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RECENSIONI

MADERA

ROMANO MÀDERA, LA CARTA DEL SENSO – CORTINA, 2012

Romano Màdera, professore di Filosofia morale presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca e studioso del pensiero di Jung, fa parte dell’Associazione di psicologia analitica internazionale. Nel volume La carta del senso, pubblicato presso Raffaello Cortina nel 2012, suggerisce ai lettori un percorso filosofico che incoraggi al cambiamento della propria vita (senza pretendere di cancellarne i momenti negativi), e insegni l’accettazione del dolore, rendendolo strumento di miglioramento per sé e per gli altri. Il corposo testo affronta in sette capitoli temi diversi ma convergenti nell’obiettivo di un recupero della saggezza, del piacere di vivere, del superamento di ogni egocentrismo: per imparare a interrogarsi, a pentirsi, a riparare e a perdonare. Chi legge può scegliere il modo più consono di affrontare il “cammino della salute” proposto dall’autore: nel caso fosse particolarmente interessato alla psicanalisi, già l’introduzione si sofferma sui nodi cruciali che problematizzano il rapporto tra analista e paziente: l’individuazione dei sintomi di malessere, la dinamica che si instaura tra parola e silenzio, il transfer, la durata e la fine delle sedute. Utilizzando le fonti canoniche di tale scienza (Freud e soprattutto Jung), ma anche le voci più innovative e recenti (Winnicott, Matte Blanco, Paolo Aite) Màdera esplora le più diffuse e problematiche sofferenze psichiche, dalla depressione alla nevrosi ossessiva, dall’ansia di prestazione alla bulimia consumistica.

Il primo capitolo ci introduce subito in medias res, ospitandoci nella stanza dell’analista dal primo incontro terapeutico con l’altro, fino al conclusivo indirizzamento verso un nuovo atteggiamento esistenziale. Un “caleidoscopio” di sogni, disordini, rimozioni, traumi, fissazioni, nella cui interpretazione i due attori che interagiscono collaborano tentando di dare un senso all’angoscia, orientandola altrimenti, trascendendola. Ecco quindi alcuni casi clinici che lo psicologo illustra con l’empatia e la delicatezza di chi propone una “cura positiva”, in grado di superare il dato biografico per approdare a una saggezza superiore, a uno sguardo più vasto, capace di liberare le potenzialità espressive e culturali del paziente. Se oggi soffriamo tutti di un restringimento autoreferenziale, ombelicale, dei sentimenti e della progettualità, una via d’uscita ci può essere indicata dalla sapienza antica, così come la interpretava Pierre Hadot. Il grande pensatore francese intendeva la filosofia “come trasformazione della percezione del mondo”: guardare alla realtà in maniera diversa ci aiuta a cambiare noi stessi, a rinnovarci, recuperando un senso e una direzione dell’esistenza che abbiamo perduto. Impegnandosi nell’esercizio su di sé, l’essere umano riesce a raggiungere l’oltrepassamento di sé stesso e l’universalizzazione. La via suggerita si snoda attraverso tre modalità di esercizio spirituale, che hanno come obiettivo il raggiungimento della verità, la solidarietà con l’altro e la riflessione sul cosmo, sulla natura, su tutto ciò che ci accoglie e insieme ci relativizza.

Romano Màdera prospetta quindi un percorso curativo che coinvolga corpo, mente ed emotività, da attuare sotto la guida di un maestro dell’interiorità (secondo l’ottica cristiana dell’autore esso risiede nella lezione evangelica, ma può benissimo prescindere da fedi religiose o ideologiche), che partendo dall’esperienza biografica particolare dell’analizzante sappia condurre a una visione più elevata, cosciente e comprensiva del mondo esterno con cui relazionarsi. Tutti i capitoli di questo prezioso e denso volume offrono stimoli culturali e indicazioni comportamentali di grande interesse, anche relativamente al giudizio che l’autore dà della civiltà contemporanea occidentale, così frastornata e invadente, tanto abbagliata da falsi miti e cogente nel suo conformismo: proprio il richiamo alla saggezza insegnata dai filosofi greco-romani risulta un potente correttivo del materialismo e dell’estetismo imperanti nell’oggi. Soprattutto originali appaiono allora le ultime sezioni del testo, con i suggerimenti di pratiche filosofiche da seguire (esercizi fisici, di concentrazione, comunicazione, meditazione, di lettura e scrittura) per dare un senso nuovo all’esistenza e raggiungere una serenità di fondo, praticando una misericordia non giudicante, in modo da attuare un perfezionamento morale che migliori non solo la nostra vita ma anche quella sociale, e superando l’incentramento egoico attraverso un cammino spirituale laico in grado di offrire una direzione consapevole nella quotidianità.

