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RECENSIONI

LONDON

JACK LONDON, LA PESTE SCARLATTA– THEORIA, 2022

Un anno prima di morire, Jack London (1876-1916) pubblicò il romanzo breve La peste scarlatta, che oggi definiremmo distopico e apocalittico, decisamente inquietante perché proiettato in un ambiente reso invivibile da un morbo sconosciuto, che in pochi decenni aveva decimato la popolazione, creando sconquassi economici, disordini sociali, e soprattutto alterando l’equilibrio dell’habitat naturale.

La narrazione si apre su un paesaggio desolato della California, lungo i binari di una ferrovia abbandonata, presso cui camminano stancamente un vecchio e un ragazzo. Sono nonno e nipote, sporchi e macilenti, rivestiti di pelli di capra, diretti verso la spiaggia di Cliff-House, ritrovo di altri sbandati sopravvissuti alla terribile epidemia che aveva sconvolto il mondo intero, restituendolo a una drammatica esistenza primitiva.

Il giovane Edwin è armato di un rudimentale arco e di un coltello, per difendersi dagli attacchi degli animali selvatici, l’anziano si muove a fatica, spinto a resistere da un atavico istinto di sopravvivenza, e ossessionato dall’idea di procurarsi del cibo. Giunti in riva al mare, i due ritrovano lo sparuto gruppo di amici, che con i loro cani cercano di difendersi da un branco di lupi affamati improvvisamente sbucati dalla foresta.

Incalzato dai giovani, il vecchio racconta del terribile flagello che sessant’anni prima, nel 2013, aveva colpito la popolazione di San Francisco: la peste scarlatta, chiamata così perché chi veniva contagiato si copriva di macchie rosse in meno di un’ora. La vita degli americani a quell’epoca scorreva florida e tranquilla, la gente lavorava e si divertiva, l’economia prosperava, i mezzi di comunicazione funzionavano perfettamente in cielo e in terra. L’anziano uomo racconta di essere stato allora un insegnante universitario, circondato dalla stima di colleghi e studenti: durante la narrazione, si rende conto che il suo uditorio non comprende il significato di termini molto semplici, poiché nei decenni

trascorsi in uno stato di semi-ferinità, anche la cultura si era depauperata, in un dilagante analfabetismo essendo chiuse le scuole e le biblioteche, e non più stampati i giornali. Il racconto particolareggiato del diffondersi del morbo assume un ritmo incalzante, nella descrizione dei sintomi con cui esso si manifestava e poi progrediva velocemente, portando la vittima infettata alla paralisi e alla morte in pochissimo tempo. La città di San Francisco contava allora quattro milioni di abitanti, e ora si era ridotta a ospitare qualche decina di persone, Il contagio si era propagato in pochi mesi a tutta l’America, verosimilmente interessando poi anche gli altri continenti. Il vecchio era probabilmente rimasto in vita in virtù di una particolare dote genetica che l’aveva reso immune, e nelle peregrinazioni che l’avevano condotto a cercare altri sopravvissuti aveva incontrato piccole comunità sparse nella regione circostante, che sospettose verso gli estranei e chiuse in se stesse, stavano tentando di ricostituirsi e ripopolarsi.

Il breve romanzo di Jack London non appartiene senz’altro alla sua produzione letteraria migliore, ma è interessante non solo perché premonitore della potenzialità distruttiva che assume un’epidemia a livello mondiale, ma anche perché suggerisce come nella fragilità messa in luce dalla malattia, gli uomini possano ritrovare uno spirito solidale, capace di farli risollevare, vincendo egoismi e divisioni.

La recente edizione di Warwave riporta un’appendice curiosa e coinvolgente, in cui sono elencate tutte le pandemie che hanno colpito le varie civiltà, a partire dalla febbre tifoide del 430 a.C. per finire con il Covid. La più letale è stata la peste bubbonica del 1300: “Si parla di venti milioni di persone in soli sei anni, praticamente un terzo della popolazione totale del vecchio continente all’epoca. Per tornare nuovamente ad una densità di popolazione simile a quella precedente occorsero ben due secoli”. Al secondo posto per mortalità troviamo l’Aids, non ancora debellato, passando per il tifo, il colera, e vari tipi di influenza.

 

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SoloLibri.net › La-peste-scarlatta-di-Jack-London-narrazione-profetica…    2 mrzo 2023

 

 

RECENSIONI

LORCA

FEDERICO GARCÍA LORCA, SONETTI DELL’AMORE OSCURO. SUITES –  GARZANTI, MILANO 2017

Chi ama la poesia spagnola, e quella di Federico García Lorca in particolare, non dovrebbe lasciarsi sfuggire questo importante volume edito da Garzanti, che raccoglie i sonetti (custoditi segretamente dalla famiglia e pubblicati per la prima volta in Spagna solo nel 1984) ispirati agli amori omosessuali del poeta, e una scelta di Suites risalenti agli anni Venti.

