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RECENSIONI

LONDON

JACK LONDON, LA PREROGATIVA DEL PRETE – ENSEMBLE, ROMA 2017

I due racconti che Ensemble riunisce in questo libriccino hanno entrambi il timbro della grande narrativa di Jack London, e ne ripercorrono i temi usuali: la lotta contro i rigori della natura, il mito dell’arricchimento, l’ostinazione testarda di alcuni personaggi, la miseria economica, l’invadenza dei rimorsi e dei sensi di colpa, la beffa di un destino crudele.

La prima novella, intitolata La prerogativa del prete, narra di una coppia maleassortita come ne esistono molte: un marito vanesio e infantile, egoista e untuoso, di nome Edwin Bentham, che aveva immeritatamente sposato una donna forte e generosa, Grazia, pronta a sacrificarsi per lui, pungolandone la scarsa ambizione affinché si facesse strada nella vita. A fine ottocento, i due sposi si erano uniti alla grande massa di cercatori d’oro del Klondike, lungo il fiume Yukon: lei lavorando pesantemente, lui pavoneggiandosi di fatiche e successi non suoi. Inaspettatamente, Grazia si invaghisce, ricambiata, di un altro uomo, e i due si propongono di fuggire, ricostruendosi un futuro insieme. Ma il missionario della zona, un gesuita pacato e severo, interviene proprio quando gli innamorati si incontrano da soli per la prima volta, ed esercitando le mansioni di guida spirituale, ricorda alla donna i suoi doveri di moglie, prospettandole anche le difficoltà cui sarebbe andata incontro in una futura vita da concubina, l’ostracismo della comunità, il dolore dei suoi genitori, la vergogna degli eventuali figli, il peccato di fronte a Dio. La donna, intimidita e perplessa, si lascia convincere dal religioso, e decide di tornare alla sua sacrificata esistenza di vittima accanto a Edwin. Sarà tuttavia il gesuita a confessare a un amico di sentirsi in colpa: “Sapevo che sarebbe stata infelice, eppure l’ho fatta tornare dal marito”.

Il secondo racconto, Le mille dozzine di uova, appare al lettore ancora più tipicamente londoniano del primo, sia nel ritratto magistralmente disegnato del protagonista, sia nel tragico rincorrersi di avvenimenti negativi verso la temuta ma prevedibile conclusione. “David Rasmunsen era un uomo d’azione e, come molti più grandi di lui, un uomo d’una sola idea”. L’idea ossessiva e pazzesca che si impadronisce di David è quella di arricchirsi vendendo mille dozzine di uova agli avventurieri che da tutto il mondo percorrono le distese gelate del Nord in cerca dell’oro. Si prepara minuziosamente all’affare, elencando i pro e i contro dell’operazione, le spese previste e quelle imponderabili, i guadagni economici, i pericoli del viaggio, la concorrenza di altri mercanti, l’ostilità del clima. Quindi decide di ipotecare la casa, di lasciare il suo impiego, di mandare la moglie da lontani parenti. Si rifornisce delle uova, acquista una barca, cerca dei portatori, e parte. Ma le difficoltà si presentano subito, con l’implacabilità del fato avverso. Laghi e fiumi ghiacciati, equipaggiamento perso in acqua, imbarcazione sfasciata. Il viaggio prosegue via terra, nella neve, con la merce issata su una slitta trainata da cani, e le dita congelate e poi amputate. Tuttavia David Rasmunsen non demorde, deciso a portare a termine il progetto su cui aveva investito ogni sua risorsa. Ma quando finalmente arriva alla meta prefissata, e gli viene proposto da alcuni commercianti l’acquisto di tutte le uova a un prezzo strepitoso, una sorpresa amarissima e inattesa – che mi pare giusto non rivelare – pone termine al suo sogno e alla sua vita.

© Riproduzione riservata             https://www.sololibri.net/La-prerogativa-del-prete-London.html        3 agosto 2018

 

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LONDON

JACK LONDON, FINIS / LA FINE DELLA STORIA – ALTER EGO, VITERBO 2017

Da qualche tempo, diverse case editrici minori stanno recuperando il repertorio di Jack London, sia estrapolando brani compiuti dai romanzi più famosi, sia pubblicando racconti sparsi o addirittura inediti. Si tratta di un’operazione intelligente, anche se non originalissima, tesa a offrire al pubblico testi che, persino dopo un secolo, mantengono non solo una loro freschezza e appetibilità, ma anche uno stile asciutto ed elegante, che accompagna sempre trame avvincenti, ambientate in mondi lontani nel tempo e nei luoghi. È il caso delle due novelle del 1916 pubblicate da Alterego con un’acuta prefazione di Donato di Stasi, Finis e La fine della storia, illustranti entrambe la conclusione di vicende personali complesse e dolorose.

Nella prima, Finis: una tragedia nel lontano nord-ovest, il protagonista è un uomo solitario, Morganson, divorato dalla fame e dallo scorbuto, che accampato nella distesa artica sulla riva dello Yukon, attende che gli passi accanto una slitta di cercatori d’oro da depredare, mentre l’inverno con i suoi sessanta gradi sotto zero gli va lentamente congelando piedi e mani: “Il suo volto aveva un’espressione assorta, avida. Le guance erano scarne e la pelle sembrava appena appena sufficiente per coprire gli zigomi. I suoi occhi, di un chiaro azzurro, erano torbidi. Vi era in essi un non so che, che indicava l’imminenza di qualcosa di terribile”. Bevendo tè di abete, nutrendosi di biscotti razionati, riesce a uccidere una cerva, ma il bottino gli viene sbranato da un branco di lupi. Deciso a barattare la sua morte con la vita di qualcun’altro, finalmente si imbatte in tre uomini in una slitta carica, trainata da una muta di cani. Spara alle persone, ma sottovaluta la reazione delle bestie. “Non aveva pensato che la morte fosse così facile. Era anche adirato di aver lottato e sofferto per tante settimane estenuanti. Era stato ingannato dal timore della morte. La morte non faceva male. Tutti i tormenti che aveva sopportato erano stati tormenti della vita. La vita aveva diffamato la morte”.

