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RECENSIONI

MARAINI

DACIA MARAINI, GITA A VIAREGGIO – FAHRENHEIT 451, ROMA 2013

Questo bel racconto che Dacia Maraini pubblicò su Paragone nel 1964 viene ora riproposto dall’attenta casa editrice romana Fahrenheit 451, con un’illuminante ed acuta postfazione di Eugenio Murrali. Due coppie di mezz’età, in evidente crisi di stanchezza matrimoniale (Antonio e Pietra, Gino e Tina) decidono in un piovoso pomeriggio sotto Pasqua di lasciare la capitale e di dirigersi a Viareggio, con il pretesto di far visita a un vecchio amico pittore, Carmelo. Al volante dell’auto è Tina, voce narrante e sguardo disincantato- deluso e insieme spietato- su luoghi, oggetti e persone. L’autrice segue con meticolosa e fredda analiticità sia il percorso materiale dell’automobile (sorpassi e insulti, rallentamenti e soste, indifferenti paesaggi esterni), sia il vagare mentale della protagonista, e il suo soffermarsi su ciò che succede all’interno dell’abitacolo: spezzoni di discorsi, sigarette e caramelle, noia e piccole provocazioni. La descrizione dei corpi e degli ambienti è puntuale, asettica e lenta, come in una serie di fedeli ma impersonali inquadrature cinematografiche: «Il suo braccio è corto, molto corto rispetto al resto del corpo. Le dita invece sono lunghe, normali, con dei ciuffi di peli biondi sul dorso delle falangi»; «…in disordine, giacciono sparpagliati cinque o sei barattoli di colore, una manciata di pennelli e pennellesse, uno spruzzatore elettrico, due bocce di colla americana, della carta di giornale, due coltelli da cucina macchiati di verde, una grande latta di trementina e dei tamponi di garza imbevuti d’olio e di colore».

A Viareggio, la gita delle due coppie si concluderà con un duplice tradimento, vissuto dalla protagonista con assoluta estraneità e abulia, che lo stile asciutto e neutrale della Maraini riesce a rendere con intelligente finezza.

 

«Leggendaria» n. 104, marzo 2014

RECENSIONI

MARAINI

DACIA MARAINI, L’ETA’ DEL MALESSERE – EINAUDI, TORINO 1988

L’età del malessere è il secondo romanzo di Dacia Maraini, pubblicato nel ’62 e subito accolto come libro rivelazione di uno stile nuovo, di un’autrice promettente. Ambientato nella periferia romana, ha come protagonista la borghesia più umile, vittima e insieme artefice degli anni del boom economico di un’italietta miracolata e squallida. La vicenda è narrata in prima persona da Enrica, una diciassettenne che vive con indifferenza sia i suoi drammi personali, sia quelli della penosa fauna umana cui appartiene. Figlia unica di una coppia già in là con gli anni, la ragazza osserva con disincanto il lento declino della madre, sfiancata e umiliata nel logorante arrabattarsi di un piccolo impiego: la vede oscena nel suo corpo sformato, nei vestiti lisi, nelle amicizie volgari, e insieme penosa nelle ambizioni meschine di rivincita, di riscatto. Forse con più affetto, ma con uguale severa implacabilità, Enrica guarda al padre, artista fallito e alcolizzato che si è ridotto a dedicare ogni suo tempo ed energia alla costruzione di elaboratissime e invendibili gabbie per uccelli. In questo tragico universo familiare si muove la giovane, senza tuttavia la benché minima voglia di evaderne. Abulica, indifferente a tutto, sue uniche aspirazioni sembrano essere l’acquisto di un paio di scarpe nuove o di un maglioncino aderente. Non si ribella alla frustrante relazione cui la costringe Cesare, uno studente fuori corso, che la usa come amante di riserva, in attesa di sposare una ricca fidanzata che rispetta. Enrica frequenta un corso di computisteria e stenografia tra insegnanti e compagni che paiono tutti più disgraziati e infelici di lei, compie poi un’umiliante esperienza di lavoro in casa di un’anziana ed eccentrica contessa, ma niente sembra segnarla, niente la scuote. Vive come in trance avvenimenti crudi e crudeli, dalla morte della madre a saltuari episodi di prostituzione, a un drammatico aborto clandestino. Solo alla fine, il matrimonio di Cesare la costringe a scegliere, le impone un cambiamento: e il libro termina con l’intenzione almeno annunciata di voltare pagina, di dare un nuovo indirizzo alla propria vita. Il fascino che indugia in queste pagine è tutto in questa storia narrata senza alcuna retorica o ammiccamento, ma con tale dolente asciuttezza che il malessere in cui sono avvolti i personaggi contagia anche il lettore, amareggiandolo, indignandolo.

