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RECENSIONI

LODGE

DAVID LODGE, QUANTE VOLTE, FIGLIOLO? ‒ BOMPIANI, MILANO 1996-2011

Quante volte, figliolo? è uno dei primi romanzi di David Lodge, garbatamente ilare, fornito di un sottinteso intento didascalico e (come sempre nella tradizione narrativa di quest’autore) polemicamente stimolante nelle sue riflessioni sui guasti dell’educazione cattolica, sul fariseismo morale della classe medio-alta inglese, sul carrierismo privo di scrupoli del mondo accademico. Davide Lodge (1935), scrittore e critico letterario, è stato docente di letteratura all’Università di Birmingham dal 1960 al 1987, e soprattutto in questo ambiente ha allestito le trame dei suoi libri, descrivendone con irriverente ironia i vizi e le ambizioni, la falsità degli intrecci relazionali e sessuali, l’apatia culturale degli studenti e il disinteresse didattico dei professori.

Questo romanzo, pubblicato nel 1980 con un titolo diverso da quello ammiccante dell’edizione italiana (How far can you go?), è diversamente dal solito situato a Londra, e segue lo svolgersi delle esistenze di un gruppo di universitari cattolici, ferventi seguaci della dottrina ecclesiale, che nel proseguo degli anni finiscono per annacquare la loro fede, adeguandosi al comportamento più moralmente rilassato della maggioranza delle persone. La narrazione si apre sugli incontri di studio e di preghiera che, a fine anni ’50, questi giovani tengono settimanalmente sotto la guida spirituale di un giovane sacerdote in una “fredda e tetra” chiesa londinese, partecipando alla Messa e all’eucarestia, pressati sia dai loro turbamenti sessuali e dagli angoscianti sensi di colpa che ne conseguono, sia da un incerto desiderio di cameratismo, più che da vera devozione. L’ossessione del sesto comandamento (il complesso della verginità, i tabù, la repressione, l’autoerotismo, la devianza, la fedeltà) sembra essere l’unico problema intorno cui ruota l’interesse dell’autore e l’idea generalmente condivisa di morale cristiana. Da “cattolico agnostico” come amava definirsi, lo sguardo dissacratorio di Lodge si appunta soprattutto sul conformismo religioso e su tante assurde prescrizioni dottrinali, con uno spirito di pungente contestazione riguardo ai dogmi più discussi. La sua ironia si rivolge contro indulgenze e confessioni, infallibilità papale e miracoli, condanne all’inferno e assunzioni al cielo, utilizzando un elegante understatement in puro humour britannico.

Del gruppo di ragazzi vengono raccontati i primi impacciati e deludenti rapporti sessuali (in genere dopo prolungati, castissimi ma smaniosi anni di fidanzamento), quindi i vari matrimoni con relativi litigi, infedeltà e nascite non programmate, poi le separazioni e gli strascichi legali dei divorzi. Per arrivare infine, dopo vite contrassegnate da rinunce al piacere e assurde colpevolizzazioni, oppure da rivendicazioni trasgressive e compromissioni con il vizio, a descrivere la loro rancorosa infelicità di intransigenti ortodossi, o di transfughi verso altre religioni, in una confusione ideologica oscillante tra conservatorismo ed eclettismo new age, negli anni disorientati, vivaci e ribelli del post ’68.

 

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https://www.sololibri.net/Quante-volte-figliolo-David-Lodge.html         30 aprile 2018

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LODOLI

MARCO LODOLI, I FANNULLONI – EINAUDI, TORINO 1990

Di quanto la generazione dei nuovi narratori (da De Carlo, ad Albinati, a Fortunato) sia debitrice al cinema si è a lungo e autorevolmente dissertato: comunque, ce ne fosse voluta un’ulteriore conferma, ecco arrivare il nuovo romanzo breve di Marco Lodoli, I fannulloni.
Marco Lodoli si è imposto quattro anni fa all’attenzione del pubblico con il riuscito romanzo  Diario di un millennio che fugge; nell’89 ha poi sottolineato la sua maturità di narratore con i racconti di Grande raccordo; ora queste 80 pagine scarse pubblicate da Einaudi arrivano, forse un po’ premature, un po’ presuntuosamente poco rifinite (era Orazio che raccomandava «nonum prematur in annum»…) a dirci che Lodoli è ancora lì, sempre promessa sicura delle nostre lettere, ma non ancora scommessa scontata.
Lodoli fa muovere queste sue nuove creature di carta sullo sfondo del brulicante microcosmo di una Roma periferica, comparse di un’esistenza quotidiana difficile e poetica, presenze insieme innocenti e malfide, che sembrano dover scontare con una vita grama la sfida di voler esserci a ogni costo.
Il racconto è narrato in prima persona da un anziano piazzista di pietre – nemmeno preziose, ma comuni lapislazzuli e ametiste da offrire a turiste e parrucchiere – nobile solo di aspetto e di nome: Lorenzo Marchese, in realtà uomo di poche pretese come le pietre che smercia.

