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RECENSIONI

LANARO

PAOLO LANARO, RUBRICA DEGLI INVERNI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2016

L’ultimo volume di Paolo Lanaro, da poco uscito presso Marcos y Marcos, mantiene la calibrata misura espressiva a cui ci ha abituato questo riservato, malinconico, riflessivo poeta vicentino. Il suo è uno sguardo discreto (nel senso di non invasivo, di rispettoso verso qualsiasi alterità) rivolto alla realtà in cui siamo immersi; ed è soprattutto un pensiero che si interroga incessantemente sul destino comune a tutti gli essere umani, al trascorrere del tempo, alle storie individuali e alla storia universale che le ingloba. La scelta mite di Lanaro è esplicitata in versi come i seguenti:

«Fosse per me guarderei una foglia a lungo, // la tenerezza e l’angolo deciduo, / ne studierei il verdecupo inestimabile, / l’assenza quieta di volontà / di diventare qualcosa», «…starei / ad ascoltare i germogli, il rumore impercettibile / che riprende dai luoghi delle rovine».

Osservare con stupore e gratitudine, senza alcuna volontà di possesso, il miracolo quotidiano dell’esistenza, vegetale e animale, che si ripropone quotidianamente davanti ai nostri occhi; guardare la neve e la pioggia che scendono incuranti di ogni presenza umana, le case – le scuole – le chiese che invecchiano e si crepano come i volti delle persone; risvegliare ricordi annebbiati, amici persi nell’indifferenza, parenti morti; e riflettere sull’insignificanza del percorso di vita personale rispetto all’ineluttabilità dello scorrere di anni e secoli, all’imperturbabilità di una storia che macina e travolge le vicende minime della gente comune. Quello che ci riguarda è cronaca, fatta di gesti ripetitivi e inessenziali; il passato che ci ha illuso e consolato è irrecuperabile, e se un dio esiste probabilmente non risponde all’idea che ci facciamo della provvidenza: «La storia è soltanto l’accumulo / di tante, fugaci, non-storie», «(Ma se poi davvero lassù ci fosse Dio? / E se ciò che per un po’ ci ha ammutoliti / fosse stata proprio una sua veloce occhiata?)», «Non si può stare soli e avere / anche un’idea rassicurante delle ore / che incalzano come addetti silenziosi / ai servizi funebri. // Tutto questo deve voler dire che in noi / c’è qualcosa che si oppone a noi».

Cosa resta, allora, a cui poter chiedere soccorso e salvezza? La poesia, forse, che Lanaro interroga nelle voci di alcuni maestri (Szymborska, Brodskij, Holan, Brecht, Eliot), punteggiando i suoi esseoesse di punti di domanda ansiosi (Dove ambientare dei versi?, Un poeta non sa quello che fa?). Oppure qualche ricetta di sopravvivenza quotidiana, come nei bei versi di Ogni giorno: «Ogni giorno un libro. Come un break / equilibrato di carta e parole. // Ogni giorno mezzora a piedi / per tener su il morale // … Ogni giorno ci ritroviamo tra di noi: / coniugi, manodopera, condòmini strazianti. // Ogni giorno una quantità di cose / al posto del silenzio».

La scrittura di Lanaro, musicalmente modulata su tonalità né percussive né cantilenanti, ma obbedienti a una ritmica interna e discreta, non pare rivolgersi alla tradizione letteraria italiana più tipica: semmai recupera gli echi di un Larkin, di uno Hughes, o di uno Strand, di un minimalismo meditativo e introspettivo che la rende particolare e suggestiva.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/Rubrica-degli-inverni-Lanaro.html           18 luglio 2016

 

 

 

 

RECENSIONI

LANARO

PAOLO LANARO, CONTRO I VENTI INVISIBILI – CIERRE, SOMMACAMPAGNA 2017

Un poeta rimane tale anche quando scrive in prosa. È il caso del vicentino Paolo Lanaro, alla terza prova narrativa pubblicata presso le edizioni Cierre: tre libri che circumnavigano la sua esperienza esistenziale, la sua realtà ambientale e culturale, la sua vita lavorativa. Nel più recente, Contro i venti invisibili, Lanaro esplora con pacata nostalgia e indulgente autoironia i percorsi – soprattutto mentali ed emotivi – che l’hanno portato a raggiungere l’età pensionabile, le impalpabili correnti aeree (brezze, folate, raffiche…) che hanno diretto e condizionato, più o meno consapevolmente, tutte le sue scelte. A partire dalla primissima infanzia, già segnata da una sensibilità particolare, da una disposizione del carattere alla riflessione e alla malinconia; passando poi per un’adolescenza e una giovinezza attraversate da utopie politiche e sogni di riscatto sociale, fino all’approdo scontato e disilluso alla professione di insegnante, a cui vengono dedicate le pagine più intense, accorate e disincantate del libro. Arrivando poi al severo bilancio con cui l’autore si giudica: «Appartengo a una schiatta che ha filtrato quasi tutto attraverso i libri, ignorando l’esperienza diretta», «ho consumato anni e anni a inseguire gloria, successo, denaro. Per essere precisi non ho ottenuto niente di tutto ciò. Lo sottolineo senza rimpianti», «Adesso mi domando con apprensione, ma anche con risolutezza: dove posso aver sbagliato?».

