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RECENSIONI

MALAMUD

BERNARD MALAMUD, IL BARILE MAGICO – MINIMUM FAX, ROMA 2011

Difficile commentare un libro di racconti. Soprattutto se si tratta di racconti tutti belli, che si avvicinano alla perfezione, come quelli editi da Minimum Fax, che giustamente si propone di pubblicare l’opera omnia di Bernard Malamud. Vale la pena allora scrivere di uno solo, tra i tanti che si vorrebbero citare. “La dama del lago” narra di un giovane ebreo (ebrei sono quasi tutti i personaggi di Malamud, come lui stesso, nato da genitori russi emigrati in America), che dopo aver ricevuto un’eredità decide di cambiare identità e nome, rinnegando così la sua razza, e di mettersi in viaggio verso l’Europa. Arriva quindi a Stresa, e affascinato dal Lago Maggiore, si ferma in una pensione della cittadina, unendosi ai molti turisti americani che ogni giorno partecipano a gite organizzate sul battello per visitare le isole Borromee. Non sa bene cosa cerca, forse un’illuminazione interiore, forse l’amore: senz’altro sogna di immergersi nelle cultura, nella lingua e nella storia d’Italia. Un pomeriggio ventoso, si imbatte in una giovane donna che subito lo colpisce per la sua nobile figura e indole, e che si presenta a lui come Isabella del Dongo, figlia dei signori dell’isola. E di qui si dipana una storia fatta di fraintendimenti e bugie reciproche, che troveranno la loro punizione proprio nell’epilogo, a sorpresa, quando il giovane americano dovrà pentirsi di aver rinnegato la propria origine. Un finale come molti altri, nel libro, che lasciano il lettore con un senso di malessere nei riguardi di un destino feroce e impietoso verso i personaggi, sempre sconfitti e incapaci di piegare gli avvenimenti a loro favore.

IBS, 11 giugno 2011

RECENSIONI

MALAMUD

BERNARD MALAMUD, PER ME NON ESISTE ALTRO – MINIMUM FAX, ROMA 2015

Minimum Fax ha pubblicato nel 2015 Per me non esiste altro, un omaggio alla letteratura di Bernard Malamud (Brooklyn 1914-New York 1986). Scrittore americano di origine ebraiche, Malamud ottenne importanti riconoscimenti sia per i suoi sette romanzi (il più famoso fu Il commesso, del 1957), sia per i numerosi racconti che gli valsero il National Book Award. Nei suoi lavori utilizzava uno stile asciutto e realistico, descrivendo con intensa partecipazione emotiva e lieve ironia il mondo piccolo borghese di individui e famiglie incapaci di adattarsi alle esigenze della società moderna. In genere perdenti, afflitti da perenne malinconia, perdutamente e infelicemente innamorati, i suoi personaggi riflettono il rigore etico e la rassegnata pazienza dei tanti invisibili Giobbe che si celano nelle pieghe di un mondo sopraffattore e spietato.

Malamud è stato uno scrittore in conflitto con la sua epoca, di cui criticava ingiustizie e disumanità, senza però arrivare mai alla polemica o alla rivendicazione rivoluzionaria. La sua contestazione della contemporaneità si è espressa quasi esclusivamente attraverso la letteratura, e questo volume ne è una efficace testimonianza. Si tratta di una raccolta di riflessioni e suggerimenti per la scrittura, una serie di lezioni sui meccanismi narrativi da seguire per produrre un testo non solo convincente per i lettori, ma anche in grado di proporre un insegnamento morale. Queste indicazioni suggeriscono inoltre una guida di lettura, un libretto d’istruzione per interpretare forme e contenuti dell’opera di Malamud stesso, maestro ed esempio di scrittura raffinata, fondata su un’esigenza etica di interpretazione dell’agire umano.

Il primo suggerimento offerto a chi volesse misurarsi con la pagina bianca, riguarda l’oggetto della scrittura: cosa scrivere, quali argomenti prendere in considerazione, con quali tipologie caratteriali confrontarsi. Senza eccedere nello scandaglio interiore della psicanalisi (secondo l’autore colpevole di non esprimere giudizi di valore sui comportamenti individuali), l’aspirante scrittore deve possedere una conoscenza profonda dell’animo umano, dei suoi sentimenti ed emozioni, delle motivazioni che lo spingono all’azione. Una responsabile esplorazione dell’io rimane alla base di questa ricerca: senza scadere in un eccessivo autobiografismo, si possono opportunamente combinare spunti del proprio vissuto con altre fonti di ispirazione provenienti dall’esterno. Quali temi prediligere, dunque? Non si deve temere di ripercorrere argomenti logori e abusati della letteratura mondiale, inseguendo falsi ideali di novità e originalità assolute. Si possono scegliere temi intimistici, ispirati dalla cronaca, dalla storia mondiale o del tutto fantastici, riorganizzandoli secondo la propria inclinazione ed esperienza personale. Nella costruzione di una storia è importante privilegiare l’idea del conflitto, con sé stessi o con la società, di lotta contro un destino avverso, o con l’inquietudine dell’inconscio. Ciò dà spessore a ogni carattere e a ogni vicenda, anche puramente sentimentale.

