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RECENSIONI

LODOLI

MARCO LODOLI, ZOE. CANZONIERE PER UNA BARBONCINA –  MARSILIO, VENEZIA 2010

Marco Lodoli dedica alla sua barboncina dal pelo bianco, Zoe, vissuta con lui per dieci anni, 41 poesie composte quasi tutte da 14 versi brevi, ingentiliti da rime sparse, e da una musicalità diffusa, intenerita, commossa. La vita della cagnolina viene descritta nei suoi snodi fondamentali, dai primi giorni dopo la nascita (“Ma Zoe è pura vita / e non sa fare niente”), quando ancora non sa uscire dalla sua cesta di vimini, alle corse nel parco, alle passeggiate urbane, ai giochi inventati. Una sua “vita minima”, in cui essenziale può essere il premio di un biscotto, o “l’orsetto giallo / sottratto al cassonetto”, “il fiocco rosa” con cui adornare le sue grazie, o un’improvvisa gravidanza isterica: ma soprattutto e necessariamente il rapporto con l’amato padrone – che basta e avanza alla sua scarsa sete di avventura e di ignoto – per le cui assenze soffre, e di cui sa riempire le giornate con affetto devoto. Quando Lodoli scrive, lei gli si siede sulle gambe e sogna, indifferente all’attività intellettuale di lui: così come sembra quasi infastidita dalla frequentazione dei suoi amici colti, “a inutili parole / d’intelligenza e anche / di cattiveria…/ E quando dico andiamo / salti di contentezza”. Ma sa intuire, con una sensibilità del tutto femminile, le malinconie di lui: “muove / un poco la codina / perché è una donna e soffre, / ma mi vuole consolare”.  L’esistenza di Zoe è puramente fisica, elementare, biologica: “Zoe quando è allegra corre / e se sta male piange”; felicemente, naturalmente animale. Per cui quando si ammala (“Ha un brutto male, Zoe, / lo stesso per cui è morta / mia madre”), non capisce: “non sa che i giorni stanno / per perdersi nel vuoto”.  Ma è il suo padrone che soffre più di lei, la segue nell’agonia e perde interesse per tutto (“non m’importa più niente / della parole accese / che incendiano la carta”): patisce lo strazio di un addio che sa definitivo, immedicabile. Con la certezza di poterla recuperare solo nei versi di un breve canzoniere riconoscente: “In sogno cerco Zoe /e lei mi guarda, è sola”.

IBS, 30 novembre 2010

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LOEWENTHAL

ELENA LOEWENTHAL, DIECI – EINAUDI, TORINO 2019

Dieci sono i comandamenti che Jahvè detta a Mosè sul Sinai, e dieci sono i capitoli che Elena Loewenthal dedica al loro commento nel suo ultimo saggio, intitolato appunto Dieci. Elena Loewenthal (Torino, 1960) insegna Cultura Ebraica allo Iuss di Pavia e all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano, collabora a “La Stampa”, e ha pubblicato numerosi volumi e studi sulla tradizione religiosa, culturale e letteraria di Israele. Le citazioni bibliche e talmudiche presenti in questo piccolo libro einaudiano sono state da lei tradotte con una particolare adesione morfologica e sintattica al testo originale: da ciò è derivata una lettura capace di prendere coraggiosamente le distanze dall’esegesi più tradizionale.

Il primo capitolo si apre sottolineando le due differenti versioni di Genesi sulla creazione (“Nella sua breve essenzialità, è stata fonte inesauribile di ispirazione, interpretazioni e travisamenti”), per analizzare poi più approfonditamente il dialogo tra Dio e Adamo nel giardino dell’Eden, fatto di richiami e nascondimenti, di delusioni e timori (l’uno in cerca della sua creatura, l’altro che rispondendogli pronuncia per la prima volta il pronome personale “io”). Un dialogo tra il Signore e l’uomo che si ripropone nel corso di tutto il Pentateuco: spesso impositivo, conflittuale, intessuto di silenzi. Jahvè è qol, voce che parla e propone una comunicazione: Adamo, Abramo, Giacobbe, Mosè ascoltano. Impauriti, dubbiosi, confidenti o recalcitranti. “Ascolta, Israele” (“Shemà, Israel”, Dt 6, 4-5: “Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore”) è una preghiera tuttora pronunciata dagli ebrei due volte al giorno. Dopo aver ascoltato, questi uomini biblici rispondono, attuando una dinamica di confronto e di ricerca reciproca fatta di parole udite e scambiate, di obbedienza e disobbedienza, di rispetto e di ira: ovvero, di libertà.

