflessione esistenziale circa la finitezza della condizione umana considerata nella propria irriducibile individualità e solitudine”, aggiungendo all’edizione tradizionale dei Canti i versi del Coro dei Morti e dell’Appressamento della morte, inseriti proprio per sottolineare l’adesione emozionale e filosofica del recanatese al tema della caducità dell’esistenza. Insistendo sul pensiero poetante come massima espressione dell’attitudine leopardiana allo scandaglio psicologico interiore sotteso a un’approfondita riflessione teorica, la curatrice nella dotta introduzione afferma: “Il ripiegamento soggettivistico è sempre criticamente oscillante sul filo del riconoscimento di un pessimismo cosmico esteso, a partire dalla propria vilipesa singolarità sofferente, al destino dell’intera congerie dei viventi”.

Particolare e universale, bellezza della natura e silenzio del cosmo, nulla e assoluto, inganno e verità, sono riferimenti costanti in tutta la produzione di Leopardi, come hanno sottolineato molti critici, da Sebastiano Timpanaro a Pier Vincenzo Mengaldo, da Ugo Dotti a Emanuele Severino. In lui, “la poesia non è altro che la forma esteticamente formata del domandare filosofico”, strumento conoscitivo per esplorare il mistero dell’esistenza, cura con cui dare voce e senso all’effimera condizione dell’essere.

Sonia Caporossi commenta tutte le poesie antologizzate (di cui riporta in calce sia la forma metrica, sia le date di composizione e pubblicazione), dalle prime prove ancora ricalcanti stilemi petrarcheschi, agli idilli in cui la descrizione del proprio paesaggio interiore si eleva alla contemplazione del sublime. Il senso dell’infinito, se prende spunto da un’osservazione puntuale dell’elemento fenomenico (la siepe, la luna, il vento, la ginestra, il gregge…) è comunque volto a mettere in risalto la fragile e inconsolabile solitudine del poeta, intesa come “estraneità alla condizione sociale e recupero di quell’intimismo fondamentale al mantenimento delle illusioni”.

Il saggio del professor Antonino Contiliano con cui si conclude il volume edito da Marco Saya, merita una lettura non superficiale, a causa della complessità degli argomenti trattati. In particolare, l’esame approfondito dell’idillio più giustamente celebre, L’infinito, mette in luce le aporie del pensiero filosofico di Leopardi, soprattutto per ciò che concerne l’idea di tempo e di infinito. Pur interessandosi agli sviluppi contemporanei di scienze quali la matematica, la fisica e la biologia, il poeta manteneva una visione della realtà circoscritta nei parametri classici, meccanicistici e deterministici, attribuendo ai dati non osservabili e quantificabili qualità di astrazione illusoria, di finzione immaginativa. Il mondo era da lui concepito come diviso in due sfere dicotomiche: essere e non essere, vero e falso, razionalità finita e immaginazione senza limiti. Tempo e infinità, pertanto, non risultando misurabili sperimentalmente, ricadevano nella sfera di semplici enunciati nominali, privi di qualsiasi denotazione e misura, pure suggestioni finzionali, fantasie linguistiche, illusioni.

I termini fortemente evocativi utilizzati ne L’infinito (sempre, ultimo orizzonte, interminati spazi, di là, sovrumani silenzi, profondissima quiete, l’eterno, morte stagioni, immensità), oltre ad affascinare il lettore per la loro “circolarità fono-semantica” intesa a riprodurre il fluire del tempo e lo spaziare illimitato dello sguardo e del pensiero, indicano la propensione leopardiana a considerare l’infinito come un sogno, una grandezza evanescente, non definibile concretamente, in cui è dolce naufragare.

© Riproduzione riservata              https://www.sololibri.net/Infinita-solitudine-Leopardi.html

11 gennaio 2021

 

RECENSIONI

LERNER

BEN LERNER, ODIARE LA POESIA – SELLERIO, PALERMO  2017

Ben Lerner (1979), narratore, poeta e saggista statunitense, insegna Creative Writing al Brooklyn College. Ha vinto numerosi e prestigiosi premi, ha pubblicato diverse raccolte di versi e due romanzi (tradotti anche in italiano), molto ben accolti da pubblico e critica: Un uomo di passaggio e Nel mondo a venire.  La casa editrice Sellerio propone un suo saggio dal titolo provocatoriamente curioso: Odiare la poesia, cioé la più innocua e forse inutile delle attività artistiche umane, che però mantiene anche oggi (dopo millenni di storia) una «formidabile valenza sociale… mista al senso della sua formidabile marginalizzazione  nella società».

