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RECENSIONI

ANONYMOUS

ANONYMOUS, IL GIARDINO DELLE DELIZIE – ENRICO DAMIANI, SAL0′ 2015

L’elegante editore Enrico Damiani, che pubblica i suoi raffinati volumi di narrativa, arte e sociopolitica sulle rive bresciane del Lago di Garda, ha dato alle stampe un pamphlet anonimo, Il giardino delle delizie, con un sottotitolo allusivamente programmatico: Ovvero l’inganno democratico.

Negli ultimi anni, altri autorevoli politologi e commentatori di costume ci hanno intrattenuto sulla ambivalente e illusoria natura delle democrazie contemporanee (dal giovane vicedirettore de Il Fatto Quotidiano Stefano Feltri a Raffaele Simone), ma questo testo ha la particolarità di giocare letterariamente sul modello del carteggio epistolare settecentesco, proponendo una finzione strategica tra due disincantati intellettuali, impegnati in uno scambio di mail provocatorie e sarcastiche.

I due protagonisti della corrispondenza celano la loro identità sotto le spoglie di Thomas More ed Erasmo da Rotterdam, per discutere, con frequenti sogghigni, dei «fondamenti etici, religiosi, ideologici» della nostra democrazia, presieduta da «chierici mercantil-finanziari» che hanno «ridotto alla condizione di sudditi quelli che un tempo erano soggetti, trasformato diritti in obblighi, corvée, servitù». Gli strali dei due amici, legati tra loro da «comuni interessi filologici», si rivolgono con «inferocito fastidio» all’attuale deriva delle istituzioni democratiche, definite «follia, regime, incubo, naufragio; reality senza testo, regia, scopo; strage idiota di ogni bellezza e intelligenza; miserabile snervante ossessione umanitaria; decorosa spoglia progressista della boutique liberal-democratica», in un crescendo rabbioso di accuse rivolte contro chi impone al popolo, collettivamente e individualmente, il rispetto di una norma e di una morale uguale per tutti.

Per “Tom” ed “Er” la democrazia mondiale mira a «farci buoni, progrediti, tolleranti, multietnici», in realtà togliendoci ogni libero arbitrio, e violentandoci nell’intimo, limitandoci nei nostri desideri più legittimi, manipolando le nostre coscienze. In che modo? Attraverso i media, la religione, la psicanalisi. Freud ha preteso di razionalizzare l’assurdo, di «imbrigliare gli Dei», sacrificando ogni pulsione individuale per il bene della Società. E tutto il pensiero occidentale, a partire dalla Genesi per arrivare all’Apocalisse (attraverso i tragici greci, i filosofi utopistici e il marxismo) ha condizionato il libero espandersi della natura umana, il suo spirito alato, la sua ansia di libertà, il suo anticonformismo. A vivacizzare la corrispondenza tra i due intellettuali (che riprende, annacquandole, tesi non nuovissime: da Leopardi a Schopenhauer a Nietzsche…) si inserisce il contributo di una psicosessuologa, Ewa Von Kunt, che dal pulpito di una sua rubrica televisiva (“Perdersi”) esalta il ruolo del piacere sessuale, del godimento, della ribellione al potere castrante del Padre. Forse solo così, secondo lo sghignazzante Anonymus, l’umanità potrà liberarsi dal giogo asfissiante della democrazia, rifondando un suo liberatorio Giardino delle Delizie.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/giardino-delizie-Anonymous.html    23 febbraio 2017

 

 

RECENSIONI

APRILE

GUGLIELMO APRILE, APPUNTI EOLIANI – FARA, RIMINI 2024

Scandita in sette sezioni, la raccolta Appunti eoliani di Guglielmo Aprile (Napoli 1978) si offre al lettore in una scabra e severa verità, assunta dalla durezza dell’argomento affrontato, e dalla sua originale consistenza. Quanto di più duro e durevole, infatti, della roccia? Della sua costante stabilità, e persistente indifferenza? Al mondo minerale sono dedicati i versi del poeta, che a esso si adeguano

in ponderata classicità, scalpellati in un lessico privo di stratagemmi o virtuosismi sperimentali, e in una metrica sostanzialmente tradizionale che però affida alla spietatezza dei continui enjambements il suo ritmo accanito.

Guglielmo Aprile si confronta con l’immutabilità dei sassi, degli scogli, con l’eternità di cielo e mare nel paesaggio solenne ed essenziale delle isole Eolie, e ne assimila l’austera segretezza. Delle rocce intuisce vibrazioni nascoste, vita palpabile che le rende simili alle creature animate, e in primo luogo a se stesso, al suo corpo “che si fa alga o pomice”, alla sua memoria, al suo interrogarsi sul destino umano e non umano: “io levo con lo sguardo un muto appello / e ad uno ad uno i vostri volti interrogo: / chi siete e chi sono io, qual è l’essenza / del vento, della pioggia, come nacquero / le lune, le montagne, i boschi; e a tratti / ho l’illusione che nei blocchi inerti / quasi un sussulto, un fremito si agiti / e che, dentro la pietra, delle bocche / si disegnino, a poco a poco: bocche / che stiano per parlarmi, che potrebbero / sciogliere un qualche oracolo, concedere / solo a me una risposta, rinnegando / il silenzio, il divieto che le tiene / da millenni nel sonno imprigionate”.