Leggere moltissimo, trarre insegnamenti dai capolavori della letteratura mondiale è ovviamente indispensabile, evitando però il confronto con i giganti, e il desiderio di emularli: i libri altrui vanno osservati a distanza, attraversati senza fagocitarli. Una volta scelto il tema da raccontare, è opportuno redigere una scaletta, modificabile man mano si procede nel lavoro, perché aiuta a organizzare meglio lo sviluppo della trama, e offre un’idea complessiva dell’opera, dall’ossatura iniziale al perfezionamento dei dettagli.

È utile poi creare combinazioni diverse per testarne la forza drammatica, cercando di ampliare il proprio punto di vista, senza imporre una visione univoca della realtà. Chi scrive non deve aver paura di inventare, di usare l’immaginazione, di fantasticare sul mistero e sull’irreale, di sfruttare l’ironia e la comicità, alleggerendo un contesto troppo serio o appesantito. Nella costruzione dei personaggi, si deve lasciarli liberi di cambiare prospettive, scelte e carattere nel corso della narrazione, scavando nella loro interiorità fatta di dubbi, rimorsi, complessi, sentimenti positivi o negativi, di sogni e incubi.

Lo stile è fondamentale nella produzione di un autore: deve essere sobrio e controllato, e va continuamente corretto, nel corso di molteplici stesure: “riscrivere, riscrivere, riscrivere”, con il coraggio di cestinare i tentativi falliti, ricominciando da capo finche non si trova il giusto ritmo narrativo.

Come uomo e come scrittore, Malamud poneva tra i suoi irrinunciabili valori onestà, disciplina, integrità, orientandosi verso la dimensione etica della vita e della letteratura. Diffidente verso chi nell’arte esalta l’espansione della coscienza attraverso pratiche psichedeliche, l’uso di droghe, o altre esperienze violentemente distruttive, credeva essenzialmente nell’impegno costante e razionale del lavoro sul testo, e nella creazione di un’estetica morale, capace di dare un significato al senso dell’esistenza. Concordava quindi con l’affermazione di Camus secondo cui “compito principale dello scrittore è evitare che il mondo si autodistrugga”.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 21 luglio 2024

 

 

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MALAPARTE

CURZIO MALAPARTE, COPPI E BARTALI – ADELPHI, MILANO 2009

Questo breve saggio di Curzio Malaparte, pubblicato nel 1949, è sostanzialmente una dichiarazione d’amore alla bicicletta e ai suoi due campioni per antonomasia, Coppi e Bartali messi a confronto non solo per le doti tecniche, quanto soprattutto per le loro caratteristiche umane.
Il libro si apre con alcune considerazioni generali, a metà tra il filosofico e il poetico, sulla natura del miracolo a due ruote, “che appartiene a pieno titolo al patrimonio artistico nazionale”, benché sia stato inventato da un inglese. “Ci chiediamo come possa stare in piedi ed ecco che lei prende il volo, in equilibrio su un invisibile filo d’acciaio, come un acrobata sulla sua fune. In silenzio trafigge lo spazio, in silenzio penetra nel tempo. Senza un briciolo di pudore, viola tutti i misteri del paesaggio, dell’orizzonte, della natura”

Curzio Malaparte racconta poi in che modo sia nata la sua passione per il ciclismo, già dall’infanzia assistendo alle prodezze di Gerbi, e poi riscoprendo la sua vecchia bicicletta di ritorno dal fronte: “trovammo ad accoglierci in anticamera un timido bagliore di acciaio arrugginito, simile al lampo di felicità e di pudore che fa arrossire il volto di una ragazza”.

Ecco quindi l’esaltazione e l’acuta disamina dei due eroi del pedale: Gino Bartali, toscano, classe 1914, e Fausto Coppi, piemontese, classe 1919. Curzio Malaparte non descrive se non marginalmente le loro gare e la loro perenne rivalità, ma approfondisce con arguzia i due diversi caratteri, i differenti modi di vivere la propria italianità negli stessi anni. Bartali fervente e pio cattolico, Coppi “voltairiano inconsapevole”, Bartali contadino e Coppi operaio, l’uno ispirato e l’altro scettico, il primo umano e antico, il secondo moderno e tecnico. Pur parteggiando visceralmente per il suo sanguigno conterraneo, Malaparte intuisce nello smilzo e disincantato piemontese la sofferenza dovuta a un sentimento di profonda solitudine, aggravata forse non solo dall’indole malinconica ma anche da dolorose vicende private.