 

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https://www.sololibri.net/La-carta-del-senso-Romano-Madera.html      23 marzo 2018

 

RECENSIONI

MAGGIANI

MAURIZIO MAGGIANI, I FIGLI DELLA REPUBBLICA – FELTRINELLI, MLANO 2014

Leggendo questo libello autoironico, amaro e quasi rabbioso di Maurizio Maggiani, mi sono tornati in mente due versi di G.Giudici: “Quanto di storia mi è transitato addosso/ A me che sono un privato”. Sì, perché Maggiani, nato nel 1951, lancia qui una feroce invettiva contro la sua generazione, quella del dopoguerra e della Prima Repubblica, analizzandone severamente colpe e difetti, senza concederle attenuanti, e con qualche retorica superficialità. Chi ha circa la sua età, ed ha vissuto uguali temperie storiche, respirandone lo stesso clima culturale (privilegi, certo: ma anche utopistici desideri di cambiamento, un generoso seppure fallimentare impegno politico), ritrova nelle sue pagine atmosfere e abitudini dimenticate, o addirittura volutamente rinnegate. Quindi famiglie sane, padri lavoratori e tranquillamente assenti, madri brave cuoche non ossessionate dal femminismo, insegnanti preparati e severi: e poi poca tivù e innocente, canzonette senza pretese, la bici Graziella, il registratore Geloso coi tasti colorati, il budino Elah e il formaggino Milione: “Beati noi, beati noi…Fortunati noi che siamo nati agli albori”. Una generazione in salute, che non ha conosciuto polio e tubercolosi, a cui i genitori hanno dato nomi di battesimo normali, buona educazione tradizionale, salutari castighi e aspirazioni raggiungibili (un lavoro, il matrimonio). Figli che però appena cresciuti hanno preteso il superfluo, si sono concessi disinvolture sessuali e comportamentali, riempiendosi bocca e cervello di psicanalisi e ribellione, alzando barricate per poi rifluire borghesemente e con prona ragionevolezza agli ordini del più bieco potere capitalistico, collezionando successi e servilismo. Non tutti, però, si sono riciclati: molti sono rimasti fedeli a un impegno civile e privato critico e costruttivo, nonostante la Storia (quella davvero potente, sovranazionale: finanziaria, bellica, massmediatica) abbia fatto di tutto per umiliarli. Resistere serve a qualcosa.

IBS, 21 maggio 2014

RECENSIONI

MAGLI

PATRIZIA MAGLI, IL VOLTO RACCONTATO – RAFFAELLO CORTINA, MILANO 2016

«Non recidere, forbice, quel volto / solo, nella memoria che si sfolla, / non far del grande suo viso in ascolto / la mia nebbia di sempre». Questi celebri versi tratti da un Mottetto delle Occasioni montaliane mi tornavano alla mente leggendo l’interessante volume di Patrizia Magli Il volto raccontato, indagante “Ritratto e autoritratto in letteratura”. Perché mi sono sempre chiesta cosa Montale intendesse significare, attribuendo al volto dell’amata l’aggettivo (quasi offensivo se riferito a un viso femminile) “grande”. Convincendomi man mano che l’intenzione del poeta non fosse precipuamente descrittiva, ma soprattutto metaforica: un viso “grande” occupa tutta la mente, riempie il pensiero, assedia la memoria più reticente. Scorrendo le pagine del libro di Patrizia Magli (Professore di Semiotica a Bologna e a Venezia), ho trovato una conferma a quella mia estemporanea e sprovveduta intuizione.

Comprendere cosa nasconda o riveli il volto di una persona, sempre unico e complesso, perennemente agito e trasformato dal tempo e dai sentimenti, è arduo per qualsiasi osservatore esterno. Descriverlo letterariamente nei suoi tratti fisici e nei suoi riflessi interiori – sempre elusivi, spesso fraintesi – può sembrare impossibile, a causa dell’inadeguatezza del linguaggio ad afferrare e a rendere l’enigmaticità di uno sguardo, di un sorriso. L’autrice si propone di esemplificare in che modo un romanziere o un poeta possano rappresentare efficacemente la concretezza di un viso, rendendolo vivo e reale agli occhi del lettore, ma evocando nel contempo la storia familiare, le passioni, il ruolo giocato nelle vicende narrate dal personaggio a cui quel viso appartiene. Quindi nei primi due capitoli del volume si forniscono esempi di come la tradizione letteraria mondiale abbia allestito la rappresentazione del volto umano, negli ultimi due – dedicati al ritratto e all’autoritratto nella letteratura contemporanea – si svelano i meccanismi strategici con cui gli scrittori riescono a suggerire (più che a descrivere minuziosamente) cosa si celi al di là delle caratteristiche fisiche di ogni essere umano.

Seguendo le tracce di importanti filosofi, critici letterari, semiologi (dal suo maestro Umberto Eco, a Barthes, Foucault, Bachelard, Lotman, Jakobson, Bruner, Blanchot, Hamon…), Patrizia Magli interroga gli autori classici (soprattutto francesi: Balzac, Flaubert, Hugo, Zola, Sue, fino a Baudelaire, a Proust e a Sartre) che introducono i loro protagonisti principali con una descrizione fisiognomica, in genere tesa non solo a individuarne l’identità morale, ma anche a farne risaltare i tratti oppositivi rispetto alle figure secondarie del narrato. Alla prima, generica presentazione di un personaggio, segue l’introduzione di un dettaglio fisico che lo rende subito unico e memorabile; quindi la definizione del nome, anch’esso scelto spesso con l’intento di creare una corrispondenza esteriore o interiore con chi lo porta. E sembra più facile per qualsiasi scrittore descrivere un volto brutto, deforme, addirittura mostruoso, piuttosto che rappresentare l’armonia e la bellezza, sempre indicibili, ineffabili, più spirituali.