Sulla consegna delle tavole a Mosè (“il momento centrale di tutta la Bibbia ebraica”, “scena di grande mobilità, carica di forza narrativa”), Elena Loewenthal si sofferma enucleando alcune incongruenze, e molti interrogativi. Per due volte i dieci comandamenti (devarim: cose, parole, pronunciamenti) vengono affidati al profeta, incisi su tavole di pietra. La prima redazione, distrutta da Mosè stesso in un impeto di rabbia, era stata scolpita su due lastre dalla mano di Jahvè: di essa non rimane alcuna traccia. Il testo delle seconde tavole, recuperate in una successiva salita sul Sinai, è riportato nella Bibbia due volte, con poche variazioni, in Esodo 20, 2-17 e Deuteronomio 5, 6-21: stesure simili ma non uguali. Due sono anche i toponimi della montagna in cui è avvenuta la rivelazione: Sinai e Choreb. “Tutta la rivelazione è all’insegna della doppiezza”, postilla l’autrice del commento. L’imperfezione della Torah, con le sue aporie, si adatta all’imperfezione dell’uomo, richiedendogli un intervento interpretativo. “Il mondo è, dunque, l’irruzione dell’imperfezione dentro la perfezione, il tutto che è Dio”.

Il testo della legge ‒ assolutamente normativo, poichè impone cosa fare e cosa non fare, come succede con altre raccolte di regole comportamentali e liturgiche negli ultimi tre libri del Pentateuco ‒ è solo consonantico: ad esso è stato aggiunto in epoca medievale il sistema vocalico, che lo ha reso più melodioso all’orecchio (ancora una volta, “Ascolta, Israele”). Elena Loewenthal ne sviscera i molteplici significati, rimarcando il peso che tutto l’ebraismo ha da sempre attribuito alla parola, scrigno del sapere e del potere, ponte che collega cielo e terra.  Così, se la Bibbia inizia con la seconda lettera dell’alfabeto, bet, i dieci comandamenti esordiscono con la prima, alef, che contrassegna il pronome “io”: “Io sono il signore Dio tuo”. Io, anokhí, pronome di persona singolare pronunciato per la prima volta da Adamo. “Qualcosa di profondo e cruciale lega i due passi, nella trasgressione e nell’obbedienza, dal giardino alla montagna, da una voce all’altra”.

E poi c’è il “tu”, poiché ogni comandamento è diretto a una seconda persona singolare (“Non farai”, “Non dirai” …), sempre maschile: soggetto e oggetto della comunicazione sono decisamente maschi, essendo la donna nominata fuggevolmente solo come proprietà o conquista. Il dialogo è comunque a due, un discorso diretto tra due individualità. Si tratta inoltre di imperativi negativi, di proibizione, che raffigurano un Dio possessivo, minaccioso, punitivo, addirittura geloso. Succube delle passioni come le sue creature (“Non avrai altri dèi al mio cospetto. Non alzare il nome del Signore Dio tuo invano”). Nel cuore del Decalogo stanno i due unici comandamenti positivi: “ricorda” e “osserva”. Poi tornano i divieti: cinque “non”, relativi al controllo delle azioni in un ambito più sociale e collettivo che personale.

Quindi, il silenzio. Jahvè ha parlato, si è pronunciato. Ma al Decalogo, suggerisce Elena Loewenthal, andrebbe aggiunto un undicesimo comandamento: “Non causare dolore”. Il silenzio sul dolore degli uomini e delle donne rende il messaggio di Dio imperfetto, non conchiuso, in attesa di un compimento “nella giustizia e nel bene”.

 

© Riproduzione riservata          https://www.sololibri.net/Dieci-Loewenthal.html      11 dicembre 2019

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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LOMBARDI VALLAURI

LUIGI LOMBARDI VALLAURI, NERA LUCE – LE LETTERE, FIRENZE 2001

Luigi Lombardi Vallauri (Roma, 1936), autore di numerosi saggi filosofico-giuridici, ha insegnato per vent’anni Filosofia del diritto all’Università Cattolica di Milano. Nel 1998 ne è stato allontanato, con un provvedimento del Cardinale Laghi, per aver espresso tesi ritenute non conciliabili con l’insegnamento cattolico. Nel 2009 la Corte Europea dei diritti dell’uomo si è pronunciata a suo favore, ritenendo che fossero stati lesi i suoi diritti alla libertà di espressione e a un equo processo. In Nera Luce, pubblicato nel 2001, sono raccolti i saggi “eretici” incriminati, che mettono in discussione alcuni dogmi della Chiesa, quali l’infallibilità del Papa, l’immacolata concezione, determinati sacramenti, e soprattutto l’esistenza dell’inferno, definito incompatibile non solo con la dichiarata clemenza di Dio, ma anche con le più elementari norme del diritto. L’indagine dell’autore si estende poi a considerare i concetti universali di Dio, anima e religione, sottoponendoli al severo e talvolta ironico vaglio della scienza e della filosofia, per approdare alla conclusione che l’unica risposta possibile per chi voglia interrogarsi sulle questioni fondamentali dell’essere è l’apofatismo, secondo cui Dio è del tutto inconoscibile attraverso la razionalità, perché trascende la realtà fisica e le capacità cognitive umane. L’approccio più adeguato al divino è, secondo Lombardi Vallauri, quello che prevede il silenzio, la contemplazione e l’adorazione del mistero, prescindendo da qualsivoglia processo di speculazione o indagine razionale dell’essere divino. Il volume si conclude tuttavia non con una negazione della validità della ricerca, bensì suggerendo una via di meditazione e contemplazione che arrivi ad essere anche liberazione della coscienza e solidarietà etica con ogni tipo di vita. Lombardi Vallauri ci ha dato con Nera luce un libro coraggioso, risultato di scelte vissute e pagate a caro prezzo: ma anche ricco di speranza e poesia, e capace di opporsi a ogni ottuso fondamentalismo e alla vacuità delle nuove religioni new-age. Oggi il Professor Lombardi Vallauri, convinto vegano, si occupa dei diritti degli animali, proponendo nelle ultime pubblicazioni un percorso laico di riflessione che riesca a coniugare il pensiero scientifico occidentale con le tecniche di meditazione della filosofia orientale.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/Nera-luce-Lombardi-Vallauri.html          19 settembre 2017