La fondamentale introduzione scritta da Carlo Bo nel 1975 risulta alla lettura ancora attuale ed esaustiva, nel suo inquadramento storico e letterario dell’opera lorchiana all’interno dei primi quarant’anni del 900, così gravidi di avvenimenti di rilievo per la poesia e la società iberica. Bo sottolinea le varie fasi della produzione in versi di Lorca, da quella giovanile più ingenua e “provinciale”, a quella surrealista seguita al trasferimento a Madrid, alla maturazione politica del periodo newyorkese: in un crescendo di consapevolezza stilistica e culturale, e in un approfondimento dell’intensità lirica, non istintiva, ma meditata, per quanto sempre infiammata da un temperamento vitalistico e gioioso.  Lorca fu più personaggio degli altri poeti della sua generazione, già prima della sua fucilazione che lo rese un simbolo della lotta contro la dittatura e per la libertà: concependo la poesia come «spettacolo del mondo», fu anticipatore della poesia impegnata, e nei suoi versi come nel suo teatro volle rappresentare il tutto della vita, dalla passione amorosa e civile all’incanto della natura, dalla rappresentazione di figure memorabili stagliate su un paesaggio altrettanto memorabile, fino al malinconico presagio del distacco e della morte.

I sonetti dell’amore oscuro, scritti tra il 1935 e il 1936, sono solo dodici, e sono, secondo una definizione di Pablo Neruda, di «incredibile bellezza». Già nel 1937 Vicente Aleixandre, tra i primi lettori, così ne parlò: «Prodigio de pasión, de entusiasmo, de felicidad, de tormento, puro y ardiente monumento al amor, en que la primera materia es ya la carne, el corazón, el alma del poeta en trance de destrucción». Ben ne descrive genesi e fattura Mario Socrate nella sua puntuale ed esplicativa prefazione: senza entrare nell’approfondita disamina sintattico-morfologica da lui condotta (evidenziazione di enjambement, metafore, metonimie, anastrofi, apostrofi), possiamo ricavare precise informazioni sulla composizione dell’opera, sulla sua effettiva consistenza e sui progetti del suo autore. Riguardo a tali questioni si susseguirono per molti anni testimonianze e affermazioni arbitrarie, censure e depistamenti più o meno tendenziosi, fino alla tardiva ricognizione degli originali (filologicamente rigorosa), affidata a una commissione ufficiale, e alla loro pubblicazione definitiva nel supplemento letterario del giornale madrileno ABC del 17 marzo 1984. Pubblicazione tardiva dovuta non solo alle beghe tra letterati amici e nemici di Lorca, ma anche alla volontà di “neutralizzare, riassorbire lo «scandalo» di quei testi, di difendere il poeta da sé stesso”, garantendone la rassicurante rispettabilità.

D’altronde, lo stesso Federico, nell’ultima intervista rilasciata, si era detto convinto che «los libros de poesía se van haciendo siempre lentamente», suggerendo così il suo desiderio di rimandare l’edizione della raccolta, al fine di assemblare un volume di sonetti più organico e completo, che magari ricalcasse l’esempio illustre dei cento sonetti shakespeariani. Proprio sulla scelta lorchiana della forma sonetto, elaborato nello schema canonico abba abba cdc dcd, Socrate si sofferma indicando l’intenzione esplicita del poeta di frenare l’empito del sentimento in una stringente armatura, collegandosi così alla più antica tradizione ispanica (Lope, Góngora, Quevedo), ripresa nel ’900 da Alberti, Diego, Hernández, Guillén, Darío, Unamuno, Jiménez, Machado.

L’insegnamento di Shakespeare rimane comunque innegabile sia nella stessa  tensione esistente tra un io e un tu che esclude presenze terze, sia nella riproposizione dei «motivi della sudditanza e della prigionia (XXVI, LVII, LVIII, XCII); delle notti desolate (XXVIII, LXI); delle accorate rimostranze (XXXIV, LXXXVIII, LXI, CX); della disparità dell’età, simboleggiata con le stagioni (XXXVIII, LXIII, LXIV, XCVII); della reciproca identificazione, così frequenti; e infine, quelli, anche se su piani differenti, della pericolosità di un tale rapporto». Vediamone alcuni: «Godi il paesaggio della mia ferita, / nuovo, spezza ruscelli esili e giunchi, / e da cosce di miele il sangue a sorsi // bevi, ma presto, ché così congiunti, / bocca rotta d’amore, anima morsa, / ci trovi il tempo te e me consunti»; «Se mai sei tu il mio tesoro occulto, / se la mia croce, la mia intrisa pena, / se il cane sono io del tuo dominio, // fa’ che non perda quello che ho raggiunto, / e le acque del tuo fiume pavesa / con foglie dell’autunno mio in delirio»; «Questo sangue di lacrime che illustra / inerte lira, torcia senza presa. / Questo urto del mare e la sua frusta. / Questo scorpione entro di me in attesa»; «Tu con parole quest’insania cura, / sennò lasciami alla mia serena notte / dell’anima per sempre oscura»; «Così la notte e il giorno il cuore mio / nel buio carcere amoroso piange, / cieco di te, la sua melanconia»; «Su per la notte io e te, la luna piena, / tu che ridevi, io a piangere mi misi. / Un dio era il tuo sprezzo, ed i sospiri / miei colombe e attimi in catene»; «Tu continua il tuo sonno, vita mia. / Senti il mio rotto sangue nei violini? / Ma in agguato ci aspettano per via».

Altro argomento su cui insiste la prefazione di Mario Socrate è la scelta del titolo di questa corona di poesie, con quell’aggettivo che rimanda al nascondimento, al timore, al buio in cui è costretto un eros diverso. In effetti, non possiamo sapere se sia stato voluto da Lorca stesso (per quanto sia presente in alcuni versi dei sonetti: «Ay voz secreta del amor oscuro») e se sarebbe rimasto quello definitivo se non ci fosse stata la tragica fine del poeta nell’agosto del ’36. Sembra comunque un titolo adeguato alla raccolta, poiché allusivo in primo luogo alla sofferenza procurata dall’amore descritto, e introiettata da Federico, e secondariamente all’idea di segretezza e frustrazione in cui tale sentimento sopravviveva ‒ insidiato da pregiudizi e sospetti, offese e persecuzione ‒, pur nell’orgogliosa e quasi oppositiva rivendicazione del proprio diritto a esistere.