I rimpianti, certo. E i ricordi. Lanaro li ausculta e ce li comunica con puntigliosa e sorridente partecipazione. Le frequenti malattie, i ricoveri ospedalieri, le ipocondrie; le morti di parenti e amici; gli scrittori e i musicisti più amati; le passeggiate in una città imbruttita dallo scempio edilizio e sulle montagne sempre più invase da gitanti irrispettosi. Ma sono i quarant’anni trascorsi nelle aule scolastiche come insegnante di italiano e filosofia a monopolizzare la memoria dell’autore: dagli esordi nelle supplenze vaganti in paesini sperduti della campagna vicentina, alle cattedre vinte nei seriosi licei della buona borghesia; dai colleghi frustrati o sindacalmente rivendicativi ai genitori boriosi o reazionari; dagli alunni svogliati o aggressivi a quelli intimoriti e volonterosi. Bozzetti divertenti e amari (il figlio rachitico di contadini che a ogni interrogazione risponde “Cosa vùto che sai mi?”, la ragazzina saputella che corregge il professore su un’imprecisione lessicale, l’ex allievo disoccupato che implora aiuto, la collega aspirante seduttrice che si affida al chirurgo estetico, i bidelli scansafatiche e i presidi implacabili burocrati…). Ogni flashback induce a riflessioni amare: «le scuole per cui sono passato erano per lo più delle aziendine tristi e monotone. I pezzi prodotti tendevano ad assomigliarsi, certi colleghi si comportavano come dei capireparto, il ceo, cioè il preside, si occupava principalmente delle assenze per malattia. Verificava, controllava, puntualizzava, ammoniva», «gli studenti invece di essere, come sarebbe da aspettarsi, gli agenti del cambiamento, sono talvolta i manutengoli della rovina».

È comunque lo scorrere implacabile del tempo, con l’erosione crudele delle forze fisiche e il pensiero sempre più assillante della morte, il tema che emerge con maggiore evidenza nella scrittura pacata e meditativa di Lanaro («E dopo? È sempre il dopo il problema. Dopo finisce, anno più o anno meno»), e che gli detta le parole più commosse e malinconiche sull’irrecuperabilità del passato, sull’inevitabilità del distacco. Parole di poeta: «Il caldo del pavimento dove passano le tubature dell’acqua calda. Camminare per la casa in calzini. Posare il naso sul vetro e guardare la pioggia che scende. Agguantare un’antica felicità senza nome. Quando lei aveva vent’anni. Quando avevi quella bella maglietta blu. Quando c’erano i tuoi genitori che pensavano a tutto». Chiosate in appendice da una serie di aforismi sul vento, come questo, toccante, di Tahar Ben Jelloun: «Il vento soffia, sovrano e indifferente. Come sfuggire al tempo? Come renderlo meno pesante? Come non pensarci più?».

 

© Riproduzione riservata        «Incroci» n. 36, dicembre 2017

 

RECENSIONI

LANDOLFI

TOMMASO LANDOLFI, A CASO – ADELPHI, MILANO 2018

Dei racconti di A caso, pubblicati da Tommaso Landolfi nel 1975 e vincitori del Premio Strega, Italo Calvino scrisse che avevano lo stesso effetto di “un’unghia che stride contro un vetro, o d’una carezza contropelo”. Si tratta di tredici storie urticanti, percorse da sentimenti aggressivi, irrisori o polemici, animate da personaggi sogghignanti e ostili, com’era nella consuetudine del loro autore, uno dei maggiori della nostra letteratura novecentesca, per quanto poco conosciuto a causa della sua algida riservatezza e della sua scrittura ricercata e di difficile presa sul pubblico. Stimato dai maggiori intellettuali contemporanei (Bo, Montale, Bassani, Soldati, e dallo stesso Calvino, che ne curò un’antologia per Adelphi, così inquadrandolo: “Il rapporto di Landolfi con la letteratura come con l’esistenza è sempre duplice: è il gesto di chi impegna tutto sé stesso in ciò che fa e nello stesso tempo il gesto di chi butta via”), Tommaso Landolfi nacque a Pico, nel Frusinate, nel 1908, da una nobile famiglia di proprietari terrieri, di cui mantenne sempre l’orgogliosa impronta aristocratica, conservatrice ed elitaria in politica e nella scelte culturali.

Laureatosi a Firenze in letteratura russa con una tesi su Anna Achmatova, iniziò presto a collaborare a diverse riviste, pubblicando poi volumi di racconti e romanzi in uno stile sospeso tra il fantastico e il grottesco, segnati da pessimismo esistenziale, corretto tuttavia dall’ironia, e spesso da un beffardo sarcasmo. Utilizzando un linguaggio sofisticato, in cui fondeva barocchismo e invenzione sperimentale, Landolfi descriveva un mondo abitato da individui singolari, segnati da difetti degradanti, da umori biliosi, da immodificabili malinconie che li allontanavano dalla comunità circostante e dai valori condivisi della modernità: in primo luogo dalla fiducia nel progresso, nella solidarietà umana, in qualsiasi fede salvifica. Questa disposizione d’animo, fortemente critica nei confronti dell’attualità, insieme all’invenzione linguistica giocosa, manipolatoria, lussureggiante, fece di lui un isolato nel mondo letterario: di tale emarginazione sembrava quasi compiacersi, consapevolmente fiero della propria eccentricità.

Nei racconti ora riproposti da Adelphi (che dal 1992 sta recuperando tutto il repertorio landolfiano), l’autore utilizza frequenti arcaismi (pel fatto, eziandio, sicché, mi avvidi, donde, codesto, ella…), termini desueti (lorco, vello, brumoso, ingrommato, gemino, agognamento, frusto…), quando addirittura interpretabili solo ricorrendo al Vocabolario dell’Accademia della Crusca (flebotomo, edule, sparnazzare, soprassello, mucido, vespertillo, mencio…), evidenziando così la sua decisa presa di posizione in favore di una letteratura esente da qualsiasi finalità didattica o di impegno, ma incentrata sull’eleganza formale, sulla cesellatura della parola, in una sfida esibita alla banalità lessicale, alla superficialità della costruzione sintattica, alla pesantezza realistica.

La maggior parte dei racconti assumono una struttura dialogica, secondo una tradizione che da Platone (attraverso Galilei e le Operette Morali di Leopardi) arriva a Calvino, privilegiando la configurazione del contrasto ideologico, del confronto pungente tra due posizioni eticamente avversarie. Quando i protagonisti sono una coppia eterosessuale, il duello verbale tra uomo e donna si risolve in una schermaglia da minuetto settecentesco (“se io non avessi avuto bisogno di te, a poco ti sarebbe servito l’aver bisogno di me”, “Tu, si tu, desideri sposare me? Desideri che io desideri sposarti?”), oppure in un assedio crudele e morboso, o in caustico divertissement.