Un personaggio si costruisce, quindi, disseminando effetti descrittivi che ne definiscono l’identità, in un sistema di ricorrenze, ridondanze, continuità che creino coesione con il suo ambiente e con i fatti raccontati. Il gioco che si instaura tra chi ritrae e chi è ritratto risponde a interazioni differenti, di imitazione o idealizzazione, di inclusioni o esclusioni, di coinvolgimento o estraneità: e diventa particolarmente sottile, subdolo, problematico quando l’autore descrive se stesso (la sua faccia, la sua figura), con intento introspettivo ed esplorativo, oppure autocelebrativo, difensivo, narcisistico, terapeutico. L’autoritratto, la descrizione autobiografica diventa allora uno specchio implacabile dei propri difetti, o un quadro edulcorato delle proprie virtù. Spetta allo scrittore, alla sua abilità, registrare nel ritratto e nell’autoritratto la verità di un volto, farne affiorare lo sguardo interiore, raccontarlo nei cambiamenti imposti dal tempo, renderlo indimenticabile nella memoria di chi legge. Chi di noi può scordare gli occhi ridenti e fuggitivi della Silvia leopardiana?

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Il-volto-raccontato-Magli.html     18 novembre 2016

«Lo Straniero» n.197, novembre 2016

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MAGRELLI

VALERIO MAGRELLI, IL SANGUE AMARO – EINAUDI, TORINO 2014

Il sangue amaro di Valerio Magrelli, che esce a otto anni di distanza dal suo ultimo volume, è una raccolta estremamente articolata e varia, sia nei contenuti sia formalmente. Suddivisa in dodici sezioni, spazia dal privato al politico, dalla religione alla denuncia civile, dalla polemica letteraria alla riflessione filosofica. Lo stile sa adeguarsi plasticamente ai temi trattati, sia utilizzando metri e formule tradizionali (sonetti, endecasillabi, epigrammi: con un ricorso più esplicito che nel passato alla rima, sfruttata non solo ironicamente), sia servendosi di curiosi stratagemmi quali le sciarade e finti rebus, o inserti prosastici e narrativi. In maniera decisamente meno cerebrale e oscura che nelle precedenti prove, qui l’ansia comunicativa del poeta diventa più esplicita, segnata dalla risentita amarezza nei riguardi della società e del mondo cui fa riferimento il titolo. «Io mi faccio il Sangue Amaro. / E’ una specialità della casa, sin dal lontano 1957»: così nell’ultima sezione, dedicata a un se stesso depresso e immalinconito, talvolta rabbioso («Mia debolezza, debolezza mia //… la forza che si sbriciola, la memoria in frantumi, / e in questo Grande Sfascio…», «Noi lo chiamiamo odio, ma è solo sofferenza», «Sopporto le ingiustizie dalla nascita / a cominciare ovviamente dalla nascita. / Lo Stato che depreda, gli amici che tradiscono, necroburi, ogni variante dell’illegalità…»). Aiutarsi medicalmente non basta («Queste che prendo gocce / con tanta religiosa compunzione…»), se lo spettro della morte attanaglia pensieri e cuore («Qui, tutti noi aspettiamo / sulle rive del Nihil»; «Poi, di colpo ho capito che il problema non è morire, ma rimanere soli nella morte»), attraverso le sembianze di una futura malattia neurologica o della insopportabile separazione definitiva dai propri cari. E’ proprio dagli affetti familiari che può arrivare l’unica redenzione, e quindi i versi più inteneriti del volume sono quelli rivolti alla figlia («Ho una figlia che ha voglia di cantare / e canta. / Può bastare»), al figlio che studia Dante sotto la doccia, e alla moglie, nella splendida sezione La lettura è crudele. Dove la constatazione banale che quando la persona amata e vicina si immerge nella lettura, inevitabilmente si allontana da noi (precipitandoci in una solitudine -vuoto, silenzio, abisso, distanza, vertigine, paura, sono i ricorrenti termini chiave- che è sostanzialmente estraneità, irraggiungibilità), sembra far precipitare il poeta in un’angoscia senza scampo («atterrito e remoto, separato, / legato alla vertigine che amo, / se amore è la distanza che ci chiama e insieme la paura di varcarla»). Paura che torna anche in un altro capitolo del libro, kierkegaardianamente intitolato Timore e tremore, e aleggia ovunque, intrecciata a sentimenti di rivolta e rifiuto nei riguardi di ogni bruttura e ingiustizia, naturale o sociale: quindi verso le infermità dei bambini handicappati, i morti della Thyssen, gli incidenti stradali, i giovani disoccupati, i balzelli fiscali, le disonestà finanziarie, le dittature telematiche («La password, il codice utente, PIN e PUK / sono le nostre dolcissime metastasi»), i ladri che penetrano in casa, gli uccelli che entrano dalla finestra («Lo schifo, lo schifo, lo schifo di un animale che vola / in mezzo alle cose di casa violando lo spazio privato»), lo sfacelo urbano, le latrine insozzate di una Roma pasolinianamente suburbana, o zingaresca. Non si salva nemmeno Dio, in questa rappresentazione negativa dell’esistente, nelle sue epifanie natalizie desolatamente commerciali, o nella corruzione istituzionale della Chiesa: «reputando Dio un arto fantasma, vivo soltanto nel dolore della sua amputazione», «Tutti noi siamo vittime di una chiesa delebile, / priva del vero inchiostro della sua verità». Una geremiade sconsolata, con toni di pessimismo leopardiano: «Non la Crocefissione, ma la Culla // è segno di martirio, lutto, scandalo». La stessa diffidenza Magrelli sembra nutrire anche riguardo al suo campo d’azione più proprio, la letteratura («il linguaggio / ha innanzitutto lo scopo di nascondere», «O forse sono cavie, queste poesie che scrivo»), e pare attenuarsi solo nella descrizione attenta di alcuni aspetti della quotidianità (gesti, rumori, oggetti, musiche), o nella descrizione della natura. Così, nella sezione La lezione del fiume assistiamo a un partecipe omaggio, a una convinta celebrazione del fenomeno acquatico, dal lavaggio dell’auto all’intrico delle tubature sotterranee, dalle sorgenti agli argini, dai ponti ai canyons, alle dighe, ai pesci: nel calore estremo come nel rigore dei ghiacci.
E nei Paesaggi laziali una nota nostalgica e quasi idilliaca riconcilia il poeta con il bene, e non più con il male, di vivere: in una delle poesie più delicate e commosse della raccolta, Principe delle Volpi!, riemerge dal passato la figura proletaria di un amico adolescente dal «sorriso mite», regale come un elegante nobile russo, che avanza nell’incenso di copertoni bruciati in periferia, reso salvo dal «sacramento / di un’Aristocrazia nata dal cuore».