 

© Riproduzione riservata      «sololibri», 15 settembre 2016

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MALEGUE

JOSEPH MALÈGUE, NOEMI – CASTELVECCHI, ROMA 2016

Lo scrittore cattolico francese Joseph Malègue (1876-1940) scrisse nel 1939 questo smilzo libriccino per celebrare la vita inconsapevolmente (e quindi tanto più meritatamente) santa di una giovane donna sua contemporanea, Mademoiselle Noemi L.
L’editore romano Castelvecchi pubblica questo che potremmo definire martirologio con il titolo Noemi. Una ordinaria santità, mentre l’ originale suonava Celle que la grotte n’a pas guérie.
Si tratta della narrazione, lirica e garbata, dell’infelice esistenza di una ragazza, Noemi appunto, figlia di una laboriosa e tenace sarta, che lavorava come modista in un grande magazzino. «Fine, delicata, un po’ segreta… aveva una cert’aria calma», non si curava dei numerosi pretendenti, accontentandosi della sua quotidianità banale e riservata, e godendo dell’amicizia fedele di una sua vicina, Jeannette. «Un giorno successe che M.elle Noemi cadde ammalata». Con queste scarne parole Malègue ci rende partecipi del destino tragico della ragazza, condannata da un male devastante e progressivo a vivere rattrappita e immobile nel suo letto, in un «disperato sprofondamento di quello che lei chiamava ‘il suo buio’».

Visitata da colleghe e dame farisaicamente caritatevoli, da sacerdoti imbarazzati e distratti, Noemi si rassegna presto al suo lento spegnersi senza ribellarsi. Alla morte improvvisa della sua mamma, l’amica Jeannette le promette un’assistenza ancora più assidua e attenta.
Un vecchio parroco le fa leggere un versetto dell’Imitazione di Cristo: «Se volete che io sia nella luce, siate benedetto; se volete che io sia nelle tenebre, siate ugualmente benedetto». Illuminata da queste parole, Noemi comprende che le si chiede semplicemente «di vivere nel presente, di accettare di non conoscere come sarebbe finita l’ora, di consentire che la paternità di Dio, che non rivelava il suo mistero, la dispensasse dal prevedere per conto proprio e prevedesse invece lei al suo posto».

Convinta a recarsi a Lourdes con la speranza di una miracolosa guarigione, proprio lì Noemi si spegne, ma dopo aver compreso, come in un’improvvisa illuminazione, che in qualche modo a lei – come a tutti – era stata offerta un’occasione personale, a misura della sua anima: «Sapeva di non avere neppure bisogno di recitare da sola delle preghiere vocali, che tutto pregava attorno a lei, in lei, per lei, che lo stesso suo riposo era una preghiera, che doveva soltanto aggiungere il suo piccolo respiro di malata all’enorme respiro delle preghiere».

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/Noemi-ordinaria-santita-Malegue.html       28 maggio 2016

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MALERBA

LUIGI MALERBA, PROFILI – ARCHINTO, MILANO 2012

Lo spirito caustico e anticonvenzionale di Luigi Malerba ben si esprime in questo piccolo e originalissimo volume edito da Archinto: “Profili”, una raccolta di schizzi, disegni, sagome vuote tracciate col pennarello intorno agli oggetti che occupano la scrivania o sono sparsi ovunque intorno. E questi profili di cose, abbozzati da uno scrittore che non sa disegnare, vengono riempiti di citazioni, aforismi, calembour, facezie, meditazioni fulminanti-risentite-ironiche-moraleggianti. Da un autore che ha sempre giocato argutamente e sapientemente con il linguaggio, a partire dalla sua iniziale adesione alla neoavanguardia del Gruppo 63, era ovvio aspettarsi questa straordinaria e pungente capacità di sintesi. Non altrettanto scontata la sua lieve, non pedantesca, signorile quasi, propensione ad esprimersi con l’amaro sarcasmo di chi sa di non avere altre armi di ribellione e indignazione che il sorriso a denti stretti. Ecco dunque il profilo di un telefonino Nokia al cui interno Malerba scrive poche frasi che spaziano dalla riflessione filosofica sul cosmo all’allarmata arguzia sulla nostra sempre minacciata privacy: ” Quante parole sono passate da questo cellulare: dove sono finite? Portate via dal vento come la nostra vita mortale? O intercettate?” E ancora, in solidarietà col mondo animale: “Tagliacarte di corno di bue, povero bue”. O con leggero scherno nei riguardi delle pretenziose mode psicanalitiche: “Nastro adesivo Boston bianco opaco privo di qualsiasi relazione con l’inconscio”. E nel profilo di una inutilizzabile chiave: “Dove vogliamo entrare?”. Oppure riferendosi all’imperturbabile indifferenza degli oggetti: “Calzascarpe accomodante. Non domanda mai alle scarpe se andranno a un comizio o a una messa, a una riunione di condominio o a un incontro adulterino”. Acuto e spiritoso, intelligente e mordace: un divertissement in perfetto stile malerbiano.