Nel caso invece di una disputa ideologica, l’argomentazione si fa più acuta e penetrante, quasi da dissertazione sofistica. Allora ci troviamo davanti a piccoli gioielli di intelligenza corrosiva e irriverente, come in Le Maiuscole, in cui un personaggio si fa beffe della Storia italiana e universale, mescolando ironicamente vittorie e sconfitte militari, eroismi e vigliaccherie, da Zama a Garibaldi, da Caporetto alla Guerra delle Due Rose fino a Mussolini: “Maiuscolo tutto: maiuscole le Autorità Civili e soprattutto Religiose, maiuscoli i Bersaglieri, maiuscoli i Discendenti, maiuscolo il Papa, maiuscolo daccapo il Tricolore, maiuscolo la piena Coscienza civile e la piena Cognizione di Causa (e non già del dolore), maiuscolo… oh, per favore, aggiungi Qualcosa!”. Ancora, in Volpi scodate un vecchio disamorato della vita propone al giovane contraddittore una castrazione universale in modo da evitare la riproduzione di figli disperati: “Pensa: adesso sì possiamo essere liberi e felici, sapendo che un giorno o l’altro (presto, presto) tutta questa abominosa storia finirà, finirà pure, a marcio dispetto di Lui lassù, del Tiranno, del Massacratore! In breve, non c’è più un domani: che consolante certezza. Era in definitiva il domani che ci avvelenava, fosse speranza o terrore; adesso al contrario, esaurita questa residua carica vitale, potremo chiamarci fuori, e Lui avrà un bel fare!” Nel primo brano, che dà il titolo alla raccolta, uno scrittore famoso (“il personaggio dalle due voci”) viene invitato dal suo interlocutore a compiere un’azione violenta, A caso, uccidendo il nipotino dei vicini di casa, giusto per dimostrare una qualche vitalità e passione nell’insulsaggine della sua vita amorfa. Ma l’intellettuale, omicida in pectore, si perde in elucubrazioni astratte sul significato dei nomi di battesimo, incapace sia di agire nei confronti del bambino, sia di sedurne l’incantevole sorella maggiore. Nell’universo mentale di Landolfi, nemmeno l’eros offre piacere, ma sempre umiliazione, noia, insulso confronto di prestazioni sessuali, e va quindi trattato con grottesco umorismo, o con sconforto (terribile e impietoso, ma assolutamente da leggere Petto di donna).

Ateo, anticlericale, misantropo, Landolfi alleggeriva il suo pessimismo cosmico con l’eleganza divertita del gioco, che non solo rappresentava materialmente il suo demone privato e dilapidatore, ma indicava letterariamente una propensione alla burla, all’inganno, allo scherno verso qualsiasi borioso credo nelle magnifiche sorti e progressive: “il domani come postulazione o come rivelazione è una vasta e presuntuosa panzana… L’essenziale è passare il tempo, il Nemico…; … Sembra proprio che dobbiamo contentarci di gioie ambigue, torte e per giunta fuggevoli”.

Privo di complicità ed empatia verso il prossimo, sprezzatore del senso comune come di qualsiasi imposizione dispotica del potere, nella mordacità non risparmiava nemmeno sé stesso, definendosi “buio” come Milano: “Lo sono sempre stato e forse non potrei non esserlo: non c’è bisogno di guerre, per oscurare l’anima mia”. Plumbeo, estraneo al mondo, in questi racconti Tommaso Landolfi esprime una solidarietà alla tipologia umana che avverte più simile al suo carattere: a coloro che, feriti dall’incomprensibilità dell’esistere, dall’ “invalicabile stridore” che li separa dagli altri, scelgono l’avvilimento dei gesti e dei pensieri, il “buttarsi via” citato da Calvino.

 

© Riproduzione riservata     «Il Pickwick», 20 luglio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

LANDOLFI

TOMMASO LANDOLFI, IL TRADIMENTO, ADELPHI, MILANO 2014

Tommaso Landolfi nacque a Pico, nel Frusinate, nel 1908, da una nobile famiglia di proprietari terrieri, di cui mantenne sempre l’orgogliosa impronta aristocratica, conservatrice ed elitaria, sia in politica sia nelle scelte culturali. Laureatosi a Firenze in letteratura russa con una tesi su Anna Achmatova, iniziò presto a collaborare a diverse riviste, pubblicando poi volumi di narrativa in uno stile sospeso tra il fantastico e il grottesco, segnati da pessimismo esistenziale corretto da un beffardo sarcasmo. Utilizzando un linguaggio sofisticato, in cui fondeva barocchismo e invenzione sperimentale, Landolfi descriveva un mondo abitato da individui singolari, segnati da difetti degradanti, da umori biliosi, da immodificabili malinconie che li allontanavano dalla comunità circostante e dai valori condivisi della modernità: in primo luogo dalla fiducia nel progresso, nella solidarietà umana, in qualsiasi fede salvifica. Questa disposizione d’animo, fortemente critica nei confronti dell’attualità, insieme all’invenzione linguistica giocosa, manipolatoria, lussureggiante, e alla sua algida riservatezza, fecero di lui un isolato nel mondo letterario: di tale emarginazione sembrava quasi compiacersi, consapevolmente fiero della propria eccentricità. Nonostante, o grazie a ciò, rimane uno dei maggiori esponenti della nostra letteratura novecentesca, stimato dai più importanti intellettuali contemporanei (Bo, Montale, Bassani, Soldati e Calvino, che curò un’antologia delle sue “pagine più belle”, così inquadrandolo: “Il rapporto di Landolfi con la letteratura come con l’esistenza è sempre duplice: è il gesto di chi impegna tutto sé stesso in ciò che fa e nello stesso tempo il gesto di chi si butta via”).

Ateo, anticlericale, misantropo, Landolfi alleggeriva il suo scetticismo con l’eleganza divertita del gioco, che non solo rappresentava materialmente il suo demone privato e dilapidatore, ma indicava letterariamente una propensione alla burla, all’inganno, allo scherno verso qualsiasi borioso credo nelle magnifiche sorti e progressive.