Nel secondo racconto, La fine della storia, un burbero chirurgo, Linday, rinomato per la sua eccezionale perizia nelle operazioni più complicate, viene quasi costretto a un intervento disperato teso a salvare la vita a un cacciatore, squarciato nel ventre da una pantera. Il ferito si trova a cento miglia di distanza dalla residenza del dottore, nel gelido Nord battuto dai venti, oltre fiumi ghiacciati e crepacci: dopo un percorso accidentato tra le montagne, e dopo aver perduto per una bufera i cani e le provviste, Linday arriva finalmente dal moribondo, trovandosi imprevedibilmente davanti Madge, la sua ex moglie, divenuta amante dell’avventuriero. Promette alla donna di salvare la vita all’uomo, solo nel caso lei acconsenta a tornare sotto il tetto coniugale. L’intervento chirurgico ha un esito positivo, ma alla fine l’eroico medico rinuncia alla ricompensa pattuita, esibendo così un’inaspettata sensibilità e nobiltà d’animo.

Maestro nella descrizione degli ambienti esterni, della vegetazione e del mondo animale, Jack London risulta incredibilmente sottile ed empatico anche nella sottolineatura dei sentimenti e degli atteggiamenti dei suoi personaggi, di qualsiasi indole, cultura e ceto sociale essi siano.

 

© Riproduzione riservata       

https://www.sololibri.net/Finis-La-fine-della-storia-London.html         9 agosto 2018

 

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LONDON

JACK LONDON, PREPARARE UN FUOCO – FELTRINELLI, MILANO 2013 (ebook)

A meno di un euro, Feltrinelli offre al pubblico uno dei racconti più famosi di Jack London, tratto da Il richiamo della foresta. Leggibile in quindici minuti, non solo per la sua ridotta estensione tipografica, ma perché magistralmente narrato con un crescendo di ansimante e coinvolgente velocità, Preparare un fuoco narra una tragica avventura ambientata tra i ghiacci del Klondike, sul fiume Yukon.  Nell’arco di poche ore, in un “giorno esageratamente freddo e grigio”, quando il gelo percepito si aggira intorno ai sessanta gradi sottozero, un uomo si mette in cammino con la sola compagnia del suo husky per raggiungere il campo base. Mantenendo un passo di sei chilometri all’ora, prevede ottimisticamente di raggiungere i compagni prima dell’imbrunire: ma il freddo si fa sempre più pungente e insidioso, le guance e le dita delle mani e dei piedi iniziano a gelare, e la vista gli si intorbida. Procedono quasi estranei l’uno all’altro, il cacciatore e l’animale, tenendosi d’occhio con sospetto ad ogni imprevisto rallentamento della marcia. “Tra cane e uomo non c’era intimità. Il primo era lo schiavo da fatica dell’altro, e le uniche carezze ricevute erano state quelle della frusta e dei suoni gutturali e minacciosi che annunciavano la minaccia della frustata”. Improvvisamente l’uomo sprofonda nella neve molle, bagnandosi i calzoni fino alle ginocchia. Costretto a fermarsi per accendere il fuoco, prende atto di riuscire a strofinare i fiammiferi con grave difficoltà, la stessa che prova nel masticare le gallette, a causa dei baffi e della barba ghiacciati che gli comprimono le labbra. Quando finalmente la fiamma comincia a crepitare, e lui si accinge a togliersi scarponi e calze con le dita assiderate, inaspettatamente dai rami dell’abete sotto cui ha cercato riparo crolla un ammasso di neve fresca che in un attimo spegne il fuoco. Ripete il tentativo spostandosi lontano dagli alberi, ma ancora senza successo. Il cane fiuta istintivamente il pericolo, e si dimena agitato intorno al padrone. Al cacciatore viene l’idea di uccidere la bestia, per scaldarsi col sangue all’interno delle sue viscere, ma realizza subito dopo di non avere le forze necessaria per portare a termine il proposito. “L’uomo abbassò lo sguardo a cercare le mani, che scorse penzolanti alla fine delle braccia. Trovò curioso il fatto di dover usare gli occhi per capire dove aveva le mani”. Comincia allora a precipitarsi terrorizzato in direzione del campo, intuendo che la fine non è più solo una lontana ipotesi. Stramazza due volte nella neve, mentre il cane lo osserva “incuriosito, intento, impaziente”. Davanti allo sguardo impietoso dell’animale, si vergogna di essersi messo a correre “come una gallina decapitata”, e decide di aspettare la morte con dignità, lasciandosi andare al torpore, rannicchiato sulla neve. Il cane, fiutando l’odore del cadavere, guaisce lamentosamente, ma poi trotterella con indifferenza verso il campo, “dove avrebbe trovato gli altri, procacciatori di cibo e procacciatori di fuoco”.