 

«Agorà» (Svizzera), 23 novembre 1988

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MARAINI

DACIA MARAINI, IL BAMBINO ALBERTO – BOMPIANI, MILANO 1988

Il bambino Alberto di cui parla questo libro è ovviamente lo scrittore Alberto Moravia, con cui Dacia Maraini ha costituito per una ventina d’anni la coppia più intellettualmente impegnata e anticonformista della patrie lettere. Il volume è scandito in tre interviste, volte a ricostruire l’ambiente familiare e culturale in cui si è dipanata l’infanzia del più noto fra i nostri scrittori, e quali influenze e strascichi quest’età giovanile abbia lasciato nella produzione narrativa dell’autore. Dacia Maraini interroga incalzante e lucidissima un Moravia quanto mai ritroso e restio ad ammettere turbamenti o complessi, propenso piuttosto a rimuovere e a negare qualsiasi episodio, ricordo o emozione possa essere letto freudianamente come rivelatore di qualche tabù. Lo scrittore sembra volersi nascondere dietro a verità assiomatiche, usa come schermo difensivo dichiarazioni di principio talvolta addirittura ingenue: «La mia letteratura non è affatto lo specchio della mia vita e del mio carattere; Il tempo non esiste. La personalità non esiste…Il passato non mi interessa, mi rattrista e basta; Penso che tutta la vita sia al presente, come al cinematografo». Eppure subito dopo, messo alle corde dall’analisi puntuale e un po’ spietata della Maraini, finisce per ripiegare, per ammettere quasi seccato: «Non ci ho mai pensato, ma è vero… strano, evidentemente hai ragione tu…E’ la prima volta che me ne rendo conto…»

Bravissima l’autrice in questa operazione maieutica di scavo, scandaglio, collegamento di particolari, ricomposizione finale, ottenuta con un ritmo concitato nel porre le domande, nell’estrapolare citazioni, nel confrontare situazioni. Bravissima nel riproporre un’epoca, un clima culturale e nello sbalzare figure femminili a tutto tondo (la madre, «una bella donna molto attenta alle convenzioni», il padre collerico e indifferente alla vita familiare, le governanti francesi, le due sorelle cui vengono dedicate due interviste a parte, che tuttavia poco aggiungono al già raccontato). E però proprio questa abilità incredibile di interrogare e di indagare, soffermandosi anche su particolari minimi, o sulle abitudini più personali dell’intervistato, questa scaltrezza investigativa, quasi, finisce per imbarazzare il lettore, mettendolo di fronte a un’intimità altrui non si sa quanto opportunamente svelata, sbandierata. Come un processo a porte aperte, una seduta psicanalitica diffusa con l’altoparlante. Moravia stesso definiva tutta la sua infanzia «Un lungo, inspiegabile disagio». Forse, appunto, non tutto si può spiegare.

 

«Agorà» (Svizzera), 30 novembre 1988

RECENSIONI

MARAINI

FOSCO MARAINI, GNOSI DELLA FANFOLE – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2019

Fosco Maraini fu tutto fuorché fosco. Chiarissimo, limpido e appassionato, vorace di vita e di avventura, viaggiatore instancabile, etnologo, orientalista, alpinista, fotografo, scrittore e poeta. Nato a Firenze nel 1912, figlio di uno scultore ticinese e di una scrittrice anglo-ungherese, crebbe bilingue nello stimolante ambiente artistico e intellettuale fiorentino, laureandosi in Scienze Naturali e Antropologiche. Nel 1935 sposò la pittrice siciliana Topazia Alliata di Salaparuta, da cui ebbe le tre figlie Dacia, Yuki e Toni. Dopo il divorzio dalla moglie, nel 1970 si unì in seconde nozze alla giapponese Mieko Namiki, con la quale visse a Firenze, lavorando al suo archivio fotografico e alle sue pubblicazioni fino alla morte, sopraggiunta nel 2004. La sua biblioteca, contenente circa 9.000 tra volumi e periodici e 42.000 fotografie, è conservata presso il Gabinetto G.P. Vieusseux di Firenze.

Animato da una forte curiosità nei confronti del mondo, visitò un gran numero di paesi, soprattutto orientali, raccogliendo testimonianze di grande valore etnografico. Prima della seconda guerra mondiale, Maraini si trasferì in Giappone, come lettore di lingua italiana. L’8 settembre 1943 si trovava a Tokyo e avendo rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò, venne internato in un campo di concentramento a Nagoya con tutta la famiglia per circa due anni. Finita la guerra tornò in Italia, riprendendo i suoi viaggi e i reportage fotografici in Medio ed Estremo Oriente. Insegnante di lingua e letteratura giapponese all’Università di Firenze, si segnalò presto come uno dei massimi esperti del popolo e della cultura Ainu.

La sua vivacità intellettuale lo portò a cimentarsi anche con la poesia, utilizzando una tecnica particolare, da lui definita “meta semantica”.

Gnòsi delle Fànfole è un libriccino di versi che dagli anni ’60 ha conosciuto un crescente successo in diverse edizioni (De Donato 1966, Dalai 1994-2007 con CD audio, Baldini e Castoldi 1978-2001, Mondadori 2007, fino alla più recente per La nave di Teseo, con un’esaustiva e affettuosamente entusiastica introduzione della figlia Toni). L’originalità assoluta della raccolta è stata messa in luce da molti critici e linguisti, poiché in essa il lavoro compositivo si concentra sulla parola, e più specificamente, sul suo suono. All’autore non interessava tanto il significato trasmesso dal messaggio poetico, bensì la sua ricezione uditiva, lo sconcerto e la divertita riflessione provocate nel pubblico dall’ascolto. Procedimenti e obiettivi di tale metodo di scrittura venivano così illustrati nella Premessa: “Proponi dei suoni ed attendi che il tuo patrimonio d’esperienze interiori, magari il tuo subconscio, dia loro significati, valori emotivi, profondità e bellezze. E dunque la parola come musica e scintilla”. Poesia sonora, quindi, e musicalmente suggestiva, in cui l’effetto straniante è dato dall’accostamento o dalla fusione di termini conosciuti con altri inventati, privi di senso, spesso parodianti la letteratura colta.

