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RECENSIONI

LIBERALE

LAURA LIBERALE, BALLABILE TERREO– D’IF, NAPOLI 2011

Scrivere di malattia e di morte, soprattutto in poesia, significa correre il rischio di imbattersi nel patetico o nel retorico, di sforare in toni troppo striduli o forzatamente dimessi, di urtare per un eccesso di esibita sensibilità o esacerbato rancore l’emotività del lettore. E’ un rischio che la poetessa torinese, trapiantata a Padova, Laura Liberale (1969) ha consapevolmente accettato come sfida, ed eluso attraverso consapevoli scelte contenutistiche e formali. La malattia del padre, la sua individuazione e cura da parte di asettici dottori («E’ davvero così certo / di parlare del tumore di mio padre?») viene metabolizzata poeticamente («adenocarcinoma / un settenario, dottore, dunque cantabilissimo»; «il cancro è una cometa / la coda a cui attaccarsi per tornare»), soprattutto attraverso la rivisitazione affettuosa del rapporto con la figura genitoriale («mio Assente, mio Narrante / mio colossale Mito»;  ««O luce che fai strada / O fuoco che non bruci più ma guidi»). Il ricordo àncora a un passato che si vorrebbe poter rivivere nelle sue tenerezze («Al luogo delle voci ritrovate / c’arriverò, papà? / La tua, la cara, con il suo corteggio»), o nella foto sullo sfondo marino che li ritrae insieme, ««il padre e la bambina //…col sorriso / identico e leggero», o nell’apparizione estiva nei luoghi dell’infanzia di un vecchio arrotino, e nuovamente nell’appellativo piemontese con cui il padre la chiamava: «garibuia». Alla fine e dolorosamente, il dialogo «lungo trentacinque anni»» si chiude, con le ultime parole di lui : «Non fare quella faccia». E la poetessa commenta, ferita, commossa : ««Nemmeno da morente / vuoi rinunciare al ruolo». Eppure, «Se è con l’imperfetto che dovrò / dirti d’ora in avanti», sarà proprio la poesia a compiere l’arduo miracolo di restituire una presenza, una voce, un accompagnamento non più materiale, ad assicurare una difesa che sia per sempre. «E dunque ancora mi proteggi da me».

 

«L’Immaginazione» n.271, novembre 2012

RECENSIONI

LIBERTO

CARLO LIBERTO, VANTAGGIO ALLA BATTUTA – PUNGITOPO, MARINA DI PATTI 1990

Gli aforismi sono, secondo il Dizionario Garzanti, «brevi massime enuncianti una regola pratica o una norma di saggezza». In quest’ultimo decennio la nostra cultura è stata invasa da volumi di massime che niente avevano a che vedere con l’oscurità densa di significato di un Eraclito, o con gli aculei universali di Marziale, o anche solo con la sapienza francescana di certi almanacchi. Sono stati soprattutto gli intellettuali più aristocratici e reazionari a inondarci delle loro meditazioni in briciole, onnicomprensive e onnigiudicanti, più presuntuose che profonde (penso a Ceronetti, a Cioran), accolte in genere dalla nostra stampa con trepidante ossequio anche quando si trattava di assolute banalità. Ma esistono anche aforismi che hanno la leggerezza di un refrain, l’incanto del gioco di parole riuscito, la spietatezza di un “a fondo” ben centrato: ce ne dà un esempio un riservato signore settantaseienne, che ha pubblicato da Pungitopo un libriccino prezioso di pensieri semiseri, di arguzie modestamente definite «battute». Carlo Liberto vive a Berna, ma è nato a Malta nel 1914, si è laureato a Roma in scienze politiche e ha intrapreso la carriera diplomatica che l’ha portato in Turchia e in Svizzera, praticando sempre la scrittura come passione personale e il giornalismo come impegno gratificante. Il suo ultimo volumetto ha un titolo preso in prestito dal tennis: Vantaggio alla battuta, a giustificazione di aforismi che si vogliono «privi di acredine» ma animati «dal gusto della trovata», giocati spesso sull’assonanza o sul modo di dire ironicamente rivisitato: «Partitocrazia: tessere o non tessere». «Gli arbitri: Soggetti ad alto fischio». «Faceva la corte alle tardone: lo chiamavano il nonnaiolo», «Denatalità: Ti ricordi le cicogne? Sono in cassa integrazione», «Dopo tante inutili prove, il figlio nacque in provetta», «Acqua inquinata? Niente paura. E’ stato emesso l’ordine di cottura». Sono illuminazioni pungenti, vivaci, che hanno qualcosa di allegro e incredibilmente giovane. Mi piace immaginare questo signore dai capelli bianchi che sorride sornione e beffardo davanti al conformismo e alla stupidità dilaganti, con l’esperienza dovuta ai suoi molti anni e la freschezza intatta di un carattere vivo: «Spinosa. Ammirava i socialisti / per il loro storico gesto / d’impugnare la rosa», «Palermo: la cosca d’oro», «Agli italiani piace molto la puntualità. Degli svizzeri». Le battute virtualmente cattive sono rare, e tanto più riuscite: «Solo perché incompresi / certi personaggi / si prendono per geni». Se non esiste acredine, l’amarezza è tuttavia uno dei sentimenti dominanti, anche se mai si riduce a sconforto; la potremmo definire pensosa disillusione, disincanto: «Più le macchine si fanno intelligenti / e più gli uomini diventano cretini”, “Questo nostro malessere / lo dobbiamo in gran parte / alla società del benessere»,
«La rassegnazione / è la maggior virtù dell’italiano. / Basta vederlo sull’autobus, / per non parlare del treno», «Benediceva l’insonnia: tanto fra non molto / avrebbe dormito per sempre». Termino con una delle massime che mi sono piaciute di più (ai lettori l’invito a cercarsene di migliori): «Ti ricordi quando gli inquilini / erano i vicini? / Ora sono lontani, e quanto! / Persino quelli della porta accanto».