«Io sono uno qualunque, ecco, i miei pensieri e le mie paure sono semplici, i miei soldi contati, la mia casa piccola, i miei sogni balordi come i sogni di chi da sveglio litiga con la realtà nemica e un po’ perfida… Però la gente attorno mi vede alto, distinto, differente…Forse ho contribuito all’equivoco girando in mille Paesi senza fermarmi mai abbastanza per rassicurare gli altri che in fondo ero come loro, un po’ più di niente».

Lorenzo vive due grandi sogni nella vita: il primo, raccontato con mano davvero felice nel capitolo d’apertura, è l’incontro e l’amore per Caterina, una goffa e tenera gigantessa, a disagio nel mondo e nei sentimenti, che ricorda la figura femminile tracciata da un nostro troppo sottovalutato narratore, Giorgio Scerbanenco, in I milanesi non ammazzano il sabato. Con Caterina Lorenzo divide una vita di poche pretese e un enorme letto per dieci anni, prima che un infarto gliela rubi crudelmente tra l’indifferenza della gente, lasciandogli solo il rammarico di non averle dato abbastanza: «Mi vengono in mente tante parole che avrei potuto dirle e che per pigrizia ho taciuto. Che la amavo. Che era stupenda. Che la vita è comunque un bosco misterioso, e allora è bello traversarla con un gigante». Morta Caterina, tornato a un’esistenza rassegnata e vigliaccamente dignitosa, Lorenzo ottiene dalla vita un secondo grande regalo: l’incontro con un ragazzo nero, un ambulante pieno di gioia di vivere e fantasia, che lo trascina in una serie di avventure incredibili ed esaltanti.

«Gabèn è forte e allegro, ha le spalle larghe per sostenere mille difficoltà, i denti bianchi per piegare il ferro della vita, e soprattutto l’andatura leggera per galleggiare. Indossa certi camicioni ottimisti, comodi e colorati, e sandali da frate, quando non va a piedi nudi, incurante. Ha la mente larga, stellata».

Ecco allora che il compassato rappresentante di pietre, ormai settantenne, viene costretto a improvvisarsi allenatore e impresario di boxe, e a organizzare un match nel sottobosco delle palestre di periferia (la sfida coi guantoni tra Gabèn e il tarchiato avversario ricorda la stupenda scena sul ring di  Luci della città, con Chaplin che scappa e solo alla fine viene tramortito da un gancio impietoso). Esaltato da questa esperienza estranea alla banalità del quotidiano, Gabèn si trasforma in cantante jazz, esibendosi in una cantina di artisti falliti, e infine, divenuto giardiniere e autista tuttofare in una villa di miliardari, approfitta dell’assenza dei padroni per vivere con Lorenzo una settimana di sogno, tra Via Veneto e nights, smoking e Mercedes, belle donne e fannulloni.
In quest’ultima parte del volume le citazioni filmiche si sprecano: c’è un po’ tutto il nostro neorealismo, dalla scena del saccheggio del guardaroba padronale alla stampa di banconote straniere false. In particolare, Fellini docet e imperversa: da  I vitelloni alla Via Veneto de  La dolce vita, fino al recente  Ginger e Fred, con il suo torpedone pieno di larve umane, ectoplasmi di trapassati. Il finale, brumoso e sospeso nell’attesa impossibile di un’alba vendicatrice e riscattante sulla spiaggia di Ostia, ha ancora i campi lunghi e gli sfondi felliniani, con qualche memoria non peregrina di Nanni Moretti. E’ un peccato, però, che tra tanta sensibilità all’immagine (immaginoso e immaginifico), lo spessore narrativo dei personaggi si sfaldi, finisca per sfilacciarsi e diventare meno credibile, più retorico. Gabèn sparisce senza riuscire a diventare protagonista: macchietta priva di spessore reale, promessa di un carattere rimasto irrealizzato. Lorenzo continua la sua storia d’amore con Caterina, in sogno, nel ricordo o nella morte, non si capisce bene, in un finale volutamente vago ed etereo: «Il cielo era molto azzurro, la strada mi passava dentro, come uno sguardo sereno. Nel cuore il petto non mi batteva più, eppure da qualche parte, vicino, lontano, lo sentivo battere ancora».