IBS, 14 dicembre 2012

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MALETI

GABRIELLA MALETI, PRIMA O POI – GAZEBO, FIRENZE 2014

Gabriella Maleti, scrittrice e fotografa da molti anni residente a Firenze, e fondatrice con Mariella Bettarini delle Edizioni Gazebo, nonché redattrice della rivista  L’area di Broca, delinea in questo libro di versi non solo il suo percorso di vita, ma anche tutta la sua personale filosofia, il suo partecipe e solidale sguardo sull’avventura che ogni uomo è chiamato a condividere con il mondo, a partire dalla nascita. Come ben evidenzia nella sua prefazione Mirco Ducceschi, il suo è «Un resoconto poetico che dalla sintesi e dalla presa d’atto del proprio vissuto sa farsi declinazione e variante, sfaccettatura di una negatività che non è bilancio di anni vissuti o a venire ma instabile bilancia dell’esistenza…». Il volume è suddiviso in tre sezioni, di cui dà testimonianza riassuntiva il titolo: c’è un Prima, un Poi, e un conclusivo O. Nel suo Prima, Gabriella ci offre uno spaccato dell’infanzia trascorsa nella pianura modenese: «Sì, tutto è mio e rimane: i pomeriggi sul Panaro, / il viso nell’erba, la solitudine accesa, / i diverbi candidi con gli insetti. / E poi le ragnatele del cesso nella campagna, / le notti come falci e le falci lunari»

Non solo la maledizione della povertà rurale, in cui «Dio taceva. / Solo Cristo si faceva vedere», ma anche l’infelicità più privata che derivava dall’essere nata nell’ «incauta verosimiglianza / di una famiglia, di un’unità rappezzata con saliva», da «incomprensibili genitori», non desiderata e cercata, «poiché vita nasce anche senza volontà di vita». Eppure il ritratto delle sofferenze materne, e della rudezza insensibile «di un uomo, / per caso padre», si tinge con il passare degli anni di un sentimento liberato da ogni rancore, e invece pietoso, clemente: allora versi commoventi vengono dedicati alla morte estranea e lontana di entrambi i genitori, quando la figlia tenta di riavvicinarli in extremis infilando nel taschino del padre, vestito a festa nella bara, una foto della mamma. A questo doloroso e faticoso Prima giovanile, segue un Poi della maturità, vissuta tra Milano e Firenze, con l’affascinante scoperta di un mondo nuovo, ricco di cultura e di incontri vitalizzanti, di una diversa e orgogliosa fisicità, non più costretta in stereotipati ruoli imposti dalla cultura dominante. «Anni di gran bel toscano», in cui l’autrice impara ad amarsi e ad amare, a ribellarsi, a vincere complessi e sensi di colpa («Io non so cosa dovrebbe in me tacere / e cosa parlare»), rifiutando «esecuzioni sommarie, paure», e imparando ad accettare ogni giornata nella sua stupefacente unicità: «Giro nel piccolo cortile, / raccatto foglie, campi, / è il meglio della mia vita». Infine, l’ultima sezione del volume, dedicata a un disgiuntivo O, si radica nelle riflessioni più emotive e approfondite, scandaglianti il mistero del vivere e del morire, del perché di ogni inizio e di ogni fine, nell’esperienza personale e storica, sociale e cosmica. Gabriella Maleti passa quindi dalla tranquilla accettazione del nostro essere transeunti, precari e forse inessenziali nel destino universale («chiusi nella teca/ che ci è data ,/ e non scelta», «Imbroglio. E’ questo il senso, la conclusione.», «Chi sei? Un esempio inconcluso», «ciò che in me viveva non era che / una scarsa prova delle tante»), al rimpianto di non aver saputo godere pienamente di ogni attimo dell’esistenza, insieme alla nostalgia per i momenti belli vissuti, soprattutto a contatto con la natura: fino alla consapevolezza quasi religiosa della propria insostituibile peculiarità («Ma ‘qualcosa’ ci ha definito, sospinto. / No, non penso a me come solo polvere. // E se anche fosse, quello che serve, / ora, qui, / per arrivare decentemente alla polvere / è non credere alla sola polvere.”). Per cui l’invito, la preghiera incessante da rivolgere a tutto e a tutti, diventa quasi un cantico di fraterna letizia francescana: “dite anima, piano, / segnatela a dito: / potenza che non si scrosta, / non perisce, / chiamate anima, / chiamatevi».

«Leggendaria» n.110, marzo 2015

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MALVALDI

MARCO MALVALDI, IL CASTELLO DALLE MILLE BOTOLE – SELLERIO, PALERMO 2020 (ebook)