Composti alla vigilia di una tragedia collettiva, destinati a una lunga ed enigmatica clandestinità editoriale, i Sonetos, bruscamente interrotti dalla crudele esecuzione di Lorca (il suo cadavere non fu mai ritrovato), sono la testimonianza di una tragedia privata, di una sofferenza sentimentale che si trasmette al mondo «con accenti di sconfitta e di eversione in un momento generale di storica agonia». Il volume garzantiano (corredato da un’attenta ricostruzione biografica e da una ricca bibliografia di Glauco Felici) presenta anche una scelta di Suites, scritte tra il 1920 e il 1923 e mai pubblicate nella loro interezza durante la vita del poeta, che non era del tutto convinto del loro valore. Esse si offrono ai nostri occhi con una fisionomia piuttosto rapsodica, musicalmente oscillante tra un’incantata ingenuità giovanile e un turbamento emotivo che prelude agli esiti della produzione matura.

 

«Il Pickwick», 20 settembre 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

LOWELL

ROBERT LOWELL, IL DELFINO E ALTRE POESIE – MONDADORI, MILANO 1989

Robert Lowell (1917-1977), discendente di una delle più antiche e stimate famiglie bostoniane, scrisse versi caratterizzati da una forte tensione all’autoanalisi e alla denuncia, e per tale motivo venne considerato il fondatore in America della poesia “confessionale”. Alla radice della sua produzione poetica i critici hanno sempre rilevato un impulso di ribellione (determinato forse dall’asfittica e costrittiva atmosfera familiare in cui era cresciuto), e la stessa ansia provocatoria che lo spinse sia a scelte anticonformiste (dalla conversione al cattolicesimo nel 1940, all’obiezione di coscienza durante la seconda guerra mondiale e alla lotta per i diritti civili che gli valsero mesi di carcere, a tre tormentati matrimoni), sia a comportamenti autodistruttivi (l’alcolismo, e le frequenti crisi maniaco-depressive con relativi ricoveri in cliniche psichiatriche).

La raccolta Il delfino e altre poesie contiene liriche scritte tra il 1965 e il 1973, in anni che videro il poeta alle prese con scelte esistenziali e sentimentali molto sofferte: la fine, dopo vent’anni, del matrimonio con la seconda moglie (la scrittrice Elizabeth Hardwick, affettuosamente chiamata Lizzie), e l’allontanamento da lei e dalla figlia Harriet; l’incontro con Caroline Blackwood, soprannominata “delfino”, il trasferimento in Inghilterra e la nascita del secondogenito Sheridan. Avvenimenti tormentati da nevrosi, dubbi, incertezze, sensi di colpa, rancori familiari. Lowell scelse di mettere a nudo la sua vita privata in una sequenza di sonetti molto espliciti, in cui raccontava episodi di vita quotidiana, litigi, brani di lettere altrui, soprusi e vendette personali, in un alternarsi di tenerezza e rabbia, ironia e pietà. L’opera gli attirò molte critiche da parte dei colleghi letterati, che lo accusarono di insensibilità ed esibizionismo, e di avere voluto sfruttare la sua vicenda personale per finalità editoriali e di successo.

I sonetti in questione, in quattordici versi sciolti, metricamente irregolari, spesso prosastici e discontinui formalmente, sembrano seguire un flusso frammentario di pensieri ed emozioni, con la volontà di registrare stati d’animo più che di creare un’opera d’arte. L’autore fa parlare la sua bambina, spaventata dai contrasti tra i genitori, senza inserire alcun diaframma stilistico («Non lo vediamo mai adesso, eccetto che a pranzo, / poi tu litighi, e lui va di sopra…»); oppure si rivolge alla moglie con i nomignoli più affettuosi o crudeli, in un sovrapporsi di sentimenti incontrollati («Cara Pace dell’Anima; Mia Luce Celeste; agnello vestito da lupo; cerbiatta tremante e inflessibile; serpente, vespa, calabrone giallo…»). Consapevole di aver fatto soffrire, il poeta sembra voler aprirsi al lettore in una confessione catartica, quasi a implorare comprensione e perdono («forse troppo ho tramato a cuor leggero con la mia vita, / senza evitare danno agli altri, / senza evitare danno a me stesso – / per chiedere compassione…»).
La parte conclusiva del libro è dedicata alla voce giovane e provocatoria di Caroline, piena di gioia di vivere, che gli fa riscoprire l’amore fisico e sensuale, ironico e fantasioso: «Mio Delfino, solo di sorpresa tu mi guidi…», «Dopo i cinquanta così gran gioia è venuta, / che quasi non vorrei nascondere la mia nudità -, / il lustro e la rigidezza d’un vestito nuovo, la sensazione, / non del tutto lieta, di essere rinato». Tracciando una mappa esistenziale delle sue passioni, in un album familiare poetico e insieme impoetico, Robert Lowell volle consegnare al pubblico una testimonianza della condizione umana, più rilevante di qualsiasi scrittura: «Deve aver pur fine il verso. / Però il mio cuore è fiero, so di aver allietato la mia vita / intrecciando, disfacendo una rete di corda incatramata…».