 

© Riproduzione riservata       «Nazione Indiana», 16 marzo 2014

RECENSIONI

MAGRELLI

VALERIO MAGRELLI, IL SESSANTOTTO REALIZZATO DA MEDIASET – EINAUDI, TORINO 2011

In questo dialogo filosofico dal carattere “idiosincratico”, di risentita verve polemica, Valerio Magrelli assume un duplice ruolo di fustigatore di costumi e ideologie, nei panni di un Machiavelli rigoroso, passionale e sarcastico e di un più accomodante Tenerissimo,sorta di cattocomunista indulgente e tollerante. I temi su cui i due si scontrano e convergono sono i più vari, tormentosi e dibattuti nella temperie politica e culturale dell’Italia d’oggi (“questo paese grondante ipocrisia cattolica”): dal precariato all’ecologia, dai privilegi sindacali alla prostituzione, dall’abolizione dei manicomi alla scandalosa riduzione delle pene per chi si macchia di reati, dall’inciviltà egoista dei comportamenti quotidiani allo sfascio dell’istruzione. I toni si fanno poi più scandalizzati quando si tratta di condannare l’asservimento della cultura al mercato (con le lauree honoris causa concesse a sarti e motociclisti, o con i funerali di stato per Mike Bongiorno), o l’ingerenza del Vaticano nella vita pubblica, o ancora “gli incubi dell’illusionismo catodico”, alimentati da una tv sempre più stupida e impoverita, o le incertezze vili di una sinistra senza idee che nulla sa e vuole opporre all’ostentazione ipnotica di una destra prona agli interessi economici di Berlusconi. Tutte sacrosante ragioni su cui qualsiasi lettore deve convenire, ma a cui si possono forse sollevare tre piccole obiezioni. Citando male -tre volte-, con ovvia e commossa partecipazione una vittima del massacro del Circeo, Magrelli ne confonde il nome: non Daniela, ma Donatella Colasanti. Anche questa è una piccola violenza. Poi,schierandosi dalla parte degli scrittori, vittime da immolare in una società ignorante e consumista, sembra dimenticare quanti narratori e poeti scodinzolano tra radio, tv, festival e premi, celebrando la loro spesso non eccelsa produzione. Infine, un pamphlet che si vuole di coraggiosa denuncia al sistema, orse non doveva essere pubblicato da Einaudi, ricavando diritti d’autore berlusconiani.

IBS, 11 dicembre 2011

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MAGRIS

CLAUDIO MAGRIS, SEGRETI E NO – BOMPIANI, MILANO 2014

«Il potere ha sempre bisogno del segreto… Secretare è una delle prerogative essenziali del potere. Secretare, coprire, cancellare, rendere irreperibile la verità». La verità, che secondo il Vangelo dovrebbe renderci liberi. Cosa c’è di più pericoloso della libertà umana per il Moloch inamovibile e inscalfibile del potere? Claudio Magris indaga in questo libricino suddiviso in sei capitoli, Segreti e no, su cosa abbia significato e significhi il segreto nelle vite private e nella sfera politica di ogni società: quali pericolose o sovversive trame possa nascondere, quali coperture mimetizzare, quanti errori seppellire. I segreti della storia italiana più recente (da Ustica alla strategia della tensione, dagli scandali finanziari a quelli religiosi) sono rimasti tali per decenni, e forse lo rimarranno per sempre: o almeno fino a quando diventeranno inoffensivi, non più in grado di nuocere. Per rimanere minaccioso, per continuare a fare paura «è necessario che il segreto, qualsiasi esso sia, diventi il Sacro, l’Ineffabile e l’Inconoscibile; una verità superiore accessibile soltanto agli iniziati, a chi è autorizzato da una misteriosa, divina autorità superiore a conoscerlo e a impedirne la conoscenza al volgo».

Volgo composto da persone che hanno comunque pieno diritto di mantenere per sé i loro fatti personali, senza dover essere sospettate di chissà quali nefandezze o reati. Così capita che si circondi di un’aura di dubbio e diffidenza qualsiasi naturale ed encomiabile desiderio di riservatezza, quando oggi sembra addirittura doveroso esporre platealmente ogni aspetto fisico e caratteriale del proprio vissuto.
Magris rivendica il diritto individuale «all’opacità, a non essere passato da parte a parte… dai raggi X di alcuna conoscenza globale» e alla «umanissima difesa della propria libertà, di un proprio spazio in cui essere liberi da tutto e da tutti, anche dalla persona amata, anche da se stessi». Se la comunicazione diviene espropriazione dell’altrui esistenza, scade nel voyeurismo, sempre e comunque deprecabile, quando non penalmente perseguibile.