 

«L’Arena», 8 febbraio 1991

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LODOLI

MARCO LODOLI, ZOE. CANZONIERE PER UNA BARBONCINA –  MARSILIO, VENEZIA 2010

Marco Lodoli dedica alla sua barboncina dal pelo bianco, Zoe, vissuta con lui per dieci anni, 41 poesie composte quasi tutte da 14 versi brevi, ingentiliti da rime sparse, e da una musicalità diffusa, intenerita, commossa. La vita della cagnolina viene descritta nei suoi snodi fondamentali, dai primi giorni dopo la nascita (“Ma Zoe è pura vita / e non sa fare niente”), quando ancora non sa uscire dalla sua cesta di vimini, alle corse nel parco, alle passeggiate urbane, ai giochi inventati. Una sua “vita minima”, in cui essenziale può essere il premio di un biscotto, o “l’orsetto giallo / sottratto al cassonetto”, “il fiocco rosa” con cui adornare le sue grazie, o un’improvvisa gravidanza isterica: ma soprattutto e necessariamente il rapporto con l’amato padrone – che basta e avanza alla sua scarsa sete di avventura e di ignoto – per le cui assenze soffre, e di cui sa riempire le giornate con affetto devoto. Quando Lodoli scrive, lei gli si siede sulle gambe e sogna, indifferente all’attività intellettuale di lui: così come sembra quasi infastidita dalla frequentazione dei suoi amici colti, “a inutili parole / d’intelligenza e anche / di cattiveria…/ E quando dico andiamo / salti di contentezza”. Ma sa intuire, con una sensibilità del tutto femminile, le malinconie di lui: “muove / un poco la codina / perché è una donna e soffre, / ma mi vuole consolare”.  L’esistenza di Zoe è puramente fisica, elementare, biologica: “Zoe quando è allegra corre / e se sta male piange”; felicemente, naturalmente animale. Per cui quando si ammala (“Ha un brutto male, Zoe, / lo stesso per cui è morta / mia madre”), non capisce: “non sa che i giorni stanno / per perdersi nel vuoto”.  Ma è il suo padrone che soffre più di lei, la segue nell’agonia e perde interesse per tutto (“non m’importa più niente / della parole accese / che incendiano la carta”): patisce lo strazio di un addio che sa definitivo, immedicabile. Con la certezza di poterla recuperare solo nei versi di un breve canzoniere riconoscente: “In sogno cerco Zoe /e lei mi guarda, è sola”.

IBS, 30 novembre 2010

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LOEWENTHAL

ELENA LOEWENTHAL, DIECI – EINAUDI, TORINO 2019

Dieci sono i comandamenti che Jahvè detta a Mosè sul Sinai, e dieci sono i capitoli che Elena Loewenthal dedica al loro commento nel suo ultimo saggio, intitolato appunto Dieci. Elena Loewenthal (Torino, 1960) insegna Cultura Ebraica allo Iuss di Pavia e all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, collabora a “La Stampa”, e ha pubblicato numerosi volumi e studi sulla tradizione religiosa, culturale e letteraria di Israele. Le citazioni bibliche e talmudiche presenti in questo piccolo libro einaudiano sono state da lei tradotte con una particolare adesione morfologica e sintattica al testo originale: da ciò è derivata una lettura capace di prendere coraggiosamente le distanze dall’esegesi più tradizionale.

Il primo capitolo si apre sottolineando le due differenti versioni di Genesi sulla creazione (“Nella sua breve essenzialità, è stata fonte inesauribile di ispirazione, interpretazioni e travisamenti”), per analizzare poi più approfonditamente il dialogo tra Dio e Adamo nel giardino dell’Eden, fatto di richiami e nascondimenti, di delusioni e timori (l’uno in cerca della sua creatura, l’altro che rispondendogli pronuncia per la prima volta il pronome personale “io”). Un dialogo tra il Signore e l’uomo che si ripropone nel corso di tutto il Pentateuco: spesso impositivo, conflittuale, intessuto di silenzi. Jahvè è qol, voce che parla e propone una comunicazione: Adamo, Abramo, Giacobbe, Mosè ascoltano. Impauriti, dubbiosi, confidenti o recalcitranti. “Ascolta, Israele” (“Shemà, Israel”, Dt 6, 4-5: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore”) è una preghiera tuttora pronunciata dagli ebrei due volte al giorno. Dopo aver ascoltato, questi uomini biblici rispondono, attuando una dinamica di confronto e di ricerca reciproca fatta di parole udite e scambiate, di obbedienza e disobbedienza, di rispetto e di ira: ovvero, di libertà.