 

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https://www.sololibri.net/Preparare-un-fuoco-London.html           24 settembre 2018

 

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LONDON

JACK LONDON, LA PESTE SCARLATTA– THEORIA, 2022

Un anno prima di morire, Jack London (1876-1916) pubblicò il romanzo breve La peste scarlatta, che oggi definiremmo distopico e apocalittico, decisamente inquietante perché proiettato in un ambiente reso invivibile da un morbo sconosciuto, che in pochi decenni aveva decimato la popolazione, creando sconquassi economici, disordini sociali, e soprattutto alterando l’equilibrio dell’habitat naturale.

La narrazione si apre su un paesaggio desolato della California, lungo i binari di una ferrovia abbandonata, presso cui camminano stancamente un vecchio e un ragazzo. Sono nonno e nipote, sporchi e macilenti, rivestiti di pelli di capra, diretti verso la spiaggia di Cliff-House, ritrovo di altri sbandati sopravvissuti alla terribile epidemia che aveva sconvolto il mondo intero, restituendolo a una drammatica esistenza primitiva.

Il giovane Edwin è armato di un rudimentale arco e di un coltello, per difendersi dagli attacchi degli animali selvatici, l’anziano si muove a fatica, spinto a resistere da un atavico istinto di sopravvivenza, e ossessionato dall’idea di procurarsi del cibo. Giunti in riva al mare, i due ritrovano lo sparuto gruppo di amici, che con i loro cani cercano di difendersi da un branco di lupi affamati improvvisamente sbucati dalla foresta.

Incalzato dai giovani, il vecchio racconta del terribile flagello che sessant’anni prima, nel 2013, aveva colpito la popolazione di San Francisco: la peste scarlatta, chiamata così perché chi veniva contagiato si copriva di macchie rosse in meno di un’ora. La vita degli americani a quell’epoca scorreva florida e tranquilla, la gente lavorava e si divertiva, l’economia prosperava, i mezzi di comunicazione funzionavano perfettamente in cielo e in terra. L’anziano uomo racconta di essere stato allora un insegnante universitario, circondato dalla stima di colleghi e studenti: durante la narrazione, si rende conto che il suo uditorio non comprende il significato di termini molto semplici, poiché nei decenni

trascorsi in uno stato di semi-ferinità, anche la cultura si era depauperata, in un dilagante analfabetismo essendo chiuse le scuole e le biblioteche, e non più stampati i giornali. Il racconto particolareggiato del diffondersi del morbo assume un ritmo incalzante, nella descrizione dei sintomi con cui esso si manifestava e poi progrediva velocemente, portando la vittima infettata alla paralisi e alla morte in pochissimo tempo. La città di San Francisco contava allora quattro milioni di abitanti, e ora si era ridotta a ospitare qualche decina di persone, Il contagio si era propagato in pochi mesi a tutta l’America, verosimilmente interessando poi anche gli altri continenti. Il vecchio era probabilmente rimasto in vita in virtù di una particolare dote genetica che l’aveva reso immune, e nelle peregrinazioni che l’avevano condotto a cercare altri sopravvissuti aveva incontrato piccole comunità sparse nella regione circostante, che sospettose verso gli estranei e chiuse in se stesse, stavano tentando di ricostituirsi e ripopolarsi.

Il breve romanzo di Jack London non appartiene senz’altro alla sua produzione letteraria migliore, ma è interessante non solo perché premonitore della potenzialità distruttiva che assume un’epidemia a livello mondiale, ma anche perché suggerisce come nella fragilità messa in luce dalla malattia, gli uomini possano ritrovare uno spirito solidale, capace di farli risollevare, vincendo egoismi e divisioni.

La recente edizione di Warwave riporta un’appendice curiosa e coinvolgente, in cui sono elencate tutte le pandemie che hanno colpito le varie civiltà, a partire dalla febbre tifoide del 430 a.C. per finire con il Covid. La più letale è stata la peste bubbonica del 1300: “Si parla di venti milioni di persone in soli sei anni, praticamente un terzo della popolazione totale del vecchio continente all’epoca. Per tornare nuovamente ad una densità di popolazione simile a quella precedente occorsero ben due secoli”. Al secondo posto per mortalità troviamo l’Aids, non ancora debellato, passando per il tifo, il colera, e vari tipi di influenza.

 

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SoloLibri.net › La-peste-scarlatta-di-Jack-London-narrazione-profetica…    2 mrzo 2023

 

 

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LORCA

FEDERICO GARCÍA LORCA, SONETTI DELL’AMORE OSCURO. SUITES –  GARZANTI, MILANO 2017

Chi ama la poesia spagnola, e quella di Federico García Lorca in particolare, non dovrebbe lasciarsi sfuggire questo importante volume edito da Garzanti, che raccoglie i sonetti (custoditi segretamente dalla famiglia e pubblicati per la prima volta in Spagna solo nel 1984) ispirati agli amori omosessuali del poeta, e una scelta di Suites risalenti agli anni Venti.