Lerner commenta alcune composizioni di classici della lingua inglese (Keats, Shelley, Dickinson, Whitman, Eliot, Pound) e dei contemporanei Sylvia Plath, Robert Lowell, Charles Olson, Amiri Baraka, Claudia Rankine, sbeffeggiando poi con sarcasmo l’incompetenza formale del peggior poeta esistente nella letteratura mondiale: William McGonagall. Giusto per esemplificare cosa sia e cosa non sia poesia (non ne parlava già Croce un secolo fa?). Conforta le sue tesi con i giudizi critici di Allen Grossman, ma contesta violentemente il parere negativo che altri accademici esprimono su quasi tutta la produzione attuale: Mark Edmundson, ad esempio, accusa i poeti americani contemporanei di essere troppo individualisti, soggettivi, disinteressati alla politica e agli ideali nazionalistici, indifferenti alla cultura popolare e alla tradizione letteraria del paese, incapaci di farsi universali, parlando a tutti e per tutti: «Non soddisfano, nel lettore, la sete di significati che vadano al di là dell’esperienza del singolo poeta e illuminino il mondo che abbiamo in comune».

Più in generale, e senza limitare lo sguardo alla contemporaneità, Ben Lerner individua la diffidenza e il fastidio che il mondo ha nutrito e nutre nei riguardi della poesia (da Platone in poi), in tre punti fondamentali. In primo luogo, nella sua inadeguatezza a raggiungere l’obiettivo supremo cui tende: la poesia non riesce «a superare la dimensione finita e storica – il mondo umano fatto di violenza e differenza – e a raggiungere il trascendente e il divino», in quanto «il canto dell’infinito viene compromesso dalla finitezza dei suoi termini». Secondariamente, nell’aspirazione dei poeti a esprimere una particolarissima sensibilità e umanità che li differenzi dalle persone comuni, nelle quali si sviluppa un ovvio risentimento di esclusione e inferiorità, che spesso si tramuta in disprezzo e irrisione. Infine, nell’imbarazzo che nasce sia in chi scrive sia in chi legge poesia constatando l’abisso esistente tra la promessa di una rivelazione emotiva capace di trasformare le coscienze e la società, e l’effettivo risultato politico e culturale che ne deriva, in pratica nullo. La poesia non serve a niente, secondo la maggioranza delle persone; è un’arte illusoria che circola in ambienti elitari, un’attività privata che non aiuta il mondo ad essere migliore, ma si limita a soddisfare l’ambizione dei pochi che la praticano: una sorta di passatempo intellettuale che si spaccia per arte nobile e gratuita, in contrapposizione al volgare utilitarismo di una societò materialistica. Secondo Ben Lerner, proprio per questi motivi deve vantarsi di essere odiata, e deve continuare a combattere per sopravvivere.

 

«Poesia» n. 328, luglio/agosto 2017

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

LESSING

DORIS LESSING, PASSEROTTI – ZOOM FELTRINELLI, 2011

Se avete un quarto d’ora di tempo e un euro da spendere, non lasciatevi scappare questo piccolo gioiello di lettura: lieve e volteggiante come il suo titolo, Passerotti, tratto dai Racconti londinesi del premio Nobel Doris Lessing (1919-2013). La trama del racconto è in pratica inesistente: si tratta di un lungo sguardo posato su un esterno (un caffè all’aperto nel giardino di Hampstead Heath, situato a nord del centro storico di Londra), animato da varie presenze umane e animali. Tra queste. fondamentale risulta essere quella di un nutrito gruppo di passeri svolazzanti.

Due anziane signore accompagnate da un labrador siedono a un tavolino, ancora bagnato dalla pioggia recente, e sorbiscono il loro caffè guardandosi attorno. Irrompono accanto alcuni adolescenti, dai vestiti e dai capelli colorati, vocianti e festosi. Si affaccia di tanto in tanto dall’interno un cameriere biondo, alto e neghittoso, che osserva i clienti con scarsa voglia di lavorare. Arriva una giovane coppia giapponese con la suocera, portandosi dietro un vassoio ripieno di tutto, per un perfetto breakfast all’inglese. S’inserisce nel quadro complessivo una coppia di mezza età, «raggiante di salute e crema abbronzante», pronta a scattare per fare jogging nel parco. Doris Lessing si limita a descrive con tocco lieve il rapporto che questi personaggi hanno con gli uccellini, e reciprocamente il modo in cui i passeri interagiscono con gli esseri umani. «Le due signore buttavano pezzetti di pane ai passerotti che si radunavano intorno ai loro piedi, affollavano le spalliere delle sedie e si avventuravano persino sul tavolo». Gli sposi giapponesi guardano indifferenti i volatili, mentre la suocera ne è visibilmente infastidita se non addirittura disgustata. Gli adolescenti si spostano continuamente di tavolo in tavolo, lasciando tracce di biscotti e noccioline, facile e invitante preda degli uccelli. La coppia adulta e sportiva discute di etologia.