 

«L’Arena», 18 ottobre 90

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LILLI

GINEVRA LILLI, DIARIO ORDINARIO –  MARCO SAYA, MILANO 2014

«Stringo la penna, graffio la carta»

Lo scritto in prosa che conclude questo volume di versi di Ginevra Lilli è in realtà quello composto per primo, nel 1993, quando l’autrice era poco più che ventenne: testimonianza di un male di vivere che già da quel momento prendeva a radicarsi nel corpo e nell’anima («Un piano inclinato che bascula su di un perno…Da allora faccio parte di tutta la tristezza che solo le onde sono capaci di raccontare e ripetere ogni giorno…Non so quanto tempo sia passato, non so neanche se nessuno si sia mai accorto di niente»). Questo senso di estraneità nei riguardi della propria e altrui vita, delle vicende pubbliche e private, addirittura dei propri confini fisici, si perpetuerà in tutti i versi successivi, scritti tra il 2009 e il 2014, dopo un silenzio buio durato anni: quasi che Ginevra si sia aggrappata alla poesia nel tentativo di riconquistarsi, di recuperare una serenità che l’esistenza le aveva minacciosamente negata.
Eccoli, quindi, questi versi quasi spavaldamente e consapevolmente ignari o diffidenti di tradizioni, eredità e correnti letterarie, e invece decisi ad affermare un loro autobiografismo fatto di sofferenza e di rabbia, di richieste d’affetto e amicizia, di ricerca di un salvifico approdo. Lo stile varia dal discorsivo quotidiano, come nella poesia iniziale («Quella alta,  / la vedi? / E’ saltata / da un treno! //… Poraccia. // Quel sorriso / è il suo. / Sempre quello. / Chissà.»), al cantilenante della filastrocca popolare («Niente premura, / sono in Gallura, / del continente / non mi frega niente»), al pacato-meditativo-orientaleggiante («Un dolce andare verso Oschiri, / in un accenno d’estate, / nel giallo pigro dell’erba, / nella luce chiara di mezzogiorno. / Tutto tace, tutto è buono»), o all’asseverativo, tendenzialmente gnomico, anche quando esprima le più lapalissiane verità («Tutto in questo mondo / è sesso-potere-denaro»). Non è infatti il risultato estetico ciò che interessa a Ginevra, quanto lo scandaglio nel dolore, che deve essere reso nell’immediatezza dei versi: franti, sincopati, incapaci di distendersi nella musicalità, o di controllarsi criticamente nel rigore metrico. La vita è un viaggio (Roma, Toscana, Sardegna…); la natura – soprattutto nel suo elemento acquatico, quindi amniotico – qualcosa in cui annullarsi; la cultura libresca una zavorra da cui liberarsi («Passamelo quel libro chiaro, il divano è zoppo. / Ci mettiamo questo qua, che ne dici? Ungaretti! / E’ del giusto spessore. / Oplà.»).
L’immagine che l’autrice tende a dare di sé è talvolta impietosa, quasi amasse esibire il lato più negativo del suo inconscio («Sono fatta di sangue scuro, penso, donna-bambina / capace di voglie nere, di tanto nero / odio»; «Stringo la penna, / graffio la carta, / il bianco lo mangio. // Poi sputo, taglio. Stritolo / e lacero. Il vuoto / consumo, consumo lo strazio. / Io ti ammazzo»; «Si gonfia la pancia, / fuggon le idee / e mi ritrovo qui sola / ubriaca di fiele»; «Che il mondo / scompaia. / Poi ,/ staremo tutti meglio»): quando invece la richiesta di amore, di pace, di amichevole e solidale comprensione risulta evidente a chi legge con l’imperiosità di un S.O.S. disperato. Esplicite infatti sono le dichiarazioni d’affetto ai familiari, agli amici, al destino stesso e al futuro che l’attende («E’ di calma che mi vorrei nutrire»; «La preghiera / è nata. / Ed è un verso: / ti prego, stammi accanto»). La domanda di protezione, di assoluzione e di leggerezza è disarmante, quasi infantile: «Non guardatemi / con severità, / sono sempre io», «Fammi beare di me stessa, dimmelo, / dimmelo che sono / bella, brava e buona. / Voglio i complimenti, i riconoscimenti, i premi e le premure per le / prime donne. / Non per forza il successo, ma un biscottino per cani…». Poesia come preghiera laica, come sentiero chiaro che conduca a una radura clemente nel bosco fitto, come conquista lieta di serenità. E’ ciò che Ginevra Lilli augura a se stessa, e che la voce tenue ma fidata dei versi le può far raggiungere: «Un giorno, / mi incontrerò / e sarà / l’incedere affaticato di un gigante di donna; i crucci / attorcigliati, riccioli / presi e infilati / uno ad uno / in una lunga collana rossa rossa. / Rosario di grande fortuna».

 

Prefazione a  Diario Ordinario, 2014

RECENSIONI

LINGIARDI

VITTORIO LINGIARDI, MINDSCAPES – CORTINA, MILANO 2017

Sono forse le righe finali del bel libro di Vittorio Lingiardi (psichiatra, analista e docente universitario) a meglio sintetizzare il senso della sua ricerca: «Il paesaggio non è solo quella porzione di natura che si mostra ai nostri occhi. È il luogo invisibile in cui mondo esterno e mondo psichico si incontrano e si confondono, inaugurando nuovi confini. Per vedere un paesaggio dobbiamo averlo già ‘sognato’ … Il paesaggio è la nostra psiche nel mondo. Dobbiamo ascoltarlo e rispettarlo per la sua capacità di sostenere la bellezza, la grazia e la minaccia … Nel manifestarsi si nasconde. Al punto che, quando ci congediamo, ne stabiliamo l’avvento».