La fondamentale introduzione scritta da Carlo Bo nel 1975 risulta alla lettura ancora attuale ed esaustiva, nel suo inquadramento storico e letterario dell’opera lorchiana all’interno dei primi quarant’anni del 900, così gravidi di avvenimenti di rilievo per la poesia e la società iberica. Bo sottolinea le varie fasi della produzione in versi di Lorca, da quella giovanile più ingenua e “provinciale”, a quella surrealista seguita al trasferimento a Madrid, alla maturazione politica del periodo newyorkese: in un crescendo di consapevolezza stilistica e culturale, e in un approfondimento dell’intensità lirica, non istintiva, ma meditata, per quanto sempre infiammata da un temperamento vitalistico e gioioso.  Lorca fu più personaggio degli altri poeti della sua generazione, già prima della sua fucilazione che lo rese un simbolo della lotta contro la dittatura e per la libertà: concependo la poesia come «spettacolo del mondo», fu anticipatore della poesia impegnata, e nei suoi versi come nel suo teatro volle rappresentare il tutto della vita, dalla passione amorosa e civile all’incanto della natura, dalla rappresentazione di figure memorabili stagliate su un paesaggio altrettanto memorabile, fino al malinconico presagio del distacco e della morte.

I sonetti dell’amore oscuro, scritti tra il 1935 e il 1936, sono solo dodici, e sono, secondo una definizione di Pablo Neruda, di «incredibile bellezza». Già nel 1937 Vicente Aleixandre, tra i primi lettori, così ne parlò: «Prodigio de pasión, de entusiasmo, de felicidad, de tormento, puro y ardiente monumento al amor, en que la primera materia es ya la carne, el corazón, el alma del poeta en trance de destrucción». Ben ne descrive genesi e fattura Mario Socrate nella sua puntuale ed esplicativa prefazione: senza entrare nell’approfondita disamina sintattico-morfologica da lui condotta (evidenziazione di enjambement, metafore, metonimie, anastrofi, apostrofi), possiamo ricavare precise informazioni sulla composizione dell’opera, sulla sua effettiva consistenza e sui progetti del suo autore. Riguardo a tali questioni si susseguirono per molti anni testimonianze e affermazioni arbitrarie, censure e depistamenti più o meno tendenziosi, fino alla tardiva ricognizione degli originali (filologicamente rigorosa), affidata a una commissione ufficiale, e alla loro pubblicazione definitiva nel supplemento letterario del giornale madrileno ABC del 17 marzo 1984. Pubblicazione tardiva dovuta non solo alle beghe tra letterati amici e nemici di Lorca, ma anche alla volontà di “neutralizzare, riassorbire lo «scandalo» di quei testi, di difendere il poeta da sé stesso”, garantendone la rassicurante rispettabilità.

D’altronde, lo stesso Federico, nell’ultima intervista rilasciata, si era detto convinto che «los libros de poesía se van haciendo siempre lentamente», suggerendo così il suo desiderio di rimandare l’edizione della raccolta, al fine di assemblare un volume di sonetti più organico e completo, che magari ricalcasse l’esempio illustre dei cento sonetti shakespeariani. Proprio sulla scelta lorchiana della forma sonetto, elaborato nello schema canonico abba abba cdc dcd, Socrate si sofferma indicando l’intenzione esplicita del poeta di frenare l’empito del sentimento in una stringente armatura, collegandosi così alla più antica tradizione ispanica (Lope, Góngora, Quevedo), ripresa nel ’900 da Alberti, Diego, Hernández, Guillén, Darío, Unamuno, Jiménez, Machado.

L’insegnamento di Shakespeare rimane comunque innegabile sia nella stessa  tensione esistente tra un io e un tu che esclude presenze terze, sia nella riproposizione dei «motivi della sudditanza e della prigionia (XXVI, LVII, LVIII, XCII); delle notti desolate (XXVIII, LXI); delle accorate rimostranze (XXXIV, LXXXVIII, LXI, CX); della disparità dell’età, simboleggiata con le stagioni (XXXVIII, LXIII, LXIV, XCVII); della reciproca identificazione, così frequenti; e infine, quelli, anche se su piani differenti, della pericolosità di un tale rapporto». Vediamone alcuni: «Godi il paesaggio della mia ferita, / nuovo, spezza ruscelli esili e giunchi, / e da cosce di miele il sangue a sorsi // bevi, ma presto, ché così congiunti, / bocca rotta d’amore, anima morsa, / ci trovi il tempo te e me consunti»; «Se mai sei tu il mio tesoro occulto, / se la mia croce, la mia intrisa pena, / se il cane sono io del tuo dominio, // fa’ che non perda quello che ho raggiunto, / e le acque del tuo fiume pavesa / con foglie dell’autunno mio in delirio»; «Questo sangue di lacrime che illustra / inerte lira, torcia senza presa. / Questo urto del mare e la sua frusta. / Questo scorpione entro di me in attesa»; «Tu con parole quest’insania cura, / sennò lasciami alla mia serena notte / dell’anima per sempre oscura»; «Così la notte e il giorno il cuore mio / nel buio carcere amoroso piange, / cieco di te, la sua melanconia»; «Su per la notte io e te, la luna piena, / tu che ridevi, io a piangere mi misi. / Un dio era il tuo sprezzo, ed i sospiri / miei colombe e attimi in catene»; «Tu continua il tuo sonno, vita mia. / Senti il mio rotto sangue nei violini? / Ma in agguato ci aspettano per via».

Altro argomento su cui insiste la prefazione di Mario Socrate è la scelta del titolo di questa corona di poesie, con quell’aggettivo che rimanda al nascondimento, al timore, al buio in cui è costretto un eros diverso. In effetti, non possiamo sapere se sia stato voluto da Lorca stesso (per quanto sia presente in alcuni versi dei sonetti: «Ay voz secreta del amor oscuro») e se sarebbe rimasto quello definitivo se non ci fosse stata la tragica fine del poeta nell’agosto del ’36. Sembra comunque un titolo adeguato alla raccolta, poiché allusivo in primo luogo alla sofferenza procurata dall’amore descritto, e introiettata da Federico, e secondariamente all’idea di segretezza e frustrazione in cui tale sentimento sopravviveva ‒ insidiato da pregiudizi e sospetti, offese e persecuzione ‒, pur nell’orgogliosa e quasi oppositiva rivendicazione del proprio diritto a esistere.