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Segretieno-Claudio-Magris-144235.html       27 maggio 2014

 

 

 

 

 

 

 
   
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MAGRIS

CLAUDIO MAGRIS, IL CONDE. ALLA FOCE – GARZANTI, MILANO 2020

Il racconto che Claudio Magris ha pubblicato recentemente da Garzanti, nella collana I piccoli grandi libri e in ebook, è uscito per la prima volta sul Corriere della Sera nel 1990, e in seguito riproposto dalle edizioni genovesi de Il melangolo. L’autore ha rivelato di aver tratto spunto per la sua narrazione da un fatto reale, avendo letto su un giornale, durante un viaggio in Portogallo, la notizia dei festeggiamenti e delle onorificenze conferite a un uomo anziano che da molti anni ripescava i morti da un fiume.

La voce narrante è quella di un pescatore che per anni aveva accompagnato la figura quasi mitologica del Conde (novello Caronte…) nelle sue esplorazioni acquatiche “tra la foce del Douro o dell’Ave fino ai paesi di Trás-os-montes”, con una vecchia barca fornita di funi, reti, arpioni e tute di gomma, per riportare a riva i corpi degli annegati incagliati sul fondo, e seppellirli “in terra benedetta, perché l’acqua è amara di perdizione e distrugge tutto, anche il ricordo…  era un ufficio di pietà, perché senza di lui quei morti non potevano andare né in paradiso né all’inferno”. Morti suicidi, soprattutto: per amore o per fame e miseria, stanchezza di vivere o paura di agonie più dolorose. Tra loro però c’erano anche corpi di naufraghi, persone cadute nel fiume per incidente o distrazione, altri uccisi e gettati nel buio complice e silenzioso delle onde. Il Conde parlava con rispetto di tutti i cadaveri, quando ne raccontava in paese, facendo passare per disgrazie anche le morti volontarie: con particolare pietà ricordava i bambini, che adagiava sul fondo della barca ricomponendoli nei capelli e nelle vesti madide e maleodoranti.

Tra il pescatore, il suo nocchiero, i morti e il fiume era sorta un’alleanza solidale e raccolta, che la scrittura di Magris ricrea nel suo cadenzato e lento fluire, nel tono fiabesco del monologo recitato a se stesso dal mozzo del Conde. Ogni tanto quest’ultimo (il cui padre era annegato al largo delle isole Scilly, a ribadire una specie di maledetta predestinazione) si lascia andare a memorie personali, ricostruendo mentalmente i visi delle donne amate e quello, sfigurato dalla stupidità, della ragazza menomata che gli era stata data in matrimonio, in sfregio e per scherzo. Oppure si perde in considerazioni più filosofiche, rivolgendosi al cielo (“non so se Dio sia il pubblico, il burattinaio, il bastone o qualcuno che un giorno cambierà la musica e calerà il sipario su questa mascherata idiota”) o considerando con amarezza la propria esistenza (“ma poi è solo alzarsi, dormire, grattarsi le punture di zanzara, sgobbare, legare la barca, cambiarsi la camicia e dov’è andata, intanto, la vita?”).

Finché un giorno gli succede di ripescare dal fondo fangoso del fiume il corpo di un marinaio aggrappato alla polena della sua nave naufragata: il busto di una donna dal viso dolce e rassicurante, con gli “occhi socchiusi e beati”, che aveva ingannevolmente promesso protezione e salvezza all’equipaggio.

Recentemente Claudio Magris ha pubblicato un libro illustrato dedicato proprio alle polene, che dalle prue si sporgono verso le indefinite lontananze marine, oltre la linea dell’orizzonte, simbolo di una coraggiosa sfida all’ignoto: “… sono regine che non sai cos’hanno nel cuore e non hanno cuore e per questo ti portano a perdizione. Di solito le polene guardano in alto e lontano, ansiose e atterrite, e ti fanno paura, in mare, perché pensi che vedono la morte che arriva e che tu non puoi vedere”

Il mozzo del racconto di cui parliamo, affascinato dalla lignea figura femminile, se la porta malinconicamente a casa, e la colloca sul tavolo della misera cucina, a benedire i suoi pasti quasi fosse una madonna.

 

© Riproduzione riservata           «Gli Stati Generali», 28 aprile 2020

 

RECENSIONI

MAGRIS-VARGAS LLOSA

CLAUDIO MAGRIS – MARIO VARGAS LLOSA,
LA LETTERATURA E’ LA MIA VENDETTA – MONDADORI, MILANO 2012

Questo volume è nato da una conversazione tra Claudio Magris e Mario Vargas Llosa tenutasi a Lima nel 2009, e poi riveduta per la pubblicazione mondadoriana del 2012.
Dialogano qui due maestri della letteratura mondiale, il primo con la lucida razionalità e la pacata saggezza che ritroviamo in tutti i suoi articoli sul Corriere, l’altro con una vena di più irruente ed estemporanea vivacità. Si confrontano su temi che spaziano dalla politica alla società, dalla narrativa all’etica alla scienza. Convergono entrambi sulla necessità di affrontare con tutti i mezzi possibili, e senza illogici isterismi, la tragedia universale dell’immigrazione clandestina e del divario economico tra paesi ricchi e sottosviluppati, mantenendo nel contempo -senza chiusure preconcette verso l’esterno- la specificità culturale di ogni nazione. Si dimostrano in sintonia anche nello sguardo disincantato e deluso rivolto verso i mestieranti della politica, spesso corrotta e corruttrice, miope e disancorata dai problemi concreti della popolazione, e tuttavia necessaria, necessitante dell’impegno generoso e costruttivo di ogni cittadino del mondo.
Ma ovviamente la parte più interessante del testo riguarda il rapporto che i due scrittori hanno con la letteratura, passione comune delle loro esistenze, a cui delegano la missione fondamentale di cambiare la realtà e l’animo umano.