In questa interazione tra dentro e fuori, presenza e assenza, visione e memoria, scienza e arte, anima e corpo, spaziano le pagine di Mindscapes, neologismo che tende a fondere la mente nell’ambiente, in uno scambio reciprocamente vitalizzante, arricchente: «con la psiche nel paesaggio e il paesaggio nella psiche».  Un fuori da noi che ci modella da sempre, e che noi come umanità abbiamo nei millenni lavorato, trasformato, a volte deturpato. Lingiardi ci conduce attraverso sentieri bibliografici che si inerpicano in quattro direzioni: critica documentaria, letteratura e pittura, neuroestetica, psicanalisi, per raggiungere l’unica meta della comprensione di ciò che siamo attraverso il rapporto imprescindibile con i nostri luoghi. I quali possono essere reali o fantastici, visitati o solo letti e immaginati, amati od odiati, ma in qualche modo si ricollegano sempre a un evento emotivo, a un incontro, a una scoperta affettiva o intellettuale. Il nostro rapporto con il paesaggio non è mai solo contemplativo, di pura curiosità o ricreazione, poiché implica una partecipazione fisica coinvolgente, e può offrirsi come consolazione, nostalgia, rimpianto, ricordo traumatico. Lo sguardo volto all’esterno evoca immancabilmente qualcosa, ha un impatto estetico capace di produrre un evento psichico.

Lo scienziato Lingiardi dedica alcuni capitoli molto interessanti sia alla relazione che intercorre tra il viaggio materiale e quello affrontato nell’analisi terapeutica, sia all’intreccio indagato dalle neuroscienze tra percezione, visione cerebrale, memoria ed emozioni. Veniamo così a sapere che ancora prima del movimento e della forma, noi vediamo il colore, e prima dell’identità di un viso ne cogliamo l’espressione. Inoltre, sembra che abbiamo preferenze innate e generalizzabili rispetto agli ambienti esterni, e prediligiamo (associandoli all’habitat ancestrale) quelli pianeggianti o collinari, con laghi-fiumi-alberi a ramificazioni aperte, lontani da pericoli o minacce. Esiste poi un rapporto speciale tra ciò che amiamo scorgere nel paesaggio e la memoria delle figure genitoriali, una marcatura affettiva che ci fa prediligere posti particolari dove siamo stati nell’infanzia e in altri momenti felici dell’esistenza («Camminiamo in avanti, ma ci giriamo a guardare»).

Vittorio Lingiardi non è solo medico e psicanalista: ha pubblicato due raccolte di versi, e la sua attenzione per la parola poetica si esprime nel volume in molte illuminanti citazioni (da Rilke, Frost, Borges, Dickinson, Caproni, Penna, Strand…), e persino nelle modulazioni della sua stessa scrittura, sospesa in una affabulazione quasi musicale. Numerose sono poi le riproduzioni di quadri antichi e moderni, le fotografie, le mappe, che inframmezzando le descrizioni rendono più accattivante la lettura. Boschi, radure, deserti, spiagge, montagne: un patrimonio che con sensibilità ecologica l’autore ci invita a rispettare e a preservare da vandalismi, scempi architettonici, manipolazioni a fini commerciali e pubblicitari, così come dal consumo bulimico di foto, video, immagini e dalla falsificazione turistica, tendenti in ugual misura ad appropriarsi egoisticamente di ciò che appartiene a tutti, e dovrebbe essere tenuto in considerazione con cura e scrupolo rigoroso.

 

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https://www.sololibri.net/Mindscapes-Lingiardi.html        10 luglio 2018

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

LINGIARDI

VITTORIO LINGIARDI, L’OMBELICO DEL SOGNO: UN VIAGGIO ONIRICO – EINAUDI, TORINO

L’ultimo saggio pubblicato dallo psichiatra e psicanalista Vittorio Lingiardi (Milano 1960) è dedicato all’attività onirica, esplorata nella sua complessità neurologica, psichica, letteraria, culturale. “Siamo fatti della stessa sostanza di cui sono fatti i sogni, e nello spazio e nel tempo d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita”, scriveva Shakespeare ne La tempesta, assimilando l’impalpabile e misteriosa indeterminatezza che da sempre abita e agita le notti degli esseri umani (inquietandoli, interrogandoli) alla labilità della loro esistenza. Astratti, nebulosi, oscuri, difficilmente interpretabili, anticipatori di sorprese e presagi, ricordi ed emozioni, turbamenti o improvvise euforie, i sogni sono varchi che ci aprono alla conoscenza di noi stessi e del mondo.

Lingiardi suddivide la sua ricerca in tre sezioni, in cui espone i diversi punti di vista da cui poter esplorare il lavoro onirico nelle sue diramazioni (divinità, inconscio, cervello), utilizzando suggerimenti tratti dal mito, dalle religioni, dalla letteratura, dall’arte e dal cinema.

L’umanità ha sempre sognato, e ha sempre cercato di descrivere e comprendere il significato delle visioni notturne: dall’epopea di Gilgamesh alla Genesi, da Omero ai tragici greci, da Platone ai poeti latini (Ovidio, Virgilio, Lucrezio), tutto il mondo antico ha elaborato una propria cultura del sogno, ritenuto spesso di derivazione divina, e in quanto tale profetico, a volte presagio di avvenimenti favorevoli, o al contrario ingannatore, e temibilmente sinistro: gli antichi Romani chiamavano Incubus (“che sta sopra”), i Greci Efialte (“che ti salta sopra”), quello più spaventoso, foriero di angoscia, paralisi e soffocamento. La duplicità di benevolenza e pericolo viene espressa da Penelope nel XIX libro dell’Odissea (“Straniero, sono inspiegabili e ambigui i sogni”), quando illustra a Ulisse come si presentino le porte da cui le immagini fanno ingresso nel sonno, una con battenti di corno, l’altra d’avorio: queste ultime avvolgono la mente di inganni, mentre le prime sono rassicuranti e veritiere.