La personalizzazione del mondo minerale inizia già dal titolo della prima sezione, “Ha un’anima la pietra”, in cui sassi rocce scogli vengono osservati con stupefatta tensione, riconoscendo nelle loro grinze, negli squarci, negli ammassi i lineamenti di facce familiari: bocche si animano, occhi si spalancano con l’intenzione di comunicare qualcosa di essenziale, un segreto o forse un’ammonizione, l’avvertimento di un pericolo che sovrasta l’inconsapevole regno animale, l’innocente regno vegetale. Le pietre hanno anime e volti, “volti” citati ben diciassette volte nella raccolta, “sfigurati… esangui, stremati”, nati dal moto ondoso e subito costretti in forme immobili, “convertiti / in capricciose sculture che ostentano / fiere posture michelangiolesche”, “statue di calcare…immobili erme mute”. Rocce nate dal movimento del mare, affiorate da vortici di sabbia, che dai loro profili scolpiti in millenni di vento, pioggia, salsedine, fanno emergere sagome di titani, musi equini, erinni scomposte, opliti precipitati da alte rupi, danzatrici sacre, forzati rinchiusi nelle stive di una galea che sta per affondare. Migliaia di corpi vivi in un passato lontano sono rimasti bloccati in pose immutabili per chissà quale ingiusta sentenza, diventando fossili, pareti o dirupi incapaci di urlare la loro rabbia, la loro sofferenza: “Macigni condannati – è in voi che tutto / il dolore del mondo si è rappreso:/ nei vostri volti di tufo si è fatto / universale archetipo e ci parla”.  L’idea di una crudele violazione patita dai minerali inerti, viene ribadita in maniera ossessiva in moltissime poesie ad amplificarne la valenza emotiva, con il rischio tuttavia di renderla meno drammatica e pregnante, pur nella sua innegabile seduzione.

La terminologia a cui ricorre Aprile nella descrizione dell’arcipelago eoliano è consapevolmente puntuale (falesia calanchi frane calcare tufo magma granito basalto silice pomice megaliti obelischi bastioni) anche quando si apre a scenari meno materiali e concreti, più legati alla meteorologia, alla cosmologia e alla paesaggistica, o si infiamma in visioni mitologiche e leggendarie, in ricostruzioni storiche. Il poeta si fa archeologo, cartografo, esploratore e insieme veggente, illusionista. Affascinato dalle architetture naturali degli scogli, vede in esse draghi ed eserciti, asceti e divinità zoomorfe, re barbari e vestali, testimoni di un passato irrecuperabile, da cui sono stati strappati con cieca e ingiusta violenza. In attesa di venire di nuovo distrutte da qualche rovinosa forza naturale (un’eruzione, un diluvio o un sisma che le ridurrà a polvere, sprofondandole nel mare), le pietre appaiono fisse in espressioni corrucciate o furenti, desiderose di riscatto e di vendetta. Chi le osserva, scheggiate e percosse da marosi e turbini di vento, le paragona a mostruose figure di vegliardi sofferenti: “Sono mani di vecchi, certi scogli: / butterate da lividi e da nodi, / serrate a pugno, in atto di colpire, / rattrappite in posture innaturali / dall’artrosi, ustionate dalla lava / o corrose da un acido; monconi / deformati, dalle falangi rigide / come tese in un urlo o in uno spasmo, / dalle nocche che sporgono, rigonfie, / dalle palme spellate”.

Nelle sue estati siciliane, Guglielmo Aprile raggiunge le isole perlustrando in solitudine, lontano dal chiassoso consesso dei mortali, spiagge e anfratti (“vado in cerca / di luoghi ignorati dall’uomo, vergini:/ a piedi o a nuoto, a rischio di smarrirmi”, “cerco un angolo in cui sparire al mondo”, “Quasi un’ebbrezza, immergermi in queste acque: / non mi importa più di tornare a riva, / non ho più nessun vincolo con gli uomini”), in una segreta fratellanza con gli elementi naturali. Attratto dalla natura selvaggia e misteriosa di Stromboli e Vulcano, avverte nel frequentarle un silenzioso ammonimento a non offendere la loro scontrosa riservatezza, superando la soglia minacciosa di una potenza infera che potrebbe risucchiarlo e trasformarlo in materia sconosciuta.

L’animismo di cui il poeta riveste i minerali, i vegetali, il paesaggio terrestre e cosmico, rimanda filosoficamente alla teoria delle corrispondenze universali, “in cui credevano Swedenborg e gli alchimisti rinascimentali”, secondo quanto da lui stesso dichiarato. “Hanno, al pari degli uomini, pensieri / anche la pietra e il vento, anche l’olivo / e la ginestra, ha ogni cosa un’anima / e la esprime in un codice segreto”.

Al regno minerale che nasconde nel profondo un cuore pulsante, nel testo finale esprime un ringraziamento e una preghiera, insieme al vivo sentimento di sacralità e meraviglia per il gratuito regalo della benevolenza divina: “Pietre guerriere, insegnatemi voi / a resistere ai venti e al loro oltraggio, / voi più longeve del mio breve sangue; / e che mi sia il vostro orgoglio da esempio, / infondete anche in me un po’ del coraggio / con cui sf idano i vostri corpi il tempo”.

Rispetto alla nostra produzione poetica attuale, così spesso angusta nelle sue narcisistiche e tormentanti ambasce, e nelle tanto applaudite pubblicazioni in cui un ecologismo di maniera si risolve in filastrocche cantilenanti, il libro di Guglielmo Aprile indica un percorso originale di pensiero e illuminazione, proponendo una visionarietà immaginosa, intensa, sapiente.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 4 novembre 2024

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ARIOSTO

LUDOVICO ARIOSTO, SATIRE – EINAUDI, TORINO 2021

Era un Ludovico Ariosto maturo, quello che compose le Satire tra il 1517 e il 1525, ritoccandole fino al 1530. Aveva già scritto la prima versione dell’Orlando furioso, due commedie in prosa (La Cassaria, I Suppositi), e rivestiva l’incarico di sovrintendente ufficiale agli spettacoli di corte degli Estensi. Un Ariosto maturo e famoso, quindi, ma non sereno e pacificato nei suoi rapporti con il mondo, con i Signori di cui era alle dipendenze, con la diplomazia e con il Papato. Nelle Satire – profondamente innovatrici nella forma e nei contenuti rispetto alla sua precedente produzione letteraria – venne a esprimere dunque il suo disappunto, l’amarezza, l’ironia verso quella società cortigiana da cui si sentiva condizionato, pressato e sfruttato, economicamente e ideologicamente. Con toni tuttavia più bonari che bellicosi, e con una esplicita finalità etica.