E i passeri? Ciascuno manifesta un proprio carattere: chi è timoroso e si spaventa ad ogni movimento degli avventori del caffè, chi più audace si lancia sulle briciole lasciate per terra o sulla tovaglia, chi addirittura si posa sulle spalle dei clienti. Gli uccelli più vecchi e spennacchiati zampettano lenti, i piccoli quasi implumi attendono l’imbeccata dei genitori.

«Il piccolo giardino del caffè andava riempiendosi. Il sole si era di nuovo avvicinato al bordo delle nuvole e il cielo era per metà azzurro terso». Ripeto, non succede quasi niente in questo racconto. Eppure ci appare come una lezione di serenità, un invito a guardarsi intorno senza nessuna volontà di dominio o possesso. «E infatti era uscito il sole a riempire d’estate il giardino verde, a far splendere e sorridere le facce della gente».

© Riproduzione riservata                            https://www.sololibri.net/Passerotti-Lessing.html                             12 ottobre 2018

 

 

RECENSIONI

LEVI

PRIMO LEVI, AD ORA INCERTA – GARZANTI, MILANO 2004

Di Primo Levi (Torino, 1919-1987) tutti conoscono i capolavori narrativi, testimonianze tragiche dell’esperienza vissuta nel campo di Auschwitz, in cui fu deportato nel 1944 in quanto ebreo: Se questo è un uomo, La tregua, Se non ora quando?, I sommersi e i salvati. In pochi sanno invece che Levi fu anche autore di versi, scritti tra il 1943 e il 1987, anno del suo suicidio, e pubblicati da Garzanti nel 1984, con il titolo Ad ora incerta. Il volume, ristampato più volte, contiene 63 poesie e dieci traduzioni (perlopiù da Heinrich Heine), ed è introdotto da un’epigrafe tratta da Coleridge: “Since then, at an uncertain hour, / That agony returns… (“Dopo di allora, ad ora / incerta, / quella pena ritorna”), utilizzata già come esergo in un romanzo. Il libro, che nel 1985 vinse il Premio Abetone e il Premio Giosuè Carducci, aveva suscitato pareri critici contrastanti: piuttosto negativi quelli di Cases, Fortini e Mengaldo, più positivamente solidale quello di Giovanni Raboni, che così si espresse in una recensione su La Stampa del 17 novembre 1984: “A me sembra che la scrittura poetica di Levi abbia, sin dall’inizio […], lo stesso solenne acume morale, la stessa forza di memoria, ammonimento e pietà, che rendono così sostanziosa, così giusta, così naturalmente memorabile la sua prosa. […]. In Levi lo scatto, l’impulso iniziale di ogni singola poesia […] nasce dalla ragione, dalla lettura morale della realtà, da quella capacità di capire la propria sofferenza e di vivere la propria indignazione come patrimonio comune a tutti gli uomini, che formano la peculiarità e oserei dire l’insostituibilità della sua prosa”.

Primo Levi stesso, tuttavia, aveva dichiarato, con sorniona ironia: “[…] conosco male le teorie della poetica, leggo poca poesia altrui, non credo alla sacertà dell’arte, e neppure credo che questi miei versi siano eccellenti”. Aggiungendo, nella prefazione al volume, di aver ceduto al richiamo della poesia “ad intervalli irregolari, ad ora incerta. […] in rari istanti (in media, non più di una volta all’anno) singoli stimoli hanno assunto naturaliter una certa forma, che la mia metà razionale continua a considerare innaturale”. Come nei romanzi, l’imperativo che sembra guidare la scrittura in versi di Levi è decisamente comunicativo; ciò che preme all’autore è poter raccontare ai lettori le esperienze vissute, i sentimenti e le riflessioni che lo animano. Una sorta di lascito e insegnamento etico, da esprimere con radicale onestà: “È poco redditizio, e poco utile, scrivere e non comunicare… l’importante per essere compreso da coloro a cui si dirige la pagina scritta è di essere chiari”.

Chiarezza che nelle poesie di Ad ora incerta viene perseguita con coerenza, con l’intendimento severo di trasmettere un monito a chi legge, senza raggiri stilistici o adulterazioni letterarie: il tono classicheggiante, biblico-dantesco, sospeso tra l’ironico e il perentorio, non rifugge da arcaismi e formule desuete, ma è sempre e comunque finalizzato a un coinvolgimento ammonitore del pubblico (“Voi che vivete… Considerate… Meditate… Ripetetele”, “O tu che segni, passeggero del colle”, “Dimmi: in cosa differisce / questa sera dalle altre sere?”). Uno stile quasi profetico, dunque, con una palese finalità didascalica, che si riflette anche nei contenuti. I temi ecologici risultano evidenti nell’attenzione rivolta non solo al mondo animale e vegetale spesso antropomorfizzato (gabbiani, corvi, lucciole, formiche, chiocciole, topi, buoi, dromedari; ippocastani, agavi, licheni), ma anche nell’appello indirizzato all’umanità perché non persista nella distruzione cieca e masochista dell’ambiente, convincendosi invece che l’evoluzione della specie dovrebbe perpetuarsi in un perfezionamento materiale e morale, e non in una degradante regressione (Autobiografia).