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LONDON

JACK LONDON, LO SCERIFFO DI KONA – LEONE, MILANO 2017

I racconti di scrittori stranieri pubblicati dall’editore milanese Leone riportano tutti la versione in lingua originale a fronte: cosa molto interessante per verificare personalmente lo stile dell’autore in questione, ma utile anche come esercizio linguistico. In questo caso particolare, poi, la semplicità della prosa americana di Jack London si presta efficacemente a una lettura comparata, doppiamente vantaggiosa. Lo sceriffo di Kona è una novella scritta da London nel: inizia in maniera quasi idilliaca, descrivendole bellezze naturali di una piccola isola hawaiana, e improvvisamente si drammatizza, narrando la tragedia vissuta dal suo sceriffo.

A Kona (alberi di banana, piante di lehua, boscaglia di guava, brezze dolcissime, mare imperturbato…) «ogni giorno è uguale all’altro e ogni giorno è un giorno di paradiso… Non è troppo caldo, né troppo freddo. C’è sempre, semplicemente, il clima perfetto». In questa terra felice approdano turisti e viaggiatori che non riescono più a staccarsene, proclamandola patria elettiva. Tra di loro Lyte Gregory, un americano gigantesco e forte, atletico e coraggioso, che «aveva cuore e anima grandi e belli come il suo corpo». Sposato con una donna magnifica, padre di tre figli, sempre fiducioso nei suoi mezzi e ottimista riguardo al futuro, al punto da saper piegare la sorte in suo vantaggio anche nei momenti di maggiore incertezza, era un campione nel nuoto, nel surf, nella pesca e nella caccia. Gli abitanti dell’isola, testimoni entusiasti della sua nobiltà d’animo e generosità, l’avevano voluto come sindaco. Eppure, su questo eroe positivo, si abbatte improvvisamente e inaspettatamente, una tragedia che lo porterà all’esilio e all’infelicità perpetua.

La maestria di Jack London sta tutta nel descrivere in pochissime pagine l’incredulità disperata di Lyte quando un indigeno gli rivela brutalmente qualcosa che tutti suoi amici più cari, e lo stesso medico di Kona, avevano già compreso: la lebbra che da tempo decimava la popolazione locale e contro cui lui doveva garantire la salute pubblica, isolando i malati, l’aveva colpito, iniziando a modificargli i tratti fisici. Il resto del racconto (Lyte che si consegna all’autorità sanitaria, il suo addio all’isola e alla famiglia, la deportazione in un lager per lebbrosi, la fortunosa e combattuta spedizione degli amici per trasferirlo in incognito in Cina) non riescono a raggiungere l’intensità drammatica dei momenti in cui ai piedi dell’uomo baciato dal destino si apre l’abisso della disperazione.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Lo-sceriffo-di-Kona-Jack-London.html     15 febbraio 2018

 

 

 

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LONDON

JACK LONDON, BÂTARD – FELTRINELLI, MILANO 2012 (e-book)

Il breve e magistrale racconto di Jack London che Feltrinelli ha pubblicato in e-book nel 2012, è tratto da Il richiamo della foresta. Narra la storia dell’odio feroce tra un uomo e il suo cane, del loro rapporto di morbosa dipendenza reciproca che finirà per sfociare in tragedia. Già l’avvio del testo prepara il lettore al clima di sfida che si instaura tra i due protagonisti, i quali sembrano scambiarsi a vicenda i caratteri umani e animaleschi: “Bâtard era un diavolo. La cosa era risaputa in tutte le Terre del Nord. Molti lo chiamavano Stirpe d’Inferno ma Black Leclère, il suo padrone, per lui scelse l’infame nome di Bâtard. Dunque, anche Black Leclère era un diavolo e i due erano bene assortiti”.

