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RECENSIONI

MARI

 MICHELE MARI, EURIDICE AVEVA UN CANE – EINAUDI, TORINO 2015

I diciotto racconti di Michele Mari recentemente riproposti da Einaudi avevano già conosciuto un notevole successo nel 1993, al momento della prima edizione presso Bompiani. Mari è oggi considerato fra i maggiori scrittori italiani, tra i più originali e inventivi; forse addirittura il più sfrontatamente e polemicamente coraggioso. Il suo linguaggio arcaicizzante -al limite del manierismo-, imbevuto di letterarietà (colto, allusivo, spiazzante), lo situa nella scia di pochi altri grandi scrittori del nostro 900: Gadda, Landolfi, Manganelli. Il racconto che dà il titolo al volume (Euridice aveva un cane) è forse l’unico che si dipana in maniera più tradizionale, narrando delle vacanze estive del giovane protagonista nella casa dei nonni al paese di Scalna, e del suo perpetuo e tormentato rapporto con i vicini: chiassosi, spavaldamente ignoranti e lietamente burini, pertanto in soddisfatto connubio con l’ideologia dominante del tempo e dei luoghi. Michele invece, giovane intellettuale solitario e rabbioso, riesce a sopportare solo la frequentazione dell’anziana signora Flora, del suo cane Tabù e della loro vecchia casa («credo che tranne le lampadine non ci fosse un solo oggetto posteriore alla guerra»).

Questo rifiuto elitario del mondo adulto, ritenuto ottuso ed eticamente ingiustificabile, si ritrova in altri capitoli del libro, e si ripropone quasi come un topos in tutta la narrativa di Mari. Ad esempio, nel primo splendido racconto, I palloni del signor Kurz, in cui gli allievi di un collegio maschile combattono le loro velleitarie partite di calcio contro un diabolico vicino che puntualmente si impossessa dei loro palloni sconfinati nel suo giardino. Oppure ancora in Cicoria matta, dove un imbranato Giovannino è ossessionato dall’idea di scoprire quale misteriosa e affascinante «essa» si celi sotto la gonna della matta del paese. E ne Il volto delle cose troviamo un bambino obeso e sbeffeggiato che medita sul brutto voto impartitogli dal «maestro stizzito», e si incupisce osservando il volgare grigiore del mondo intorno a lui (due paginette di esibita maestria letteraria!).

C’è poi un altro tema che affiora continuamente dalla scrittura di Michele Mari: una sorta di corteggiamento della morte, un cupio dissolvi in atmosfere da incubo, l’angoscia del dissolvimento o dell’imputridimento di oggetti e corpi, tenuto a bada sempre con un’ironia sferzante, un sarcasmo acuto e doloroso. Ne sono esempio i racconti  In virtù della mostruosa intensità,  Tutto il dolore del mondo, Tutti vivemmo a stento, L’ora di Carrasco, La serietà della serie, La legnaia, in cui i personaggi lottano contro i loro fantasmi mentali o contro la prevaricazione violenta e meschina di chi li circonda. Il lettore rimane annichilito da alcune soluzioni finali inaspettate, imprevedibili, e perciò tanto più corrosive e divertenti, e legge ammirato la ricostruzione -tutta in esilarante dialetto romanesco-della leggenda di Romolo e Remo (Li fratelli mia); può sentirsi anche irritato dall’ostentata e tracotante misantropia dell’autore (di nuovo Gadda e Landolfi, ma anche Thomas Bernhard), che con supponenza definisce il weekend «il dittico festo ove starnazza sovrana la massa», o dal suo nevrotico personaggio che cerca affannosamente in un cinema l’unico posto che lo preservi da qualsiasi disturbante presenza umana. Ma come non riconoscere l’eccezionalità della scrittura di Mari in brani come questo: «vede un mondo sporco fatto di brutte facce presuntuose di persone ingrugnate, vede i luridi marciapiedi pieni di vomitevoli scaracchi giallastri e di volitanti cartigli e di cicche schiacciate intese sia come mozziconi fumati sia come chewing-gum salivosi sputati, vede il chiarore grigiastro del cielo piovoso, piovigginoso o piovorno specchiarsi nelle pozze fangose…»

Se si diceva che alcuni antichi rabbini amassero la Torah più di Dio, così potremmo dire che Michele Mari ami la letteratura più della realtà. Ma questo deve considerarsi un difetto in un grande scrittore?