L’ateo Primo Levi, pur orgogliosamente partecipe del proprio ebraismo (“popolo di altera cervice, / Tenace povero seme umano”), non crede a una divinità provvidenziale e benevola. Crede invece nell’indifferenza del cielo verso il destino degli uomini, condannati all’infelicità, inghiottiti in una notte senza riscatto che accomuna tutte le creature nella sofferenza: “Forse è questa l’eternità che ci attende: / Non il grembo del Padre, ma frizione, / Freno, frizione, ingranare la prima. / Forse l’eternità sono i semafori”, “E tutti noi seme umano viviamo e moriamo per nulla, / E i cieli si convolgono perpetuamente invano”, “Signore, a fare data dal mese prossimo / Voglia accettare le mie dimissioni. / E provvedere, se crede, a sostituirmi”.

Si salvano i rapporti affettivi con i familiari, con i compagni di una vita, con gli amici: “Cari amici, qui dico amici / Nel senso vasto della parola: / Moglie, sorella, sodali, parenti, / Compagne e compagni di scuola // … A voi tutti l’augurio sommesso / Che l’autunno sia lungo e mite”. All’amata moglie Lucia, cui è dedicato il libro intero, sono riservate parole commosse e grate, dall’epoca del fidanzamento fino all’età più avanzata: “Abbi pazienza, mia donna affaticata //… Accetta, dopo tanti anni, pochi versi scorbutici / Per questo tuo compleanno rotondo //… Sono il mio modo ispido di dirti cara, / E che non starei al mondo senza te”.

Il mito, la Bibbia, la storia universale e la scienza sono presenti in tutta la raccolta, che cita Aracne e Lilit, Plinio il vecchio e Galileo, la lotta partigiana cui Levi prese parte attivamente in gioventù e i cui ideali teme siano stati abbandonati o traditi. Ma ovviamente è la tragedia della Shoah, rivissuta nella memoria lacerata e mai più ricomposta, a risuonare come un basso continuo in questi versi, insieme al dovere morale di rendere testimonianza di quell’orrore. Ecco quindi il ricordo dei milioni di vittime innocenti, dalla bambina incenerita a Pompei fino ad Anna Frank, “Poiché l’angoscia di ciascuno è la nostra”, quando “Ognuno è nemico di ognuno”: sempre con il terrore che l’abominio possa ripetersi, e di dover riascoltare “Il percuotere di passi ferrati” o “Il comando dell’alba: / «Wstawać»”. Per questo la notissima esortazione civile di Shemà, anteposta a Se questo è un uomo, rimarrà valida in eterno: “Voi che vivete sicuri / Nelle vostre tiepide case, / Voi che trovate ritornando a sera / Il cibo caldo e visi amici // Considerate se questo è un uomo, / Che lavora nel fango / Che non conosce pace / Che lotta per mezzo pane / Che muore per un sì o per un no”. Nella stessa maniera rimangono legittimi anatemi e maledizioni, rivolte sia ai torturatori nazisti come Adolf Eichmann (“Tu creatura deserta, uomo cerchiato di morte //… O figlio di morte, non ti auguriamo la morte. /… Possa tu vivere insonne cinque milioni di notti”), sia ai pavidi che non si sono opposti: “Vi si sfaccia la casa, / La malattia vi impedisca, / I vostri nati torcano il viso da voi”.

Demoni e “fantasmi immondi”, incubi e paure incontrollabili continueranno a tormentare Primo Levi, nonostante il desiderio più volte espresso di trovare sollievo dall’angoscia e dal tormentoso senso di colpa per essere scampato all’Olocausto. La voglia giovanile di tornare a cantare, “di camminare liberi sotto il sole”, di recuperare un impegno di lotta contro ogni sopruso, lentamente si ammorbidisce in una più docile e rassegnata aspirazione alla pace: “Felice l’uomo che ha raggiunto il porto, / Che lascia dietro sé mari e tempeste, / I cui sogni sono morti o mai nati…”. Ma nell’ultima composizione del volume (Almanacco) torna desolata la constatazione che di fronte all’eternarsi indifferente degli elementi naturali, solo l’uomo è capace di intestardirsi nello scempio e nella devastazione: “Noi propaggine ribelle / Di molto ingegno e poco senno, / Distruggeremo e corromperemo / Sempre più in fretta; / Presto presto, dilatiamo il deserto / Nelle selve dell’Amazzonia, / Nel cuore vivo delle nostre città, / Nei nostri stessi cuori”.

 

© Riproduzione riservata          «Nazione Indiana», 21 giugno 2018