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Il-delfino-altre-poesie-Lowell.html     18 dicembre 2016

RECENSIONI

LUALDI

MARILENA LUALDI, L’IMPORTANZA DI ESSERE SECONDI – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2012

La giornalista varesina Marilena Lualdi dedica questo interessante volume, dal titolo accattivante e con un sottotitolo esemplificativo (Storie di eroismo e non solo), ai personaggi – della storia e della cronaca – che, nonostante il loro coraggioso dispiego di generosità e impegno, non sono riusciti a salire sul podio più alto, rischiando eternamente l’oblio, l’irrisione, o addirittura un velato e sarcastico sentimento di superiore sufficienza. Così il libro si rivolge idealmente alla sensibilità di quei lettori che rimangono emotivamente coinvolti dal destino di immeritata sconfitta di chi ha combattuto contro una sorte maligna, o contro l’inganno e la furbizia, o semplicemente contro la forza e la bravura del vincitore: «ci coinvolge la vicenda di chi ha dato tutto (o quasi) inutilmente». Le storie narrate dall’autrice spaziano geograficamente e cronologicamente attraverso epoche e continenti diversi, talvolta lambendo memorie e avventure personali, ma sempre manifestando un coinvolgimento affettivo nella descrizione delle speranze e delle delusioni dei protagonisti, in una prosa elegante e concreta, puntuale e comunicativa. Il primo capitolo, senz’altro il più commovente e ispirato del volume, narra l’impresa tentata nel 1911 dall’esploratore scozzese Robert Falcon Scott, il romantico sognatore che tentò di raggiungere l’Antartide «in uno scenario intrappolato dal gelo», insieme a quattro eroici compagni, «in cerca delle uova dei pinguini imperatore», per aiutare la scienza nella definizione della scala evolutiva indicata da Darwin. Per arrivare al Polo Sud, Scott impiegò settantanove giorni, mentre al suo rivale Amundsen ne bastarono solo cinquantadue, grazie a una più pragmatica programmazione del viaggio. Scott e i compagni morirono tutti congelati sulla strada del ritorno, “secondi” per la storia, e sconfitti: ma consapevoli di aver tentato una nobile impresa, e di aver combattuto con sforzo e dedizione la battaglia più ardua contro l’ostilità della natura, la debolezza fisica e le proprie paure. Un altro, notissimo “secondo” della storia britannica fu Giovanni Senza Terra, della dinastia dei Plantageneti; ultimogenito di Enrico II, a lungo in ombra rispetto alla statura gigantesca del fratello Riccardo Cuor di Leone, fu protagonista di vicende crudeli e complesse, di vendette, odi, passioni e tradimenti, in una esasperata ribellione contro la storia e il destino. Quante altre vite e lotte Marilena Lualdi sa raccontare, di personaggi “secondi” nell’amicizia devota a figure più elevate di loro, come il biblico Gionata vissuto all’ombra del mitico re Davide, o Ron che fa da spalla a Harry Potter. E ancora le tante donne eccezionali schiacciate dal confronto ingeneroso con altre donne (Maria Stuarda da Elisabetta I), o con i propri amanti (la fiera ed eccezionale Eloisa dal più prudente Abelardo): o le tante eroine quotidiane appartenenti al popolo che lavora, e stenta, e manda avanti le cose del mondo, e per cui Santa Teresa di Lisieux scrisse: «In Cielo, Dio saprà ben mostrare che i suoi pensieri non sono quegli degli uomini, perché allora le ultime saranno le prime». E come numerosi sono stati i “secondi” in tutti gli sport, dal calcio alla scherma al tennis, fino alle discipline meno seguite e pubblicizzate; quanti silenziosi eroi nella musica, che non hanno saputo catalizzare l’entusiasmo del grande pubblico, nonostante il loro formidabile talento. Quanti “lati B” nei 45 giri che alla fine hanno surclassato le canzoni destinate dai discografici al successo maggiore. E infine, quante notizie minori, di secondaria importanza, nei giornali e nei media, che sarebbero state degne di ben altro interesse ed ascolto da parte di occhi ed orecchie più attenti. Ma, come dicono le Scritture sottolineando il rilievo della pietra scartata dai costruttori che diverrà testata d’angolo, «Forse l’importante è sapersi vedere, sapersi pensare, al margine dell’inquadratura. Sapendo che l’immagine non rimarrà fissa e che vista da un altro punto di vista potrebbe portarci in primo piano». Così suggerisce il prefatore del volume, Giuseppe Battarino: così invita a sperare la bella foto di copertina, con l’esile nuotatrice pronta a tuffarsi e a gareggiare qualunque sia l’esito della gara.