Così Magris può affermare che la letteratura è rivolta contro l’ordine imposto da ogni potere ottuso e antidemocratico, quando è il grado di stimolare l’avventura della creazione fantastica, perché «le cose hanno una loro poesia non riducibile alla loro funzione e di questa poesia noi abbiamo bisogno». Quindi, «soltanto narrando questa indissolubile mescolanza di ordine e disordine, aspirazione alla verità e traviamento nell’errore, ragione e delirio, esigenza di giustizia e colpevole trasgressione, si può trovare il senso di quel caos che è la vita, pur senza negare il necessario e appassionato sforzo di darle un ordine».

Così gli fa eco Mario Vargas Llosa: «Siamo privi di riferimenti di fronte a quel caos che è la vita in cui siamo immersi, ed è per questo che esiste la cultura: per offrirci strumenti che ci consentano di trovare un ordine, di dare alla nostra vita una coerenza che… ci evita di vagare nella confusione e nelle tenebre. …Una società impregnata di letteratura è più difficile da manipolare da parte del potere, è più difficile da sottomettere e da ingannare, perché quell’inquietudine con la quale torniamo nel mondo dopo esserci confrontati con una grande opera letteraria crea cittadini critici, indipendenti e più liberi di quanti non vivono quell’esperienza».

 

© Riproduzione riservata                  www.sololibri.net/La-letteratura-e-la-mia-vendetta.html

18 gennaio 2016

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MAHLER

ALMA MAHLER, GUSTAV MAHLER. RICORDI E LETTERE – IL SAGGIATORE, MILANO 2015

“Ho scritto questo libro molti anni or sono e l’ho fatto per una sola ragione: perché nessuno ha conosciuto Mahler meglio di me e non volevo che il ritmo incalzante della nostra esistenza mi facesse dimenticare esperienze vissute in comune e pensieri di rilievo espressi da Mahler”. Così Alma Mahler in apertura del libro di Ricordi e lettere dedicato al marito Gustav, in una nota del 1939 che ricordava la lunga gestazione del testo, pubblicato solo a fine anni ’50, ma in seguito più volte ristampato perché miniera di informazioni sulla vita del geniale musicista austroungarico. Già nella prefazione, quindi, l’autrice sottolinea l’intento di rendere giustizia alla memoria del suo primo illustre sposo, boicottato in Austria per tutta la vita, ignorato e denigrato come compositore dalla cultura internazionale, sottoposto a censure e ostracismi per motivi ideologici, razziali e politici. Come ebbe a dire lui stesso: “Sono tre volte straniero: come boemo in Austria, come austriaco in Germania, e come ebreo in tutto il mondo. Dappertutto un intruso – in nessun luogo il benvenuto”. Il suo carattere ombroso e suscettibile, la sua maniacale puntigliosità nel lavoro, certo non gli avevano reso facili i rapporti con amici e familiari, colleghi e orchestrali, pubblico e accademia. Anna (Vienna 1879-New York 1964), più giovane di lui di diciannove anni, gli rimase vicina dal 1901 al 1911, anno della morte.

Figlia del pittore E.J. Schindler, Alma era una discreta musicista, allieva di A. von Zemlinsky, legata ai circoli dell’avanguardia artistica austriaca. Dopo la scomparsa di Gustav, sposò prima l’architetto Walter Gropius, fondatore del Bauhaus, e poi lo scrittore Franz Werfel, ma ispirò anche altri illustri personaggi del mondo dell’arte come Oskar Kokoschka, Gerhart Hauptmann, Alban Berg (che le dedicò il Wozzeck), Richard Strauss, Bruno Walter. Fu una figura di donna affascinante, attivamente partecipe alla vita culturale e artistica mitteleuropea, in un’epoca ricca di inquietudini e trasformazioni, di svelamenti e utopie.

Il suo diario inizia nel novembre del 1901, quando Alma e Gustav si incontrarono durante una cena offerta da amici comuni. “La più bella ragazza di Vienna”, vivace, intelligente, promettente studentessa di composizione al Conservatorio, al cospetto del celebre e temuto direttore d’orchestra, piccolo di statura, goffo nel vestire, rude e sprezzante, così reagiva: “Giovane e noncurante com’ero, né lustro né posizione mi impressionavano e la sola cosa che mi avrebbe resa umile, la sua interiore grandezza, di ciò allora sapevo ancora ben poco. Pure una specie di rispetto, misterioso e mai prima provato, di fronte alla personalità superiore tentava di sovrapporsi alla mia gaia spensieratezza”. Poche settimane di corteggiamento intenso, e subito la personalità dominatrice di lui prevalse sull’ammirata soggezione della giovane donna, al punto da convincerla ad accettare l’ingiusta ed egoistica imposizione di abbandonare gli studi musicali per dedicarsi esclusivamente al futuro marito. “Ho mantenuto la promessa… Ho sepolto allora il mio sogno. Forse è stato meglio così. Mi è stato concesso di rivivere in altre menti più vaste quelle doti creative che possedevo. Però in fondo ha continuato a bruciare in me una ferita che non si è mai completamente rimarginata”.