Sulla consegna delle tavole a Mosè (“il momento centrale di tutta la Bibbia ebraica”, “scena di grande mobilità, carica di forza narrativa”), Elena Loewenthal si sofferma enucleando alcune incongruenze, e molti interrogativi. Per due volte i dieci comandamenti (devarim: cose, parole, pronunciamenti) vengono affidati al profeta, incisi su tavole di pietra. La prima redazione, distrutta da Mosè stesso in un impeto di rabbia, era stata scolpita su due lastre dalla mano di Jahvè: di essa non rimane alcuna traccia. Il testo delle seconde tavole, recuperate in una successiva salita sul Sinai, è riportato nella Bibbia due volte, con poche variazioni, in Esodo 20, 2-17 e Deuteronomio 5, 6-21: stesure simili ma non uguali. Due sono anche i toponimi della montagna in cui è avvenuta la rivelazione: Sinai e Choreb. “Tutta la rivelazione è all’insegna della doppiezza”, postilla l’autrice del commento. L’imperfezione della Torah, con le sue aporie, si adatta all’imperfezione dell’uomo, richiedendogli un intervento interpretativo. “Il mondo è, dunque, l’irruzione dell’imperfezione dentro la perfezione, il tutto che è Dio”.

Il testo della legge ‒ assolutamente normativo, poichè impone cosa fare e cosa non fare, come succede con altre raccolte di regole comportamentali e liturgiche negli ultimi tre libri del Pentateuco ‒ è solo consonantico: ad esso è stato aggiunto in epoca medievale il sistema vocalico, che lo ha reso più melodioso all’orecchio (ancora una volta, “Ascolta, Israele”). Elena Loewenthal ne sviscera i molteplici significati, rimarcando il peso che tutto l’ebraismo ha da sempre attribuito alla parola, scrigno del sapere e del potere, ponte che collega cielo e terra.  Così, se la Bibbia inizia con la seconda lettera dell’alfabeto, bet, i dieci comandamenti esordiscono con la prima, alef, che contrassegna il pronome “io”: “Io sono il signore Dio tuo”. Io, anokhí, pronome di persona singolare pronunciato per la prima volta da Adamo. “Qualcosa di profondo e cruciale lega i due passi, nella trasgressione e nell’obbedienza, dal giardino alla montagna, da una voce all’altra”.

E poi c’è il “tu”, poiché ogni comandamento è diretto a una seconda persona singolare (“Non farai”, “Non dirai” …), sempre maschile: soggetto e oggetto della comunicazione sono decisamente maschi, essendo la donna nominata fuggevolmente solo come proprietà o conquista. Il dialogo è comunque a due, un discorso diretto tra due individualità. Si tratta inoltre di imperativi negativi, di proibizione, che raffigurano un Dio possessivo, minaccioso, punitivo, addirittura geloso. Succube delle passioni come le sue creature (“Non avrai altri dèi al mio cospetto. Non alzare il nome del Signore Dio tuo invano”). Nel cuore del Decalogo stanno i due unici comandamenti positivi: “ricorda” e “osserva”. Poi tornano i divieti: cinque “non”, relativi al controllo delle azioni in un ambito più sociale e collettivo che personale.

Quindi, il silenzio. Jahvè ha parlato, si è pronunciato. Ma al Decalogo, suggerisce Elena Loewenthal, andrebbe aggiunto un undicesimo comandamento: “Non causare dolore”. Il silenzio sul dolore degli uomini e delle donne rende il messaggio di Dio imperfetto, non conchiuso, in attesa di un compimento “nella giustizia e nel bene”.

 

© Riproduzione riservata          https://www.sololibri.net/Dieci-Loewenthal.html      11 dicembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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LOMBARDI VALLAURI