 

«Leggere Donna» n.160, luglio 2013

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LUCCHESI

NADIA LUCCHESI, ANNA. UNA DIFFERENTE TRINITA’ – LUCIANA TUFANI, FERRARA 2014

Nadia Lucchesi, storica da sempre impegnata nella diffusione del pensiero della differenza sessuale, dopo aver dedicato alcuni volumi a fondamentali personalità femminili come Diotima, Ipazia e Simone Weil e un importante saggio a Maria, madre del Cristianesimo si occupa qui della madre della Madonna, Anna: cercando di indagare misteri, censure, simbologie, leggende che dall’antichità hanno offuscato la sua figura, e la valenza storica-mitologica-culturale del suo ruolo nella genealogia di Gesù.
Attraverso un ricchissimo apparato di note e una approfondita documentazione letteraria e iconografica, l’autrice rivaluta l’importanza di Anna nel culto popolare e nella liturgia ecclesiastica, ma soprattutto ne rivela la potenzialità rivoluzionaria per una lettura femminista dei testi sacri e un’interpretazione del cristianesimo non puramente patriarcale.
Totalmente assente nei Vangeli canonici, Anna viene raccontata solamente dagli apocrifi, e in particolare dal Protovangelo di Giacomo, e quindi recuperata nella riflessione di alcuni grandi Padri della Chiesa e di diverse mistiche. Nadia Lucchesi ricostruisce la vita di Anna dalla nascita (tramandata in controverse tradizioni riguardanti il luogo e i genitori), per soffermarsi poi sul suo matrimonio con Gioacchino e sulla nascita tardiva e miracolosa di Maria, e per vagliare infine le testimonianze sulla sua sepoltura e sulle reliquie documentate in diverse località europee ed orientali.
Ma non sono tanto i particolari biografici, ovviamente lacunosi e ipotetici, a interessare l’autrice, quanto invece la teoria che collega Anna a culti pre-cristiani e pre-patriarcali, centrati sull’adorazione di una divinità femminile riferibile a una Grande Dea, creatrice dell’universo per via partenogenetica, vergine e madre, collegabile nel suo rapporto con Maria alle “dee doppie” presenti in molte religioni antiche. Ipotesi che verrebbe a scardinare un Olimpo divino tutto declinato al maschile.

 

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www.sololibri.net/Anna-Una-differente-trinita-Nadia.html     16 dicembre 2015

 

RECENSIONI

LUGANO

BRUNO LUGANO, NEL ROVESCIO DEL PERDONO – MARCO SAYA, MILANO 2015

Fedele al suo proposito di pubblicare poeti lontani dai circuiti letterari collaudati e tradizionali, l’editore milanese Marco Saya propone ai lettori questo volume di versi di Bruno Lugano, un anziano signore nato a Viareggio negli anni di guerra, e vissuto a lungo in Australia facendo “di tutto”. Un’infanzia difficile, tra affidi e orfanatrofi, con un padre sparito e non rimpianto, una giovane madre ripudiata dalla famiglia, teneramente amata e celebrata «come un cucciolo di innocenza», Bruno Lugano descrive se stesso in poche frasi, incisive e impietose: «nervi fragili e presunzione divina…malgrado parli sempre di me, di me non saprei dire granché». In effetti, la sua scrittura non potrebbe essere propriamente definita autobiografica: l’autore racconta della sua vita cose comuni a tutti gli esseri umani (emozioni e desideri, rimpianti e nostalgie, speranze e delusioni), e lo fa appunto sentendosi portavoce di un sentire collettivo, per nulla elitario o privilegiato. E sempre cerca un terreno di condivisione con chi lo legge, una comunicazione diretta e partecipe:

«Chiunque fossi io non mi fiderei di me / ve lo garantisco io che mi sono perso in ogni debolezza / che mi sfiorava appena», «No scusate ora devo cercare un tappeto di petali dove / lasciarmi cadere», «Non fateci caso se mi viene da piangere in questi casi / a me viene di non farci caso», «Non so se anche voi sentite come me la chiarezza che si / scioglie nel semplice calore».

Non c’è nessuna scaltrezza formale nei suoi enjambements originalissimi e spiazzanti: solo l’urgenza di seguire un pensiero e il bisogno impellente di manifestarlo, con «un ritmo ossessivo e un verso ipertrofico», come suggerisce Antonio Bux nella postfazione. Alla poesia Bruno Lugano affida un compito di salvezza dalla banalità del quotidiano, quasi fosse un viatico capace di accompagnare all’unica verità raggiungibile: «E’ indispensabile per me mettere le parole / nelle mie piaghe / curare le piaghe sempre leggermente diverse del giorno / con parole leggermente diverse». La fede nella parola che guarisce e aiuta a vivere ha qualcosa di religioso e umile, lontano da ogni celebrazione clericale o devota: «Parole lampo / per scrivere con l’ombra di riserva / qualcosa di molto chiaro che non ricordo più», «Il destino della luce è il perdono / lì la luce sta di casa», «Tanto poi tutto quello che manca / dico, tutto quello che manca, / nel momento in cui si infiamma di leggerezza la fede / si trova in abbondanza».

Sono versi travolgenti nella loro spudorata ingenuità, soprattutto in alcuni luminosi incipit: «Mi hai lasciato d’estate, per fortuna!», «Chi vive solo sa come il disordine può fare compagnia», «Provo tutto ciò che prova l’acqua chiara», «Come sono belli i giovani io li sposerei tutti», «Mi mangio il cielo e la terra a cucchiaiate». E perdoniamo volentieri all’autore se gli capita spesso di perdersi in riflessioni filosofeggianti che annacquano la tensione poetica, quando poi qua e là, come quadrifogli insperati in un prato, riusciamo a raccogliere all’interno o alla fine di una composizione altri barlumi di improvvisa bellezza: «quando sei solo vai incontro a un dio da fermo», «anch’io ho capricci di ragno fiero, nella solitudine», «mi sospira oscenamente un male elementare», «vorrei essere un animale con l’anima cristiana», «si comincia tutti dal proprio zero disperato», «Io sentivo la sera venire. / Ho sentito tutto. //…Ho amato tutto, / quello che c’era da amare l’ho amato tutto».
Non sempre i “poeti laureati” di montaliana memoria sanno emozionarci così.