 

«incroci on line», 8 maggio 2016

 

 

 

RECENSIONI

MARIANELLI

MARIANELLO MARIANELLI, VEDERE O NON VEDERE – AKTIS, PISA 1992

Viviamo nella civiltà dell’immagine: vedere e essere visti ci rassicura sulla realtà della nostra stessa esistenza; protagonista attivo o passivo dell’accadere, offuscato dall’indistinto o abbagliato dall’eccesso, è lo sguardo il più vitale e sfruttato dei cinque sensi. Per Marianello Marianelli, germanista di fama, recensore per La Nazione e scrittore in proprio, lo shakespeariano “Essere o non essere” si ripropone in un più probabile e veritiero Vedere o non vedere, dove l’azione dell’occhio è sinonimo e garanzia di un rapporto autentico con il reale, di una penetrazione che è anche possesso. Vedere come acquisizione di coscienza, ma insieme condanna alla consapevolezza e alla disillusione; non vedere come cecità, incapacità ad agire, morte civile, ma insieme libertà di sogno e, perché no?, di errore. I quattro racconti che Marianelli raduna sotto il titolo, appunto, di Vedere o non vedere, definiti dall’autore «meditazioni narrative», vengono accomunati tutti in qualche modo dalla riflessione sui drammatici vantaggi (agiti o patiti) dell’osservazione. Secondo modalità già sperimentate nei suoi ultimi volumi di racconti, l’autore si inventa un quotidiano impastato di futuro, con avveniristiche striature di fantascienza: nella prima storia, ad esempio, immagina una clinica – che ha la spietata efficienza di un lager – in cui la gente può registrare in cassetta, e poi visionare secondo rigidissime clausole, i propri sogni. Pazienti in cui tutti potremmo riconoscerci, frequentano la clinica in preda ai desideri più inconfessabili, pazzi di rimpianti o gelosia, drogati da un onirismo fasullo, da una visionarietà artificiosa. Così uno scrittore famoso rinuncia a inventare ulteriori trame narrative perché trova più rapido, comodo e redditizio produrre, registrare e mettere in commercio i suoi sogni, commentati da critici in delirio e acquistati da un pubblico ignorante. Anche gli animali sognano, con una ingenuità e una poesia che li rivela molto migliori dei loro padroni. Se è difficile difendere i sogni della gente (il direttore della clinica verrà infatti ricattato, lusingato, spiato, minacciato e alla fine distrutto materialmente insieme alla sua creatura), ancora più problematico è difendere la gente dai suoi sogni, tirannici e crudeli divulgatori delle miserie morali di ognuno. Nel secondo racconto, ambientato a Pisa, un’inspiegabile malattia o fattura condanna Piazza dei Miracoli a una progressiva e irrimediabile autoriduzione. I monumenti rimpiccioliscono, sembrano voler ritirarsi in se stessi, e il mondo scientifico impazzisce nel tentativo di individuarne cause e rimedi. Sarà un semplice ingegnere poco “coltivato” a scoprire la natura di questa stregoneria: i monumenti rimpiccioliscono relativamente alla frequenza con cui vengono fotografati o filmati, si dimostrano allergici alla scienza e al progresso, pretendono che li si guardi come li si è guardati per secoli, con fede e stupore ammirato, con l’indugio paziente che meritano i capolavori, in silenzio. Ancora il silenzio è il protagonista per negazione dell’ultimo racconto, ambientato in un’ aldilà particolare, ridotto all’esistenza di sole voci, a una vita eterna fatta di parole. I profumi, la musica, le visioni di ogni genere possono essere solamente raccontate da voci «beate e sospese», più o meno fioche, più o meno convinte. Se all’inizio era il Logos, Marianelli suppone che anche alla fine unica superstite rimanga la parola, e a lei venga demandata la responsabilità di creare o annullare qualsiasi parvenza di realtà. Nel più breve e delicato dei quattro momenti narrativi, Marianelli riesce forse a raggiungere con naturale eleganza e fluidità il più alto dei suoi esiti, amalgamando al meglio (come suggerisce sapientemente Giampaolo Rugarli nella prefazione) «quotidiano e meraviglioso». Il suono esile di un flauto si insinua nella mente dell’autore ad avvisarlo dell’imminenza di un evento triste: una morte, un allontanamento, un addio.