Se dall’antichità fino al Rinascimento si sono avuti interpreti e catalogatori di sogni propensi a crederli di origine divina (Macrobio, Elio Aristide, Artemidoro, Tertulliano, Silesio di Cirene, Macrobio, Achmet fondatore della oniromanzia islamica, Gerolamo Cardano, per non parlare delle cento e più citazioni contenute nell’antico Testamento e nel Talmud), era altrettanto nutrita la corrente razionalista, che dava della funzione onirica un’interpretazione fisiologica, meccanicista, con i suoi autori più rilevanti: Aristotele, Epicuro, Cicerone, Lucrezio, Tommaso d’Aquino, fino a Cartesio e alle spiegazioni laiche e scientifiche degli psichiatri e dei neurologi ottocenteschi.

Nella seconda parte del saggio, Lingiardi affronta (con “le mani nei capelli”) le diverse interpretazioni psicanalitiche dell’attività onirica, a partire da quelle di Sigmund Freud (autore nel 1900 della fondamentale Die Traumdeutung), che si proponeva di darne una definizione scientifica e razionale.

Se gli antichi guardavano ai sogni in funzione del domani, come profezie o premonizioni, Freud li indagava in funzione del passato, in quanto produzione inconscia di residui diurni, paure infantili, legami perduti, associazioni involontarie derivate da traumi sequestrati nel corpo perché la mente non poteva ospitarli: un trucco per proteggere l’Io dalle forze oscure dell’inconscio, e insieme “appagamento di un desiderio” censurato a livello cosciente, perché ritenuto riprovevole per la sua natura sessuale o aggressiva. “L’ombelico del sogno è il punto in cui esso affonda nell’ignoto”, e rappresenta la “via regia per la conoscenza dell’inconscio”. Secondo il medico viennese, questo fenomeno psichico, rielaborato nel sonno attraverso processi di condensazione, spostamento, raffigurabilità, può riemergere nel reale significato attraverso la tecnica dell’analisi, e venire curato nelle sue manifestazioni nevrotiche.

L’amico-nemico di Freud, Carl Gustav Jung, prese presto le distanze dalla posizione del maestro, sottolineando la dimensione mitica e collettiva del mondo onirico, di cui esaltava la finalità creativa non falsificata, in grado di esprimere “qualcosa che l’Io non sa e non capisce”, in un linguaggio allegorico intraducibile in termini logici. Più visionario e meno sistematico di Freud, Jung rivalutava l’alterità onirica in quanto forma diversa di pensiero, che ci aiuta a definire chi siamo attraverso un continuo lavoro al confine tra coscienza e inconscio.  Il sogno dà accesso “all’uomo più profondo, universale, vero ed eterno, ancora immerso in quelle tenebre della notte primitiva in cui egli era ancora tutto e tutto era in lui”. Convinto dell’esistenza della dimensione archetipica dell’inconscio collettivo, sedimento di esperienza acquisite dagli antenati nel corso dell’evoluzione e trasmesse per via ereditaria, considerava l’inconscio non solo ricettacolo di ricordi personali rimossi, ma anche scrigno di nuovi pensieri non ancora coscienti, vitalizzanti e creativi.

Dopo aver esposto le contrapposte teorie dei due giganti Freud e Jung, Vittorio Lingiardi offre ai lettori un ricco elenco di seguaci e innovatori novecenteschi dell’indagine psicoanalitica sull’attività onirica. Partendo da Melanie Klein per soffermarsi in particolare su Bion, Hillman, Ogden, Bromberg, Fosshage (citando anche Kiefer, Kohut, Pontalis, Grotstein, Bollas, Fonagy, Fairbairn, Lacan), Lingiardi sostiene che la psicoanalisi contemporanea non considera più i sogni solo come “materiale cifrato da rivelare, ma come prodotti di un neurolaboratorio da cui emergono visioni e narrazioni che possono suggerire ipotesi sul nostro funzionamento psichico… Un modo di alfabetizzare sensazioni, percezioni, emozioni e trasformarle in matrici visive pensanti”.

Dell’inglese Wilfred Bion (1897-1979) sottolinea l’importanza di aver intuito che il sognare è un elemento strutturante della vita mentale, un apparato per “pensare i pensieri”, non riducibile negli stretti confini del sonno notturno: processo attivo anche nello stato di veglia, ci permette di dare un senso a elementi altrimenti destinati a restare impensati e impensabili.

Secondo le recenti prospettive cognitive e sociali, l’evento onirico viene sempre più considerato strumento di narrazione e relazione, studiato in quanto processo di pensiero che serve a elaborare informazioni vitali, esercizio psichico che ci prepara all’ignoto, modo di elaborare le preoccupazioni e testare la nostra resistenza alla minaccia, possibilità di risolvere i conflitti e riparare i traumi, mezzo per la regolazione affettiva nel complesso rapporto mente-corpo-cervello.

Negli ultimi decenni l’interesse per la funzione onirica si è straordinariamente sviluppato, focalizzandosi sull’indagine neurocognitiva dei circuiti cerebrali coinvolti, dei neurotrasmettitori, delle fasi del sonno e delle amnesie post-sonno: ed è nella terza sezione del libro che Lingiardi esamina l’argomento dal punto di vista scientifico. Il sogno come evento puramente neurale è stato asserito da numerosi e celebri fisiologi, che hanno duramente contestato le teorie psicanalitiche, affermando che il sogno è il risultato di un assemblaggio casuale di impulsi neuronali attivati soprattutto dal tronco encefalico, del tutto estranei a memorie del passato, censure, desideri rimossi. Si sono approfondite le ricerche sulla fase REM del sonno, in cui si modula l’80 per cento dei sogni, determinata da fattori puramente biologici: l’attivazione delle cellule che producono acetilcolina e la disattivazione di quelle che producono serotonina e noradrenalina. A tali cambiamenti sarebbero imputabili le immagini visive, vivide e allucinatorie che caratterizzano il sogno, provocando emozioni intense e acritiche dal contenuto illogico, difficili da ricordare al risveglio.