 

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www.sololibri.net/Nel-rovescio-del-perdono-Bruno.html     22 settembre 2015

RECENSIONI

LUISI

PIER LUIGI LUISI, SUO PADRE ERA UN ALBATROS – SALANI, FIRENZE 1990

 

La casa editrice fiorentina Salani, di robusta e rispettabile tradizione nel campo dei volumi per l’infanzia, ha ripreso in questi ultimi anni a pubblicare con successo alcune collane che propongono sia collaudatissimi classici, sia volumi ingiustamente dimenticati degli anni ’40, sia nuovi o sconosciuti autori. Nella serie Gl’Istrici (sottotitolo «I libri che pungono la fantasia»), volumetti tascabili corredati da illustrazioni in bianco e nero, è uscita nel mese di marzo una storia un po’ fiaba e un po’ mito, un po’ viaggio e un po’ sogno, dal titolo nostalgico e misterioso : Suo padre era un albatros. L’ha scritto Pier Luigi Luisi, scienziato, professore al Politecnico di Zurigo ( si occupa di chimica macromolecolare dei biopolimeri), uomo dai vasti e poliedrici interessi culturali. Due anni fa aveva pubblicato, con prefazione di Dante Isella, un libro di racconti ambientati nell’Isola d’Elba. Si trattava allora di testi che coniugavano il realismo della memoria ritrovata (Luisi è appunto elbano) con una viva sensibilità pittorica: il ritorno al passato era pretesto per disegnare figure e ambienti tra sogno e risveglio, tra acquerello e incisione. In questo volume, invece, il fantastico e l’invenzione hanno nettamente la prevalenza: tra l’altro, il primo dei due racconti che lo compongono è stato segnalato al Premio Nazionale di narrativa fantastica J.R.Tolkien 1989. Protagonista della storia è una giovanissima malese, della tribù dei Senoi: si chiama Clau-Di-Tam, è insieme forte ed esile, degna figlia di una dolce indigena e di un grande e inquieto navigatore bianco. Dal padre ha preso la pelle chiara, i capelli scuri e lisci, la curiosità e il coraggio; dalla madre e dalla sua tribù la conoscenza rispettosa e ammirata di tutti i fenomeni della natura, la capacità di comunicare coi fiori e gli animali, e la rarissima dote di sapere interpretare i sogni che le arrivano dall’aldilà, sempre gravidi di significato e premonitori. Clau-Di-Tam vive con la sua tribù sulla riva del Grande Lago, che percorre in lungo e in largo sulla canoa; si spinge a esplorare la giungla, studia il volo degli uccelli, sa muoversi sinuosamente al ritmo di danze antiche, cavalca orsi e blandisce scimmioni, ma soprattutto sogna. I suoi sogni sono visioni luminose, dai colori splendenti, arazzi in cui intesse armoniosamente i tanti fili che la vita le ordisce. I Senoi le affidano il gravoso incarico di recuperare il sogno interrotto del capo del villaggio in agonia, onde evitare maledizioni e disgrazie che si abbatterebbero per sette generazioni sulla sua gente. Clau-Di-Tam riesce a portare a termine il suo compito, dopo aver sfidato il regno minaccioso dei demoni dei sogni, popolato da creature malefiche e orripilanti come in un quadro di Bosch. In questo mondo di incubi c’è più Artemidoro che Freud, ci sono più miti platonici (i due rospetti che abbracciandosi formano una palla suggeriscono una reminiscenza del Simposio) che studi sui neuroni…E Clau-Di-Tam che mangia funghi secchi per acquistare nuove virtù, che parla coi fiori animati e ha a che fare con una regina cattiva, ricorda molto la piccola Alice di Lewis Carroll, un’Alice più ingenua e istintiva, immersa nella natura. Alle soglie della pubertà, Clau-Di-Tam si imbatte nella tentazione della civiltà avida e corruttrice, personificata proprio dal mitico padre bianco, figura quasi conradiana, tornato su una grande nave alla ricerca del fungo dell’eterna giovinezza, che rende immortali e crudeli, come in un rinnovato mito faustiano. La ragazzina salva il padre, accompagnandolo nella sua avventurosa ricerca e strappandolo alle forze del male; lo convince ad accettare il corso naturale della vita e il suo declino verso la morte, e sceglie poi di non seguirlo in occidente, preferendogli «il mare amico…la spiaggia di sabbia bianca». C’è qualcosa, in questo immaginoso, tenero racconto che ricordi vagamente il mondo elvetico e gli interessi scientifici del professor Luisi? Forse lo spassoso episodio della lotta tra i Mischlinghi (il loro capo si chiama, programmaticamente, Entropio!), ricciuti, grassottelli e sporchi, che vorrebbero mescolare tutti gli elementi della natura in una fastidiosa varietà e confusione di caratteri e colori – giorno e notte, caldo e freddo, stagioni, alberi e animali -, contro gli Schwizerlinghi (guidati da Ornig!), silenziosi, composti, puliti e conformisti, che vorrebbero ovunque ordine, separazione degli opposti, rigore concettuale. Queste minuscole creature così differenti tra loro, ma costrette a vivere nella giungla, sembrano metafora evidente di una società – come quella svizzera- in sofferto conflitto razziale, e del mondo accademico, intellettualmente scisso tra caso e necessità.