Con affetto e comprensione Alma ricostruisce l’infanzia e la giovinezza di Mahler, cresciuto in un ambiente modesto economicamente e culturalmente, colpito da numerosi lutti familiari, costretto a studiare lontano da casa, in una Vienna gelida e prevenuta nei riguardi del ragazzo ebreo. L’ostilità della città continuò a manifestarsi verso la coppia in maniera addirittura persecutoria, e Alma nel suo racconto ha modo di vendicarsi contro alcune figure di primo piano della cultura asburgica contemporanea: Richard Strauss, Max Klinger, Hans Pfitzner, Alfredo di Montenuovo.

Duro con la servitù, cui imponeva il riserbo e il silenzio più assoluto, con la moglie e le due bambine, che costringeva a estenuanti passeggiate in montagna e a nuotate nelle acque fredde dei laghi alpini, ossessivo nei rituali quotidiani del risveglio, dei pranzi, dello studio, Mahler si lasciava andare sovente a scoppi di ira, a pianti inconsolabili, a mutismi impenetrabili: “Alle povere bambine non era nemmeno permesso di ridere forte o strillare. Eravamo tutti schiavi del suo lavoro, ma era giusto e lo rifarei”. Egocentrico, nevrotico, o al contrario appassionatamente possessivo e generoso, viveva e costringeva a vivere chi gli stava vicino in una continua e spossante instabilità emotiva. La giovane moglie ne subiva il fascino e la sudditanza, confessando malinconicamente la sua perpetua umiliazione: “Già da ragazza ero timida e poco padrona di me, ma la timidezza era aumentata a fianco di Mahler al punto che, quando mi si rivolgeva la parola, davo le risposte più sciocche e senza senso, perché mi consideravo sempre e dappertutto solo una piccola appendice di Mahler… Assunse la parte del maestro spietatamente rigido e ingiusto. Mi toglieva ogni velleità di godere del mondo, anzi me lo mostrava ripugnante! Cioè, tentava: Denaro – futilità! Vestiti – futilità! Viaggi – futilità! Solo lo spirito! Capisco oggi che aveva paura della mia giovinezza e che voleva rendermi inoffensiva, togliendomi semplicemente tutto ciò che era vivo e di cui non sapeva che farsene. Io ero la ragazzina che si era desiderata e che ora si educava… Di questa mia rinuncia a una vita personale non si accorgeva…Avevo annullato completamente me stessa, il mio essere e la mia volontà…Durante i mesi estivi la sua vita era del tutto spoglia di qualsiasi scoria terrena, quasi disumanamente pura. Nessun desiderio di fama o di grandezza esteriore lo sfiorava mai”.

Una gelosia reciproca e contrapposta angustiava i due sposi: del passato di lui, dell’avvenire di lei. Eppure, con Alma vicina, che lo seguiva nelle prove e nei concerti, suggerendogli anche alcune correzioni agli spartiti, Mahler compose capolavori: sei sinfonie, i “Rückertlieder“, i “Kindertotenlieder“, e “Das Lied von der Erde“, ottenendo allori e contestazioni, trionfi e invidie feroci.

Il resoconto che Alma traccia del loro matrimonio, con tutte le rimozioni, mezze verità e artifici che si possono immaginare, rimane comunque una testimonianza impareggiabile dell’esistenza tormentata, e senz’altro fuori dalla norma, di questa coppia eccezionale. Dalle nozze semi-segrete, alla nascita delle due bambine e alla sofferta morte della primogenita Maria, dalla cronistoria della carriera di direttore d’orchestra e compositore alla “Splendid Isolation” degli anni di più fruttuosa creatività del marito, fino alla malattia cardiaca di lui, al trasferimento in America, alla crisi coniugale del 1910. E infine alla morte, avvenuta il 18 maggio 1911: sembra che l’ultima parola pronunciata da Gustav sia stata “Mozart”, indicativa della passione sovrana che aveva dominato tutta la sua vita.

Il volume tuttavia non si conclude sulle commoventi pagine dell’agonia del musicista, e dello strazio della moglie. La seconda corposa sezione riporta un ricco epistolario, che comprende molte lettere inviate al maestro dalle più importanti personalità dell’epoca (Schönberg, Busoni, Thomas Mann, Cosima Wagner… ), e soprattutto le missive spedite da lui ad Alma, il cui contenuto appassionato, devoto, fedele, supplicante fino al ricatto affettivo, si intuisce già dalle struggenti intestazioni: Carissima, Lux, Adorata, Dilettissima, Mia unica, Respiro della mia vita, Cuor mio carissimo, Amata bambina, Alma, Almschi, Almscherl, Almschilitzilitzilitzili… In uno degli ultimi biglietti scriveva: “Amor mio, mio canto, vieni, esorcizza gli spiriti delle tenebre, mi attanagliano, mi scaraventano a terra. Resta con me, mio sostegno, vieni presto oggi a portarmi sollievo”.

Libro da leggere, magari riascoltando il tema di Alma della Sesta Sinfonia.

 

© Riproduzione riservata                       «Gli Stati Generali», 7 settembre 2022

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MAJORINO

MILANO E UN POETA: GIANCARLO MAJORINO

Milano ha molto amato un suo poeta, Giancarlo Majorino, che l’ha molto amata, vissuta, raccontata. Majorino, nato nel 1928, è morto qualche giorno fa, a 93 anni, dopo un’esistenza vivace, impegnata, ricca di interessi e di esperienze. Laureato in Giurisprudenza, aveva svolto diverse professioni: bancario, rappresentante, bookmaker, professore di liceo, docente di Estetica alla Nuova accademia di belle arti, firmando una ventina di libri di poesia, testi teatrali, pamphlet politici, e fondando riviste, curando collane editoriali.