In Una giornata ad urlapicchio, ad esempio, il poeta si prende gioco della lirica amorosa tradizionale, ambientando petrarchescamente i suoi versi sullo sfondo di una natura in cui cielo, alberi, uccelli esaltano la dichiarazione finale dell’amata: “t’amo per davvero”. Ma che giornata è, quella in cui sboccia l’idillio tra i due innamorati? È “un giorno a zìmpagi e zirlecchi / un giorno tutto gnacchi e timparlini”, in cui “le nuvole buzzillano, i bernecchi / ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini”. Un’esplosione di suoni allegri, pieni di zzz di insetti, di cchh di volatili canterini cinguettanti nella pineta (come non pensare per contrasto al celebrativo D’Annunzio?), “un giorno carmidioso e prodigiero”, in cui ovviamente non si può che amare “per davvero”. A tale giornata solare e vivace si oppongono invece giorni “smègi e lombidiosi” (in cui “smegi” richiama la noiosità di “mogi”, e “lombidiosi” fa pensare al fastidio di una lombaggine), e meriggi (montaliani?) “gnàlidi e budriosi / che plògidan sul mondo infragelluto”: invenzioni linguistiche assolutamente geniali, sferzanti il tritume monotono sia della comunicazione quotidiana, sia della consuetudine letteraria.

Ecco qui la poesia nella sua interezza, ascoltabile in rete nell’interpretazione musicale di Stefano Bollani e Massimo Altomare (album Sonica Polygram, 1998): “Ci son dei giorni smègi e lombidiosi / col cielo dago e un fònzero gongruto / ci son meriggi gnàlidi e budriosi / che plògidan sul mondo infragelluto, / ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi / un giorno tutto gnacchi e timparlini, / le nuvole buzzillano, i bernecchi / ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini; / è un giorno per le vànvere, un festicchio / un giorno carmidioso e prodigiero, / è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio / in cui m’hai detto “t’amo per davvero”.

Per spiegare la sua tecnica poetica, l’autore aveva inventato il termine “meta semantica”, intendendo con ciò che la produzione andava oltre la semantica, nel privare le parole del loro significato più usuale e scontato, continuando però a utilizzare vocaboli che nel suono risultassero ancora familiari alla lingua italiana, e ne rispettassero grammatica e sintassi. Tale pratica aveva avuto illustri precedenti nel cinquecentesco Teofilo Folengo, e nel poemetto del 1871 Jabberwocky di Lewis Carroll. Altri esempi di utilizzo giocoso e fuorviante della lingua si trovano nel nostro ’900: nei futuristi Farfa, Lucini, Palazzeschi; poi in Sanguineti, Zanzotto, Giuliani, Dario Fo, Scialoja, Niccolai, Frasca, e in tanti componimenti satirici anonimi.

Le Fànfole chiedono di essere recitate ad alta voce, magari cantate, e interpretate attraverso l’intervento decodificante del lettore, la sua partecipazione diretta nello sbrogliare il canovaccio dei rimandi lessicali, delle onomatopee, delle assonanze-dissonanze, delle etimologie, delle rime. Poesia tangenziale e bipolare, secondo la definizione del suo creatore, che così la decantava: “Il linguaggio comune, salvo rari casi, mira ai significati univoci, puntuali, a centratura precisa. Nel linguaggio meta semantico invece le parole non infilano le cose come frecce, ma le sfiorano come piume, o colpi di brezza, o raggi di sole, dando luogo a molteplici diffrazioni, a richiami armonici, a cromatismi polivalenti, a fenomeni di fecondazione secondaria, a improvvise moltiplicazioni catalitiche nei duomi del pensiero, dei moti più segreti”.

Il più noto e celebrato modello dell’invenzione stilistica di Maraini ci viene fornito da Il Lonfo, magistralmente reinterpretato nei suoi spettacoli da Gigi Proietti e recuperabile su Youtube: “Il lonfo non vaterca né gluisce / e molto raramente barigatta, / ma quando soffia il bego a bisce bisce / sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta. / È frusco il lonfo! È pieno di lupigna / arrafferia malversa e sofolenta! / Se cionfi ti sbiduglia e t’arrupigna / se lugri ti botalla e ti criventa. / Eppure il vecchio lonfo ammargelluto / che bete e zugghia e fonca nei trombazzi / fa lègica busìa, fa gisbuto;/ e quasi quasi, in segno di sberdazzi / gli affarfaresti un gniffo. Ma lui zuto / t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.”

È un animale, il lonfo, o uno zombie minaccioso? Forse un lupo, un ghiro, una pantegana, un cagnolone inoffensivo? Il poeta lo descrive con una serie di attributi bizzarri e fantasiosi (gnagio, frusco, vecchio, ammargelluto, zuto), di verbi indicanti azioni vaghe e misteriose (non vaterca, non gluisce, raramente barigatta, sdilenca, s’archipatta, sbudiglia e arrupigna, botalle e criventa, bete, zugghia, fonca, fa busìa, fa gisbuti, t’alloppa e ti sbernacchia), ma in qualche modo ostili e derisorie.