L’editore Adelphi dal 1992 sta recuperando tutto il repertorio landolfiano (romanzi, racconti, saggi e poesie, pubblicati anche nelle collane minori). Da non perdere, per chi non li conoscesse, due veri gioielli quali A caso, premio Strega nel 1975, e Le due zittelle, prose narrative urticanti, attraversate da sentimenti aggressivi, irrisori e polemici, animate da personaggi sogghignanti e ostili, per cui sempre Calvino ebbe a dire che producevano lo stesso effetto di “un’unghia che stride contro un vetro, o d’una carezza contropelo”.

Le composizioni raccolte ne Il tradimento, uscite per la prima volta nel 1977 e premiate a Viareggio nello stesso anno, vengono definite in una sua  nota “grave e terribile seguito” del diario in versi Viola di morte del 1972. Entrambe le raccolte hanno come tema centrale di riflessione la morte, che coglierà l’autore nel 1979, dopo una lunga e dolorosa malattia. Angosciate e rabbiose, le poesie di Tommaso Landolfi “Non volano mai, non cantano mai, non corteggiano mai le grazie dell’imma­gine e della musica”, secondo quanto scrisse Pietro Citati. Sono liriche filosofiche, intese ad aggredire i luoghi comuni, le facili consolazioni, le illusioni di riscatto morale, e rassegnate invece all’orizzonte nichilista della disperazione. Nella visione plumbea del poeta, il destino degli esseri umani viene manovrato da un demiurgo crudele e indifferente, a cui è impossibile opporre resistenza: “Ah, come non pensare ad un maligno / Fattore, a un bieco autore / Dei nostri giorni?”. La morte è quindi esito ineludibile, tradimento assoluto di ogni aspettativa di sopravvivenza individuale nell’eternità, e illusoria è persino la speranza del dissolvimento nella pace rasserenante del nulla: “O morte sempre amata / Ed in segreto sempre corteggiata, / Avvolgiti di nere bende il capo: / Tu non sei più speranza”. Anche della fine materiale si deve diffidare, perché non mette al sicuro dalla voracità del meccanicismo biologico: “È sempre più vivace / L’assalto della vita: non riparo / A tanta foga”, “Ahimè nell’universo / Non ha luogo la morte, ora ben vedo; / L’odiosa vita regna in ogni dove. / Vano è cercare scampo e refrigerio / Al gran barbaglio, travaglio e fragore /   D’una maligna estate. /… All’esser nati non è più riparo”, “Nulla finisce, o nulla / Comincia, colla morte ormai: / La morte è solo un caso / D’una trama più vasta, un nodo appena   / Del tramite che varca il tempo”; “Parto, e rinascere non voglio…  / Io temo, è questo il vero, / Io temo di protrarre il mio pensiero”.

Lo stile utilizzato da Landolfi è evidentemente modulato su un classicismo di stampo ottocentesco, in cui Leopardi appare senz’altro come nume tutelare non solo formalmente, ma anche in quanto riferimento teorico: il suo “è funesto a chi nasce il dì natale” diventa il leitmotiv della riflessione landolfiana sulla negatività dell’esistere: “Un luttuoso cuore / È il retaggio dell’uomo /… Nasce l’uomo ai tormenti”.

La condizione metafisica delle creature è priva di qualsiasi aspettativa di bene e salvezza: quella politica e sociale appare altrettanto miserevole, e trova nella forma epigrammatica la sua più confacente sintesi espressiva: “L’uomo più libero del mondo / Passò la vita ad obbedire”, “Tutti, rio tempo sconoscente, / Tutti ci hai fatti servi della gleba”, “Nacque; / Fu sempre solo / Tra tanta gente   / In molte parole / Tacque; / Indi morì, / s’accomiatò dal Sole”.

Nemmeno la poesia riesce a offrire conforto o certezze, e la pagina bianca a cui manca l’ispirazione diventa una condanna: “E baratro infernale questo foglio, / Bianco d’un impossibile messaggio”, “Non v’è più schermo, non più verso egregio / Che ci protegga dal nulla”, “Ma la pagina bianca è muta e cieca / E nulla ci rimanda / Se non la nostra voce e il nostro sangue. / Di pagine bianche / È impossibile vivere”.

Rimangono quindi gli affetti, come possibile appiglio cui aggrapparsi per continuare a vivere. Alla figlia Idolina (1958-2008), scrittrice, critica letteraria, traduttrice e principale curatrice delle opere paterne, Tommaso Landolfi dedicò una commovente lirica (“Idolina, ti conceda la sorte / Di tralignare sempre, / Di non perdere le tempre / A corteggiare la morte, / A vagheggiare le forme / Compite, cui fosse affidato / L’estremo compenso, il riscatto / Da tutte le infamie. // … E tu, vivi / Lungo aleatorie, provvisorie orme, / Libera, casuale ed imperfetta, / Sposa a tutti i cammini e a tutti i trivii… / Fa’, dico, tutto quanto è in tuo potere / Per non trovarti un dì tradita, / Anzi negletta dalla morte, quale / Il tuo misero padre”). A un’altra misteriosa giovane donna, probabilmente solo vagheggiata nella fantasia, rivolse parole tenere e appassionate: “Unica, t’ho invocata, / Ed ogni volta ti sei sottratta / All’appello…”, “E perdermi tra ignote nebulose. / Lontano certo, ma non tanto / Che non mi giunga la tua mano / E l’umida tua lingua”, “E se m’odi, una sola grazia chiedo / A te, compagna errante e casuale: / Di bestemmiare o di pregare un dio”. A questa enigmatica figura femminile, “eternamente bella”, dallo sguardo “altero e dolce”, regala parole di affettuoso rimpianto, consapevole della propria “vecchiezza lercia”: “È inutile, se non sei mia, / Che a ben mostrare la tua nuova gonna / Tu mi prilli dinanzi sul tappeto. /… (E sei tornata / In camicino azzurro e trasparente / A dar la buona notte)”.

Una poesia, questa de Il tradimento, che sembra voler duellare con la morte avvertita come prossima, rifiutando tuttavia le lusinghe della vita stessa, considerata eccessiva nella sua esibita vivacità.