Marco Malvaldi (Pisa, 1974), chimico e giallista di successo, ha pensato – nel suo ultimo ebook pubblicato da Sellerio, Il castello dalle mille botole – ai bambini, in un periodo difficile in cui a loro si sta pensando poco, e si ipotizza di incapsularli in scatole di plastica trasparente, o di imbavagliarli perché imparino a non ridere e a parlare di meno, senza avvicinarsi ai loro amichetti, senza dare più baci e fare carezze. Quindi, nel futuro crudele e sterilizzato che il mondo adulto sta allestendo per i suoi figli più piccoli e del tutto innocenti, forse è giusto raccontare loro una favola. Una Favola per fare restare svegli i bambini, come recita il sottotitolo della storia inventata da Malvaldi. In cui c’è un signore molto ricco che avrebbe voluto starsene tranquillo nel suo grande castello, ma veniva invece continuamente importunato dagli abitanti del paese che gli chiedevano favori, raccomandazioni, regali, consigli. Ragion per cui aveva pensato di far costruire nella sua splendida dimora molte trappole: “trappole che schiacciavano, trappole che segavano, trappole che mordevano e altre ancora, tutte nascoste da delle botole, per renderle invisibili a chiunque avesse osato inoltrarsi nei suoi corridoi”, in modo da evitare che indiscreti questuanti lo disturbassero mentre guardava tutto solo e pacifico le trasmissioni di Maria De Filippi alla televisione.

Ma dopo alquanto tempo, al signore egoista e annoiato era venuto il ghiribizzo di uscire dalla sua magione per fare una passeggiata. Come fare, però, a evitare tutte le mille botole che l’avrebbero senz’altro inghiottito? Preparò un bando offrendo una lauta ricompensa ai coraggiosi paesani che si fossero prestati alla temeraria impresa di liberarlo dalle sue stesse trappole. Si presentarono dieci intrepidi, decisi a mettersi alla prova nella perigliosa avventura. Ma uno alla volta finirono per cadere in spietati tranelli: schiacciati dal ponte levatoio, fatti a pezzi da un coltellino svizzero, precipitati da scale marce, avvelenati da vino adulterato, rosolati da fili elettrici, dilaniati da dinamite, sbranati da uno squalo bianco, tagliuzzati da cocci di bottiglia.

Dei dieci prodi era rimasto vivo e integro solo il più eroico e intelligente, Guidobaldo Maria Guardalà Che Cosce, che giunto nella “stanza più alta della torre più lontana dell’angolo più remoto del castello” alla presenza del signore altezzoso, si era rivelato essere suo figlio, un tempo diseredato e allontanato dalla casa paterna. Al rifiuto del figliolo Guidobaldo di soccorrere il padre, seguì quello di tutti gli abitanti del paese, che decisero di non salvare il signore solitario e misantropo (ben gli sta se preferisce la solitudine alla compagnia del prossimo!).

E con questa favoletta consolatoria di un ebook a costo zero, Marco Malvaldi si congeda dai piccoli lettori, invitandoli a fare una donazione al reparto di terapia intensiva di Livorno. Che speriamo abbiano già fatto in molti, volontariamente e generosamente.

 