Allegramente canzonatorio è anche l’atteggiamento che il nostro illustre orientalista sfodera nei riguardi della triade Carducci-Pascoli-D’Annunzio, dei crepuscolari e di Gozzano, di Montale e Quasimodo, motteggiando la pomposità seriosa, l’intenerita mansuetudine, la tormentante angoscia dei maggiori poeti italiani del primo ’900: “Io t’amo o pia cicala e un trillargento / ci spàffera nel cuor la tua canzona” (Carducci), “Ricordi quando usavano le boppie / calate sui pitànferi supigni, / e légoli girucchi a panfe doppie / mornavano gli splagi e i pitirigni?” (Pascoli), “Io vissi all’era / degli Andali ludiati e perfidiosi: / gli artèdoni liriavano in finiera / metàrcopi e sindrèfani rodiosi…” (D’Annunzio), “Oh zie, oh dolci zie in bardocheta / voltatevi col glostro ricamato, / scendete per le scale a beta beta / dai màberi del tempo agglutinato!” (Gozzano), “nel sole si smarmellano budrince / al neon s’affastigiano vetrali” e “tra gli spissi gramosi / e blastifèmi, sul bovatro / svettiscono zirgendo gli acrolissi” (Montale), “t’ascolto lucifuso nell’azzurra / voragine d’un’alba di bugie” (Quasimodo),

Vengono allora in mente i versi che Aldo Palazzeschi dedicò all’ironia sorniona dei poeti, quando sanno giocare con le parole: “Il poeta si diverte, / pazzamente, / smisuratamente. // Non lo state a insolentire, / lasciatelo divertire / poveretto, / queste piccole corbellerie / sono il suo diletto”.

Senz’altro Fosco Maraini si è divertito, scrivendo le sue Fànfole: sarcastico già nel titolo scelto per la raccolta, poiché suggeriva fosse decifrabile attraverso la gnosi, cioè grazie a una conoscenza misterica raggiungibile per illuminazione interiore solo da pochi iniziati. La cui chiave interpretativa, però, non poteva che essere quella della risata ribelle e sbeffeggiante. Ma che risata ingegnosamente ed estrosamente creativa, la sua.

 

© Riproduzione riservata                  «Il  Pickwick», 13 novembre 2019

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MARCHESINI

MATTEO MARCHESINI, ATTI MANCATI – VOLAND, ROMA 2013
SOLI E CIVILI – ED. DELL’ASINO, ROMA 2012

Prende le mosse un po’ faticosamente, questo romanzo del giovane e agguerrito critico Matteo Marchesini, ambientato in una Bologna piuttosto provinciale e riconoscibilissima nelle sue strade e nei suoi personaggi, dai più famosi ai più caratteristici nella loro stramba originalità («un teatrino di figure petroniane»). Protagonista e evidente alter ego dell’autore è l’ intellettuale trentenne Marco Molinari, «eccessivo, intricato e sarcastico», «micidiale… e aleatorio», dal «poligrafismo un po’ presenzialista», che accumula sulla sua scrivania libri e articoli, assorbito ossessivamente in un lavoro «che non ha orari e quasi non ha gesti, asettico, ripulito da ogni sgradevole contatto umano». Intorno a lui ruotano poche altre figure: il suo mentore-guru Bernardo Pagi, «l’Adorno delle Due Torri», ritiratosi in un eremo campestre nel tentativo di allontanarsi dai riti vacui e mondani della società letteraria. Il fantasma dell’amico più caro, Ernesto, morto in un ambiguo incidente d’auto, e rivale in amore e nella scrittura, bello-benestante-limpido ma prevedibile nelle aspirazioni e nei comportamenti. E soprattutto Lucia, la sua ex fidanzata, inquieta esploratrice di interessi culturali alla moda: dalla politica solidale delle Ong alla cucina alternativa. Lucia, tornata a Bologna dopo anni di assenza, riprende i contatti con Marco a prima vista per rimproverargli i suoi «atti mancati», le sue disattenzioni e indifferenze nei confronti degli altri e del mondo, la sua «tetragona, cocciuta scelta d’inesperienza». In realtà per metterlo di fronte alla tragedia della sua malattia terminale, dapprima nascosta pudicamente, e poi rivelata nel tragico squallore della chemio, delle operazioni, dell’ indebolimento fisico. Nel rinnovato incontro-scontro tra i due, Marco non riesce comunque a sottrarsi al suo velleitarismo letterario, reso esplicito nei dialoghi spesso artificiosi e costruiti, indicativi di «un’aspirazione pubblica che interferisce con l’ispirazione vera».
Più incisivo e convincente della prova narrativa, è invece l’appassionato saggio letterario di Matteo Marchesini, pubblicato nel 2012 dalle Edizioni dell’Asino.
Nella prefazione Goffredo Fofi indica l’ultimo trentennio di storia patria come contrassegnato «dall’accettazione di una progressiva stupidità collettiva», privo di figure intellettuali e artistiche di rilievo etico o politico, e invece scisse tra potere mediatico-giornalistico e potere cattedratico: comunque imbelli, e prone. A questa estesa categoria «chiassosamente servile» di narcisi da salotto è giusto e necessario opporre personalità «portatrici di una istruttiva diversità», di una strenua e coraggiosa capacità di resistenza all’omologazione, alle blandizie delle vendite editoriali di successo, all’assalto a redazioni e studi televisivi. Così si impegna generosamente e orgogliosamente a fare Marchesini, proponendo alla riflessione dei lettori la rivisitazione dei percorsi di vita e scrittura di cinque intellettuali che hanno inciso, con la loro scabra e indocile moralità e con la loro acuta capacità critica, la storia letteraria italiana del novecento: Savinio, Noventa, Fortini, Bianciardi e Bellocchio. Sono ritratti ammirati e partecipi di cinque saggisti (e narratori e poeti) «soli e civili», diversi e lontani tra di loro anche nelle esperienze esistenziali e culturali, ma accomunati da una «capacità demitizzante e demistificatoria», in grado di ragionare «sulla storia del loro tempo senza idolatrarla», legati a un’idea di classicismo «dotto e popolare» a un tempo, ma nemico di qualsiasi cerebrale estetismo, e animati tutti dal sentimento imprescindibile della loro finitezza. Un richiamo sintetico e insieme approfondito, questo di Marchesini, alla riscoperta di cinque maestri del pensiero e della scrittura novecentesca che hanno saputo lasciare un’impronta fondamentale (ma troppo spesso sottovalutata) nella nostra cultura.