Persino la scrittura, allora, abdica alla contemporaneità, rifiuta il presente e il contingente, scegliendo forme ridondanti e barocche, termini arcaici (guatare, fenduto, diruto, piovorno, ugne, tabe, ronchioso), desueti (dimora, favella, ciarliero, fallace, solingo, inanimito) o poco comuni (canizza, pirenaico, eringio, repleto, farnia), prendendo così  posizione in favore di una letteratura esente da qualsiasi finalità didattica o di impegno, e invece incentrata sull’eleganza formale, sulla cesellatura della parola, in una sfida esibita alla banalità lessicale, alla superficialità, all’attualità conformante.

“Dalla nuda poesia, dalla ricciuta prosa, / Egualmente allettato / Ed egualmente da ambedue respinto”, Tommaso Landolfi in questo suo avvicinamento alla morte fa i conti  con la vanità del tutto, della scienza e della teologia, della carne e dello spirito:  “ Mentre non più il conoscere mi tenta / Né più l’intendere mi alletta, / Né a guardar dentro più s’accende il sangue. / Rapissi il fuoco della vita eterna / E sviscerassi l’universo, / A me che cosa ne verrebbe”.

Solo stanchezza, quindi: l’amara rassegnazione e l’iroso disappunto di chi si sente tradito.

 

© Riproduzione riservata            «Gli Stati Generali», 27 gennaio 2022

 

 

RECENSIONI

LAPAQUE

SÉBASTIEN LAPAQUE, TEORIA DELLA CARTOLINA – ARCHINTO, MILANO 2015

A chi non è capitato, sfogliando un vecchio volume recuperato tra molti altri nella libreria del salotto, di ritrovarvi come segnalibro una cartolina, firmata da qualche lontano parente, da un amico mai più rivisto, da un nome che si stenta a decifrare, o che non si avrebbe voluto riconoscere? Questo piccolo libro del romanziere, critico letterario e polemista francese Sébastien Lapaque (1971) è un omaggio alla cartolina illustrata, «oggetto vivo in mezzo a tanti gadget inerti da cui vengono oppresse le nostre vite semplificate».
Nonostante l’autore ripeta a più riprese di non voler scrivere una celebrazione nostalgica «al trapassato remoto» di un piacere fuori moda, in un mondo che ormai parla «solo il linguaggio binario del computer», il suo è in realtà un omaggio riconoscente, un elogio commosso al cartoncino affrancato che ha accompagnato per decenni le nostre vite, puntellando non solo i nostri viaggi, gli affetti, le memorie personali, ma documentando avvenimenti storici e testimonianze geografiche, sottolineando eventi di cronaca, comunicando appuntamenti, parole d’ordine, messaggi cifrati…
Lapaque fornisce dettagli importanti sulla rilevanza ancora attuale della cartolina, persino da un punto di vista economico: in Francia, si vendono trecento milioni di cartoline l’anno di cui due terzi in estate (quindi, cinque cartoline l’anno per ogni francese); sono stampate su carta patinata od opaca, pesano 3 grammi e hanno una misura standard di 14×9; dal 1889 sono state spedite cinque miliardi di immagini della Torre Eiffel; esistono tuttora 145.000 cassette delle lettere, gialle-rosse-color bronzo, purtroppo minacciate da un progressivo smantellamento.
Però non sono tanto queste notizie a rendere particolare il volume appena edito da Archinto, quanto la poesia discreta che emana dalla scrittura dell’autore, il quale considera l’inviare cartoline una vera e propria terapia, un atto di resistenza contro il dilagare dei ben più impersonali sms e dei gelidi twitts: le parole con cui si scrivono le cartoline sono «parole di letizia e d’incanto, parole azzurre, parole leggere». Al punto che addirittura le cartoline anonime risultano essere un gioco, sono allusive, mai minacciose, rimandano a un vissuto comune a chi le spedisce e a chi le riceve: «Non si è seri quando si scrivono cartoline». E sul retro riconosciamo segnali di vita vissuta, il tremore o l’emozione di una mano, il francobollo in cui rimane incollato il respiro del mittente.
Proprio ai mittenti Lapaque dedica pensieri grati, immaginando le loro speranze e attese, le loro rabbie o pentimenti: perciò rivela la sua antica e appassionata abitudine di acquistare vecchie cartoline da antiquari e rigattieri, per poter ricostruire innamoramenti e abbandoni, tenerezze infantili e gelosie maritali, per scoprire località lontane o trascurate, paesaggi artici o infuocati, stazioni, monumenti, montagne e oceani, visi famosi o sconosciuti. Ma l’autore non solo legge, colleziona e interpreta cartoline altrui: ne acquista moltissime, ovunque, e le spedisce a tutti, arricchite di citazioni, versi, auguri in rima, sollecitazioni letterarie, disegni colorati.
Mi chiedo se esistano ancora quelle cartoline per l’infanzia che ho contribuito a produrre, nei miei anni universitari milanesi, lavorando in nero in un laboratorio di Città Studi: ritraevano pupazzi con occhietti di plastica e pupille mobili, oppure con fischietti interni che risuonavano se le si premeva nel centro. E con un po’ di nostalgia riascolto, complice la lettura di Sébastien Lapaque, la voce di una dolce Marisa Sannia che cantava sulle note di Endrigo: «Almeno per Natale, fammi sapere dove sei: mandami una cartolina, scrivimi una cartolina…». Sperando, appunto, di ricevere per Natale una cartolina innevata in più e una sbrigativa mail in meno.

 

© Riproduzione riservata         www.sololibri.net/Teoria-della-cartolina-Sebastien.html

4 dicembre 2015

RECENSIONI

LATOUCHE

SERGE LATOUCHE, BAUDRILLARD O LA SOVVERSIONE ATTRAVERSO L’IRONIA  – JACA BOOK, MILANO 2016

I precursori della decrescita” è una pungolante collana del catalogo Jaca Book, che porta significativamente come sottotitolo “Pensieri che vengono da lontano per un mondo sostenibile”. La dirige il filosofo ed economista francese Serge Latouche (1940), ideatore e promulgatore del concetto di decrescita, che contesta l’ideologia produttivistica delle nostre società, ritenendo che lo sviluppo sconsiderato e infinito della produzione e del consumo di oggetti materiali non sia sostenibile né compatibile con la sopravvivenza in un mondo finito quale è quello in cui viviamo. Gli intellettuali che si rifanno a tale teoria propongono una “società dell’abbondanza frugale”, in cui le persone godano tutte di un’esistenza migliore, consumando di meno e con un’attenzione più consapevole all’ambiente circostante.