L’editore Einaudi, che le aveva pubblicate nel 1987, le ripropone ora in una nuova edizione aggiornata, sempre con la stessa introduzione, le note, il commento e la bibliografia di Cesare Segre, che le aveva definite “opera con uno schema energicamente biografico, e un investimento morale altrettanto forte”.

Si tratta di sette componimenti epistolari in terzine dantesche, di impianto dialogico e teatrale, indirizzate a destinatari noti dell’ambiente familiare o amicale del poeta (fratelli, cugini, esponenti della nobiltà ferrarese, più il letterato Pietro Bembo), di cui non conosciamo le eventuali risposte o reazioni, né sappiamo se siano state effettivamente inviate, lette o diffuse, se non come manoscritti in circoli ristretti o tra privati. Pubblicate clandestinamente solo nel 1534, e quindi in via ufficiale nel 1550, sembra probabile che Ariosto abbia preferito non renderle pubbliche finché era in vita, temendo di inimicarsi gli ambienti ecclesiastici e principeschi che prendeva di mira, facendo apertamente nomi e cognomi di corrotti, arrivisti, traditori. In ogni satira l’autore si rivolge a diversi “tu” cui attribuisce commenti e obiezioni: in primo luogo interroga sé stesso, con riflessioni e analisi anche severe; quindi si confronta con l’effettivo destinatario della missiva e con altri personaggi a lui vicini, talvolta riportando le obiezioni di un contraddittorio anonimo e generico, da cui si trova a sua volta messo in accusa.

Il risentimento espresso nelle Satire è soprattutto verso quei potenti che, pretendendo da lui servigi in missioni diplomatiche lontane dalla città e dalla donna amata, gli impedivano di attendere alla sua opera come avrebbe voluto, coinvolgendolo in situazioni e in pratiche detestate e biasimevoli. Pur descrivendosi nei propri difetti e cedimenti, Ariosto non può fare a meno di confrontare la sua statura morale con quella dei personaggi che è costretto a frequentare, prede di orgoglio e ambizione smisurati, pronti a qualsiasi iniquità e scelleratezza pur di accaparrarsi benefici economici e di potere. Si dichiara quindi pronto alla rinuncia di ogni privilegio, pur di poter mantenere la libertà e la tranquillità: “Più tosto che arricchir, voglio quïete”, “Chi brama onor di sprone o di capello, / serva re, duca, cardinale o papa; / io no, che poco curo questo e quello”.

Ogni componimento alterna brevi episodi fiabeschi o apologhi alla narrazione di vicende biografiche e all’esposizione pacata di meditazioni personali, con lo scopo di rinforzare metaforicamente i messaggi più manifestamente polemici. Nella piacevolezza delle descrizioni naturali, nell’elogio della vita semplice e nel rifiuto di qualsiasi enfasi o pesantezza boriosa, le Satire rivelano il debito che Ludovico Ariosto nutriva verso la poesia di Orazio, sia nella scelta della forma epistolare, sia nella franchezza e linearità del tono colloquiale.

© Riproduzione riservata                            SoloLibri.net › Satire-Ariosto         11 maggio 2021

 

 

 

 

RECENSIONI

ARIOT

MARIASOLE ARIOT, SIMMETRIE DEGLI SPAZI VUOTI – ARCIPELAGO, MILANO 2012

Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) da tempo collabora a diversi blog e riviste con testi in prosa e in versi, ma a questa sua prima raccolta del 2013 finora non sono seguite altre pubblicazioni.
Il titolo del volumetto in questione, Simmetrie degli spazi vuoti, dà nella sua severa geometricità un’impressione di implacabile negazione, di vacuità e di assenza, ribadita poi dalla lettura dei pochi brani narrativi presenti che, quasi ossessivamente, descrivono interni ed esterni ostili, punitivi.

C’è una materialità esibita in ogni descrizione, quasi che il corpo dell’autrice, e i corpi che le si muovono intorno (persone o animali, vegetali e oggetti animati) reclamassero come unica, possibile verità il loro dato fisico, per quanto sfatto, deforme, lacerato. Alla violenza dei termini verbali (“si scortica”, “si spaccano”, “sventro”, “m’inghiotte”, “ci divoriamo”, “brucia”, “malediciamo”, “urla”, “si sfrega”, “si frantuma”…) corrisponde la scelta insistita di sostantivi che palesano aggressività, mancanza, repulsione: “delirio”, “veleno”, “cloaca”, “buco”, “ferita”, “crepa”, “spaccatura”, “putrefazione”, “decomposizione”.
Le poche figure umane si aggirano come zombie privi di passato e futuro, in immagini frantumate che assumono i contorni di incubi psicotici: «Io apro la porta per vedervi scomparire, tappo le orecchie con due cuscini, avvolta in un falso sonno fingo di non sentire ma vi sento. // Dal fondo delle scale dite: non ce ne andremo. // E così vi seguo, ci attacchiamo alla bottiglia come a una mammella, è una risata a margine del mondo. Le giovani apparizioni mi abbracciano la testa. Poi, come mantidi, ci divoriamo».

Dalla anziana donna che appare nel primo brano, vecchia volpe onnivora e mendace, ai ragazzi “sospesi in un delirio secco” che si fanno le canne accoppiandosi con indifferenza animale, ai disperati sopravvissuti a un tentativo di suicidio, relegati in cliniche psichiatriche o in gelidi stanzoni di un pronto soccorso, il mondo descritto da Mariasole Ariot è “la vita al suo grado zero”, deriva degradante e rassegnata, “un inferno sempreverde”, lo spazio vuoto e simmetrico dell’assenza di bene.