Bâtard era figlio di un lupo e di una cagna husky: da entrambi i genitori aveva ereditato l’indole aggressiva, brutale, selvaggia. Fosse stato adottato da un padrone normalmente civile, sarebbe forse cresciuto più docile, ma Black Leclère era lui pure una carogna, ed era riuscito a fare del suo cane, in cinque anni di scambievole guerra infernale, “una grossa bestia irsuta, raffinata canaglia straripante di odio, sinistra, maligna e diabolica”. I due si studiavano a vicenda, torturandosi in maniera differentemente atroce: l’uomo tormentava il cane affamandolo, picchiandolo brutalmente, straziandogli le orecchie con le note lamentose dell’armonica: la bestia ricambiava ribellandosi a ogni comando, aggredendo i compagni di muta, razziando il cibo ovunque potesse arrivare. Sembrava evidente a tutti coloro che li incontravano che i due si fossero promessi di eliminarsi a vicenda, e attendessero solo il momento propizio per farlo nel modo più doloroso possibile. Legati da un astio viscerale, più assoluto di qualsiasi amore, intuivano perfettamente la profondità del loro livore. Black Leclère “era un uomo che viveva all’aperto, oltre il rumore delle lingue, e aveva imparato a conoscere la voce del vento e della tempesta, il sospiro della notte, il mormorare dell’alba, il frastuono del giorno. Riusciva a sentire il crescere impercettibile della vegetazione, lo scorrere della linfa, il germoglio che si schiudeva. E poi conosceva la sottile conversazione delle cose che si muovevano, il coniglio in trappola, il corvo malinconico che batteva l’aria con l’ala muta, il grizzly che si trascinava sotto la luna, il lupo che scivolava tra il crepuscolo e il buio come un’ombra grigia. E a lui Bâtard parlava forte e chiaro”. Leclère animalesco, Bâtard squallidamente umano.

Una notte finalmente Bâtard colse il momento opportuno per attaccare il padrone mentre dormiva, saltandogli addosso e azzannandogli la gola. La lotta furiosa che ne seguì li lasciò entrambi gravemente feriti, il cane con le zampe posteriori spezzate, l’uomo con braccia e laringe lacerate. Trascorsero settimane a sorvegliarsi l’un l’altro nella convalescenza, rinviando la vendetta finale a un’occasione più favorevole. Che puntualmente arrivò, quando Black Leclère, accusato d’omicidio, in piedi sul patibolo con la corda al collo attendeva l’esecuzione. La morte non giunse, tuttavia, dagli uomini che l’avevano condannato. Straordinario Jack London, profondo conoscitore di foreste innevate, di slitte, di bestie, di anime.

 

© Riproduzione riservata       

https://www.sololibri.net/Batard-London.html              12 giugno 2018

 

 

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LONDON

JACK LONDON, LA PREROGATIVA DEL PRETE – ENSEMBLE, ROMA 2017

I due racconti che Ensemble riunisce in questo libriccino hanno entrambi il timbro della grande narrativa di Jack London, e ne ripercorrono i temi usuali: la lotta contro i rigori della natura, il mito dell’arricchimento, l’ostinazione testarda di alcuni personaggi, la miseria economica, l’invadenza dei rimorsi e dei sensi di colpa, la beffa di un destino crudele.

La prima novella, intitolata La prerogativa del prete, narra di una coppia maleassortita come ne esistono molte: un marito vanesio e infantile, egoista e untuoso, di nome Edwin Bentham, che aveva immeritatamente sposato una donna forte e generosa, Grazia, pronta a sacrificarsi per lui, pungolandone la scarsa ambizione affinché si facesse strada nella vita. A fine ottocento, i due sposi si erano uniti alla grande massa di cercatori d’oro del Klondike, lungo il fiume Yukon: lei lavorando pesantemente, lui pavoneggiandosi di fatiche e successi non suoi. Inaspettatamente, Grazia si invaghisce, ricambiata, di un altro uomo, e i due si propongono di fuggire, ricostruendosi un futuro insieme. Ma il missionario della zona, un gesuita pacato e severo, interviene proprio quando gli innamorati si incontrano da soli per la prima volta, ed esercitando le mansioni di guida spirituale, ricorda alla donna i suoi doveri di moglie, prospettandole anche le difficoltà cui sarebbe andata incontro in una futura vita da concubina, l’ostracismo della comunità, il dolore dei suoi genitori, la vergogna degli eventuali figli, il peccato di fronte a Dio. La donna, intimidita e perplessa, si lascia convincere dal religioso, e decide di tornare alla sua sacrificata esistenza di vittima accanto a Edwin. Sarà tuttavia il gesuita a confessare a un amico di sentirsi in colpa: “Sapevo che sarebbe stata infelice, eppure l’ho fatta tornare dal marito”.

Il secondo racconto, Le mille dozzine di uova, appare al lettore ancora più tipicamente londoniano del primo, sia nel ritratto magistralmente disegnato del protagonista, sia nel tragico rincorrersi di avvenimenti negativi verso la temuta ma prevedibile conclusione. “David Rasmunsen era un uomo d’azione e, come molti più grandi di lui, un uomo d’una sola idea”. L’idea ossessiva e pazzesca che si impadronisce di David è quella di arricchirsi vendendo mille dozzine di uova agli avventurieri che da tutto il mondo percorrono le distese gelate del Nord in cerca dell’oro. Si prepara minuziosamente all’affare, elencando i pro e i contro dell’operazione, le spese previste e quelle imponderabili, i guadagni economici, i pericoli del viaggio, la concorrenza di altri mercanti, l’ostilità del clima. Quindi decide di ipotecare la casa, di lasciare il suo impiego, di mandare la moglie da lontani parenti. Si rifornisce delle uova, acquista una barca, cerca dei portatori, e parte. Ma le difficoltà si presentano subito, con l’implacabilità del fato avverso. Laghi e fiumi ghiacciati, equipaggiamento perso in acqua, imbarcazione sfasciata. Il viaggio prosegue via terra, nella neve, con la merce issata su una slitta trainata da cani, e le dita congelate e poi amputate. Tuttavia David Rasmunsen non demorde, deciso a portare a termine il progetto su cui aveva investito ogni sua risorsa. Ma quando finalmente arriva alla meta prefissata, e gli viene proposto da alcuni commercianti l’acquisto di tutte le uova a un prezzo strepitoso, una sorpresa amarissima e inattesa – che mi pare giusto non rivelare – pone termine al suo sogno e alla sua vita.