Il volume di cui ci occupiamo si intitola Baudrillard o la sovversione attraverso l’ironia, e in esso Latouche ipotizza una riscoperta e una rilettura di Jean Baudrillard (1929-2007) appunto come precursore della decrescita. Baudrillard, «autore inclassificabile», affermava che si possono avere molte idee, ma un solo pensiero. Il suo pensiero coerente e quasi ossessivo riguardava la critica della società dei consumi e di tutti i suoi simulacri, per cui «il desiderio umano si riduce a invidia di cose»: il feticismo per la merce, l’onnipresenza manipolatoria della macchina pubblicitaria, l’artificiosa società dello spettacolo, la globalizzazione che annulla ogni differenza culturale tra i popoli. Secondo Baudrillard i miti della spesa, del godimento immediato, dell’accumulo di prodotti inutili hanno sostituito i temi del risparmio, del lavoro, della costruzione di un patrimonio: il superfluo precede il necessario, la carta di credito illude di poter acquistare tutto ad libitum. I bisogni sono indotti artificialmente, e ormai si compera quello che non serve con il miraggio di conquistare la felicità, per obbedire ai dettami della moda o del salutismo. La critica pungente di Baudrillard sembra quindi dover considerare a diritto il suo autore tra i precursori della decrescita, ma Serge Latouche esprime alcuni dubbi sulla reale adesione di lui all’utopia dell’abbondanza frugale. Indifferente all’ecologismo, sarcastico e provocatorio fino a sfiorare il nichilismo, scettico su ogni impegno politico, Baudrillard non propone nessun progetto alternativo che aiuti la società a rifondarsi: disilluso e derisorio, rinunciatario e pessimista, dichiara beffardamente l’impotenza velleitaria di chi si dà da fare per salvare il mondo, che secondo lui è ormai condannato a una fine ingloriosa, sommerso da rifiuti materiali e ideologici. Nella seconda parte del volume il fastidio di Latouche nei riguardi del collega più anziano diventa esplicito e quasi astioso: Baudrillard viene definito cinico e manicheo, impertinente e anaffettivo, sofisticamente paradossale nella sua passione per l’ironia giocosa del linguaggio, incapace di proposte costruttive quando si spinge addirittura a negare la consistenza del reale, affermando che il mondo è un’illusione, una simulazione: «Certo, la sua critica del sistema colpisce nel segno, ma le conclusioni che ne trae sono talmente radicali da neutralizzare qualsiasi azione».

Due importanti figure intellettuali a confronto, Latouche e Baudrillard, il primo pragmatico e utopista, il secondo disincantato e parossistico: entrambi vigorosi nel pungolare il letargo filosofico che assopisce e disarma il pensiero contemporaneo occidentale.

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8 novembre 2017

 

RECENSIONI

LATTMANN

SILVANA LATTMANN, LA FAVOLA DEL POETA, DELLA PRINCIPESSA, DELLA PAROLA E DEL GERUNDIO – CASAGRANDE, BELLINZONA 1989

Recensire dei racconti è sempre difficile: arduo recuperare un filo comune sotteso a vicende, ambienti e personaggi diversi, problematico trarne un’interpretazione univoca, senza tuttavia tralasciare di mettere in luce le varie sfaccettature di una stessa esperienza di scrittura. Nel caso del volume di cui mi accingo a parlare ora, si aggiunge a tali difficoltà un’impressione (probabilmente soggettiva, ma non per questo trascurabile) di voluta ambiguità e provocazione, che libro e autrice sembrano voler insinuare tra sé e chi legge. Già dal titolo, così lungo, ammiccante e enigmatico, oscillante tra tradizione (favola, principessa) e novità (poeta, gerundio) fino alle scarne – scheletriche!- note biografiche dei risvolto di copertina, che nulla lasciano trapelare dell’autrice se non che «dal 1954 è cittadina svizzera», quest’ultimo volume di Silvana Lattmann dichiara orgogliosamente la propria osticità. Un libro di difficile lettura, che riesce sempre a insinuare nel lettore il dubbio di non aver prestato abbastanza attenzione alle allusioni, ai rimandi interni, di non essere abbastanza colto o sensibile; e lo costringe quindi a tornare spesso su pagine già lette, a rimeditarle, a interrogarsi. In genere, non sono i volumi di narrativa che chiedono uno sforzo di decodificazione e ricostruzione tanto partecipe: sono le opere di pensiero, filosofiche o religiose, quando toccano gli argomenti “eterni”; oppure ancora la poesia, così frequentemente oscura, oracolare, densa di significati da inverare. Nei quindici racconti di Silvana Lattmann si intuisce un’assoluta sfiducia nella possibilità di comunicare – attraverso la scrittura – una qualsiasi esperienza, e un’ altrettanto assoluta, insopprimibile esigenza di verificare le proprie emozioni, i propri ricordi nella concretezza della parola stampata: «Un rincrescimento la penetrò, la malinconia sulla chiusa incomunicabilità dei due spazi. Una rete di separazione lasciava passare solo intenzioni distorte (pag. 54)».