Si è scoperto che i sogni che facciamo prima del risveglio sono i più intensi, che gli anziani sognano di meno, che esistono sogni collettivi e ricorrenti, provocati da fenomeni sociali condivisi (terrorismo, catastrofi naturali, epidemie). I contenuti più comuni riguardano: “impotenza/incapacità, essere aggrediti/inseguiti, incidenti stradali, conflitti interpersonali, preoccupazione per salute/morte propria o di persone care”, e provocano ansia, tristezza, rabbia, disgusto, senso di colpa.  Ciascuno di noi sogna ad occhi aperti, e il fenomeno del daydreaming si ripete con circa duemila episodi al giorno, rielaborando ricordi o creando mondi immaginari, fantasticando su vendette, successi, recriminazioni, in un continuo vagare narcisistico su sé stessi: il sogno, notturno o diurno che sia, è sempre egocentrico.

Comunque sia, sognare (funzione intesa in senso meccanicistico oppure come rielaborazione del proprio vissuto) rappresenta un altrove, un ambito in cui l’individuo incontra una diversa esperienza di sé: “I sogni sono nostri, l’ultimo spazio di vita privata, forse di libertà”. Teniamoceli stretti.

 

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 20 luglio 2023

 

RECENSIONI

LIPSKA

EWA LIPSKA, IL LETTORE DI IMPRONTE DIGITALI – DONZELLI, ROMA 2017

Ewa Lipska è nata a Cracovia, dove tuttora vive, nel 1945. Scrittrice di versi e narrativa, è molto nota in patria e all’estero, grazie alle numerose traduzioni delle sue poesie in diverse lingue. Ha trascorso gli anni politicamente difficili del suo paese impegnandosi nella scrittura, senza aderire mai a nessun partito, ma lottando in difesa degli scrittori perseguitati e censurati, e condividendo attivamente le manifestazioni più innovative in ogni campo artistico, fino a ricoprire la carica di direttrice dell’Istituto Polacco di Cultura a Vienna dal 1991 al 1997.

La raccolta di versi appena pubblicata da Donzelli definisce già dall’originalità del titolo Il lettore di impronte digitali (ammiccante sia al genere poliziesco, sia all’attualità informatizzante) il carattere razionale, ironico e definitorio di queste poesie. Del cui stile possiamo dire subito che si manifesta coerentemente secco, asseverativo, puntuale in tutto il libro, scandito com’è da una paratassi rigorosa, frasi brevi e nominali, eccedenza di punti fermi, assenza di metafore e scarsa aggettivazione.
In questo suo poetare lontano da ogni retorica e sentimentalismo, vicino invece a una sobria e severa narratività, non troviamo però nessuna indulgenza verso il didascalico, anche quando l’ammonimento etico è prevalente. Lo sconcerto della poetessa di fronte all’irrazionalità dell’esistenza, alle crudeltà della storia umana, è la cifra più evidente del suo messaggio poetico: «Il mondo / in cui vivevamo / si chiamava Rebus / e se ne infischiava delle nostre domande», «Tutto era come in prova / ma ci entrava nel sangue», «Non andrà diversamente. / Sarà così come è stato».

L’età contemporanea, dominata dal «dio di Internet», assediata da un ipertecnicismo disumanizzante, dalla finanziarizzazione degli scambi interpersonali («Un mercato senza cuore»), ci costringe a un solipsismo senza scampo: «La solitudine non ha corpo. / Neppure quando ci abbraccia. // Volteggia sopra di noi / come un aereo da ricognizione». Si aprono abissi di incomprensione tra le generazioni («Gli eredi / non hanno chance»), e qualsiasi gesto affettuoso, una corsa vivace, una risata allegra, lo stesso desiderio di innamorarsi risultano bloccati da una rigidità impaurita: «Incombe un amore gelido. / Un tempo friabile sotto cui si spacca il ghiaccio», «Ci spogliamo. / Ci facciamo un caffè. // Tiriamo fuori una bottiglia di bourbon / e ci guardiamo / dritti / nell’abisso».

Nella mancanza di riferimenti culturali o etici, nell’anarchia delle direttive ideologiche («ci disperdiamo in tutte le direzioni:/ l’est va verso l’ovest / il sud verso il nord»), passato e futuro si confondono, fisica cosmologica e quantistica si contraddicono, e l’apocalisse ambientale incombe come uno spettro. Ewa Lipska tuttavia non pare né spaventata né rassegnata: denuncia lo stato attuale delle cose con analitico realismo, con asciutta consapevolezza, come in questo conclusivo appello al mondo: «A volte sei bello. Un vestito cosmico. / Un guardaroba celestiale di paesaggi. //… Qualcuno prevede sempre la tua fine. / Non hai parenti stretti.  A chi / lascerai tutto questo? Pianeti ficcanaso / forse ne avrebbero voglia».

 

© Riproduzione riservata  

www.sololibri.net/lettore-impronte-digitali-Lipska.html    3 marzo 2017

 

 