LUIGI LOMBARDI VALLAURI, NERA LUCE – LE LETTERE, FIRENZE 2001

Luigi Lombardi Vallauri (Roma, 1936), autore di numerosi saggi filosofico-giuridici, ha insegnato per vent’anni Filosofia del diritto all’Università Cattolica di Milano. Nel 1998 ne è stato allontanato, con un provvedimento del Cardinale Laghi, per aver espresso tesi ritenute non conciliabili con l’insegnamento cattolico. Nel 2009 la Corte Europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata a suo favore, ritenendo che fossero stati lesi i suoi diritti alla libertà di espressione e a un equo processo. In Nera Luce, pubblicato nel 2001, sono raccolti i saggi “eretici” incriminati, che mettono in discussione alcuni dogmi della Chiesa, quali l’infallibilità del Papa, l’immacolata concezione, determinati sacramenti, e soprattutto l’esistenza dell’inferno, definito incompatibile non solo con la dichiarata clemenza di Dio, ma anche con le più elementari norme del diritto. L’indagine dell’autore si estende poi a considerare i concetti universali di Dio, anima e religione, sottoponendoli al severo e talvolta ironico vaglio della scienza e della filosofia, per approdare alla conclusione che l’unica risposta possibile per chi voglia interrogarsi sulle questioni fondamentali dell’essere è l’apofatismo, secondo cui Dio è del tutto inconoscibile attraverso la razionalità, perché trascende la realtà fisica e le capacità cognitive umane. L’approccio più adeguato al divino è, secondo Lombardi Vallauri, quello che prevede il silenzio, la contemplazione e l’adorazione del mistero, prescindendo da qualsivoglia processo di speculazione o indagine razionale dell’essere divino. Il volume si conclude tuttavia non con una negazione della validità della ricerca, bensì suggerendo una via di meditazione e contemplazione che arrivi ad essere anche liberazione della coscienza e solidarietà etica con ogni tipo di vita. Lombardi Vallauri ci ha dato con Nera luce un libro coraggioso, risultato di scelte vissute e pagate a caro prezzo: ma anche ricco di speranza e poesia, e capace di opporsi a ogni ottuso fondamentalismo e alla vacuità delle nuove religioni new-age. Oggi il Professor Lombardi Vallauri, convinto vegano, si occupa dei diritti degli animali, proponendo nelle ultime pubblicazioni un percorso laico di riflessione che riesca a coniugare il pensiero scientifico occidentale con le tecniche di meditazione della filosofia orientale.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/Nera-luce-Lombardi-Vallauri.html          19 settembre 2017

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LONDON

JACK LONDON, LO SCERIFFO DI KONA – LEONE, MILANO 2017

I racconti di scrittori stranieri pubblicati dall’editore milanese Leone riportano tutti la versione in lingua originale a fronte: cosa molto interessante per verificare personalmente lo stile dell’autore in questione, ma utile anche come esercizio linguistico. In questo caso particolare, poi, la semplicità della prosa americana di Jack London si presta efficacemente a una lettura comparata, doppiamente vantaggiosa. Lo sceriffo di Kona è una novella scritta da London nel: inizia in maniera quasi idilliaca, descrivendole bellezze naturali di una piccola isola hawaiana, e improvvisamente si drammatizza, narrando la tragedia vissuta dal suo sceriffo.

A Kona (alberi di banana, piante di lehua, boscaglia di guava, brezze dolcissime, mare imperturbato…) «ogni giorno è uguale all’altro e ogni giorno è un giorno di paradiso… Non è troppo caldo, né troppo freddo. C’è sempre, semplicemente, il clima perfetto». In questa terra felice approdano turisti e viaggiatori che non riescono più a staccarsene, proclamandola patria elettiva. Tra di loro Lyte Gregory, un americano gigantesco e forte, atletico e coraggioso, che «aveva cuore e anima grandi e belli come il suo corpo». Sposato con una donna magnifica, padre di tre figli, sempre fiducioso nei suoi mezzi e ottimista riguardo al futuro, al punto da saper piegare la sorte in suo vantaggio anche nei momenti di maggiore incertezza, era un campione nel nuoto, nel surf, nella pesca e nella caccia. Gli abitanti dell’isola, testimoni entusiasti della sua nobiltà d’animo e generosità, l’avevano voluto come sindaco. Eppure, su questo eroe positivo, si abbatte improvvisamente e inaspettatamente, una tragedia che lo porterà all’esilio e all’infelicità perpetua.

La maestria di Jack London sta tutta nel descrivere in pochissime pagine l’incredulità disperata di Lyte quando un indigeno gli rivela brutalmente qualcosa che tutti suoi amici più cari, e lo stesso medico di Kona, avevano già compreso: la lebbra che da tempo decimava la popolazione locale e contro cui lui doveva garantire la salute pubblica, isolando i malati, l’aveva colpito, iniziando a modificargli i tratti fisici. Il resto del racconto (Lyte che si consegna all’autorità sanitaria, il suo addio all’isola e alla famiglia, la deportazione in un lager per lebbrosi, la fortunosa e combattuta spedizione degli amici per trasferirlo in incognito in Cina) non riescono a raggiungere l’intensità drammatica dei momenti in cui ai piedi dell’uomo baciato dal destino si apre l’abisso della disperazione.

 

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https://www.sololibri.net/Lo-sceriffo-di-Kona-Jack-London.html     15 febbraio 2018

 

 

 

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LONDON

JACK LONDON, BÂTARD – FELTRINELLI, MILANO 2012 (e-book)

Il breve e magistrale racconto di Jack London che Feltrinelli ha pubblicato in e-book nel 2012, è tratto da Il richiamo della foresta. Narra la storia dell’odio feroce tra un uomo e il suo cane, del loro rapporto di morbosa dipendenza reciproca che finirà per sfociare in tragedia. Già l’avvio del testo prepara il lettore al clima di sfida che si instaura tra i due protagonisti, i quali sembrano scambiarsi a vicenda i caratteri umani e animaleschi: “Bâtard era un diavolo. La cosa era risaputa in tutte le Terre del Nord. Molti lo chiamavano Stirpe d’Inferno ma Black Leclère, il suo padrone, per lui scelse l’infame nome di Bâtard. Dunque, anche Black Leclère era un diavolo e i due erano bene assortiti”.