L’illusione di comunicare con i propri simili è pura finzione, non esistono infatti situazioni concrete da raccontare, o personaggi da descrivere. I gesti sono rallentati, le parole rarefatte, la natura si adegua, tormentosa, ai grovigli e ai travagli di chi la osserva. Domina queste “storie”, come ama chiamarle l’autrice, l’idea di uno spazio e di un tempo costretti a limitarsi in dimensioni umane, mentre aspirerebbero a un assoluto senza confini. Continui i riferimenti a linee, spigoli, superfici che ingabbiano il reale cercando di razionalizzarlo, come in uno dei racconti più riusciti (La casa), in cui un’abitazione si personalizza reagendo con simpatie o idiosincrasie molto umane alla presenza di chi la abita. Ossessivi sono i riferimenti all’assenza, al vuoto, alla mancanza: concetti, questi, in qualche modo catalizzati nel reiterato riproporsi della parole «buco», presente in quasi ogni racconto, nelle più varie accezioni. Costante è anche il ricorso a metafore, tra cui la più incalzante è quella dell’angelo come presenza salvifica, o dell’arlecchino come ingenuità e freschezza infantile. Le poche presenze umane sono figure femminili, parentali (sorella, madre, nonna), scorporate perché ormai lontane, morte, eppure effuse tutt’intorno, anch’esse metafora di una solidarietà affettuosa ma irrecuperabile. C’è anche, vaga, una figura maschile, di un poeta amico (Mario Luzi?), confessore e consigliere, ma pure lontano, evanescente. Questi rari punti focali appaiono però diluiti in una prosa visionaria e impalpabile, in un’estasi compiaciuta e – come tutte le esaltazioni intellettuali – profondamente aristocratica. Lo si intuisce bene nel racconto finale, che dà il titolo al volume, e ha le cadenze della narrativa favolistica, corrette tuttavia da toni ironicamente didascalici: uno scherzo, una metafora della parola scritta che accosta temi solenni e particolari grotteschi o banali, giocando con l’irrealtà e sbeffeggiando qualsiasi dato materiale e logico. Giustamente osserva Pio Fontana nella sua prefazione che qui «la ricerca della Lattmann diventa soprattutto ricerca linguistica, come lavoro onirico e visionario, visitazione ossessiva ed esorcismo, viaggio iniziatico che trova nel suo stesso ‘procedere confuso’ un senso e una ragione d’essere». Un viaggio per pochi, con trabocchetti insidiosi, sempre nell’attesa di un evento finale che tutto spieghi, tutto chiarisca.

 

«Agorà» (Svizzera), 4 ottobre 1989

RECENSIONI

LEAR

EDWARD LEAR, SENZA SENSO – STAMPA ALTERNATIVA, VITERBO 2005

Edward Lear (1812-1888) fu, insieme a Lewis Carroll, il più famoso maestro del “nonsense” dell’Ottocento. Non è casuale il fatto che entrambi questi autori fossero inglesi, visto la fama che da sempre hanno i britannici come cultori di un particolare humor, imbastito di leggerezza, sottile sarcasmo, gusto del paradosso. L’ originalità della produzione letteraria di Lear deriva dal suo gusto ingenuo e sornione per il non-significato, la stramberia gratuita, la fantasticheria allusiva e incomprensibile. Un po’ come le barzellette e le storielle raccontate dai bambini, che fanno ridere soltanto loro.

Senza senso è il titolo di questo volume, che raccoglie non i celebri limerick più volte pubblicati in prestigiose collane della nostra editoria: bensì poesie più lunghe, bozzetti narrativi, ricette esilaranti, disegni. Ad esempio, nella sezione Botanica senza senso sono catalogate alcune illustrazioni di Edward Lear (che era stato soprattutto un noto pittore e ritrattista), in cui dai gambi di fiori esotici spuntano corolle a forma di orologi, chitarre, forchette, mosconi, pesciolini e altri inaspettati, miracolosi oggetti e animali.
Nel capitolo dedicato a Ventisei rime e immagini senza senso, il genio mattoide dell’autore si sbizzarriva a disegnare ogni specie di essere animato, situandolo in situazioni imprevedibili, e accompagnandone lo schizzo con terzine scriteriate (“L’ Avvoltoio Apertamente Avido e Vizioso, che scriveva versi a una cotoletta di vitello in un volume legato in pergamena”, “Il Serpente Stupidente, che portava sempre il cappello in testa per paura di mordere qualcuno”). Le Storie senza senso narrano di avventurosi viaggi animaleschi intorno al mondo: sempre illustrati dall’autore, e con testo inglese a fronte. Più coinvolgenti le venti filastrocche in cui dialogano due sorprendenti protagonisti (“Lo schiaccianoci e la molletta dello zucchero, L’anatra e il canguro, Il tavolo e la sedia…”), rimbeccandosi polemici o stornellando romantici; ovvero assumono sembianze umanoidi bestie grandi e piccole, e utensili vari.

La traduzione e la cura del volume è affidata a Carla Muschio, che nella sua appassionata introduzione ci informa delle vicende biografiche di Edward Lear, stravagante viaggiatore, paesaggista appassionato d’arte, tenero amico di bambini, donzelle e omosessuali, ma custode geloso della sua privacy, da orgoglioso suddito vittoriano: pronto comunque a giocare e a far divertire il mondo con l’immaginazione più liberatoria e bizzarra, nella sua inconcludente e innocua insensatezza.

 

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www.sololibri.net/Senza-senso-Edward-Lear.html          20 ottobre 2016

 

 

 

RECENSIONI

LEARDINI

ISABELLA LEARDINI, LA COINQUILINA SCALZA – LA VITA FELICE, MILANO 2005

«Versi inquieti e luminosi», secondo Milo De Angelis che scrisse nel 2005 la prefazione a questo libro della poetessa riminese Isabella Leardini (1978). Aggiungendo: «energia inconciliata, briosa, trepidante, con quel suo respiro d’infinita adolescenza». Versi giovani, quindi, che della giovinezza hanno l’impeto e l’abbandono, le scoratezze e le improvvise accensioni: «Dovrebbe essere tutta un’altra cosa / la giovinezza», «e arriva quel brivido / che è tutta la mia giovinezza». Un’età segnata già dalla disillusione sentimentale, da attese destinate a rivelarsi eterne, in un amore non ricambiato e lasciato illanguidire. Senza disperazione, ma con amara accettazione: «riavvolgere le parole come un nastro», «una dolcezza che mi taglia le vertebre». L’altro, l’amato, non capisce, si allontana più con indifferenza che con crudeltà: «Vai via come l’estate senza peso», «Se rallento la rincorsa del respiro / sotto i giri delle mani / è perché tu non ti accorga che si spezza», «tu non sai neanche / di aver mancato un altro appuntamento».