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LISPECTOR

CLARICE LISPECTOR, VICINO AL CUORE SELVAGGIO – ADELPHI, MILANO 1987

Clarice Lispector, ebrea russa nata nel 1924 in Ucraina ed emigrata in Brasile con i genitori a due mesi, visse dapprima a Recife, poi a Rio de Janeiro. Perse la madre a nove anni, e da subito iniziò a scrivere, in portoghese, nel tentativo di superare il dolore inconsolabile di questo lutto. Pubblicò i primi racconti a quattordici anni, e a diciannove un romanzo, Vicino al cuore selvaggio. Dopo il matrimonio, soggiornò a lungo all’estero accanto al marito diplomatico, mise al mondo due figli, continuando comunque a scrivere e a pubblicare, circondata dalla fama della sua bellezza (testimoniata dalla foto in copertina di questo volume) e della sua forte personalità.
Nel 1958 rientrò in Brasile, divorziò, e produsse, oltre a numerosissimi racconti, l’opera più celebre: La passione secondo G.H.. Morì di cancro nel 1977.
Quando, nel 1944, uscì Vicino al cuore selvaggio, Clarice non era ancora ventenne. Il romanzo (originalissimo, polifonico, visionario), che la critica accostò subito alla scrittura di Virginia Wolf e di Joyce (di quest’ultimo è la citazione in epigrafe: «Era solo. Era abbandonato, felice, vicino al cuore selvaggio della vita»), confonde insieme presente e passato, realtà e immaginazione, dolcezza e rabbia.
I primi capitoli, dedicati al mondo infantile dell’autrice, sono febbrilmente caleidoscopici, vivi di una scrittura inventiva e provocatoria, in cui la descrizione oggettiva di natura e ambiente continuamente si trasfigura in illuminazioni allucinatorie. La protagonista è la piccola Joana, orfana di madre e allevata da un padre adorato, che presto tuttavia le verrà a mancare. Affidata alle cure ansiose di una zia, e poi alla severità di un collegio, la bambina si lascia andare ai suoi incubi e alle sue possessioni fantastiche, senza più inibirsi: «Io tendo al male, questo è sicuro, pensava Joana. Se no, che altro sarebbe quella sensazione di forza repressa, pronta a scoppiare in violenza, quella sete di usarla a occhi chiusi, tutta, con la sicurezza istintiva di una belva? Non era forse solo nel male che si poteva respirare senza paura, accettando l’aria e i polmoni? Neanche il piacere mi darebbe tanto piacere quanto il male, pensava sorpresa. Sentiva dentro di sé un animale perfetto, pieno di contraddizioni, di egoismo e di vitalità».

Nascono così le pagine migliori del romanzo, in cui riflessioni filosofiche sui temi eterni si alternano a vividi ritratti di corpi, oggetti, profumi, panorami. «I seni della zia erano profondi, ci si poteva infilare la mano dentro come in un sacco ed estrarne qualche sorpresa, un animale, una scatola, chissà che cosa. Con i singhiozzi s’ingrandivano, e dalla casa arrivava un odore di fagioli mescolato a quello dell’aglio»; «L’acqua cieca e sorda, ma allegramente non-muta che brillava e gorgogliava contro lo smalto chiaro della vasca da bagno…. La ragazza sente l’acqua pesarle sul corpo, si ferma un istante come se le avessero toccato leggermente la spalla. Attenta a quello che sta sentendo, l’invasione della marea. Cos’è stato?… Su quello stesso corpo che ha indovinato l’allegria esiste acqua – acqua… No, no…perché? Essere nati nel mondo come l’acqua».

Joana cresce, subisce innamoramenti e fascinazioni per idee, persone, paesi diversi (un professore anziano, alcuni animali, il fidanzato Otavio), sempre in bilico tra fisicità e spiritualità: «E fu tanto corpo da essere puro spirito. Immateriale, attraversava gli avvenimenti e le ore, scivolandovi in mezzo con la leggerezza di un istante». Si sposa, partorisce, ama e odia il marito, è tradita e abbandonata. Ma assorbe la vita con una voracità angosciata e feroce in tutti i suoi aspetti, in tutti i suoi istanti, fino alla morte corteggiata, cercata e respinta, in una indomita volontà di risurrezione.
«L’atmosfera di sgradevolezza, di malessere e di smarrimento, di indecifrabilità, di serpeggiante o esplosiva follia» di cui parla Alfredo Giuliani nella quarta di copertina non inficia mai la luminosa intelligenza della scrittura di questa prima, giovanile opera di Clarice Lispector.

 

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www.sololibri.net/Vicino-al-cuore-selvaggio-Clarice.html    11 novembre 2015

RECENSIONI

LO PORTO

TIZIANA LO PORTO, LA RAGAZZA CHE VA IN SPOSA – SARTORIA UTOPIA, MILANO 2024

Per le edizioni Sartoria Utopia, è recentemente uscito il volume di versi, già alla terza ristampa, La ragazza che va in sposa di Tiziana Lo Porto (Bolzano 1972). Originale come la casa editrice che lo ospita e come il titolo che gli è stato assegnato, il libro consta di un’ottantina di composizioni: un antiretorico canzoniere sentimentale raccontato a volte con una leggerezza che ha ancora qualcosa di adolescenziale, a volte con amara disillusione.

L’understatement autoironico con cui l’autrice innamorata finge di non esserlo (spiazzante nel tergiversare, nel negare coinvolgimenti eccessivi, nell’inventare distrazioni improbabili), viene poi confutato da sommesse richieste di rispondenza affettiva, mai petulante o ricattatoria, comunque femminilmente giustificata: “scrivimi / ogni / tanto”, “sto scrivendo / vuoi vedermi? / vuoi vedermi?”

Eppure, il gioco intestardito di negazione persiste, nonostante l’evidenza del bluff: “ti guardo e penso / io non ti avrei mai lasciato / ti guardo e penso / non voglio tornare con te / nel frattempo parliamo d’altro”, “se non scrivi / io smetto di desiderare le tue lettere”, “per coprire la distanza / tra me che dico ti amo / e tu che dici no!”

Si prende in giro, Tiziana, raccontando di sé che interroga l’i ching per trovare risposte sul futuro (e cosa significherà mai la profezia sulla ragazza cha va in sposa?), che cammina senza meta scattando fotografie ai gabbiani, inanellando pensieri vaghi e fluttuanti, per non pensare e soprattutto non confessare la propria sofferenza. Un pudore mascherato di levità anche quando parla del privato più privato: i cari defunti, le cicatrici, la malattia. Fiduciosa nell’esistenza cui si affida, perché esistono comunque piccole gioie e grandi consolazioni, Cose da venerare: “me / il mio amato / i musei / gli orti botanici / emily dickinson / george harrison / bob dylan / ludovico ariosto / la costruzione di una poesia / gli dèi – tutti / i morti”.