Marianelli ha una scorza rude, scontrosa e talvolta pungente, che non ama essere sbucciata, ma che qua e là si scortica con ritrosia, rivelando, tenerissima e incantata, la polpa dolce di un frutto ignorato dai più.

 

«L’Arena», 8 ottobre 1992

RECENSIONI

MARIANELLI

MARIANELLO MARIANELLI, IL FANTASMA DI CHIANCIANO / UNA CASA DI PAROLE
GIARDINI, PISA 1987

Marianello Marianelli, germanista, direttore di istituti italiani di cultura in Germania, professore di letteratura tedesca all’Università di Pisa e collaboratore de La Nazione, ha mantenuto segreta, in tanti anni di fedele devozione alle lettere teutoniche, una sua seconda, robusta pelle di narratore in proprio: soffocando (per discrezione, per pudore, o in rispettoso omaggio al senso “alto” dello scrivere) una voce che – tra le tante spudorate pronte a gracchiare il loro niente – a ragione avrebbe potuto rivelare i suoi ricchi e diversi timbri. Recentemente, presso l’editore Giardini di Pisa, Marianelli ha raccolto in due volumi racconti e articoli scritti nell’arco di un quarantennio, e via via più assiduamente in quest’ultimo periodo, libero dall’attività accademica. Il fantasma di Chianciano raccoglie tredici storie, definite dall’autore stesso «disincantate», probabilmente perché non concedono alcuna residua illusione sul senso di questo nostro vivere, incapace di qualche riscatto che ne travalichi il puro accadere. Ma il disincanto appartiene anche allo stile, impersonale, fattuale, tendente a livellare in una indifferente intercambiabilità i personaggi e le loro vicende, e a personalizzare gli oggetti, a concretizzare immagini e pensieri. Così, sono le camicie esposte in un grande magazzino a scegliersi i clienti, e sono i numeri nati dalla mente di un matematico che gli scandiscono il tempo da dedicare all’amore, fino a impedirgli ogni abbandono; gli occhi di un radiologo vedono attraverso le cose, i corpi; il Mar Tirreno improvvisamente registra e diffonde amplificate tutte le voci e i discorsi che si sono sciolti tra le sue onde; un fantasma turba la villeggiatura degli ospiti di Chianciano, visualizzazione del loro represso collettivo; i fiori di Amburgo improvvisano un’insurrezione, ribellandosi all’ipocrisia di chi li vuole messaggeri d’amore in un mondo senza amore. Soprattutto nell’ultimo racconto, Una donna è una donna, Marianelli riesce a incantare disincantando, quando narra del trapianto del cervello di una popolana nel corpo di un’aristocratica, dello straniamento che ne deriva alla sopravvissuta e del tragico imbarazzo che la situazione suscita tra i parenti delle due donne: tutto ciò in uno stile asciutto e veloce, che molto offre alla dimensione visiva della narrazione, e poco o niente alla retorica di una lettura sentimentale. Il secondo volume, Una casa di parole, riunisce, per un immaginario album di famiglia e società, una quarantina di prose in cui Marianelli tratteggia «le parti che ha via via recitate dalla guerra a oggi», ripiegando – anziché sulle immagini – sulle parole, «le vere sconfitte del nostro tempo». Parole semplici e pesanti come mattoni, per costruire una casa più solida dell’investimento in muratura. Parole che ritraggono persone o cose «assai care, care nel solito doppio senso di amate e pagate care». Come la figlia Lia, presenza assidua e pungente in tutto il volume: la lunga e incrollabile fedeltà a Lia è testimoniata da dichiarazioni d’amore stupefatto e stupefacente nel memoriale dedicato alla figlia duenne; nelle pagine intenerite e amareggiate dalla crudeltà incosciente della ragazzina che nega al padre un ballo, preferendogli le attenzioni di insipidi giovanetti, o dalla spavalda contestazione della studentessa sessantottina; nell’ultimo Happy Day in cui la figlia ormai preside rende omaggio al genitore con un saggio canoro degli alunni. Questo destino di padre, amato e patito con un’adesione che si suppone addirittura maggiore di quella che accompagna qualsiasi altro ruolo, o dovere, si esalta nella prosa fino a raggiungere un lirismo da scandire in versi: «Ora che sei venuta, scalpita il cavallo rosso del mio sangue, ti tengo su una mano come il mio falcone impaziente dei miei paesi». La paternità si esprime attraverso la morbosità e l’ansia di possesso che siamo abituati a ritrovare nella consapevolezza di essere madre: «Io conosco tutto di te…sapevo il tuo viso prima di creartelo…in te si sazia la mia poca sete di eternità». Ma decine sono le “foto di famiglia” da appendere, da non lasciare ingiallite tra i ricordi privati e pubblici di scarsa comunicabilità. Marianelli figlio che assiste alla riesumazione delle ossa dei suoi genitori, e se li porta in braccio, così, in due cassette di alluminio, a fare un giro in macchina. Marianelli nonno che prepara un presepe al nipotino e osserva sconfitto e complice la trasformazione moderna dello scenario natalizio in un Parking-Center in miniatura. Marianelli scrittore civile che non si vergogna di essere tale, scabro nella commozione e alto nello sdegno: per una Sardegna amata-odiata in guerra, per una Germania compatita e detestata nel dopoguerra. Per parafrasare uno dei racconti più belli, in cui l’autore bambino inciampa in un invisibile filo d’acciaio, che lo ferisce a tradimento, potremmo definire i racconti di Una casa di parole come trame di fili che incidono, che lasciano un segno. Anche se il lettore che corre tra di loro, commosso, divertito, finge di non accorgersene.