Composti alla vigilia di una tragedia collettiva, destinati a una lunga ed enigmatica clandestinità editoriale, i Sonetos, bruscamente interrotti dalla crudele esecuzione di Lorca (il suo cadavere non fu mai ritrovato), sono la testimonianza di una tragedia privata, di una sofferenza sentimentale che si trasmette al mondo «con accenti di sconfitta e di eversione in un momento generale di storica agonia». Il volume garzantiano (corredato da un’attenta ricostruzione biografica e da una ricca bibliografia di Glauco Felici) presenta anche una scelta di Suites, scritte tra il 1920 e il 1923 e mai pubblicate nella loro interezza durante la vita del poeta, che non era del tutto convinto del loro valore. Esse si offrono ai nostri occhi con una fisionomia piuttosto rapsodica, musicalmente oscillante tra un’incantata ingenuità giovanile e un turbamento emotivo che prelude agli esiti della produzione matura.

 

«Il Pickwick», 20 settembre 2018

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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LOWELL

ROBERT LOWELL, IL DELFINO E ALTRE POESIE – MONDADORI, MILANO 1989

Robert Lowell (1917-1977), discendente di una delle più antiche e stimate famiglie bostoniane, scrisse versi caratterizzati da una forte tensione all’autoanalisi e alla denuncia, e per tale motivo venne considerato il fondatore in America della poesia “confessionale”. Alla radice della sua produzione poetica i critici hanno sempre rilevato un impulso di ribellione (determinato forse dall’asfittica e costrittiva atmosfera familiare in cui era cresciuto), e la stessa ansia provocatoria che lo spinse sia a scelte anticonformiste (dalla conversione al cattolicesimo nel 1940, all’obiezione di coscienza durante la seconda guerra mondiale e alla lotta per i diritti civili che gli valsero mesi di carcere, a tre tormentati matrimoni), sia a comportamenti autodistruttivi (l’alcolismo, e le frequenti crisi maniaco-depressive con relativi ricoveri in cliniche psichiatriche).

La raccolta Il delfino e altre poesie contiene liriche scritte tra il 1965 e il 1973, in anni che videro il poeta alle prese con scelte esistenziali e sentimentali molto sofferte: la fine, dopo vent’anni, del matrimonio con la seconda moglie (la scrittrice Elizabeth Hardwick, affettuosamente chiamata Lizzie), e l’allontanamento da lei e dalla figlia Harriet; l’incontro con Caroline Blackwood, soprannominata “delfino”, il trasferimento in Inghilterra e la nascita del secondogenito Sheridan. Avvenimenti tormentati da nevrosi, dubbi, incertezze, sensi di colpa, rancori familiari. Lowell scelse di mettere a nudo la sua vita privata in una sequenza di sonetti molto espliciti, in cui raccontava episodi di vita quotidiana, litigi, brani di lettere altrui, soprusi e vendette personali, in un alternarsi di tenerezza e rabbia, ironia e pietà. L’opera gli attirò molte critiche da parte dei colleghi letterati, che lo accusarono di insensibilità ed esibizionismo, e di avere voluto sfruttare la sua vicenda personale per finalità editoriali e di successo.

I sonetti in questione, in quattordici versi sciolti, metricamente irregolari, spesso prosastici e discontinui formalmente, sembrano seguire un flusso frammentario di pensieri ed emozioni, con la volontà di registrare stati d’animo più che di creare un’opera d’arte. L’autore fa parlare la sua bambina, spaventata dai contrasti tra i genitori, senza inserire alcun diaframma stilistico («Non lo vediamo mai adesso, eccetto che a pranzo, / poi tu litighi, e lui va di sopra…»); oppure si rivolge alla moglie con i nomignoli più affettuosi o crudeli, in un sovrapporsi di sentimenti incontrollati («Cara Pace dell’Anima; Mia Luce Celeste; agnello vestito da lupo; cerbiatta tremante e inflessibile; serpente, vespa, calabrone giallo…»). Consapevole di aver fatto soffrire, il poeta sembra voler aprirsi al lettore in una confessione catartica, quasi a implorare comprensione e perdono («forse troppo ho tramato a cuor leggero con la mia vita, / senza evitare danno agli altri, / senza evitare danno a me stesso – / per chiedere compassione…»).
La parte conclusiva del libro è dedicata alla voce giovane e provocatoria di Caroline, piena di gioia di vivere, che gli fa riscoprire l’amore fisico e sensuale, ironico e fantasioso: «Mio Delfino, solo di sorpresa tu mi guidi…», «Dopo i cinquanta così gran gioia è venuta, / che quasi non vorrei nascondere la mia nudità -, / il lustro e la rigidezza d’un vestito nuovo, la sensazione, / non del tutto lieta, di essere rinato». Tracciando una mappa esistenziale delle sue passioni, in un album familiare poetico e insieme impoetico, Robert Lowell volle consegnare al pubblico una testimonianza della condizione umana, più rilevante di qualsiasi scrittura: «Deve aver pur fine il verso. / Però il mio cuore è fiero, so di aver allietato la mia vita / intrecciando, disfacendo una rete di corda incatramata…».