 

© Riproduzione riservata        

www.sololibri.net/Simmetrie-spazi-vuoti-Ariot.html    23 agosto 2016

 

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ARIOT

MARIASOLE ARIOT, ANATOMIE DELLA LUCE – ARAGNO, TORINO 2017

Come nelle sue precedenti raccolte, anche in questa Anatomie della luce pubblicata da Nino Aragno nel 2017, Mariasole Ariot (Vicenza, 1981) parla di sé senza svelare nulla di sé, attraversa il suo dolore come fosse il dolore di tutti, rimane dentro le cose che racconta osservandole con spietata analiticità dall’esterno: “Abbiamo spalancato un buio nella notte, è un paesaggio: di riflesso in riflesso l’occhio preme al di là delle cose, oltre ogni tana, strati retinici disposti a capitolare un mondo dentro un mondo”. Luce-buio, aperto-chiuso sono dicotomie che percorrono ogni pagina, sottoponendo la scrittura alla dura minuziosità dello sguardo, fisico e mentale: “Mi aggancio al buio come ad un osso masticato dai cani”, “ma il mondo resta fisso, immobile nel taglio di luce che taglia il cielo, che taglia questo taglio di cielo”, “Saturo di risposta l’aperto spalanca gli aggettivi: crollano pareti interne come interno è il mio corpo, esterno l’orizzonte che a tratti frequento e a tratti maledico”, “aspettare un rumore quando tutto è chiuso”.

Come si alternano chiaro e scuro, così nella stessa pagina si contrappongono versi e prosa, differenziati anche tipograficamente tra tondo e corsivo, quasi che l’abbandono musicale della poesia richiedesse continuamente il controllo razionale di un’indagine logica. Il libro è un diario scandito nei 28 giorni e notti delle fasi lunari, e cadenzato da foto in bianco e nero che serbano una velatura d’ombra a sfumarne i contorni. L’autrice ambisce infatti a mantenere l’oscurità del dettato, in un tono quasi oracolare che oscilla tra volontà di dire ed esigenza di nascondere, o perlomeno di confondere le tracce, sospettosa di qualsiasi rivelazione esplicita: le metafore di cui è fittamente intessuta la sua scrittura servono appunto ad allontanare la concretezza di una realtà dolorosa, ferita.

Scrive con ostinazione del corpo (nervi, pelle, mani, occhi), esplorandone sussulti e rigidità, ma senza esibire alcuna retorica sentimentale: proprio con la lucida scrupolosità della dissezione suggerita dal titolo della raccolta: “Lo spazio spaventato del tempo deriva i nervi, fluorescenze appena masticate, un lampo visivo o retinico agglomerato di sopravvivenza: questa sincronicità venuta a mancare, queste quote di pelle infilate ancora nella carne sono accadere di frammenti, vertigini di chi non sente”. All’occhio viene demandato il compito di esplorare il mondo, per evitarne le minacce, le trappole, gli imprigionamenti o gli addomesticamenti: “l’occhio che ferisce si compiace di vedere”, “Parla allora il gioco dell’occhio, fa’ dello scambio resilienza”. L’insistenza sulla fisicità non è mai gioiosa, mai clemente: l’orrore per la decomposizione del corpo, il ribrezzo per la deformazione della materia, più che a visioni da film horror rimanda alla paura infantile per le storie in cui le streghe mangiano i bambini, le foreste si animano di ululati, le paludi risucchiano vittime innocenti. Una sorta di allucinato e spaventoso teatro shakespeariano, da cui risorgono fantasmi amletici e macbethiani: “Ci minaccia ogni giorno l’incalzante terrore della materia. Come una lumaca stanca esco di casa per poter sentire vischiosa il mio viscidume e la bava che lascio sulla terra… Ma questi arti che finiscono con uncini non fanno che strozzarmi, incidono sui colli non i profili della collina ma i tagli crudeli degli eccidi mancati. Le forbici tagliano i monconi finali, ricostruisco le mani con i rami raccolti nel bosco”, Invecchiamo dimezzando i futuri: non siamo alberi. Belle decorazioni da giardino per uccidere le cavallette, quella corazza croccante che ci piace mangiucchiare tra pasto e pasto. E quando non mangiamo ci mangiamo. Madri con la bocca d’asino”, “Ma quanto territorio ci è caduto dalle mani, quanto corpo cade, e non ha porte e non ha chiuse, e non ha fine”, “e io mi perdo, si staccano i bordi delle cose”, “Questa testa che si frantuma nello spazio è ciò che voi dimenticate: non un morbo ma la verità dell’assenza di contorno”,Scorre un sangue come una frase nella gola, di bocca in bocca ascolto ripetizioni umane come fossero tracce di bestioline morte: un inverno con le zampe, un pesce senza sonno, un sordo avanzare di iene senza testa. Bussano nel cranio risposte fucilate dall’alto”.

L’implacabile montaggio di atroci fotogrammi che l’autrice colleziona, a rivalsa di un’ingiustizia patita, viene talvolta ammansito talvolta inasprito dalla reiterata richiesta di una risposta chiarificatrice, magari solidale, se non consolatoria, che tuttavia sembra destinata a non arrivare mai: dal mondo, da una figura protettiva e materna, o da se stessa.  “Ditele”, “diteci”, “dici”, “dice”, sono termini che continuamente riproposti implorano una parola, affinché non sia il tombale silenzio a sovrastare: “Ditele che ha innaffiato fiori finti, ditele che non fingo, ditele che i pianeti quando non cadono è perché cedono, ditele che nel pozzo non cadano bambini”, “ditele che il cuore ha scampo quando smette, ditele che tremo, ditele che ho un fiume sulla testa, ditele che rovistare non è una vergogna”, “ditele che la testa è piena, ditele che le uova non hanno cornice, ditele che l’insonnia è un’armatura per restare, ditele che la parola si misura in grammi e non in metri”, “ditele che la soglia è tutto questo vedere, ditele che il pianto non veste un cranio, ditele che la ruggine accade sull’umano, ditele che ho mani di caduta”, “La più triste scoperta è allora: poter non dire più nulla, non essere più nulla”, “Non dire smettila è come dire ancora. Non dire ancora significa: smettila”, “Hai detto tuo e volevi dire nostro. Hai detto nostro, volevi dire tuo”, “non sanno cosa sia l’urlo, mi chiedono di dire, di essere, di fare”, “Dice l’incendio della casa, una cimice morta calpestata sullo sterno. Dici vita e non dici niente, dividi in parti uguali la tua preda”, “Diteci che non è sempre un errore, diteci che il bene che diamo ci viene restituito, prima o poi”, “diteci che la vita può pesare meno, che la colla che ci tiene le braccia al suolo prima o poi molla la presa”.