Altri nomi di riferimento spuntano qua e là nei versi: werner herzog, sylvia plath, william s. burroughs. Amici di carta o di celluloide, con cui confrontarsi e magari passeggiare tra presenze concrete o inverosimili: “cammino per le strade di new york / william s. burroughs è al mio fianco / gli altri non lo vedono / nemmeno io lo vedo ma so che c’è / quando vediamo un gatto ci fermiamo / guardalo negli occhi dice lui / guardo il gatto negli occhi / è tuo padre? Domanda / no rispondo / è qualcuno che conosci? / no mai visto dico / lasciamo andare il gatto e riprendiamo a camminare / vorrei fargli delle domande / vorrei chiedergli cose della scrittura e della vita / vorrei chiedergli questa storia dei gatti / tua moglie si è davvero reincarnata in un gatto? / anch’io diventerò gatto? / ma è sempre così serio e allora sto zitta”.

Tiziana Lo Porto vive e lavora come traduttrice tra Roma e New York, e dell’atmosfera americana ha respirato con naturalezza suoni e immagini, intuibili nello sfondo ambientale e nello stile, in particolare nelle pagine conclusive del libro.

Sebbene l’autrice abbia saputo reinventare un linguaggio personale, possiamo trovare nei suoi versi eredità e modelli derivati da poeti contemporanei o appartenenti a un passato novecentesco. Per la forma narrativo-dialogica si potrebbe pensare al magistrale insegnamento del Pagliarani milanese (La ragazza Carla, nel suo ambiente urbano, nei sentimenti sfiorati, nelle improvvise malinconie). Più vicino a noi senz’altro l’esempio canzonatorio, musicalmente orecchiabile e ironico di Vivian Lamarque, o la delicatezza appena velata di inquietudine di Chandra Candiani.

Invece nell’impianto immaginoso e arguto della seconda parte, l’influenza più evidente mi pare quella della poesia statunitense, non solo di Charles Simic o di un certo minimalismo femminista, ma soprattutto del realismo discorsivo di Raymond Carver, nella complice indulgenza con cui viene osservata e descritta l’umanità quotidiana dei gesti e dei sogni, individuali o universali che siano.

 

© Riproduzione riservata       «SoloLibri», 30 novembre 2024

 

 

 

 

RECENSIONI

LODGE

DAVID LODGE, QUANTE VOLTE, FIGLIOLO? ‒ BOMPIANI, MILANO 1996-2011

Quante volte, figliolo? è uno dei primi romanzi di David Lodge, garbatamente ilare, fornito di un sottinteso intento didascalico e (come sempre nella tradizione narrativa di quest’autore) polemicamente stimolante nelle sue riflessioni sui guasti dell’educazione cattolica, sul fariseismo morale della classe medio-alta inglese, sul carrierismo privo di scrupoli del mondo accademico. Davide Lodge (1935), scrittore e critico letterario, è stato docente di letteratura all’Università di Birmingham dal 1960 al 1987, e soprattutto in questo ambiente ha allestito le trame dei suoi libri, descrivendone con irriverente ironia i vizi e le ambizioni, la falsità degli intrecci relazionali e sessuali, l’apatia culturale degli studenti e il disinteresse didattico dei professori.

Questo romanzo, pubblicato nel 1980 con un titolo diverso da quello ammiccante dell’edizione italiana (How far can you go?), è diversamente dal solito situato a Londra, e segue lo svolgersi delle esistenze di un gruppo di universitari cattolici, ferventi seguaci della dottrina ecclesiale, che nel proseguo degli anni finiscono per annacquare la loro fede, adeguandosi al comportamento più moralmente rilassato della maggioranza delle persone. La narrazione si apre sugli incontri di studio e di preghiera che, a fine anni ’50, questi giovani tengono settimanalmente sotto la guida spirituale di un giovane sacerdote in una “fredda e tetra” chiesa londinese, partecipando alla Messa e all’eucarestia, pressati sia dai loro turbamenti sessuali e dagli angoscianti sensi di colpa che ne conseguono, sia da un incerto desiderio di cameratismo, più che da vera devozione. L’ossessione del sesto comandamento (il complesso della verginità, i tabù, la repressione, l’autoerotismo, la devianza, la fedeltà) sembra essere l’unico problema intorno cui ruota l’interesse dell’autore e l’idea generalmente condivisa di morale cristiana. Da “cattolico agnostico” come amava definirsi, lo sguardo dissacratorio di Lodge si appunta soprattutto sul conformismo religioso e su tante assurde prescrizioni dottrinali, con uno spirito di pungente contestazione riguardo ai dogmi più discussi. La sua ironia si rivolge contro indulgenze e confessioni, infallibilità papale e miracoli, condanne all’inferno e assunzioni al cielo, utilizzando un elegante understatement in puro humour britannico.

Del gruppo di ragazzi vengono raccontati i primi impacciati e deludenti rapporti sessuali (in genere dopo prolungati, castissimi ma smaniosi anni di fidanzamento), quindi i vari matrimoni con relativi litigi, infedeltà e nascite non programmate, poi le separazioni e gli strascichi legali dei divorzi. Per arrivare infine, dopo vite contrassegnate da rinunce al piacere e assurde colpevolizzazioni, oppure da rivendicazioni trasgressive e compromissioni con il vizio, a descrivere la loro rancorosa infelicità di intransigenti ortodossi, o di transfughi verso altre religioni, in una confusione ideologica oscillante tra conservatorismo ed eclettismo new age, negli anni disorientati, vivaci e ribelli del post ’68.