Bâtard era figlio di un lupo e di una cagna husky: da entrambi i genitori aveva ereditato l’indole aggressiva, brutale, selvaggia. Fosse stato adottato da un padrone normalmente civile, sarebbe forse cresciuto più docile, ma Black Leclère era lui pure una carogna, ed era riuscito a fare del suo cane, in cinque anni di scambievole guerra infernale, “una grossa bestia irsuta, raffinata canaglia straripante di odio, sinistra, maligna e diabolica”. I due si studiavano a vicenda, torturandosi in maniera differentemente atroce: l’uomo tormentava il cane affamandolo, picchiandolo brutalmente, straziandogli le orecchie con le note lamentose dell’armonica: la bestia ricambiava ribellandosi a ogni comando, aggredendo i compagni di muta, razziando il cibo ovunque potesse arrivare. Sembrava evidente a tutti coloro che li incontravano che i due si fossero promessi di eliminarsi a vicenda, e attendessero solo il momento propizio per farlo nel modo più doloroso possibile. Legati da un astio viscerale, più assoluto di qualsiasi amore, intuivano perfettamente la profondità del loro livore. Black Leclère “era un uomo che viveva all’aperto, oltre il rumore delle lingue, e aveva imparato a conoscere la voce del vento e della tempesta, il sospiro della notte, il mormorare dell’alba, il frastuono del giorno. Riusciva a sentire il crescere impercettibile della vegetazione, lo scorrere della linfa, il germoglio che si schiudeva. E poi conosceva la sottile conversazione delle cose che si muovevano, il coniglio in trappola, il corvo malinconico che batteva l’aria con l’ala muta, il grizzly che si trascinava sotto la luna, il lupo che scivolava tra il crepuscolo e il buio come un’ombra grigia. E a lui Bâtard parlava forte e chiaro”. Leclère animalesco, Bâtard squallidamente umano.

Una notte finalmente Bâtard colse il momento opportuno per attaccare il padrone mentre dormiva, saltandogli addosso e azzannandogli la gola. La lotta furiosa che ne seguì li lasciò entrambi gravemente feriti, il cane con le zampe posteriori spezzate, l’uomo con braccia e laringe lacerate. Trascorsero settimane a sorvegliarsi l’un l’altro nella convalescenza, rinviando la vendetta finale a un’occasione più favorevole. Che puntualmente arrivò, quando Black Leclère, accusato d’omicidio, in piedi sul patibolo con la corda al collo attendeva l’esecuzione. La morte non giunse, tuttavia, dagli uomini che l’avevano condannato. Straordinario Jack London, profondo conoscitore di foreste innevate, di slitte, di bestie, di anime.

 

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https://www.sololibri.net/Batard-London.html              12 giugno 2018

 

 

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LONDON

JACK LONDON, LA PREROGATIVA DEL PRETE – ENSEMBLE, ROMA 2017

I due racconti che Ensemble riunisce in questo libriccino hanno entrambi il timbro della grande narrativa di Jack London, e ne ripercorrono i temi usuali: la lotta contro i rigori della natura, il mito dell’arricchimento, l’ostinazione testarda di alcuni personaggi, la miseria economica, l’invadenza dei rimorsi e dei sensi di colpa, la beffa di un destino crudele.

La prima novella, intitolata La prerogativa del prete, narra di una coppia maleassortita come ne esistono molte: un marito vanesio e infantile, egoista e untuoso, di nome Edwin Bentham, che aveva immeritatamente sposato una donna forte e generosa, Grazia, pronta a sacrificarsi per lui, pungolandone la scarsa ambizione affinché si facesse strada nella vita. A fine ottocento, i due sposi si erano uniti alla grande massa di cercatori d’oro del Klondike, lungo il fiume Yukon: lei lavorando pesantemente, lui pavoneggiandosi di fatiche e successi non suoi. Inaspettatamente, Grazia si invaghisce, ricambiata, di un altro uomo, e i due si propongono di fuggire, ricostruendosi un futuro insieme. Ma il missionario della zona, un gesuita pacato e severo, interviene proprio quando gli innamorati si incontrano da soli per la prima volta, ed esercitando le mansioni di guida spirituale, ricorda alla donna i suoi doveri di moglie, prospettandole anche le difficoltà cui sarebbe andata incontro in una futura vita da concubina, l’ostracismo della comunità, il dolore dei suoi genitori, la vergogna degli eventuali figli, il peccato di fronte a Dio. La donna, intimidita e perplessa, si lascia convincere dal religioso, e decide di tornare alla sua sacrificata esistenza di vittima accanto a Edwin. Sarà tuttavia il gesuita a confessare a un amico di sentirsi in colpa: “Sapevo che sarebbe stata infelice, eppure l’ho fatta tornare dal marito”.