Attraversando questa poesia dell’incomunicabilità, dell’infelicità, dell’impotenza, Mariasole Ariot, con il suo nome luminoso, cerca tuttavia lo scampo di una luce da scomporre e ricomporre anatomicamente, restituendone al lettore riflessi baluginanti: “Fare allora del proprio io miseria e non lago, terra cava che passa per il centro, paese meticcio a volte moribondo. Accettare il mondo morto, smetterla con le cantilene di ricerca, aprire libri a caso, estrarne foglie e donne, masticare una pagina dopo l’altra. Fare del proprio io il contrario dell’eccesso, eccedere solo per biologismi, avere un po’ di morfina nella dispensa, fare figli e ricordare sogni. Annotare i figli, uno ad uno mescolarli alle montagne, concedersi la confusione con l’ambiente”. E ancora: “Fare allora della domanda un’apertura, scatola cinese senza fondo che sfonda il titinnare dell’umano: passare senza possedere, mutare i corpi in corpi, aprire un varco per la terra: per un istante almeno farla finita con l’io”. Anche nel male, aprire alla possibilità di una sospensione del male, uscendo per un attimo dai propri confini di sofferenza, aderendo alla biologica autenticità di ciò che ci circonda.

© Riproduzione riservata                 «Il Pickwick», 19 maggio 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

ARISTOFANE

ARISTOFANE, LA FESTA DELLE DONNE – GARZANTI, MILANO 2020

Con una puntuale prefazione di Filippomaria Pontani, Garzanti ripubblica La festa delle donne, commedia che Aristofane portò sulla scena nel 411 a.C., in un periodo delicato della storia di Atene, in guerra con Sparta da oltre vent’anni, e preda di turbolenze politiche che nel giro di pochi mesi l’avrebbero portata alla momentanea caduta della democrazia e all’instaurazione dell’oligarchia dei Quattrocento. Questo testo ci è stato tramandato da un singolo manoscritto medievale, vergato nel X secolo a Costantinopoli, e conservato nella Biblioteca Classense di Ravenna. Si tratta di un atto unico recitato in occasione delle Tesmoforie, una festa autunnale dedicata alle dee Demetra e Persefone, a cui potevano partecipare solo donne nobili e sposate, con una serie di processioni, riti segreti, canti, digiuni e rappresentazioni sacre.

In questa pièce, dalla vis comica particolarmente mordace, viene discusso il ruolo delle donne nella vita pubblica della città, con riferimento alla perenne guerra tra i sessi. L’intenzione di Aristofane non è però di denuncia politica, bensì di satira contro un unico obiettivo culturale: Euripide, il più famoso tragediografo dell’epoca, accusato di empietà, scarso amore di patria, corruzione dei costumi. Euripide, nell’invenzione aristofanesca, deve difendersi davanti a un’assemblea di donne riunita nel tempio (parodia dell’ekklesía ateniese), in cui si contestano i contenuti denigratori delle sue tragedie nei confronti del sesso cosiddetto “debole”. Non lo fa in prima persona, ma affida l’arringa a un suo parente, camuffato in vesti muliebri, il quale tenta di controbilanciare le accuse inviperite delle protagoniste sottolineando anche le colpe e i difetti che si annidano negli animi e nei comportamenti femminili.

Una delle più esagitate rappresentanti dell’accusa, Mica, così parla del massimo autore teatrale greco: “Mi alzo a parlare non per ambizione, donne, lo giuro in nome delle dee: ma davvero da tempo non sopporto di vederci infangate e sputtanate da Euripide, quel figlio di erbivendola: subiamo offese a iosa, e d’ogni tipo. Di quali oltraggi non ci copre? E quali calunnie ci risparmia, niente niente che abbia un coro, gli attori, e un po’ di pubblico: ci definisce adultere, ninfomani, ubriacone, ciarlone, traditrici, poco di buono, male immenso ai maschi”. Altre voci singole di donne, e il coro intero, si esprimono con giochi di parole equivoci o scurrili, parodiando personaggi e contenuti dei drammi euripidei, bersaglio polemico di Aristofane, che non ne apprezzava la mancanza di fede negli dèi, la morale libertaria, la eccessiva giustificazione delle debolezze umane, l’esibito intellettualismo.

Non ci troviamo di fronte a un manifesto di rivendicazioni femministe: il tono della commedia è leggero e spumeggiante, nella conclusione rappacificante che ammette le reciproche manchevolezze nei rapporti tra i due sessi. Ma anche nell’orgogliosa sottolineatura del coraggio, della generosità e dell’onestà che caratterizza l’esistenza di mogli e madri, attente custodi dell’economia domestica. Così il coro può affermare con fierezza: “Adesso, perbacco, lodiamo noi stesse, benché dicano cose tremende del sesso muliebre: noi saremmo rovina degli uomini, fonte perenne di discordie, di lotte intestine, di guerre e dolori. Ma se siamo davvero un disastro, perché ci sposate, ci vietate di uscire, di mettere il naso di fuori, e volete a ogni costo tenervi ben stretto il disastro? Se una donna va fuori e tornando scoprite che è in giro, impazzite di rabbia, anziché rallegrarvi e gioire constatando che è uscito, il disastro, e non circola in casa…”

Insomma, uomini che si lamentano a torto, che sfruttano e ridicolizzano, ma poi non riescono a fare a meno delle loro insopportabili compagne.