© Riproduzione riservata             https://www.sololibri.net/La-prerogativa-del-prete-London.html        3 agosto 2018

 

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LONDON

JACK LONDON, FINIS / LA FINE DELLA STORIA – ALTER EGO, VITERBO 2017

Da qualche tempo, diverse case editrici minori stanno recuperando il repertorio di Jack London, sia estrapolando brani compiuti dai romanzi più famosi, sia pubblicando racconti sparsi o addirittura inediti. Si tratta di un’operazione intelligente, anche se non originalissima, tesa a offrire al pubblico testi che, persino dopo un secolo, mantengono non solo una loro freschezza e appetibilità, ma anche uno stile asciutto ed elegante, che accompagna sempre trame avvincenti, ambientate in mondi lontani nel tempo e nei luoghi. È il caso delle due novelle del 1916 pubblicate da Alterego con un’acuta prefazione di Donato di Stasi, Finis e La fine della storia, illustranti entrambe la conclusione di vicende personali complesse e dolorose.

Nella prima, Finis: una tragedia nel lontano nord-ovest, il protagonista è un uomo solitario, Morganson, divorato dalla fame e dallo scorbuto, che accampato nella distesa artica sulla riva dello Yukon, attende che gli passi accanto una slitta di cercatori d’oro da depredare, mentre l’inverno con i suoi sessanta gradi sotto zero gli va lentamente congelando piedi e mani: “Il suo volto aveva un’espressione assorta, avida. Le guance erano scarne e la pelle sembrava appena appena sufficiente per coprire gli zigomi. I suoi occhi, di un chiaro azzurro, erano torbidi. Vi era in essi un non so che, che indicava l’imminenza di qualcosa di terribile”. Bevendo tè di abete, nutrendosi di biscotti razionati, riesce a uccidere una cerva, ma il bottino gli viene sbranato da un branco di lupi. Deciso a barattare la sua morte con la vita di qualcun’altro, finalmente si imbatte in tre uomini in una slitta carica, trainata da una muta di cani. Spara alle persone, ma sottovaluta la reazione delle bestie. “Non aveva pensato che la morte fosse così facile. Era anche adirato di aver lottato e sofferto per tante settimane estenuanti. Era stato ingannato dal timore della morte. La morte non faceva male. Tutti i tormenti che aveva sopportato erano stati tormenti della vita. La vita aveva diffamato la morte”.

Nel secondo racconto, La fine della storia, un burbero chirurgo, Linday, rinomato per la sua eccezionale perizia nelle operazioni più complicate, viene quasi costretto a un intervento disperato teso a salvare la vita a un cacciatore, squarciato nel ventre da una pantera. Il ferito si trova a cento miglia di distanza dalla residenza del dottore, nel gelido Nord battuto dai venti, oltre fiumi ghiacciati e crepacci: dopo un percorso accidentato tra le montagne, e dopo aver perduto per una bufera i cani e le provviste, Linday arriva finalmente dal moribondo, trovandosi imprevedibilmente davanti Madge, la sua ex moglie, divenuta amante dell’avventuriero. Promette alla donna di salvare la vita all’uomo, solo nel caso lei acconsenta a tornare sotto il tetto coniugale. L’intervento chirurgico ha un esito positivo, ma alla fine l’eroico medico rinuncia alla ricompensa pattuita, esibendo così un’inaspettata sensibilità e nobiltà d’animo.

Maestro nella descrizione degli ambienti esterni, della vegetazione e del mondo animale, Jack London risulta incredibilmente sottile ed empatico anche nella sottolineatura dei sentimenti e degli atteggiamenti dei suoi personaggi, di qualsiasi indole, cultura e ceto sociale essi siano.