 

«Agorà» (Svizzera), 6 giugno 1990

RECENSIONI

LUNETTA – PASCUTTO – MANCINI

MARIO LUNETTA, I RATTI D’EUROPA – EDITORI RIUNITI, ROMA 1977
GIOVANNI PASCUTTO, LA FAMIGLIA E’ SACRA – MONDADORI, MILANO 1977
GIUSEPPE MANCINI, DEVOTISSIMO IN CRISTO – FELTRINELLI, MILANO 1977

I tre romanzi di cui sto per scrivere non hanno nulla in comune se non il fatto di essere usciti tutti da tre grosse case editrici e di essere genericamente appartenenti a un’area di sinistra. Il primo è I ratti d’Europa, di Mario Lunetta, un romanzo scritto per l’intellighenzia comunista, e finito nella cinquina del Premio Strega. Molti funzionari del partito, degli intellettuali che fanno quadrato intorno al PCI potrebbero riconoscersi nel protagonista, nelle sue nevrosi, nelle sue manie di persecuzione. Questo Omar Nepero (forse giornalista, forse critico, certo un raffinato della cultura, un ghiottone di citazioni) si sente costantemente preso di mira da cecchini invisibili ma attivissimi, che alla fine riusciranno a farlo fuori (che liberazione allora! ma la morte come pace risolutiva è un rimedio vecchio…), e da una polizia segreta che lo pedina, lo tormenta, addirittura lo tortura. Un clima asfissiante (reso formalmente in maniera sapientissima, con continui sbalzi di registro narrativo: una nevrosi della scrittura) che si ritrova in qualsiasi parte dell’Europa il protagonista venga catapultato. Varsavia come Atene, due facce di due diverse dittature. Roma è la città-sfondo, sembra impazzire di violenza e di ambiguità: il partito nella sua solennità di Via Botteghe Oscure non protegge più, è anzi chiuso; i compagni sono intrepidi salottieri piuttosto ottusi. Ciò che è pubblico (bollettini radiofonici, titoli di giornali o semplici elementi di vita quotidiana) si sovrappone al privato reso ormai una farsa, una larva di vita: lo amplifica in visioni mostruose, terrificanti; il soggetto si sdoppia e si annulla, a un certo punto è lo scrittore stesso a parlare in prima persona. Il libro è scritto bene: pesa forse un certo sfoggio di intelligenza, di bravura tecnica, e alla fine ci si chiede perché mai questo intellettuale di successo (Nepero-Lunetta) scappi continuamente, da chi si senta così perseguitato. Non ci si crede, insomma, alla sua opposizione, alla sua scomodità, perché parla lo stesso linguaggio di chi perseguita.

Il secondo romanzo è una specie di lungo racconto umoristico di un giovane scrittore friulano, Giovanni Pascutto, alla sua seconda prova. Precedentemente, Pascutto aveva pubblicato un romanzo sul servizio militare che gli era stato molto lodato dalla stampa borghese. Anche questo La famiglia è sacra, che dovrebbe prendere di mira l’istituzione famigliare, ha ricevuto calde accoglienze dalla critica. In realtà è un libro un po’ da spiaggia un po’ da treno, con alcuni spunti divertenti perché può capitare a tutti di ritrovarsi nel protagonista Giuseppe, e in alcune sue riflessioni davanti a una Milano imperiosa e ghignante. Certo l’umorismo di Pascutto non graffia e non inventa niente di nuovo: ma i personaggi sono tutti credibili rappresentanti di una piccola borghesia con qualche ambizione intellettuale, una sfilata di “credo” qualunquisti di minima e varia umanità da disimpegno, che fanno se non ridere sorridere. Hanno sbagliato quei critici che hanno visto nel giovane Giuseppe un esemplare indiano metropolitano. In realtà qui non ci sono denunce né critiche, le aspirazioni rimangono borghesi (donne e dané), il malessere è tutto contingente e individuale.
Infine è uscito un romanzo biografia nella collana I franchi narratori di Feltrinelli, Devotissimo in Cristo, di Giuseppe Mancini, che racconta la carriera di un sacerdote, la sua vita fra i fedeli nella struttura gerarchica della chiesa. Nella forma di un diario, Don Giulio narra le sue esperienze, dallo slancio iniziale e dal fervore caritatevole con cui apre il suo apostolato, ai compiti delicatissimi di diplomazia cattolica che gli vengono affidati, alle guerre aperte dichiarategli fino alla resa vissuta in solitudine. Nello scrittore permangono strutture mentali cattoliche, da un’acuta misoginia a un senso morboso del peccato e della tentazione. Il diario è teso e asciutto, scritto polemicamente e con una certa -naturale- acredine: potrà interessare chi ha avuto, anche di riflesso, esperienze simili di fede e di lavoro.