 

© Riproduzione riservata                  17 marzo 2020

https://www.sololibri.net/LA-FESTA-DELLE-DONNE.html

 

 

 

RECENSIONI

ARMINIO

FRANCO ARMINIO, CARTOLINE DAI MORTI – NOTTETEMPO, ROMA 2011

Per le Edizioni Nottetempo è appena uscito un piccolo, esemplare volume di 128 brevi racconti, talvolta costituiti da una sola frase, e in un’occasione da cinque parole. La particolarità assoluta di queste fulminanti composizioni è che si immaginano dettate in prima persona da uomini e donne defunti, in una sorta di Antologia di Spoon River in prosa.
Franco Arminio è un autore campano, che ha pubblicato poesia e narrativa, distinguendosi per una sua visione amara e risentita, e tuttavia assolutamente ispirata e commossa, del destino della sua terra, l’Irpinia: destino di tragico abbandono e desolazione, di totale assenza di speranza, di futuro, di gioia.
E così anche in questo libro, l’orizzonte pare essere solo quello angosciante, definitivo, della morte come fine di tutto: solitudine, dimenticanza, disperazione o indifferenza. Comunque fine senza riscatto.
Nella nota conclusiva, l’autore, evidentemente da poco provato da «una morte appena trascorsa» (probabilmente quella del padre a cui è dedicata la splendida dedica in apertura), afferma : «Allora puoi scrivere intorno a questa cosa che forse regge tutto, intorno a questo niente che sorregge e corrode ogni cosa». E in effetti, la presenza della fine incombe quasi terrorizzante in tutte queste “cartoline” scritte da un cimitero che si immagina paesano e campano: terrorizzante perchè spesso inaspettata e improvvisa («Stavamo parlando della ringhiera. Come si fa a credere in dio quando uno muore mentre sta parlando di una ringhiera?», «Basta una distrazione piccolissima. Sono caduto dalle scale perché stavo pensando che tipo di dentifricio mi dovevo comprare»).
Si muore senza poterlo prevedere: a scuola, in macchina, davanti alla tv, sul balcone, mangiando un mandarino, durante le analisi in ospedale. Si muore uccisi o suicidi, per una malattia non diagnosticata, e per un tumore covato a lungo. Si muore bambini o centenari, in paese o all’estero, soli o durante una processione religiosa, falliti o vincenti. Alcuni nell’indifferenza totale dei familiari («la mia malattia non gli procurava nessun dispiacere, solo un po’ di fastidio per il fatto che certe volte la madre non aveva tempo di fare le torte», «All’inizio chi ci ama vorrebbe riaverci, poi si abitua al fatto che siamo morti, poi per tutti stiamo bene dove stiamo»), altre volte nella disperazione di chi è vicino («Mi dispiace per te, ho detto a mia moglie che mi stringeva le mani. Nessuno quando stiamo bene ci stringe le mani in questo modo, nessuno», «Qualcuno che ci tocca il polso, qualcuno che pronuncia continuamente il tuo nome»).
In alcune persone sopravviene una ribellione finale, velleitaria e inutile: smettono di nutrirsi, o di parlare, o di alzarsi dal letto («Io bestemmiavo veramente, ero veramente arrabbiato», «Ogni tanto guardavo il crocefisso e pensavo che la vita è tutta un imbroglio»), in altre appare una rassegnata accettazione («Sono sempre stato un ottimista. E va bene anche così»», «Ero appena tornato dalla Svizzera. Ero contento»), o un umorismo sprezzante («Sono sempre stato un tipo sfortunato. Il giorno del mio funerale si parlava del funerale della figlia del farmacista, morta il giorno prima»).
Talvolta quello che rimane al momento del trapasso è tuttavia un’immagine di dolcezza, di nostalgico lascito della vita: una rosa o un geranio appena innaffiato, una luce sul comodino, un maglione verde stretto tra le mani, il profumo del caffè. Altrettanto spesso, tuttavia, si impongono visioni di macabro disfacimento («Una mosca si è posata sulla mia faccia sudata: io stavo morendo e lei si godeva il mio cattivo odore», «Una vicina di casa mi ha messo una mano sulla fronte. Aveva un odore di mele marce»). E in generale, a vincere è una rappresentazione desolata della totale insignificanza della vita e della morte: «Prima di me erano già morte ottanta miliardi di persone», «Non c’è neanche il niente, almeno così mi pare».
Un libro che è un piccolo trattato filosofico, disperante. Perché (è l’ultima frase dell’autore) : «I morti non ti pensano, non ti mandano nessuna cartolina».

 

«Orizzonti» n. 42, giugno 2013

RECENSIONI

ARNALDI

VALERIA ARNALDI, PER QUANTO TEMPO È PER SEMPRE? – ULTRA, ROMA 2016

Nella collana Filobus, delle edizioni romane Ultra, vengono proposti libriccini di filosofia che raccolgono massime e riflessioni su argomenti etici che riguardano noi tutti, nella quotidianità del nostro vivere e del rapportarci agli altri. La collana, curata da Valeria Arnaldi, ha il pregio di proporre un excursus nel sapere universale che, partendo dai classici greci, arriva a citare testi di canzoni o aforismi moderni, fruibili negli intervalli di tempo che riusciamo a salvare tra un impegno e l’altro, tra una distrazione e l’altra. Spunti di meditazione, quindi, mai banali, sul valore dei sentimenti, delle azioni, delle abitudini a cui affidiamo le nostre giornate. Particolarmente interessante mi è parsa la pubblicazione del volumetto dedicato alla lentezza, modus vivendi da riscoprire nella frenesia imposta dalla società contemporanea e dalla tecnologia, che ci intima di reagire a ogni stimolo visivo e uditivo con velocità iperbolica.