 

© Riproduzione riservata       

https://www.sololibri.net/Finis-La-fine-della-storia-London.html         9 agosto 2018

 

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LONDON

JACK LONDON, PREPARARE UN FUOCO – FELTRINELLI, MILANO 2013 (ebook)

A meno di un euro, Feltrinelli offre al pubblico uno dei racconti più famosi di Jack London, tratto da Il richiamo della foresta. Leggibile in quindici minuti, non solo per la sua ridotta estensione tipografica, ma perché magistralmente narrato con un crescendo di ansimante e coinvolgente velocità, Preparare un fuoco narra una tragica avventura ambientata tra i ghiacci del Klondike, sul fiume Yukon.  Nell’arco di poche ore, in un “giorno esageratamente freddo e grigio”, quando il gelo percepito si aggira intorno ai sessanta gradi sottozero, un uomo si mette in cammino con la sola compagnia del suo husky per raggiungere il campo base. Mantenendo un passo di sei chilometri all’ora, prevede ottimisticamente di raggiungere i compagni prima dell’imbrunire: ma il freddo si fa sempre più pungente e insidioso, le guance e le dita delle mani e dei piedi iniziano a gelare, e la vista gli si intorbida. Procedono quasi estranei l’uno all’altro, il cacciatore e l’animale, tenendosi d’occhio con sospetto ad ogni imprevisto rallentamento della marcia. “Tra cane e uomo non c’era intimità. Il primo era lo schiavo da fatica dell’altro, e le uniche carezze ricevute erano state quelle della frusta e dei suoni gutturali e minacciosi che annunciavano la minaccia della frustata”. Improvvisamente l’uomo sprofonda nella neve molle, bagnandosi i calzoni fino alle ginocchia. Costretto a fermarsi per accendere il fuoco, prende atto di riuscire a strofinare i fiammiferi con grave difficoltà, la stessa che prova nel masticare le gallette, a causa dei baffi e della barba ghiacciati che gli comprimono le labbra. Quando finalmente la fiamma comincia a crepitare, e lui si accinge a togliersi scarponi e calze con le dita assiderate, inaspettatamente dai rami dell’abete sotto cui ha cercato riparo crolla un ammasso di neve fresca che in un attimo spegne il fuoco. Ripete il tentativo spostandosi lontano dagli alberi, ma ancora senza successo. Il cane fiuta istintivamente il pericolo, e si dimena agitato intorno al padrone. Al cacciatore viene l’idea di uccidere la bestia, per scaldarsi col sangue all’interno delle sue viscere, ma realizza subito dopo di non avere le forze necessaria per portare a termine il proposito. “L’uomo abbassò lo sguardo a cercare le mani, che scorse penzolanti alla fine delle braccia. Trovò curioso il fatto di dover usare gli occhi per capire dove aveva le mani”. Comincia allora a precipitarsi terrorizzato in direzione del campo, intuendo che la fine non è più solo una lontana ipotesi. Stramazza due volte nella neve, mentre il cane lo osserva “incuriosito, intento, impaziente”. Davanti allo sguardo impietoso dell’animale, si vergogna di essersi messo a correre “come una gallina decapitata”, e decide di aspettare la morte con dignità, lasciandosi andare al torpore, rannicchiato sulla neve. Il cane, fiutando l’odore del cadavere, guaisce lamentosamente, ma poi trotterella con indifferenza verso il campo, “dove avrebbe trovato gli altri, procacciatori di cibo e procacciatori di fuoco”.

 

© Riproduzione riservata        

https://www.sololibri.net/Preparare-un-fuoco-London.html           24 settembre 2018

 

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LONDON

JACK LONDON, LA PESTE SCARLATTA– THEORIA, 2022

Un anno prima di morire, Jack London (1876-1916) pubblicò il romanzo breve La peste scarlatta, che oggi definiremmo distopico e apocalittico, decisamente inquietante perché proiettato in un ambiente reso invivibile da un morbo sconosciuto, che in pochi decenni aveva decimato la popolazione, creando sconquassi economici, disordini sociali, e soprattutto alterando l’equilibrio dell’habitat naturale.

La narrazione si apre su un paesaggio desolato della California, lungo i binari di una ferrovia abbandonata, presso cui camminano stancamente un vecchio e un ragazzo. Sono nonno e nipote, sporchi e macilenti, rivestiti di pelli di capra, diretti verso la spiaggia di Cliff-House, ritrovo di altri sbandati sopravvissuti alla terribile epidemia che aveva sconvolto il mondo intero, restituendolo a una drammatica esistenza primitiva.

Il giovane Edwin è armato di un rudimentale arco e di un coltello, per difendersi dagli attacchi degli animali selvatici, l’anziano si muove a fatica, spinto a resistere da un atavico istinto di sopravvivenza, e ossessionato dall’idea di procurarsi del cibo. Giunti in riva al mare, i due ritrovano lo sparuto gruppo di amici, che con i loro cani cercano di difendersi da un branco di lupi affamati improvvisamente sbucati dalla foresta.