© Riproduzione riservata                     12 giugno 2020

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MANCINELLI

FRANCA MANCINELLI, MALA KRUNA – MANNI, LECCE 2007

Mala kruna significa “piccola corona di spine”, ed è un titolo che ben esprime il dolore sottile e penetrante che pervade ogni pagina del primo volume di poesie della poetessa marchigiana Franca Mancinelli (1981), edito da Manni nel 2007. Sia i due versi danteschi che fungono da esergo, sia la composizione iniziale, con il suo mare tormentoso, il vento, l’isola, la madre nera vaticinante e «un cattivo tempo che non faceva / partire le barche», introducono al sentimento di rassegnata e consapevole tristezza che costituisce la nota dominante, il basso continuo del libro. I versi «essenziali, incisivi, affilati» ribadiscono con ostinata asciuttezza il senso di perdita e di abbandono che l’autrice patisce sulla propria pelle dall’infanzia: «anni che perdono parole / dalle mie dita aperte», «come dondola il mondo e le cose / di nuovo tremano, anch’io / sarò nel buio», bambina segnata forse da una separazione o da una lontananza, o semplicemente da quel di più di sensibilità che le permetterà, diventata adulta, di trovare una sua ricomposta consolazione proprio nella poesia. La ferita patita nei primi, decisivi, anni di formazione rimarrà comunque a lungo nel rapporto con la natura, con gli amori, con se stessa. Il paesaggio marino viene fissato negativamente («sale solidificato», «gusci morti», «schianto sullo scoglio»). Il sentimento amoroso vive in una sostanziale estraneità e incomunicabilità dei corpi («vieni negli anni muti, mani premute / sulle labbra, il corpo perso», «quale piaga insieme siamo / distanti // solo arsa saliva pesto petto», «insieme / staremmo come due cucchiai riposti / asciutti nel cassetto», «in una piazza ci sfioriamo / le lingue come gambi senza fiore»). Ma è soprattutto la visione di un sé mai riappacificato che rivela la cicatrice lasciata dalla «mala kruna», resa con indubbia icasticità e pregnanza da questi versi, impietosi, ripiegati sul proprio patire: «sono seduta in briciole», «chiudo le arterie e torno / monca alla vita», «mentre mi scucio e frano»», «sono / creta sul letto di un fiume di passi». Recentemente, versi inediti di Franca Mancinelli, tratti dalla raccolta «Pasta madre», sono stati pubblicati nell’antologia Einaudi Nuovi Poeti Italiani, 6. La più giovane delle poetesse qui proposte, riconferma la sua voce consapevolmente sicura e decisa, un’originalità di timbro poetico che ne fa certamente un nome di rilevanza nazionale nel panorama della nuova poesia. In questa sua ultima prova editoriale, i versi si impongono al lettore asciutti e concreti, e sempre animati da uno sguardo inclemente sul mondo e chi lo abita: esseri umani, animali, vegetazione (e pensieri, e sentimenti). Rami e foglie, frutti e semi, alghe e fieno, uccelli e bisce, insetti e gatti diventano sangue e pelle umani, si trasformano in una metamorfosi continua che cerca redenzione e salvezza in qualcosa d’altro, in uno scambio perpetuo e ciclico di vita: «lasci la pelle sul lenzuolo / come una biscia al cambio di stagione», «Dovrai seppellirti / tornare calda radice», «bocca che passa calore / all’aria come potesse svegliarsi / essere ancora salvata», «ti corrompi come cibo», «sugli occhi rinserrati le formiche / al posto delle ciglia». Una poesia impastata di fisicità, calda di una matrice assolutamente femminile e materna, ma anche in grado di tagliare con secca precisione qualsiasi cordone ombelicale. Difficile, infatti, trovarle degli antecedenti, dei richiami a collaudate tradizioni novecentesche. Non ci sono concessioni facili a rime o assonanze, nessun gioco di prestigio linguistico, calembours, pastiches, sperimentalismi vacui. Ogni verso sembra calato nell’obbediente fedeltà a un pensiero, quasi con etica severità. Così anche quando viene rispettata rigorosamente la metrica (due settenari e un endecasillabo), il lettore non si trova remunerato da alcuna musicale consolazione formale, perché il significato, il messaggio suggerito sovrasta con la sua asseverativa durezza la delicatezza del segno: «qualcosa in noi respira / soltanto nel trasloco: / gioia per ogni terra cancellata». Un’autrice, Franca Mancinelli, che è ormai più che una promessa, e di cui è bello riportare qui, a conclusione di questo limitato ritratto critico, la splendida poesia iniziale della raccolta, perfettamente calibrata nello stile e nel contenuto: «Cucchiaio nel sonno, il corpo raccoglie la notte. Si alzano sciami sepolti nel petto, stendono ali. Quanti animali migrano in noi passandoci il cuore, sostando nella piega dell’anca, tra i rami delle costole; quanti vorrebbero non essere noi, non restare impigliati tra i nostri contorni di umani».

 

«Fermenti» n. 239, gennaio 2013

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MANCUSO

VITO MANCUSO, IL CORAGGIO E LA PAURA – GARZANTI, MILANO 2020

L’epigrafe che Vito Mancuso ha scelto di apporre in apertura del suo ultimo libro, Il coraggio e la paura, è una delle più famose e citate frasi di Giovanni Falcone: “L’importante non è stabilire se uno ha paura o meno, è saper convivere con la propria paura e non farsi condizionare dalla stessa. Ecco, il coraggio è questo, altrimenti non è più coraggio, è incoscienza”.

Accettando l’invito dell’editore a rielaborare alcuni suoi interventi giornalistici relativi all’attuale pandemia del Covid, Mancuso si è proposto di contribuire ad alleviare il senso di timore, esclusione, impotenza che ha pervaso e condizionato pensieri e comportamenti della maggior parte delle persone in questa terribile contingenza, offrendo loro sollievo e consolazione.

Come fare, quindi, a sfuggire dal sentimento alienante che blocca il respiro e azzera le prospettive del futuro, come reimparare a sorridere, a schiarire mente e sguardo? “Facendo tesoro della saggezza esistenziale e spirituale distillata lungo i secoli da chi ci ha preceduto”: dai filosofi classici, dai maestri cristiani e orientali della spiritualità. In primo luogo è necessario sfatare il pregiudizio che la paura sia sempre qualcosa di negativo, e il coraggio sia solo una qualità positiva. Senza paura si scade nella temerarietà, nella sconsideratezza, nella sottovalutazione del pericolo, e con un’esibizione eccessiva del coraggio si rischia la vanteria, il narcisismo, l’aggressività.

La paura non si vince con il coraggio, cioè con un atto di forza, ma con la saggezza, “bisogna
piuttosto scioglierla con la luce dell’intelligenza unita al calore del cuore”. Ascoltando le motivazioni della paura, siamo in grado di comprenderla e di vincerla. Per disarmarla, e raggiungere la padronanza di sé, secondo Mancuso è necessario frequentare le “cose buone” dell’esistenza: buone letture, buona musica, buone amicizie, e il contatto sano e partecipe con la natura, che aiuta a ingentilirci, rendendoci meno supponenti e più affettuosi. Prendersi cura della propria interiorità, lasciando spazio alla meditazione, alla contemplazione, al silenzio, riduce l’ansia prodotta dall’attivismo sfrenato, dalla corsa al successo.