Per quanto tempo è per sempre? Quanto tempo abbiamo a disposizione, dalla culla alla tomba, quanto ne sprechiamo inutilmente, e a quali accelerazioni inutili costringiamo il nostro viaggiare, mangiare, divertirci, collezionando incontri inessenziali, hobby che non ci interessano, esperienze che non ci arricchiscono? Come scriveva Seneca duemila anni fa, il futuro è incerto, il passato immodificabile: l’unico spazio di vita su cui possiamo agire è il presente, che affolliamo di cose superflue, senza riuscire ad assaporarne la bellezza profonda, lasciandolo invadere da fantasmi mentali (ambizioni, confronti, invidie), materiali (rumori, dipendenze di vario genere, passatempi idioti) e fisici (vicini insopportabili, parenti gelosi, amici nemici) che ci derubano dell’unico vero tesoro che possediamo: il nostro tempo. Già l’introduzione di Valeria Arnaldi ci suggerisce considerazioni preziose sull’importanza di riscoprire la lentezza come «consapevolezza della dimensione orizzontale dell’adesso», recupero di un respiro più attento al momento che viviamo, in noi stessi e con chi ci è vicino, rivalutazione dell’attesa e degli attimi vuoti, ritrovamento di un pensiero in grado di riflettere senza precipitare nell’ansia del giudizio e del profitto ad ogni costo, esplorazione del sogno e del ricordo.Oltre alle Lettere a Lucilio di Seneca, miniera sapienziale che andrebbe assolutamente rivisitata, ci troviamo a leggere Castaneda, Kundera e il fisico Carlo Rovelli, Lewis Carroll e Cioran, l’Ecclesiaste e Cesare Pavese. A riconsiderare non del tutto negativo l’ozio rispetto all’efficientismo, la malinconia nei confronti dell’eccitazione, la passeggiata senza meta piuttosto del viaggio organizzato. Magari riascoltando i più suggestivi Adagio dei musicisti classici, e la splendida C’è tempo di Ivano Fossati. Provando a seguire l’indicazione di Sant’Agostino, che definiva il tempo come «un’estensione dell’anima», da indagare lentamente dentro e fuori i suoi confini.

 

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www.sololibri.net/Per-quanto-tempo-per-sempre-Arnaldi.html                 10 dicembre 2017

 

RECENSIONI

ARPINO

GIOVANNI ARPINO, LA SUORA GIOVANE – PONTE ALLE GRAZIE, FIRENZE 2017

In un romanzo del 1959, La suora giovane, Montale intravide “tutta l’aria di un capolavoro”. Quando mia figlia, scoprendolo sulla scrivania, mi ha chiesto “Arpino, chi era costui?”, mi sono sentita ancora più vecchia di quello che sono. Sì, perché Giovanni Arpino (Pola 1927-Torino 1987) è stato un importante narratore, poeta, critico letterario, giornalista, premiato con il Campiello, il Super Campiello, il Premio Strega, di cui avevo letto con entusiasmo al liceo Il buio e il miele (1969), da cui Dino Risi aveva tratto il film Profumo di donna con Vittorio Gassman, divenuto poi celebre in un remake con Al Pacino. Dapprima Dalai, quindi Minimum Fax e infine Ponte alle Grazie hanno meritoriamente ripreso a pubblicare le opere di Arpino, uscite negli anni ’60 presso i più importanti editori italiani.

La suora giovane è uno smilzo e intenso libretto che racconta il rapporto non comune e intrigante tra un ragioniere quarantenne, Antonio Mathis, e una giovane novizia, Serena, entrambi in cerca di un ancoraggio esistenziale e di reciproco conforto sullo sfondo di una grigia Torino invernale, nell’arco del mese di dicembre del 1950. “Non ho coraggio”. Con questa frase lapidaria inizia ad apertura di pagina il monologo del protagonista, che successivamente ribadisce la scarsa considerazione di sé con altre due ammissioni: “Mi vergogno”, e “Mi sento ridicolo”. Narrando con pudore dell’abitudine di rimanere in piedi e in timoroso silenzio accanto a una giovane novizia, ogni sera alle sette sulla pensilina del tram 21, si interroga se sia il caso di approfondire la conoscenza con la ragazza, in cui nota il suo stesso sospeso e cauto interesse. Fidanzato da anni con una maestra elementare verso cui non nutre più alcun trasporto, Antonio trascina una vita priva di entusiasmi tra l’ufficio, il bilocale in cui vive, e qualche annoiata distrazione tra cinema e trattorie. L’incontro serale con la suorina, minuta e fragile, diventa improvvisamente il fulcro dei suoi pensieri e delle sue giornate, riempendogli la mente di fantasie, di interrogativi, di scrupoli morali.

Quando finalmente (dopo averla pedinata fino al convento in cui vive e in una chiesa in cui si rifugia a pregare) riesce a parlarle, intuisce in lei lo stesso trepido trasporto che anima le sue emozioni, e con gioiosa sorpresa accoglie quindi l’insperato invito a raggiungerla ogni notte dove lavora. Infermiera in un elegante palazzo del centro, si occupa infatti dell’assistenza a un anziano avvocato agonizzante: Antonio dovrà raggiungerla lì, sul pianerottolo dell’appartamento, e lei gli parlerà attraverso la porta appena socchiusa. Le conversazioni tra i due diventano in una settimana sempre più coinvolgenti e appassionate: Serena confida al ragioniere, con innocente scaltrezza, non solo la storia della sua imposta vocazione, il fastidio per le regole dell’ordine monastico, la vergogna per le origini della famiglia contadina, ma soprattutto la speranza e il desiderio che da mesi ripone nella persona di Antonio, vissuto come unica possibile liberazione dal proprio stato di soggiogamento. Il quarantenne si sente a sua volta investito di un ruolo di gratificante responsabilità, e accoglie con riconoscente sollievo questa inattesa svolta nella sua piatta esistenza. Rompe quindi tutti i rapporti sentimentali e di amicizia intrattenuti in precedenza, rifiuta stomacato la volgare compagnia della fidanzata e di alcuni amici in una tragica vigilia di Natale trascorsa sugli argini del Po, ma quando si presenta il giorno dopo al solito appuntamento con la novizia non la trova più.