Incalzato dai giovani, il vecchio racconta del terribile flagello che sessant’anni prima, nel 2013, aveva colpito la popolazione di San Francisco: la peste scarlatta, chiamata così perché chi veniva contagiato si copriva di macchie rosse in meno di un’ora. La vita degli americani a quell’epoca scorreva florida e tranquilla, la gente lavorava e si divertiva, l’economia prosperava, i mezzi di comunicazione funzionavano perfettamente in cielo e in terra. L’anziano uomo racconta di essere stato allora un insegnante universitario, circondato dalla stima di colleghi e studenti: durante la narrazione, si rende conto che il suo uditorio non comprende il significato di termini molto semplici, poiché nei decenni

trascorsi in uno stato di semi-ferinità, anche la cultura si era depauperata, in un dilagante analfabetismo essendo chiuse le scuole e le biblioteche, e non più stampati i giornali. Il racconto particolareggiato del diffondersi del morbo assume un ritmo incalzante, nella descrizione dei sintomi con cui esso si manifestava e poi progrediva velocemente, portando la vittima infettata alla paralisi e alla morte in pochissimo tempo. La città di San Francisco contava allora quattro milioni di abitanti, e ora si era ridotta a ospitare qualche decina di persone, Il contagio si era propagato in pochi mesi a tutta l’America, verosimilmente interessando poi anche gli altri continenti. Il vecchio era probabilmente rimasto in vita in virtù di una particolare dote genetica che l’aveva reso immune, e nelle peregrinazioni che l’avevano condotto a cercare altri sopravvissuti aveva incontrato piccole comunità sparse nella regione circostante, che sospettose verso gli estranei e chiuse in se stesse, stavano tentando di ricostituirsi e ripopolarsi.

Il breve romanzo di Jack London non appartiene senz’altro alla sua produzione letteraria migliore, ma è interessante non solo perché premonitore della potenzialità distruttiva che assume un’epidemia a livello mondiale, ma anche perché suggerisce come nella fragilità messa in luce dalla malattia, gli uomini possano ritrovare uno spirito solidale, capace di farli risollevare, vincendo egoismi e divisioni.

La recente edizione di Warwave riporta un’appendice curiosa e coinvolgente, in cui sono elencate tutte le pandemie che hanno colpito le varie civiltà, a partire dalla febbre tifoide del 430 a.C. per finire con il Covid. La più letale è stata la peste bubbonica del 1300: “Si parla di venti milioni di persone in soli sei anni, praticamente un terzo della popolazione totale del vecchio continente all’epoca. Per tornare nuovamente ad una densità di popolazione simile a quella precedente occorsero ben due secoli”. Al secondo posto per mortalità troviamo l’Aids, non ancora debellato, passando per il tifo, il colera, e vari tipi di influenza.

 

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SoloLibri.net › La-peste-scarlatta-di-Jack-London-narrazione-profetica…    2 mrzo 2023

 

 

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LORCA

FEDERICO GARCÍA LORCA, SONETTI DELL’AMORE OSCURO. SUITES –  GARZANTI, MILANO 2017

Chi ama la poesia spagnola, e quella di Federico García Lorca in particolare, non dovrebbe lasciarsi sfuggire questo importante volume edito da Garzanti, che raccoglie i sonetti (custoditi segretamente dalla famiglia e pubblicati per la prima volta in Spagna solo nel 1984) ispirati agli amori omosessuali del poeta, e una scelta di Suites risalenti agli anni Venti.

La fondamentale introduzione scritta da Carlo Bo nel 1975 risulta alla lettura ancora attuale ed esaustiva, nel suo inquadramento storico e letterario dell’opera lorchiana all’interno dei primi quarant’anni del 900, così gravidi di avvenimenti di rilievo per la poesia e la società iberica. Bo sottolinea le varie fasi della produzione in versi di Lorca, da quella giovanile più ingenua e “provinciale”, a quella surrealista seguita al trasferimento a Madrid, alla maturazione politica del periodo newyorkese: in un crescendo di consapevolezza stilistica e culturale, e in un approfondimento dell’intensità lirica, non istintiva, ma meditata, per quanto sempre infiammata da un temperamento vitalistico e gioioso.  Lorca fu più personaggio degli altri poeti della sua generazione, già prima della sua fucilazione che lo rese un simbolo della lotta contro la dittatura e per la libertà: concependo la poesia come «spettacolo del mondo», fu anticipatore della poesia impegnata, e nei suoi versi come nel suo teatro volle rappresentare il tutto della vita, dalla passione amorosa e civile all’incanto della natura, dalla rappresentazione di figure memorabili stagliate su un paesaggio altrettanto memorabile, fino al malinconico presagio del distacco e della morte.

I sonetti dell’amore oscuro, scritti tra il 1935 e il 1936, sono solo dodici, e sono, secondo una definizione di Pablo Neruda, di «incredibile bellezza». Già nel 1937 Vicente Aleixandre, tra i primi lettori, così ne parlò: «Prodigio de pasión, de entusiasmo, de felicidad, de tormento, puro y ardiente monumento al amor, en que la primera materia es ya la carne, el corazón, el alma del poeta en trance de destrucción». Ben ne descrive genesi e fattura Mario Socrate nella sua puntuale ed esplicativa prefazione: senza entrare nell’approfondita disamina sintattico-morfologica da lui condotta (evidenziazione di enjambement, metafore, metonimie, anastrofi, apostrofi), possiamo ricavare precise informazioni sulla composizione dell’opera, sulla sua effettiva consistenza e sui progetti del suo autore. Riguardo a tali questioni si susseguirono per molti anni testimonianze e affermazioni arbitrarie, censure e depistamenti più o meno tendenziosi, fino alla tardiva ricognizione degli originali (filologicamente rigorosa), affidata a una commissione ufficiale, e alla loro pubblicazione definitiva nel supplemento letterario del giornale madrileno ABC del 17 marzo 1984. Pubblicazione tardiva dovuta non solo alle beghe tra letterati amici e nemici di Lorca, ma anche alla volontà di “neutralizzare, riassorbire lo «scandalo» di quei testi, di difendere il poeta da sé stesso”, garantendone la rassicurante rispettabilità.