Tante sono le emozioni che animano l’essere umano, alcune frenandolo, inibendolo, altre espandendone e arricchendone la coscienza sia individualmente sia socialmente: rabbia, tristezza, felicità, disgusto, sorpresa, compassione, imbarazzo, vergogna, senso di colpa, disprezzo, gelosia, invidia, orgoglio, ammirazione. Altrettanti sono i sinonimi della paura, gli aggettivi e i verbi associati ad essa, le gradazioni in cui si manifesta (dal presentimento e dal sospetto, fino al panico e al terrore), i modi in cui le reagiamo (scappando, immobilizzandoci, opponendoci), a significare quanto questo sentimento sia universale, innato, costitutivo di ogni essere vivente.

È l’amigdala il centro di rilevazione e di controllo delle nostre emozioni, che le rielabora in base alle informazioni ricevute dagli ormoni del cortisolo e dell’adrenalina. Ma non agiamo condizionati solo dai nostri neurotrasmettitori, né possiamo ridurre la nostra psiche a combinazioni biochimiche, plasmati come siamo da una cultura millenaria.

Le argomentazioni di Vito Mancuso diventano via via più coinvolgenti, man mano che si inoltrano nei campi che gli sono più consoni, e ne hanno fatto uno dei filosofi e teologi più seguiti oggi in Italia. Le sue citazioni abbracciano la letteratura e il pensiero di ogni epoca e luogo, e spaziano da Omero a Montale, da Kierkegaard a Wittgenstein, includendo ovviamente i testi sacri ebraico-cristiani e orientali, che nelle loro esortazioni suggeriscono diversi atteggiamenti nei confronti della paura: dall’affrontarla, al bandirla, all’ignorarla, a semplicemente ascoltarla, prendendo atto che esiste in noi e dobbiamo farne uno strumento di conoscenza interiore e di crescita spirituale.

Dopo essersi a lungo diffuso sull’accezione di paura, l’autore riflette nella seconda parte del libro sul concetto di coraggio, inteso come atto di forza morale, fondato sulla fiducia, sulla speranza e sull’ottimismo operativo. Mancuso analizza l’etimologia del termine, che deriva da cor, cuore, lì dove hanno sede i sentimenti più nobili. In latino veniva chiamato virtus, in greco andréia, ed entrambi i vocaboli, nel mondo antico, avevano una strettissima connessione con la forza esercitata nel combattimento, nelle imprese di guerra affrontate valorosamente.

Da cosa possiamo e dobbiamo trarre coraggio? Dall’istinto di sopravvivenza, dall’amore per i nostri cari, dal desiderio di riconoscimento sociale e di gloria, dal senso del dovere, dalla fede, dal bisogno, da un’ideologia e addirittura dalla volontà di vincere un nemico. Sono molte le motivazioni che ci spingono all’audacia e alla forza di carattere. Essenziale è avere una meta da raggiungere e un porto in cui rifugiarsi per trovare conforto. Se quindi vogliamo tentare di definire cosa sia il coraggio, possiamo qualificarlo come capacità di sconfiggere la paura di esistere: forse la prima che proviamo venendo al mondo, e contro cui combattiamo quotidianamente. Per stemperarla e renderla inoffensiva, Vito Mancuso suggerisce una risposta, valida per chiunque voglia crederci e praticarla: la benevolenza verso sé stessi e gli altri, l’importanza di mantenersi saggi, giusti e temperanti, nel “qui e ora” di ogni giorno. Anche nell’oggi della crudele pandemia che il mondo sta attraversando.

 

© Riproduzione riservata                    25 giugno 2020

https://www.sololibri.net/Il-coraggio-e-la-paura-Mancuso.html

 

 

 

RECENSIONI

MANCUSO

STEFANO MANCUSO, LA TRIBU’ DEGLI ALBERI – EINAUDI, TORINO 2022

Stefano Mancuso (Catanzaro 1965), scienziato di fama internazionale, insegna Arboricoltura generale e coltivazioni arboree all’Università di Firenze.
Nel 2005 ha fondato il Laboratorio internazionale di neurobiologia vegetale, destinato agli studi sul comportamento delle piante e sulla loro vita sociale, determinata da una funzione neuronale, anche se questi attributi sono molto diversi da quelli osservati nel mondo animale. Autore di numerosi volumi di divulgazione scientifica, per la prima volta Mancuso si è cimentato nella narrativa di invenzione pubblicando con Einaudi nel 2022 il romanzo fantastico La tribù degli alberi, una sorta di apologo in cui il lettore vede un bosco animarsi e rivestire caratteri, abitudini e pensieri umani. I riferimenti culturali di questa favola sono da ricercarsi nel mondo favoloso di Tolkien, in qualche similitudine con le storie di Harry Potter, nella devozione all’universo vegetale di Jean Giono e in una similarità affettiva con il nostro letterato più ecologista, l’Homo Radix Tiziano Fratus.