 

© Riproduzione riservata       

https://www.sololibri.net/Quante-volte-figliolo-David-Lodge.html         30 aprile 2018

RECENSIONI

LODOLI

MARCO LODOLI, I FANNULLONI – EINAUDI, TORINO 1990

Di quanto la generazione dei nuovi narratori (da De Carlo, ad Albinati, a Fortunato) sia debitrice al cinema si è a lungo e autorevolmente dissertato: comunque, ce ne fosse voluta un’ulteriore conferma, ecco arrivare il nuovo romanzo breve di Marco Lodoli, I fannulloni.
Marco Lodoli si è imposto quattro anni fa all’attenzione del pubblico con il riuscito romanzo  Diario di un millennio che fugge; nell’89 ha poi sottolineato la sua maturità di narratore con i racconti di Grande raccordo; ora queste 80 pagine scarse pubblicate da Einaudi arrivano, forse un po’ premature, un po’ presuntuosamente poco rifinite (era Orazio che raccomandava «nonum prematur in annum»…) a dirci che Lodoli è ancora lì, sempre promessa sicura delle nostre lettere, ma non ancora scommessa scontata.
Lodoli fa muovere queste sue nuove creature di carta sullo sfondo del brulicante microcosmo di una Roma periferica, comparse di un’esistenza quotidiana difficile e poetica, presenze insieme innocenti e malfide, che sembrano dover scontare con una vita grama la sfida di voler esserci a ogni costo.
Il racconto è narrato in prima persona da un anziano piazzista di pietre – nemmeno preziose, ma comuni lapislazzuli e ametiste da offrire a turiste e parrucchiere – nobile solo di aspetto e di nome: Lorenzo Marchese, in realtà uomo di poche pretese come le pietre che smercia.

«Io sono uno qualunque, ecco, i miei pensieri e le mie paure sono semplici, i miei soldi contati, la mia casa piccola, i miei sogni balordi come i sogni di chi da sveglio litiga con la realtà nemica e un po’ perfida… Però la gente attorno mi vede alto, distinto, differente…Forse ho contribuito all’equivoco girando in mille Paesi senza fermarmi mai abbastanza per rassicurare gli altri che in fondo ero come loro, un po’ più di niente».

Lorenzo vive due grandi sogni nella vita: il primo, raccontato con mano davvero felice nel capitolo d’apertura, è l’incontro e l’amore per Caterina, una goffa e tenera gigantessa, a disagio nel mondo e nei sentimenti, che ricorda la figura femminile tracciata da un nostro troppo sottovalutato narratore, Giorgio Scerbanenco, in I milanesi non ammazzano il sabato. Con Caterina Lorenzo divide una vita di poche pretese e un enorme letto per dieci anni, prima che un infarto gliela rubi crudelmente tra l’indifferenza della gente, lasciandogli solo il rammarico di non averle dato abbastanza: «Mi vengono in mente tante parole che avrei potuto dirle e che per pigrizia ho taciuto. Che la amavo. Che era stupenda. Che la vita è comunque un bosco misterioso, e allora è bello traversarla con un gigante». Morta Caterina, tornato a un’esistenza rassegnata e vigliaccamente dignitosa, Lorenzo ottiene dalla vita un secondo grande regalo: l’incontro con un ragazzo nero, un ambulante pieno di gioia di vivere e fantasia, che lo trascina in una serie di avventure incredibili ed esaltanti.

«Gabèn è forte e allegro, ha le spalle larghe per sostenere mille difficoltà, i denti bianchi per piegare il ferro della vita, e soprattutto l’andatura leggera per galleggiare. Indossa certi camicioni ottimisti, comodi e colorati, e sandali da frate, quando non va a piedi nudi, incurante. Ha la mente larga, stellata».

Ecco allora che il compassato rappresentante di pietre, ormai settantenne, viene costretto a improvvisarsi allenatore e impresario di boxe, e a organizzare un match nel sottobosco delle palestre di periferia (la sfida coi guantoni tra Gabèn e il tarchiato avversario ricorda la stupenda scena sul ring di  Luci della città, con Chaplin che scappa e solo alla fine viene tramortito da un gancio impietoso). Esaltato da questa esperienza estranea alla banalità del quotidiano, Gabèn si trasforma in cantante jazz, esibendosi in una cantina di artisti falliti, e infine, divenuto giardiniere e autista tuttofare in una villa di miliardari, approfitta dell’assenza dei padroni per vivere con Lorenzo una settimana di sogno, tra Via Veneto e nights, smoking e Mercedes, belle donne e fannulloni.
In quest’ultima parte del volume le citazioni filmiche si sprecano: c’è un po’ tutto il nostro neorealismo, dalla scena del saccheggio del guardaroba padronale alla stampa di banconote straniere false. In particolare, Fellini docet e imperversa: da  I vitelloni alla Via Veneto de  La dolce vita, fino al recente  Ginger e Fred, con il suo torpedone pieno di larve umane, ectoplasmi di trapassati. Il finale, brumoso e sospeso nell’attesa impossibile di un’alba vendicatrice e riscattante sulla spiaggia di Ostia, ha ancora i campi lunghi e gli sfondi felliniani, con qualche memoria non peregrina di Nanni Moretti. E’ un peccato, però, che tra tanta sensibilità all’immagine (immaginoso e immaginifico), lo spessore narrativo dei personaggi si sfaldi, finisca per sfilacciarsi e diventare meno credibile, più retorico. Gabèn sparisce senza riuscire a diventare protagonista: macchietta priva di spessore reale, promessa di un carattere rimasto irrealizzato. Lorenzo continua la sua storia d’amore con Caterina, in sogno, nel ricordo o nella morte, non si capisce bene, in un finale volutamente vago ed etereo: «Il cielo era molto azzurro, la strada mi passava dentro, come uno sguardo sereno. Nel cuore il petto non mi batteva più, eppure da qualche parte, vicino, lontano, lo sentivo battere ancora».

 

«L’Arena», 8 febbraio 1991

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