«Quotidiano dei Lavoratori», 10 dicembre 1977

RECENSIONI

LUXEMBURG

ROSA LUXEMBURG, UN PO’ DI COMPASSIONE – ADELPHI, MILANO 2007

Nel cortile del carcere di Breslavia dove era stata imprigionata nel 1914, Rosa Luxemburg (1870-1919) assistette a una scena di incredibile violenza nei confronti di due bufali, che trainavano un carretto di masserizie sotto la sorveglianza di alcuni militari. Ne fu profondamente colpita e scandalizzata, e la descrisse così in una lettera alla sua amica Sonia Liebknecht:

«Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese allora a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo investì, chiedendogli se non avesse un po’ di compassione per gli animali. ‘Neanche per noi uomini c’è compassione’, rispose quello con un sorriso maligno e batté ancora più forte… Gli animali infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro sanguinava… Sonička, la pelle del bufalo è famosa per essere assai dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa né perché, non sa come sottrarsi al tormento e alla forza bruta… gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime – ma erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella silenziosa sofferenza. Quanto erano lontani, quanto irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania! … E qui …questa città, ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseabondo e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei e terribili e… le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta. Oh, mio povero bufalo, mio povero e amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi così impotenti e torpidi e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia… Intanto, i carcerati correvano operosi qua e là intorno al carro…  il soldato invece ficcò le mani nelle tasche dei pantaloni, se ne andò in giro per il cortile ad ampie falcate, sorrise e fischiettò tra sé una canzonaccia. E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi… Sonjusa, carissima, siate nonostante tutto calma e lieta. Così è la vita, e così bisogna prenderla, con coraggio, impavidi e sorridenti – nonostante tutto. Buon Natale!»

Lo scrittore austriaco Karl Kraus lesse la lettera, ne rimase fortemente impressionato, e la pubblicò sulla sua rivista di satira politica Die Fackel nel 1920, affiancandola a un malevolo commento (veritiero o inventato) di una lettrice «megera», proprietaria terriera di Insbruck, che derideva la sensibilità eccessiva della rivoluzionaria comunista verso gli animali. Ciò offrì a Kraus agio di esprimere tutto il suo dissenso e l’indignazione nei riguardi del brutale potere che aveva condannato e poi ucciso la coraggiosa teorica del comunismo, di cui elogiava «l’umanità e la poesia», e «l’anima così elevata». Rosa Luxemburg, filosofa ed economista polacca di origine ebraica, esiliata a Zurigo per motivi politici, trasferitasi a Berlino aderì al Partito Socialdemocratico e divenne la principale esponente della fazione di sinistra, prendendo posizione contro il revisionismo e contro il modello leninista di organizzazione del partito. Nel 1916 promosse l’insurrezione spartachista, e venne uccisa nella repressione che ne seguì. La sua opera fondamentale fu Die Akkumulation des Kapitals (1913), un prezioso contributo allo studio della politica imperialista.

In questo libriccino pubblicato da Adelphi nel 2007, e corredato da una ricca postfazione di Marco Rispoli, la lettera della Luxemburg occupa solo sette paginette. Sono però antologizzati altri scritti, di Franz Kafka, Elias Canetti e Joseph Roth, tutti indaganti il rapporto che intercorre tra la coscienza dell’uomo e la sofferenza degli animali, esplorato con particolare empatia e partecipazione dal pensiero filosofico e letterario nel corso degli ultimi due secoli (a partire da Schopenhauer, Dostoevskij, Nietzsche, per arrivare a molti poeti contemporanei, anche italiani), capace finalmente, dopo millenni di indifferenza e sfruttamento nei riguardi dell’ambiente, di identificarsi con il dolore di tutte le creature.

Un po’ di compassione, come quella che una donna intransigente e perpetuamente in lotta come Rosa Luxemburg manifestava per il bufalo sanguinante, “povero e amato fratello”, vittima innocente e indifesa della brutale violenza e del sadismo dell’uomo.

 

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https://www.sololibri.net/Un-po-di-compassione-Luxemburg.html                  10 maggio 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MACCARI

PAOLO MACCARI, FUOCO AMICO – PASSIGLI, FIRENZE 2009

Delle cinque sezioni che compongono questo libro di versi, Fuoco amico di Paolo Maccari, la più originale (pur nei suoi evidenti debiti soprattutto con Caproni) è senz’altro la prima, intitolata L’ultima voce. Si tratta di 18 sonetti letterariamente vibranti, nervosi, secchi anche nell’utilizzo degli endecasillabi, coraggiosi nell’uso delle spezzature e degli enjambement, che senz’altro traggono la loro singolare forza dal tema trattato. La voce monologante è quella di «un giovane, quasi un ragazzo», unico superstite dopo una misteriosa operazione di polizia/pulizia che si è prefissa di sterminare qualsiasi ribelle, per costruire «un secolo ordinato». Il giovane è tenuto sotto osservazione, in cella, preda di incubi, di propositi di resistenza o di improvvisa resa: «Rintuzzare i pensieri. / Fare la posta ai ricordi, snidare / i sogni. I desideri…».

In bilico costante tra tentazioni di delazione e fuga, e terrori allucinati, ed eroici proponimenti di non collaborazione col nemico. Fede, tradimento, difesa, morte, confessioni, torture, divise militari, inseguimenti, perquisizioni: la minaccia è concreta e impalpabile insieme: «Verranno con allegri portafogli. / Verranno con lame, aghi, aculei orrendi. / Verranno capi, sgherri e reverendi». L’unica, possibile via d’uscita sembra essere l’accettazione dell’immobilità: «Io, il più flebile, scampato per comando / di un dio perfido, immobile domando / perdono a voi, i per sempre fuggitivi./ Spero che non mi facciano più uscire».

Questa pervasiva sensazione persecutoria a cui non si sa come rispondere si respira anche nelle altre sezioni del volume, sia che il poeta parli di amori a cui teme di concedersi, o di amici che si sono allontanati, o del proprio corpo torturato dalle emicranie e dalle malattie nervose: «Penammo, sì, a star fermi, / a non aver la forza / che di star fermi».

 

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www.sololibri.net/Fuoco-amico-Paolo-Maccari.html     19 marzo 2016