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Il-delfino-altre-poesie-Lowell.html     18 dicembre 2016

RECENSIONI

LUALDI

MARILENA LUALDI, L’IMPORTANZA DI ESSERE SECONDI – NOMOS, BUSTO ARSIZIO 2012

La giornalista varesina Marilena Lualdi dedica questo interessante volume, dal titolo accattivante e con un sottotitolo esemplificativo (Storie di eroismo e non solo), ai personaggi – della storia e della cronaca – che, nonostante il loro coraggioso dispiego di generosità e impegno, non sono riusciti a salire sul podio più alto, rischiando eternamente l’oblio, l’irrisione, o addirittura un velato e sarcastico sentimento di superiore sufficienza. Così il libro si rivolge idealmente alla sensibilità di quei lettori che rimangono emotivamente coinvolti dal destino di immeritata sconfitta di chi ha combattuto contro una sorte maligna, o contro l’inganno e la furbizia, o semplicemente contro la forza e la bravura del vincitore: «ci coinvolge la vicenda di chi ha dato tutto (o quasi) inutilmente». Le storie narrate dall’autrice spaziano geograficamente e cronologicamente attraverso epoche e continenti diversi, talvolta lambendo memorie e avventure personali, ma sempre manifestando un coinvolgimento affettivo nella descrizione delle speranze e delle delusioni dei protagonisti, in una prosa elegante e concreta, puntuale e comunicativa. Il primo capitolo, senz’altro il più commovente e ispirato del volume, narra l’impresa tentata nel 1911 dall’esploratore scozzese Robert Falcon Scott, il romantico sognatore che tentò di raggiungere l’Antartide «in uno scenario intrappolato dal gelo», insieme a quattro eroici compagni, «in cerca delle uova dei pinguini imperatore», per aiutare la scienza nella definizione della scala evolutiva indicata da Darwin. Per arrivare al Polo Sud, Scott impiegò settantanove giorni, mentre al suo rivale Amundsen ne bastarono solo cinquantadue, grazie a una più pragmatica programmazione del viaggio. Scott e i compagni morirono tutti congelati sulla strada del ritorno, “secondi” per la storia, e sconfitti: ma consapevoli di aver tentato una nobile impresa, e di aver combattuto con sforzo e dedizione la battaglia più ardua contro l’ostilità della natura, la debolezza fisica e le proprie paure. Un altro, notissimo “secondo” della storia britannica fu Giovanni Senza Terra, della dinastia dei Plantageneti; ultimogenito di Enrico II, a lungo in ombra rispetto alla statura gigantesca del fratello Riccardo Cuor di Leone, fu protagonista di vicende crudeli e complesse, di vendette, odi, passioni e tradimenti, in una esasperata ribellione contro la storia e il destino. Quante altre vite e lotte Marilena Lualdi sa raccontare, di personaggi “secondi” nell’amicizia devota a figure più elevate di loro, come il biblico Gionata vissuto all’ombra del mitico re Davide, o Ron che fa da spalla a Harry Potter. E ancora le tante donne eccezionali schiacciate dal confronto ingeneroso con altre donne (Maria Stuarda da Elisabetta I), o con i propri amanti (la fiera ed eccezionale Eloisa dal più prudente Abelardo): o le tante eroine quotidiane appartenenti al popolo che lavora, e stenta, e manda avanti le cose del mondo, e per cui Santa Teresa di Lisieux scrisse: «In Cielo, Dio saprà ben mostrare che i suoi pensieri non sono quegli degli uomini, perché allora le ultime saranno le prime». E come numerosi sono stati i “secondi” in tutti gli sport, dal calcio alla scherma al tennis, fino alle discipline meno seguite e pubblicizzate; quanti silenziosi eroi nella musica, che non hanno saputo catalizzare l’entusiasmo del grande pubblico, nonostante il loro formidabile talento. Quanti “lati B” nei 45 giri che alla fine hanno surclassato le canzoni destinate dai discografici al successo maggiore. E infine, quante notizie minori, di secondaria importanza, nei giornali e nei media, che sarebbero state degne di ben altro interesse ed ascolto da parte di occhi ed orecchie più attenti. Ma, come dicono le Scritture sottolineando il rilievo della pietra scartata dai costruttori che diverrà testata d’angolo, «Forse l’importante è sapersi vedere, sapersi pensare, al margine dell’inquadratura. Sapendo che l’immagine non rimarrà fissa e che vista da un altro punto di vista potrebbe portarci in primo piano». Così suggerisce il prefatore del volume, Giuseppe Battarino: così invita a sperare la bella foto di copertina, con l’esile nuotatrice pronta a tuffarsi e a gareggiare qualunque sia l’esito della gara.