La comunità arborea di cui narra Stefano Mancuso ha sede nel regno di Endrevia, abitato da tribù di piante di età e caratteristiche fisiche diverse, legate da sentimenti di solidarietà e generosa amicizia, ma tra cui a volte serpeggia qualche rivalità, pettegolezzo, invidia, proprio come succede tra gli esseri umani. Vivono vicini gli uni agli altri alberi millenari e giovani virgulti, dal fogliame caduco o foltissimo, giganteschi e nani, ciarlieri e scontrosi. Si dividono in cinque tribù, ciascuna delle quali ha indoli e inclinazioni specifiche: ci sono i creativi Terranegra, affascinanti nella loro originale disposizione artistica. Di altro stampo sono i Cronaca, più razionali nella loro funzione di storici, archivisti e reporter informati su tutto ciò che accade nel bosco. I Dorsoduro sono scienziati, i Gurra temibili nella loro silenziosa imponenza, i Guizza specializzati in astronomia e statistica.

Voce narrante è il vecchio Laurin, che vive in una splendida radura chiamata Pian di Mezzo, al limitare dei due territori abitati dai due clan più forti, quelli di Terranegra e di Cronaca. Sin da giovane Laurin è stato conteso dai due gruppi, sbilanciati nel numero dei membri: lui stesso, indeciso su quale famiglia scegliere, viene poi convinto ad aderire ai Cronaca, e il suo battesimo iniziatico è celebrato con una grandiosa festa cui partecipano tutti gli abitanti di Endrevia, cantando, ballando e ubriacandosi di alois, una bevanda inebriante.
Laurin, con i suoi amici più fidati Lisetta e Pino, viene incaricato di scoprire quale sia il motivo dello squilibrio numerico che minaccia l’ordine e l’equilibrio tra le varie tribù. Parte quindi per un lungo viaggio alla ricerca di documenti segreti conservati in una biblioteca-labirinto sotterranea, in cui sono immagazzinati tutti i dati e le informazioni secolari che riguardano il passato della confraternita. Durante il viaggio i tre alberi, sradicati con sofferenza dal proprio terreno originario, si imbattono in situazioni e soggetti diversi, a volte minacciosi (perché “in ogni gruppo c’è sempre qualcuno che traligna”), più spesso divertenti, che l’autore tratteggia con bonaria ironia, rapportandoli ad atteggiamenti umani: conformismo, vittimismo, spavalderia, ostentazione nella moda, nella cultura, attraverso divertenti parodie carnevalesche dei Gay Pride, delle tribune politiche, dei festival letterari.
I tre investigatori vegetali, nelle loro indagini librarie sulle statistiche e sui dati rimasti sepolti per millenni nella biblioteca-labirinto, scoprono che negli ultimi due secoli il clima di Endrevia si era trasformato, provocando sconvolgimenti climatici con estrema frequenza: periodi di prolungata siccità e aumento abnorme delle temperature alternati a improvvise alluvioni, uragani, venti tempestosi; nuove specie animali e miriadi di microrganismi, originari di luoghi lontani, proliferati a dismisura; parassiti e malattie aumentate in modo esponenziale; molte specie anmali migrate in massa per cercare regioni più adatte alla sopravvivenza. Tutti questi disastrosi cambiamenti avevano provocato enormi squilibri nella consistenza numerica dei cinque diversi clan di Endrevia, ignorati da chi doveva occuparsene scientificamente.
Forti di questa nuova consapevolezza, i tre amici alberi affrontano la via del ritorno, venendo subito investiti dalla terribile notizia di una nuova catastrofe. Un enorme incendio aveva distrutto intere distese della radura, provocando molte vittime tra i loro compagni. Solo un riequilibrio idrologico poteva restituire alla comunità il suo verdeggiante benessere, garantendone l’evoluzione e la differenziazione in varie specie. Per ovviare al disastro bisognava procedere velocemente a una intensificazione della popolazione arborea, in grado di assorbire i gas inquinanti accumulatisi nell’atmosfera. Sotto le parvenze dell’apologo, l’autore suggerisce una proposta che da anni porta avanti nelle opportune sedi politiche e scientifiche: piantare mille miliardi di alberi entro il 2030 per salvare il pianeta, riparando la grave colpa confessata da uno dei protagonisti del libro: “Abbiamo preferito non vedere”.

Una favola per adulti e ragazzi, questa scritta da Stefano Mancuso (in cui non mancano riferimenti dotti, come quello al film Il raggio verde di Rohmer, e alle biblioteche di Borges e di Eco), che come ogni favola ha una sua sottesa morale.
Insegna a valutare l’importanza della lealtà nell’amicizia e della solidarietà con i meno fortunati, la gratitudine verso i benefattori, il rispetto per l’ambiente, l’ammirata osservazione delle bellezze naturali.
Non sarebbe nuociuto al racconto una minore dispersione di temi, e una maggiore concisione narrativa, come si conviene a tutte le favole che ci hanno aiutato a crescere, fornendoci materiale per i nostri sogni.

© Riproduzione riservata    SoloLibri.net                18 gennaio 2024