D’altronde, lo stesso Federico, nell’ultima intervista rilasciata, si era detto convinto che «los libros de poesía se van haciendo siempre lentamente», suggerendo così il suo desiderio di rimandare l’edizione della raccolta, al fine di assemblare un volume di sonetti più organico e completo, che magari ricalcasse l’esempio illustre dei cento sonetti shakespeariani. Proprio sulla scelta lorchiana della forma sonetto, elaborato nello schema canonico abba abba cdc dcd, Socrate si sofferma indicando l’intenzione esplicita del poeta di frenare l’empito del sentimento in una stringente armatura, collegandosi così alla più antica tradizione ispanica (Lope, Góngora, Quevedo), ripresa nel ’900 da Alberti, Diego, Hernández, Guillén, Darío, Unamuno, Jiménez, Machado.

L’insegnamento di Shakespeare rimane comunque innegabile sia nella stessa  tensione esistente tra un io e un tu che esclude presenze terze, sia nella riproposizione dei «motivi della sudditanza e della prigionia (XXVI, LVII, LVIII, XCII); delle notti desolate (XXVIII, LXI); delle accorate rimostranze (XXXIV, LXXXVIII, LXI, CX); della disparità dell’età, simboleggiata con le stagioni (XXXVIII, LXIII, LXIV, XCVII); della reciproca identificazione, così frequenti; e infine, quelli, anche se su piani differenti, della pericolosità di un tale rapporto». Vediamone alcuni: «Godi il paesaggio della mia ferita, / nuovo, spezza ruscelli esili e giunchi, / e da cosce di miele il sangue a sorsi // bevi, ma presto, ché così congiunti, / bocca rotta d’amore, anima morsa, / ci trovi il tempo te e me consunti»; «Se mai sei tu il mio tesoro occulto, / se la mia croce, la mia intrisa pena, / se il cane sono io del tuo dominio, // fa’ che non perda quello che ho raggiunto, / e le acque del tuo fiume pavesa / con foglie dell’autunno mio in delirio»; «Questo sangue di lacrime che illustra / inerte lira, torcia senza presa. / Questo urto del mare e la sua frusta. / Questo scorpione entro di me in attesa»; «Tu con parole quest’insania cura, / sennò lasciami alla mia serena notte / dell’anima per sempre oscura»; «Così la notte e il giorno il cuore mio / nel buio carcere amoroso piange, / cieco di te, la sua melanconia»; «Su per la notte io e te, la luna piena, / tu che ridevi, io a piangere mi misi. / Un dio era il tuo sprezzo, ed i sospiri / miei colombe e attimi in catene»; «Tu continua il tuo sonno, vita mia. / Senti il mio rotto sangue nei violini? / Ma in agguato ci aspettano per via».

Altro argomento su cui insiste la prefazione di Mario Socrate è la scelta del titolo di questa corona di poesie, con quell’aggettivo che rimanda al nascondimento, al timore, al buio in cui è costretto un eros diverso. In effetti, non possiamo sapere se sia stato voluto da Lorca stesso (per quanto sia presente in alcuni versi dei sonetti: «Ay voz secreta del amor oscuro») e se sarebbe rimasto quello definitivo se non ci fosse stata la tragica fine del poeta nell’agosto del ’36. Sembra comunque un titolo adeguato alla raccolta, poiché allusivo in primo luogo alla sofferenza procurata dall’amore descritto, e introiettata da Federico, e secondariamente all’idea di segretezza e frustrazione in cui tale sentimento sopravviveva ‒ insidiato da pregiudizi e sospetti, offese e persecuzione ‒, pur nell’orgogliosa e quasi oppositiva rivendicazione del proprio diritto a esistere.

Composti alla vigilia di una tragedia collettiva, destinati a una lunga ed enigmatica clandestinità editoriale, i Sonetos, bruscamente interrotti dalla crudele esecuzione di Lorca (il suo cadavere non fu mai ritrovato), sono la testimonianza di una tragedia privata, di una sofferenza sentimentale che si trasmette al mondo «con accenti di sconfitta e di eversione in un momento generale di storica agonia». Il volume garzantiano (corredato da un’attenta ricostruzione biografica e da una ricca bibliografia di Glauco Felici) presenta anche una scelta di Suites, scritte tra il 1920 e il 1923 e mai pubblicate nella loro interezza durante la vita del poeta, che non era del tutto convinto del loro valore. Esse si offrono ai nostri occhi con una fisionomia piuttosto rapsodica, musicalmente oscillante tra un’incantata ingenuità giovanile e un turbamento emotivo che prelude agli esiti della produzione matura.

 

«Il Pickwick», 20 settembre 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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