 

«incroci on line», 25 aprile 2014

RECENSIONI

MARCHESINI

MATTEO MARCHESINI, CRONACA SENZA STORIA – ELLIOT, ROMA 2016

Matteo Marchesini (Castelfranco Emilia, 1979) è uno dei più interessanti ed eclettici giovani scrittori italiani: critico letterario, poeta e narratore, vivace polemista culturale, collabora attivamente a diversi importanti quotidiani e a trasmissioni radiofoniche e televisive. Ha da poco raccolto per le edizioni Elliot la sua produzione in versi, sparsa in diverse pubblicazioni a partire dal 1999, sotto il titolo – programmaticamente definitorio – di Cronaca senza storia. Quasi a esibire l’esplicita volontà di ritagliare per la sua poesia uno spazio più individuale e circoscritto rispetto alle prese di posizione dichiaratamente ideologiche riservate agli altri suoi interventi critici.

La prefazione al volume reca la firma di Paolo Maccari, ed è un’introduzione acuta, partecipe e approfondita alla scrittura di un amico di cui si ammira il rigore intellettuale e di cui si condivide il metodo speculativo.
La raccolta si suddivide in due parti: la prima ospita i testi più recenti e inediti, la seconda offre al lettore una selezione di versi già pubblicati da Scheiwiller nel 2009 con il titolo Marcia nuziale.
Partendo proprio da questa seconda sezione, possiamo rilevare quanto qui Marchesini, “poeta sentimentale… con attitudine ragionativa” (come viene definito da Maccari) si rispecchiasse emotivamente nella relazione con l’altro da sé, sia che fosse la donna amata, o l’ambiente familiare e cittadino di formazione. I versi dedicati all’infanzia e alla figure genitoriali (Asilo) delineano un’atmosfera claustrofobica, di anni turbati non tanto da qualche innominabile violenza, quanto da una sorda e reciproca incomprensione, imbastita di silenzio-isolamento-noia, nel rapporto con i parenti, i compagni, i sobborghi proletari, la casa piccolo-borghese: stasi, paura, movimenti secchi, assenza, incubo, chiusura sono termini rivelatori di una incomunicabilità ingessante: «tutto il quartiere è saturo ed informe / come le cose di cui non parliamo»; «qui si resta / per sempre tra incuria e redenzione».

Il rapporto di coppia, descritto in Litania e negli splendidi diciassette sonetti di La seconda attesa, risulta invece più vitalizzante, nella sua bellicosità come nella dedizione più intenerita. Si tratta di poesie dall’impianto assolutamente tradizionale, quasi classicheggiante, caratterizzate spesso da ariosi endecasillabi, da incipit che ricordano i Mottetti montaliani o il discorsivismo teatrale della Bovary di Giovanni Giudici: «Ci fermiamo davanti a un’altalena»; «Tutto il mio pensare è nel guardarti»; «Alle mie cene cadi in dormiveglia»; «Forse è questa città che mi fa orrore»; «La tortura più grande è non sapere».

Inizia già in queste poesie giovanili una sorta di gioco narcisistico e plateale di oscillante confessione e assoluzione, «un lungo autoritratto denigratorio» – secondo l’indovinata formula descrittiva di Maccari – in cui Marchesini si accusa implacabilmente di sterilità fisica e intellettuale, di vile conformismo e inadeguatezza, di totale incapacità di corrispondere sinceramente alla vita nella sua semplice immediatezza, di astrattezza paralizzante sia nei legami sentimentali e affettivi, sia nell’impegno intellettuale.
La colpa riconosciuta e ammessa, esibita soprattutto nella prima parte del libro, e quindi nelle poesie più recenti, è il tradimento della lealtà verso se stesso, la costruzione artefatta di un io letterario falsificante, l’inautenticità che l’uomo e il poeta instaurano quotidianamente con la pagina scritta e con il prossimo: «Per questo ho imparato a sedurre / e non ad amare: non a tradurre, / a imitare soltanto. Nel falò / di una mania vestita da abitudine / io la vita l’ho solo orecchiata»; «Una vita passata / a invidiare la gente che vive / e non sta sul chi vive»; «Io sono questo: ho e faccio paura»; «E io solo saprò la mia demenza / senza poter parlarmi. / Nelle prove di vita io andrò a male».