Disperato, la cerca ovunque, spingendosi fino al vecchio casale agricolo di Mondovì dove vivono i genitori di lei: da loro viene a sapere dell’improvviso trasferimento volontario della ragazza a Ferrara, delusa dalle esitazioni di lui riguardo al loro futuro insieme. Le ultime pagine de La suora giovane si chiudono in maniera enigmatica, lasciando in sospeso la decisione di Antonio, se finalmente accettare la sfida coraggiosa propostagli dal destino, o invece ritornare alla sua abulica e irrisolta esistenza di prima.

Nel suo terzo romanzo, un Giovanni Arpino poco più che trentenne esibiva, con una prosa lucida e secca, un’assoluta abilità introspettiva nella caratterizzazione psicologica dei due protagonisti, una sapiente consapevolezza formale nella costruzione dei dialoghi e grande sensibilità nel ricostruire l’ambiente urbano e monotono di una gelida Torino agli albori del suo sviluppo industriale.

 

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 20 maggio 2021

RECENSIONI

ARREOLA

JUAN JOSÉ ARREOLA, BESTIARIO – SUR, ROMA 2015

Un celebre e celebrato libriccino di Juan José Arreola edito in spagnolo nel 1963, è stato tradotto dalle edizioni SUR nel 2015, con la postfazione di José Emilio Pacheco, che da ragazzo si era incaricato della sua trascrizione sotto l’estemporanea dettatura dell’autore. Per una settimana, il giovane si era dedicato a registrare l’inarrestabile flusso di parole e immagini scaturito dalle labbra di uno degli scrittori messicani più influenti del ’900, “come se stesse leggendo un testo invisibile”. Con umiltà, Pacheco ha sempre affermato che l’essere ricordato negli annali letterari del suo paese come “l’amanuense di Arreola”, era stato per lui fonte di sincero e legittimo orgoglio. Da quegli incontri vivacemente improvvisati, era nato il testo di Bestiario, raccolta di microracconti, di bozzetti fulminanti, sarcastici, surreali, dedicati al mondo animale nelle sue analogie con i caratteri umani.

Juan José Arreola (1918-2001) oltre che poeta e romanziere era stato giornalista, editore, e aveva praticato numerosi e umili lavori: facchino e venditore ambulante, tipografo e panettiere, contabile e teatrante, arricchendo di molteplici e mai banali esperienze la sua visione consapevolmente amara dell’esistenza. Di tale caustica e consapevole disillusione riguardo alla natura di uomini e bestie sono intrisi tutti i brevi ritratti raccolti nel libro, e già se ne avverte una traccia nel Prologo, ferocemente caustico: “Ama il prossimo tuo malandato e spregevole. Ama il prossimo maleodorante, coperto di miseria e venato di luridume… Ama il prossimo suino e gallinaceo, che trotta festoso verso i crassi paradisi del possesso animale… E ama la prossima che… con un pigiama da vacca comincia a ruminare senza fine il pastoso bolo alimentare del tran tran domestico”.

Gli animali rappresentati non hanno mai niente di mansueto e domestico: con una prevalenza di presenze selvatiche, rapaci, infide, sono descritti sia come esemplari nella loro unicità, sia nella classe di appartenenza: felini, insettiadi, camelidi, cervidi, acquatici…

Di tutti loro viene sottolineata l’origine ancestrale, di gran lunga precedente all’apparizione dei primi ominidi. “Già molti millenni prima (quanti?), le scimmie decisero il loro destino opponendosi alla tentazione di essere uomini. Non caddero nel progetto della ragione e pertanto sono ancora in paradiso: caricaturali, oscene e libere a modo loro”, “L’elefante arriva dal fondo delle ere ed è l’ultimo modello terrestre di macchina pesante”,

Le similitudini con gli esseri umani sono inusuali e divertenti: “Tutti, falconi, aquile o avvoltoi, ripassano come frati silenziosi il loro noioso libro d’ore”, “Il gran rinoceronte si blocca… investe come un ariete… accecato e inferocito, con l’impeto irremovibile di un filosofo positivista”, “Apparteniamo a una triste specie di insetti, dominata dall’impero delle femmine, vigorose, sanguinarie e tragicamente rare. Per ognuna di queste ci sono venti maschi deboli e sofferenti. Viviamo in fuga costante”, “Il latrato spasmodico della iena è un modello esemplare della risata notturna che sconvolge il manicomio”, “L’ippopotamo si annoia enormemente e si addormenta sulla riva della sua pozzanghera, come un ubriaco accanto al bicchiere vuoto, avvolto nel suo mantello colossale”, “Ho ascoltato le grida di giubilo delle foche, le loro risate procaci, le loso false invocazioni da naufraghi”.

Forse un po’ di affettuosa simpatia è riservata da Arreola solamente “alla cordiale misura dell’orso che balla e monta in bicicletta, e che a volte può esagerare e triturarci con un abbraccio. Con lui è sempre possibile intavolare un’amicizia, mantenendo le distanze, e sempre se non abbiamo un’arnia in mano… Per quanto siano adulti e atletici, conservano qualcosa del bambino…”.

In questo zoo letterario, ritroviamo quotidianità ed estraneità del nostro vivere di donne e uomini, erotismo e crudeltà, tradimenti e avidità, “come in uno specchio depressivo” ci riconosciamo anche noi della stessa razza animale.

 

© Riproduzione riservata       «Gli Stati Generali», 15 settembre 2023