La stagione più raccontata è l’estate, il paesaggio più descritto il mare, il fenomeno meteorologico più incombente il vento: in un movimento continuo ma discreto, senza sobbalzi o violenze. Quasi che la poesia volesse accordarsi alla pacatezza di una delusione che trova conforto solo nella musicalità dei versi. Che infatti hanno spesso la dolce e piana cadenza degli endecasillabi: «Ti perdo come sempre con il freddo», «È questo riconoscersi di anni», «Avrei voluto rimanerti in testa». Una poesia matura e sicura della sua voce, che sa riempire di sé ogni attesa, nella speranza di una rivelazione e di un incontro, di qualcosa che sappia ancorare la vita a una risposta, a una certezza: «Anche così ci si alza e si vive/, come svuotando e riempiendo la casa/ non di sé ma dell’arrivo di qualcuno».

 

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www.sololibri.net/La-coinquilina-scalza-Leardini.html     17 novembre 2016

RECENSIONI

LEARDINI

ISABELLA LEARDINI, UNA STAGIONE D’ARIA – DONZELLI, ROMA 2017

Isabella Leardini, nata a Rimini nel 1978, presente in diverse antologie italiane e straniere, nel 2002 ha pubblicato il volume di poesie La coinquilina scalza, premiato e bene accolto da importanti critici. Con questa seconda prova si cimenta in un canzoniere amoroso che ambisce a mettere in scena non solo la sua tensione e sofferenza individuale, ma anche la condizione generazionale di tante giovani donne italiane, bloccate tra un’educazione tradizionale soffocante (fatta di aspirazioni limitate e di docile accettazione del proprio destino) e un desiderio di autonomia difficile da raggiungere.

Le cinque sezioni che compongono Una stagione d’aria mantengono una coerenza stilistica rigorosa, lontana da qualsiasi volontà di sperimentalismo, e anzi fedele alla musicalità del metro più classico della nostra letteratura, l’endecasillabo, con cui si aprono quasi tutte le composizioni, richiamato anche all’interno di esse. Sembra quasi che il rumore costante del mare (così presente in questi versi) abbia dettato la sua cadenza, cullante e regolare, alla voce poetica dell’autrice. E risulta di non poco contrasto la moderazione pacata e dolce della resa formale, con la durezza rassegnata e quasi affranta del narrato. Lo scenario su cui si dipana la rappresentazione è quello della riviera romagnola che ha nutrito la vicenda umana di Isabella, e la stagione raccontata è ovviamente quella estiva, che nell’immaginario collettivo si ricollega al turismo e alle vacanze, alla musica, ai flirt da spiaggia. Un’esistenza che mantiene in sé qualcosa di irreale e sospeso, lusinga di distrazione inesauribile, specchio di superficialità esibita, di disimpegno e piacevole futilità.

Paradossalmente, invece, l’ambiente riminese diventa per chi ci vive una sorta di trappola, una condanna all’insegna della precarietà e di promesse intraviste ma continuamente rinviate. Non suona strano, quindi, l’ossessivo ripetersi nelle poesie di verbi quali “restare”, “rimanere”, “piantare”, “tenere”, declinati in tutti i tempi e modi; di sostantivi che rimandano a un impedimento (blocco, muro, ringhiera, chiodi), di immagini che indicano l’impossibilità di una fuga liberatoria, ma insieme la necessità di ancorarsi e radicarsi a un terreno che si teme instabile e inghiottente: «E noi restiamo qui come le radio / dimenticate accese in piena notte, / insegne che hanno perso qualche luce / ma cercano lo stesso di brillare», «Rimango nel disordine, l’estate / ritorna con le sue mattine sole».

La parabola di crescita dell’autrice, la sua giovinezza sognante avviata ora a un’età adulta che inizia a tracciare un bilancio del vissuto, pare tutta racchiusa nella dimensione di un amore sofferto e deludente, di un progetto futuro mai realizzato, di un’attesa perpetua. “Vuoto” e “buio” sono termini che si rincorrono spesso, e rinviano a una storia di solitudine e di fiducia tradita: «Non sai qual è il buio dei passi / di chi continua a cadere dal nido / e credere che l’aria sarà un volo», «Noi due restiamo appesi alle pareti / come quadri che aspettano solo / il giorno in cui cadranno all’improvviso», «Resto sospesa come le tende / che aspettano che il vento le apra», «Come una pianta che con poca luce / sappia fiorire molte volte senza cure / ho deciso di aspettarti ancora», «Sono quella che rimane a letto / dentro un buio di parole buie».

Un destino, quindi, di abbandono che sembra riflettere quello della sua stessa città di mare, impazzita di gioia e di vivacità nei pochi mesi dell’estate, e rassegnata al silenzio e all’isolamento nel resto dell’anno. Nella sua storia privata, Isabella Leardini riscrive quella della famiglia, titolare per decenni della pensione “Irene”, affollata di ospiti nella stagione balneare, e poi contesa dagli eredi, per venire infine venduta ad estranei. Le spiagge deserte, gli ombrelloni chiusi, il mare che lascia sulla battigia conchiglie e rifiuti, aspettando un nuovo inizio, una rinascita con i primi tepori di maggio: «Sono una stagione che si rivolta / ce l’ho in faccia come un inganno / quest’aria aperta da città di mare». Il destino di giovane donna sola, con «l’aria di chi ha perso ancora prima / che inizi la partita», è lo stesso di molte altre ragazze della sua riviera, «le gelose, le mai abbastanza amate», «le mogli dell’ombra… // Ferme come le sedie in una casa / dove in fondo non si siede mai nessuno»: una sorte che accomuna nella malinconia, in una rassegnata e antica remissività, un’intera generazione di donne fuori tempo, non più giovani e non ancora mature, in un disagio esistenziale e sentimentale di cui la poetessa si fa sirena: «Siamo una razza che non esiste più / quelle ragazze con la lanterna accesa / che non vogliono, non sanno addormentarsi».

 

© Riproduzione riservata          «Nazione Indiana», 20 gennaio 2018