Questa sofisticazione del sé, questa posa atteggiata del comportamento, viene smascherata solo dalla naturalezza dei bambini, degli animali, delle persone umili: o da una “Cassiopea” che unica può portare salvezza (e sarebbe tutta da commentare, anche nella resa stilistica, la poesia più bella del volume, Gli occhiali, giustamente riportata anche in quarta di copertina).
Se quindi la cifra contenutistica di Cronaca senza storia è tutta racchiusa in questa severa ma compiaciuta circumnavigazione del proprio io, nell’implacabile e ostentato confiteor che accomuna la produzione di Marchesini a quella della maggior parte dei giovani poeti italiani, la resa formale dei suoi versi ne fa l’epigono consapevole di tutta la tradizione del nostro Novecento: Montale, soprattutto, con calchi fedeli di molte Occasioni, ma anche Saba, Luzi, Raboni, il Pasolini più elegiaco, e il già citato Giudici.
Ligio a una musicalità che si esprime nella ricerca assidua di rime e assonanze, nella sentenziosità fonicamente armonica dei distici finali, negli incipit spesso endecasillabici, Matteo Marchesini si distanzia orgogliosamente dalla maniera più in voga tra i suoi coetanei: l’oscurantismo, l’implicito, il frammento, la non significazione, il plurilinguismo, la non assertività, e dichiara esplicitamente la sua riconoscenza, il suo non rinnegabile debito verso i maestri della poesia italiana contemporanea.

 

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9 maggio 2016

RECENSIONI

MARCHI

RAFFAELE MARCHI, DA GIOVANI SI MUORE COSÍ TANTE VOLTE

GATTOMERLINO, ROMA 2023

 

Raffaele Marchi (Ostiglia 1991), slavista e traduttore dal russo, ha pubblicato presso le edizioni romane Gattomerlino la raccolta di racconti Da giovani si muore così tante volte, titolo che suona un po’ come amara constatazione un po’ come memento rimproverante verso chi da tempo giovane non è più, e forse dimentica che non esistono età assolutamente felici. Sembra proprio la scontentezza di sé e del proprio ruolo sociale il leitmotiv del volume, insieme all’insoddisfazione lavorativa e all’alienazione determinata dal neocapitalismo, più ancora che l’infelicità personale dovuta a inquietudini, disagi o sofferenze interiori. Solitudine, mancanza di dialogo, rapporti affettivi precari, caratterizzano queste diciannove storie brevi, dal registro stilistico multiforme: si susseguono monologhi, dialoghi, meditazioni filosofiche e teologiche, commenti a fatti di cronaca, spesso scritti in prima persona, addirittura facendo parlare un pub “modestamente frequentato”, testimone afflitto dello squallido viavai degli avventori.

I protagonisti dei racconti appartengono in genere al ceto sociale più modesto: sono operai, commesse, insegnanti, impiegati, casalinghe, tutti frustrati e infiacchiti dalla routine quotidiana.  Il loro habitat è il condominio popolare, il bar del quartiere, il negozio alimentare. Manifestano indifferenza verso l’impegno civile, insieme a una generica ostilità per i detentori del potere: “una razza che sembra perennemente sul filo dell’estinzione, e poi non muore mai. Sempre un erede si trova”.

La realtà in cui questi personaggi si muovono appare come una recita imposta, una finzione in cui essi sono solo comparse, mai attori principali: “Sempre si finge. Somma due occhi ad altri due occhi e avrai un uguale infinito di bugie”. Poiché verità e giustizia rimangono utopie irrealizzabili, ci si rifugia nell’agnosticismo, nel disincanto o peggio, nello scherno: “Un altro mondo non c’è… Noi sappiamo d’esser qui, e pure che là non ci saremo”. Leggiamo nel susseguirsi delle pagine il monologo sospiroso di una cassiera del supermercato, che attende la fine del turno tra pazienza dovuta ai clienti e giustificabile irritazione; il dialogo di tre professori che durante la ricreazione conversano di tutto: guerre, capitalismo, poesia, d’accordo solo sulla capraggine insulsa degli allievi (“Bombe! Bombe! Andiamo a fare l’educazione col tritolo”). E ancora il rito del caffè mattutino raccontato da un misantropo cui pesa affacciarsi alla vita, o due amici musicisti “inseparabili, incicciati come sardine nella scatola”, in perenne litigio riguardo alle loro abilità di interpreti.