Il secondo racconto, Le mille dozzine di uova, appare al lettore ancora più tipicamente londoniano del primo, sia nel ritratto magistralmente disegnato del protagonista, sia nel tragico rincorrersi di avvenimenti negativi verso la temuta ma prevedibile conclusione. “David Rasmunsen era un uomo d’azione e, come molti più grandi di lui, un uomo d’una sola idea”. L’idea ossessiva e pazzesca che si impadronisce di David è quella di arricchirsi vendendo mille dozzine di uova agli avventurieri che da tutto il mondo percorrono le distese gelate del Nord in cerca dell’oro. Si prepara minuziosamente all’affare, elencando i pro e i contro dell’operazione, le spese previste e quelle imponderabili, i guadagni economici, i pericoli del viaggio, la concorrenza di altri mercanti, l’ostilità del clima. Quindi decide di ipotecare la casa, di lasciare il suo impiego, di mandare la moglie da lontani parenti. Si rifornisce delle uova, acquista una barca, cerca dei portatori, e parte. Ma le difficoltà si presentano subito, con l’implacabilità del fato avverso. Laghi e fiumi ghiacciati, equipaggiamento perso in acqua, imbarcazione sfasciata. Il viaggio prosegue via terra, nella neve, con la merce issata su una slitta trainata da cani, e le dita congelate e poi amputate. Tuttavia David Rasmunsen non demorde, deciso a portare a termine il progetto su cui aveva investito ogni sua risorsa. Ma quando finalmente arriva alla meta prefissata, e gli viene proposto da alcuni commercianti l’acquisto di tutte le uova a un prezzo strepitoso, una sorpresa amarissima e inattesa – che mi pare giusto non rivelare – pone termine al suo sogno e alla sua vita.

© Riproduzione riservata             https://www.sololibri.net/La-prerogativa-del-prete-London.html        3 agosto 2018

 

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LONDON

JACK LONDON, FINIS / LA FINE DELLA STORIA – ALTER EGO, VITERBO 2017

Da qualche tempo, diverse case editrici minori stanno recuperando il repertorio di Jack London, sia estrapolando brani compiuti dai romanzi più famosi, sia pubblicando racconti sparsi o addirittura inediti. Si tratta di un’operazione intelligente, anche se non originalissima, tesa a offrire al pubblico testi che, persino dopo un secolo, mantengono non solo una loro freschezza e appetibilità, ma anche uno stile asciutto ed elegante, che accompagna sempre trame avvincenti, ambientate in mondi lontani nel tempo e nei luoghi. È il caso delle due novelle del 1916 pubblicate da Alterego con un’acuta prefazione di Donato di Stasi, Finis e La fine della storia, illustranti entrambe la conclusione di vicende personali complesse e dolorose.

Nella prima, Finis: una tragedia nel lontano nord-ovest, il protagonista è un uomo solitario, Morganson, divorato dalla fame e dallo scorbuto, che accampato nella distesa artica sulla riva dello Yukon, attende che gli passi accanto una slitta di cercatori d’oro da depredare, mentre l’inverno con i suoi sessanta gradi sotto zero gli va lentamente congelando piedi e mani: “Il suo volto aveva un’espressione assorta, avida. Le guance erano scarne e la pelle sembrava appena appena sufficiente per coprire gli zigomi. I suoi occhi, di un chiaro azzurro, erano torbidi. Vi era in essi un non so che, che indicava l’imminenza di qualcosa di terribile”. Bevendo tè di abete, nutrendosi di biscotti razionati, riesce a uccidere una cerva, ma il bottino gli viene sbranato da un branco di lupi. Deciso a barattare la sua morte con la vita di qualcun’altro, finalmente si imbatte in tre uomini in una slitta carica, trainata da una muta di cani. Spara alle persone, ma sottovaluta la reazione delle bestie. “Non aveva pensato che la morte fosse così facile. Era anche adirato di aver lottato e sofferto per tante settimane estenuanti. Era stato ingannato dal timore della morte. La morte non faceva male. Tutti i tormenti che aveva sopportato erano stati tormenti della vita. La vita aveva diffamato la morte”.