 

«Leggere Donna» n.160, luglio 2013

RECENSIONI

LUCCHESI

NADIA LUCCHESI, ANNA. UNA DIFFERENTE TRINITA’ – LUCIANA TUFANI, FERRARA 2014

Nadia Lucchesi, storica da sempre impegnata nella diffusione del pensiero della differenza sessuale, dopo aver dedicato alcuni volumi a fondamentali personalità femminili come Diotima, Ipazia e Simone Weil e un importante saggio a Maria, madre del Cristianesimo si occupa qui della madre della Madonna, Anna: cercando di indagare misteri, censure, simbologie, leggende che dall’antichità hanno offuscato la sua figura, e la valenza storica-mitologica-culturale del suo ruolo nella genealogia di Gesù.
Attraverso un ricchissimo apparato di note e una approfondita documentazione letteraria e iconografica, l’autrice rivaluta l’importanza di Anna nel culto popolare e nella liturgia ecclesiastica, ma soprattutto ne rivela la potenzialità rivoluzionaria per una lettura femminista dei testi sacri e un’interpretazione del cristianesimo non puramente patriarcale.
Totalmente assente nei Vangeli canonici, Anna viene raccontata solamente dagli apocrifi, e in particolare dal Protovangelo di Giacomo, e quindi recuperata nella riflessione di alcuni grandi Padri della Chiesa e di diverse mistiche. Nadia Lucchesi ricostruisce la vita di Anna dalla nascita (tramandata in controverse tradizioni riguardanti il luogo e i genitori), per soffermarsi poi sul suo matrimonio con Gioacchino e sulla nascita tardiva e miracolosa di Maria, e per vagliare infine le testimonianze sulla sua sepoltura e sulle reliquie documentate in diverse località europee ed orientali.
Ma non sono tanto i particolari biografici, ovviamente lacunosi e ipotetici, a interessare l’autrice, quanto invece la teoria che collega Anna a culti pre-cristiani e pre-patriarcali, centrati sull’adorazione di una divinità femminile riferibile a una Grande Dea, creatrice dell’universo per via partenogenetica, vergine e madre, collegabile nel suo rapporto con Maria alle “dee doppie” presenti in molte religioni antiche. Ipotesi che verrebbe a scardinare un Olimpo divino tutto declinato al maschile.

 

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www.sololibri.net/Anna-Una-differente-trinita-Nadia.html     16 dicembre 2015

 

RECENSIONI

LUGANO

BRUNO LUGANO, NEL ROVESCIO DEL PERDONO – MARCO SAYA, MILANO 2015

Fedele al suo proposito di pubblicare poeti lontani dai circuiti letterari collaudati e tradizionali, l’editore milanese Marco Saya propone ai lettori questo volume di versi di Bruno Lugano, un anziano signore nato a Viareggio negli anni di guerra, e vissuto a lungo in Australia facendo “di tutto”. Un’infanzia difficile, tra affidi e orfanatrofi, con un padre sparito e non rimpianto, una giovane madre ripudiata dalla famiglia, teneramente amata e celebrata «come un cucciolo di innocenza», Bruno Lugano descrive se stesso in poche frasi, incisive e impietose: «nervi fragili e presunzione divina…malgrado parli sempre di me, di me non saprei dire granché». In effetti, la sua scrittura non potrebbe essere propriamente definita autobiografica: l’autore racconta della sua vita cose comuni a tutti gli esseri umani (emozioni e desideri, rimpianti e nostalgie, speranze e delusioni), e lo fa appunto sentendosi portavoce di un sentire collettivo, per nulla elitario o privilegiato. E sempre cerca un terreno di condivisione con chi lo legge, una comunicazione diretta e partecipe:

«Chiunque fossi io non mi fiderei di me / ve lo garantisco io che mi sono perso in ogni debolezza / che mi sfiorava appena», «No scusate ora devo cercare un tappeto di petali dove / lasciarmi cadere», «Non fateci caso se mi viene da piangere in questi casi / a me viene di non farci caso», «Non so se anche voi sentite come me la chiarezza che si / scioglie nel semplice calore».

Non c’è nessuna scaltrezza formale nei suoi enjambements originalissimi e spiazzanti: solo l’urgenza di seguire un pensiero e il bisogno impellente di manifestarlo, con «un ritmo ossessivo e un verso ipertrofico», come suggerisce Antonio Bux nella postfazione. Alla poesia Bruno Lugano affida un compito di salvezza dalla banalità del quotidiano, quasi fosse un viatico capace di accompagnare all’unica verità raggiungibile: «E’ indispensabile per me mettere le parole / nelle mie piaghe / curare le piaghe sempre leggermente diverse del giorno / con parole leggermente diverse». La fede nella parola che guarisce e aiuta a vivere ha qualcosa di religioso e umile, lontano da ogni celebrazione clericale o devota: «Parole lampo / per scrivere con l’ombra di riserva / qualcosa di molto chiaro che non ricordo più», «Il destino della luce è il perdono / lì la luce sta di casa», «Tanto poi tutto quello che manca / dico, tutto quello che manca, / nel momento in cui si infiamma di leggerezza la fede / si trova in abbondanza».

Sono versi travolgenti nella loro spudorata ingenuità, soprattutto in alcuni luminosi incipit: «Mi hai lasciato d’estate, per fortuna!», «Chi vive solo sa come il disordine può fare compagnia», «Provo tutto ciò che prova l’acqua chiara», «Come sono belli i giovani io li sposerei tutti», «Mi mangio il cielo e la terra a cucchiaiate». E perdoniamo volentieri all’autore se gli capita spesso di perdersi in riflessioni filosofeggianti che annacquano la tensione poetica, quando poi qua e là, come quadrifogli insperati in un prato, riusciamo a raccogliere all’interno o alla fine di una composizione altri barlumi di improvvisa bellezza: «quando sei solo vai incontro a un dio da fermo», «anch’io ho capricci di ragno fiero, nella solitudine», «mi sospira oscenamente un male elementare», «vorrei essere un animale con l’anima cristiana», «si comincia tutti dal proprio zero disperato», «Io sentivo la sera venire. / Ho sentito tutto. //…Ho amato tutto, / quello che c’era da amare l’ho amato tutto».
Non sempre i “poeti laureati” di montaliana memoria sanno emozionarci così.