A riprova della versatilità dell’autore, troviamo anche alcune storie più intenerite, con un alone di romantica ingenuità che le rende particolarmente godibili. Come L’asprezza chiama sul labbro, in cui il giovane protagonista viene avvicinato da una donna anziana mentre sta raccogliendo le prugne su un albero in giardino, e le permette gentilmente di approfittare della stessa operazione per portarsi via un cestino ripieno di succosi frutti: solo dopo aver risposto a un serrato e importuno interrogatorio della vecchia sulle abitudini dei proprietari della casa, capisce di essere stato generoso con una ladra che cercava informazioni per poter rubare nell’abitazione. Oppure, nel bellissimo Storia senza una vera fine la descrizione puntuale della passeggiata di una coppia, “leonessa e babbuino”, scandita dalla diversa velocità dei passi, dei pensieri, degli sguardi, dei gesti, fino all’arrivo nel bilocale in cui abita e al sonno condiviso senza amore nello stesso letto.

Usando un linguaggio lineare e pacato, impreziosito da innovazioni lessicali, dialettismi e neologismi, Raffaele Marchi ci introduce in un mondo in cui la banalità del quotidiano affossa ogni speranza di riscatto, ogni illusione di cambiamento, riducendo i rapporti umani a uno scambio di contatti superficiali, a volte basati sull’inganno e lo sfruttamento, più spesso sull’apatia e la rassegnazione che contrassegnano il nostro “piccolo spettacolo del vivere”.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net            4 agosto 2023

 

RECENSIONI

MARCOALDI

FRANCO MARCOALDI, QUINTA STAGIONE – EINAUDI, TORINO 2020

Franco Marcoaldi (eclettico autore di versi e narrativa, di libri di viaggio, di testi teatrali, musicali e televisivi, e inoltre consulente editoriale e collaboratore de La Repubblica), ha da poco firmato per la Collezione di Poesia einaudiana il suo nono volume, un monologo drammatico in versi, intitolato Quinta stagione.

La stagione che si apre al poeta, alle soglie dei sessantacinque anni, è inedita, nuova, sconosciuta, si offre come generosa e vivace sorpresa: “tempo / indefinito, penoso e scriteriato / – sole nell’uragano, arcobaleno al buio, / sete dell’affogato”. Eccolo dunque sopraggiunto, il momento ineludibile e severamente censorio in cui si tirano le somme dell’esistenza intera, in cui eccesso di parole e afasia si rincorrono e sovrastano, resi entrambi urgenti dall’esigenza di giustificare o di sorvolare, come consiglia l’autore. Il teatro degli inganni che vede ogni essere umano protagonista della recita imposta dai copioni del vivere sociale, si trasforma in un teatro interiore, magari ugualmente confuso e cacofonico, ma perlomeno più assorto, e nelle aspirazioni, più sincero. “Ora però ti è offerta l’occasione / di raccoglierti e fermarti, / di osservare e di osservarti”.

Il poemetto, scandito in dodici sezioni, si distende in forme gradevolmente colloquiali, con una voce narrante e interrogante che interloquisce con altri invisibili personaggi, o con se stesso, in un vivace scambio delle parti, dove toni meditativi si alternano ad accenti più disinvolti e maliziosi, cadenze musicali a impostazioni più rigidamente prosastiche. Come succede in una conversazione telefonica, o in un informale incontro tra conoscenti, oppure – al contrario – in un ovattato confessionale, in un’equilibrata seduta psicanalitica. Quando a bassa voce si ammette che all’euforia spesso subentrano stanchezza e pesantezza, accorgendosi che “È tutto fuori asse, è tutto / fuori tempo”, perché dopo la primavera e l’estate vissute con entusiastica partecipazione, adesso ci si deve accontentare di un autunno piovoso, di un infreddolito inverno: “Ah, com’è difficile imparare / a tramontare”. Che se poi nel giorno dei morti o a Natale spuntano improvvise fioriture di rose, riprendono vigore pomodori rinsecchiti, ecco che lo scherzo fuori stagione assume le sembianze di una crudele provocazione.

Le metafore utilizzate da Marcoaldi nella sua riflessione sul tempo che scorre inesorabile, sull’età che avanza, appaiono al lettore curiose e leggere, svagate nella loro imprevista allusività (l’angelo spiumato, i bulloni allentati, il mantice affannoso della fisarmonica, la corona di perle sgranata…).

Negli excursus recriminatori sulla politica, la finanza, la burocrazia, l’inquinamento, l’onnipresenza onnivora dei media, e più in generale sugli uomini di potere e sugli ignavi che non si ribellano, l’autore rivela una sua natura di esasperato corrector morum, nauseato dall’oggi, risentito verso ieri, scettico sul domani. Il vortice di attività di successo in cui ha investito le proprie energie giovanili, e le aspirazioni della maturità, si manifesta nella sua fatua inconsistenza: “una sceneggiata / che ora scopro falsa e vuota”. Dei tanti amici persi per strada, dei postulanti soccorsi e ingrati, degli amori banali e molesti, rimane poco o niente: “E allora: davvero vuoi sapere / quante sono le creature / per le quali piangerò / lacrime sincere il giorno / della loro morte? Cinque, sei, sette. / Non di più”.

Riguardo al suo futuro individuale, e a quello che aspetta l’umanità tutta, Franco Marcoaldi mantiene scarse illusioni, in questa Quinta stagione: “Solo la danza e il canto ci possono aiutare”, “Ti prego, accontentati dei sensi, / accontentati dell’occhio”. Oltre la materia di cui siamo fatti, oltre la bellezza gratuita che ci viene quotidianamente offerta, e di cui spesso nemmeno ci accorgiamo, ci resta appena “la nostra comica e dolente // esistenziale passeggiata / nello spazio sublunare”.