Dal primo volume di versi (La capitale del Nord, 1959) all’ultimo (La gioia di vivere, 2018), intramezzati da un poema la cui elaborazione era durata decenni (Viaggio nella presenza del tempo, 2008), la sua opera è stata coerentemente ispirata a una strenua ricerca sul linguaggio – interprete di una sperimentazione formale lontana dalle convenzioni e dalle mode – e a un’esplorazione attenta e critica dell’attualità, insofferente di compromessi politici, polemico con le maggioranze silenziose, solidale con gli ultimi.

Il Sindaco Beppe Sala lo ha così ricordato: “Poeta, cantore della Milano industriale, delle sue contraddizioni e delle lotte sociali del Novecento. Fondatore e presidente della Casa della Poesia di Milano e Ambrogino d’Oro nel 2007, la sua arte è storia della nostra città”.

Avevo conosciuto Giancarlo all’ultimo anno di università, quando generosamente e con lo spirito di maestro che sempre lo animava, aveva ideato una serie di incontri con alcuni studenti interessati alla poesia, che teneva nella saletta di un bar davanti alla Statale: ci proponeva testi di lettura, incoraggiandoci a scrivere e a sottoporgli i nostri tentativi di produzione di versi. In quelle occasioni, commentava con indulgente benevolenza anche le mie prime recensioni su “Il quotidiano dei lavoratori”. L’ho rivisto a Verona alcuni anni fa, insieme alla sua dolce compagna di sempre, Enrica, e mi aveva raccontato con ironia del loro matrimonio avvenuto dopo quasi cinquant’anni di convivenza, e del suo tardivo incontro con il web. Vorrei allora ricordare qui il poeta, attraverso alcuni versi tratti da tre sue composizioni, scandite nel tempo, rintracciabili tutte su internet.

La prima, da La capitale del Nord (Schwarz, 1959), è dedicata appunto a Milano, e alla sua trasformazione umana e industriale negli anni del boom economico:

O mia città vedo le porte gli archi / che un tempo limitavano il tuo cauto / intrecciarsi di case strade parchi / oggi spezzarti come una frontiera / o come una catena di pontili / congiungere le tue zone più vili / rivali o consociate in busta chiusa / dan vita o morte in crediti d’usura / legate col cordone ombelicale / del capitale e in loro trasformate / e quelle in queste ritmica simbiosi / le sedi razionali dell’industria / con l’asino alla mola e i nuovi impianti / la rapida salita la discesa / più rapida la sedia dei trent’anni / intorno curve schiene di negozi / la Galleria col tronco fatto a croce / in fondo oltre la Scala la gran piazza / Cavour congestionata la questura / la pietra dell’Angelicum trapassi / violenti e luminosi in via Manzoni / il tufo è ancora base ai grattacieli?”.

La seconda fa parte della raccolta Gli alleati viaggiatori (Mondadori 2001), ed è la visione immaginosa e disperante delle tragiche migrazioni contemporanee, assimilate a quelle che nei millenni hanno costretto un’impaurita e affamata “acqua umana e animale” a cercare scampo dagli agguati del male:

andavamo tutti come fosse un’emigrazione / chi per acqua chi per terra, allarmati / notammo che un leone ci oltrepassava / ma era come quando nella tundra incendiata / fuggivamo insieme felini e prede uccelli e serpi / cos’era cosa poteva esser stato nulla ricordo / non fatti precisi non odor di bruciato migravamo / in ratti gusci motorizzati e caschi a piedi scalzi / da chi sa che mossi transitavamo nel piano sembrante discesa / così potevamo saremmo riusciti a scampare a arrivare ansando entro / quando? in tempo e non contavano orario e luogo transitare / occorreva, altro corpo! snello basso e tozzo su quattro sciolte zampe / quasi una lotta di molte zampe gambe / una testa bianca tra colli di giraffe / sandali orme zoccoli nella sabbia / con famiglia a fianco bimbo su bici / gara di motocicli chiatte e scafi accanto / una universale processione forte respirante / sbandata ma diretta senza macchine da presa / o per quegli apparecchi occhialuti ritrasmessa / eravamo dentro pure per noi scorreva noi fissi davanti / cosa preoccupava il rinoceronte con intorno il vuoto? / la mandria pelosa che panicata quasi s’ingoiava? / la coppia remante arti e respiro sotto forte ipnosi? / il caduto rischiava tutto ma / capitava e dopo un grido d’aiuto / quasi tranquillizzato si chetava / trafitto schiacciato / trafitto schiacciato, per le mosche / i fastidiosi insetti non v’era tempo / di notarli, né i canterini uccelli / dardeggianti vi saranno stati / non era il momento di ricercarli non era il momento / andava come l’acqua un’acqua umana / e animale a non si sa che pozzo tentando / abbandonando non si sa che male”.

Infine la terza, compresa in La gioia di vivere (Mondadori, 2018), ancora esprime un netto e severo giudizio politico e morale sulle differenze di classe, sui soprusi patiti da chi chiede aiuto e non lo riceve:

davvero bell chiaro troppo / di non so quanto / e soltanto chi sta sotto / potrà comprendere rivivere / sia Gesù sia Marx l’han detto // e poesie non notizie (dopo, dopo) / nonché ’l cervello di uno dei ceti medi / come qui può cominciare a scrivere / chi sta sopra non può dirigere niente / chi sta sotto potrebbe ma è assai difficile // ma poi quando un uomo grida aiuto / un uomo una donna una vecchia un bimbo / è come se il mondo si fermasse / case mute zitte finestre chiuse / tutto ciò parla o urla o tace sale s’agita”.

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 22 maggio 2021