 

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www.sololibri.net/Nel-rovescio-del-perdono-Bruno.html     22 settembre 2015

RECENSIONI

LUISI

PIER LUIGI LUISI, SUO PADRE ERA UN ALBATROS – SALANI, FIRENZE 1990

 

La casa editrice fiorentina Salani, di robusta e rispettabile tradizione nel campo dei volumi per l’infanzia, ha ripreso in questi ultimi anni a pubblicare con successo alcune collane che propongono sia collaudatissimi classici, sia volumi ingiustamente dimenticati degli anni ’40, sia nuovi o sconosciuti autori. Nella serie Gl’Istrici (sottotitolo «I libri che pungono la fantasia»), volumetti tascabili corredati da illustrazioni in bianco e nero, è uscita nel mese di marzo una storia un po’ fiaba e un po’ mito, un po’ viaggio e un po’ sogno, dal titolo nostalgico e misterioso : Suo padre era un albatros. L’ha scritto Pier Luigi Luisi, scienziato, professore al Politecnico di Zurigo ( si occupa di chimica macromolecolare dei biopolimeri), uomo dai vasti e poliedrici interessi culturali. Due anni fa aveva pubblicato, con prefazione di Dante Isella, un libro di racconti ambientati nell’Isola d’Elba. Si trattava allora di testi che coniugavano il realismo della memoria ritrovata (Luisi è appunto elbano) con una viva sensibilità pittorica: il ritorno al passato era pretesto per disegnare figure e ambienti tra sogno e risveglio, tra acquerello e incisione. In questo volume, invece, il fantastico e l’invenzione hanno nettamente la prevalenza: tra l’altro, il primo dei due racconti che lo compongono è stato segnalato al Premio Nazionale di narrativa fantastica J.R.Tolkien 1989. Protagonista della storia è una giovanissima malese, della tribù dei Senoi: si chiama Clau-Di-Tam, è insieme forte ed esile, degna figlia di una dolce indigena e di un grande e inquieto navigatore bianco. Dal padre ha preso la pelle chiara, i capelli scuri e lisci, la curiosità e il coraggio; dalla madre e dalla sua tribù la conoscenza rispettosa e ammirata di tutti i fenomeni della natura, la capacità di comunicare coi fiori e gli animali, e la rarissima dote di sapere interpretare i sogni che le arrivano dall’aldilà, sempre gravidi di significato e premonitori. Clau-Di-Tam vive con la sua tribù sulla riva del Grande Lago, che percorre in lungo e in largo sulla canoa; si spinge a esplorare la giungla, studia il volo degli uccelli, sa muoversi sinuosamente al ritmo di danze antiche, cavalca orsi e blandisce scimmioni, ma soprattutto sogna. I suoi sogni sono visioni luminose, dai colori splendenti, arazzi in cui intesse armoniosamente i tanti fili che la vita le ordisce. I Senoi le affidano il gravoso incarico di recuperare il sogno interrotto del capo del villaggio in agonia, onde evitare maledizioni e disgrazie che si abbatterebbero per sette generazioni sulla sua gente. Clau-Di-Tam riesce a portare a termine il suo compito, dopo aver sfidato il regno minaccioso dei demoni dei sogni, popolato da creature malefiche e orripilanti come in un quadro di Bosch. In questo mondo di incubi c’è più Artemidoro che Freud, ci sono più miti platonici (i due rospetti che abbracciandosi formano una palla suggeriscono una reminiscenza del Simposio) che studi sui neuroni…E Clau-Di-Tam che mangia funghi secchi per acquistare nuove virtù, che parla coi fiori animati e ha a che fare con una regina cattiva, ricorda molto la piccola Alice di Lewis Carroll, un’Alice più ingenua e istintiva, immersa nella natura. Alle soglie della pubertà, Clau-Di-Tam si imbatte nella tentazione della civiltà avida e corruttrice, personificata proprio dal mitico padre bianco, figura quasi conradiana, tornato su una grande nave alla ricerca del fungo dell’eterna giovinezza, che rende immortali e crudeli, come in un rinnovato mito faustiano. La ragazzina salva il padre, accompagnandolo nella sua avventurosa ricerca e strappandolo alle forze del male; lo convince ad accettare il corso naturale della vita e il suo declino verso la morte, e sceglie poi di non seguirlo in occidente, preferendogli «il mare amico…la spiaggia di sabbia bianca». C’è qualcosa, in questo immaginoso, tenero racconto che ricordi vagamente il mondo elvetico e gli interessi scientifici del professor Luisi? Forse lo spassoso episodio della lotta tra i Mischlinghi (il loro capo si chiama, programmaticamente, Entropio!), ricciuti, grassottelli e sporchi, che vorrebbero mescolare tutti gli elementi della natura in una fastidiosa varietà e confusione di caratteri e colori – giorno e notte, caldo e freddo, stagioni, alberi e animali -, contro gli Schwizerlinghi (guidati da Ornig!), silenziosi, composti, puliti e conformisti, che vorrebbero ovunque ordine, separazione degli opposti, rigore concettuale. Queste minuscole creature così differenti tra loro, ma costrette a vivere nella giungla, sembrano metafora evidente di una società – come quella svizzera- in sofferto conflitto razziale, e del mondo accademico, intellettualmente scisso tra caso e necessità.

 

«Agorà» (Svizzera), 6 giugno 1990