Tra rassegnazione, malinconia e vaghissime attese, il poeta conclude il suo monologo in versi, in un teatro semi-deserto, davanti a un pubblico distratto, che non sa più applaudire.

 

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RECENSIONI

MARI

MICHELE MARI, TU, SANGUINOSA INFANZIA – EINAUDI, TORINO 2009

«…basta che ci capiti in mano una nostra fotografia di quando avevamo sette o dieci anni per scioglierci di commozione come ulissidi che rivedan la patria, ecco chi sono gridiamo, quello lì sono, volevo ben dire, io sono sempre quello». E ancora: «Sentiva in profondo che se la vita è corruzione ed abiura, dovrebbe essere altissimamente morale contrapporre alla sua ruina il movimento contrario del riscatto, del disseppellimento affettuoso».

Il movimento contrario di Michele Mari, in questi splendidi undici racconti, è quindi non tanto il recupero dell’infanzia, quanto il rientro nell’infanzia, là dove tutto è iniziato e finito: «Non c’è stato molt’altro, nella vita. No, è quasi tutto laggiù». Sono le parole finali dell’ultimo capitolo del libro Tu, sanguinosa infanzia, in cui due vecchi si scambiano ricordi in un ospizio, nel 2030, ritrovando gli stessi incubi, fraintendimenti, incomprensioni, sadismi degli adulti che hanno traumatizzato il loro mondo bambino. Commozione, rabbia, nostalgia: ma anche affettuoso umorismo, simpatia indulgente. In una scrittura che sa unire magistralmente eleganza e ironia, acume psicologico e sensibilità formale, cultura eclettica e disarmata emotività.
Questo bambino ritrovato nella passione irrefrenabile per i libri di avventura, per i fumetti, per le copertina di Urania, coltiva un feticistico rapporto con il pensiero, con l’immaginazione; ma anche con un se stesso urticato, ferito da troppa intensità percettiva.
Ecco allora entusiastici incanti e trasalimenti di gratitudine, mescolati ad angosciosi sensi di colpa, di inadeguatezza: per un regalo inaspettato e forse immeritato, per un incontrollabile desiderio di vendetta, per un eccesso di pruderie snobistica.Gli ambienti e i caratteri sono descritti con acuta empatia, lo stile è curatissimo, l’aggettivazione lussureggiante e originale.
Sulle canzoni degli alpini ci siamo immagoniti tutti, nelle nostre infanzie sanguinose: grazie a chi ce lo ricorda con intenerita intelligenza.

 

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www.sololibri.net/Tu-sanguinosa-infanzia-Michele.html      8 gennaio 2016

RECENSIONI

MARI

MICHELE MARI, ROSSO FLOYD – EINAUDI, TORINO 2015

Stupisce sempre constatare come Michele Mari, forse il più eclettico dei nostri scrittori, riesca a cambiare registro ad ogni libro, dall’aulico baroccheggiante all’ironico-sarcastico, dall’elegiaco intenerito al cronachistico, dal robustamente narrativo al più disinvoltamente spumeggiante. E non si limita a dominare sempre con estrema eleganza i vari stili, bensì affronta anche temi e contenuti diversi nella sostanza, nelle epoche, nei luoghi e ambienti.
Così, leggendolo tutto, siamo trasportati dalla Recanati leopardiana dell’ottocento alla sua infanzia milanese degli anni ’60, dalla nostalgia degli amori liceali alla Londra dickensiana di due secoli fa.
In questo Rosso Floyd (Einaudi, 2015), la storia dei Pink Floyd viene ripercorsa dagli esordi, quando il gruppo si compose nel suo nucleo originario, attribuendosi inizialmente i nomi più stravaganti e insostenibili, fino all’ultimo disco e concerto: seguendone destini e defezioni, trionfi e tradimenti. E l’originalità di questa operazione consiste nell’aver dato voce a una moltitudine di personaggi, veri e immaginari, intrecciando insieme episodi reali ad altri di fantasia: recuperando notizie, testimonianze, aneddoti, pettegolezzi, invenzioni e leggende metropolitane.
Ne esce un quadro convincente e vivace di anni che hanno rivoluzionato la musica, la moda, le ideologie, la morale del mondo intero. Fu la colonna dei PF ad accompagnare lo sbarco sulla luna nel 69, fu il loro concerto a Venezia vent’anni dopo a sconvolgere la nostra politica nazionale: contesi e rifiutati da Antonioni, da Kubrick; un loro LP rimase in classifica per 18 anni; costruirono spettacoli megagalattici; imposero copertine che fecero epoca. E soffrirono esiliando la pazzia geniale di Syd Barrett, sopravvivendo all’allontanamento di Roger Waters: «Quando tutto è rosa non si distinguono bene i contorni degli oggetti, quando tutto è fluido le forme evolvono l’una nell’altra e quello che fino a un attimo prima era vero diventa falso. E il falso diventa vero…»

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Rosso-Floyd-Michele-Mari.html      1 febbraio 2016