Nel secondo racconto, La fine della storia, un burbero chirurgo, Linday, rinomato per la sua eccezionale perizia nelle operazioni più complicate, viene quasi costretto a un intervento disperato teso a salvare la vita a un cacciatore, squarciato nel ventre da una pantera. Il ferito si trova a cento miglia di distanza dalla residenza del dottore, nel gelido Nord battuto dai venti, oltre fiumi ghiacciati e crepacci: dopo un percorso accidentato tra le montagne, e dopo aver perduto per una bufera i cani e le provviste, Linday arriva finalmente dal moribondo, trovandosi imprevedibilmente davanti Madge, la sua ex moglie, divenuta amante dell’avventuriero. Promette alla donna di salvare la vita all’uomo, solo nel caso lei acconsenta a tornare sotto il tetto coniugale. L’intervento chirurgico ha un esito positivo, ma alla fine l’eroico medico rinuncia alla ricompensa pattuita, esibendo così un’inaspettata sensibilità e nobiltà d’animo.

Maestro nella descrizione degli ambienti esterni, della vegetazione e del mondo animale, Jack London risulta incredibilmente sottile ed empatico anche nella sottolineatura dei sentimenti e degli atteggiamenti dei suoi personaggi, di qualsiasi indole, cultura e ceto sociale essi siano.

 

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https://www.sololibri.net/Finis-La-fine-della-storia-London.html         9 agosto 2018

 

RECENSIONI

LONDON

JACK LONDON, PREPARARE UN FUOCO – FELTRINELLI, MILANO 2013 (ebook)

A meno di un euro, Feltrinelli offre al pubblico uno dei racconti più famosi di Jack London, tratto da Il richiamo della foresta. Leggibile in quindici minuti, non solo per la sua ridotta estensione tipografica, ma perché magistralmente narrato con un crescendo di ansimante e coinvolgente velocità, Preparare un fuoco narra una tragica avventura ambientata tra i ghiacci del Klondike, sul fiume Yukon.  Nell’arco di poche ore, in un “giorno esageratamente freddo e grigio”, quando il gelo percepito si aggira intorno ai sessanta gradi sottozero, un uomo si mette in cammino con la sola compagnia del suo husky per raggiungere il campo base. Mantenendo un passo di sei chilometri all’ora, prevede ottimisticamente di raggiungere i compagni prima dell’imbrunire: ma il freddo si fa sempre più pungente e insidioso, le guance e le dita delle mani e dei piedi iniziano a gelare, e la vista gli si intorbida. Procedono quasi estranei l’uno all’altro, il cacciatore e l’animale, tenendosi d’occhio con sospetto ad ogni imprevisto rallentamento della marcia. “Tra cane e uomo non c’era intimità. Il primo era lo schiavo da fatica dell’altro, e le uniche carezze ricevute erano state quelle della frusta e dei suoni gutturali e minacciosi che annunciavano la minaccia della frustata”. Improvvisamente l’uomo sprofonda nella neve molle, bagnandosi i calzoni fino alle ginocchia. Costretto a fermarsi per accendere il fuoco, prende atto di riuscire a strofinare i fiammiferi con grave difficoltà, la stessa che prova nel masticare le gallette, a causa dei baffi e della barba ghiacciati che gli comprimono le labbra. Quando finalmente la fiamma comincia a crepitare, e lui si accinge a togliersi scarponi e calze con le dita assiderate, inaspettatamente dai rami dell’abete sotto cui ha cercato riparo crolla un ammasso di neve fresca che in un attimo spegne il fuoco. Ripete il tentativo spostandosi lontano dagli alberi, ma ancora senza successo. Il cane fiuta istintivamente il pericolo, e si dimena agitato intorno al padrone. Al cacciatore viene l’idea di uccidere la bestia, per scaldarsi col sangue all’interno delle sue viscere, ma realizza subito dopo di non avere le forze necessaria per portare a termine il proposito. “L’uomo abbassò lo sguardo a cercare le mani, che scorse penzolanti alla fine delle braccia. Trovò curioso il fatto di dover usare gli occhi per capire dove aveva le mani”. Comincia allora a precipitarsi terrorizzato in direzione del campo, intuendo che la fine non è più solo una lontana ipotesi. Stramazza due volte nella neve, mentre il cane lo osserva “incuriosito, intento, impaziente”. Davanti allo sguardo impietoso dell’animale, si vergogna di essersi messo a correre “come una gallina decapitata”, e decide di aspettare la morte con dignità, lasciandosi andare al torpore, rannicchiato sulla neve. Il cane, fiutando l’odore del cadavere, guaisce lamentosamente, ma poi trotterella con indifferenza verso il campo, “dove avrebbe trovato gli altri, procacciatori di cibo e procacciatori di fuoco”.

 

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https://www.sololibri.net/Preparare-un-fuoco-London.html           24 settembre 2018