 

«Agorà» (Svizzera), 3 marzo 1988

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MARIN

BIAGIO MARIN, POESIE – GARZANTI, MILANO 2017

Il volume che Garzanti ha dedicato a Biagio Marin raccoglie un’ampia scelta delle sue poesie, e una serie di contributi critici dei maggiori letterati italiani del ’900: Carlo Bo, Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto, Pier Vincenzo Mengaldo, Massimo Cacciari, e dei curatori Edda Serra e Claudio Magris. Secondo quest’ultimo «Il canzoniere di Marin ha la continuità del diario e il respiro dell’eternità: pervaso da un umanissimo senso del sacro e da un’illuminante percezione del cosmo, tocca con limpida e serena naturalezza apici di profondità metafisica».

Biagio Marin (Grado 1891-1985), figlio di un oste, presto orfano di madre, fu allevato dalla nonna paterna. Studiò a Gorizia nel ginnasio di lingua tedesca, quindi alle Scuole Reali Superiori a Pisino (Istria), allora sotto l’Impero Asburgico. Ventenne si trasferì a Firenze, frequentando l’ambiente letterario della “Voce” di Prezzolini, tra scrittori giuliani come lui (Slataper, Stuparich, Saba, Giotti), e altri importanti intellettuali dell’epoca. Approfondì gli studi filosofici e artistici a Vienna, quindi rientrato a Firenze si sposò con Pina Marini, da cui ebbe quattro figli. Al termine della guerra, che lo aveva visto arruolarsi nonostante fosse malato di tubercolosi, si laureò a Roma in filosofia, e in seguito ottenne vari incarichi scolastici e amministrativi in tutto il Friuli Venezia Giulia. Nel 1968 si stabilì nuovamente a Grado, dove rimase fino alla morte. Dal 1912 pubblicò diverse raccolte di versi, quasi tutte in dialetto gradese: i suoi libri più noti furono Elegie istriane (1963), El mar de l’eterno (1967), I canti de l’isola (1970), La vita xe fiama (1972), In memoria (1978), Nel silenzio più teso (1980), La vose de la sera (1985).

Della poesia di Marin tutti i commentatori hanno sottolineato come prima dote la purezza, una sorta di illuminazione disincarnata, che la rende semplice, umanissima e naturale, costantemente uguale a sé stessa dagli anni giovanili alla vecchiaia. Pasolini scrisse che «le poesie di Biagio Marin sono in definitiva la stessa poesia più o meno vicina alla fonte luminosa (accecante) in cui si forma». L’accusa di monotonia che alcuni hanno rivolto ai suoi versi dipende forse dal fatto che in essi non esistono narrazioni vivaci di eventi, e non c’è traccia di dramma: i personaggi descritti sono poco più che comparse sullo sfondo di una modalità poetica che si nutre esclusivamente di una pulitissima e inalterabile musicalità («solo musica fasso: in ela vivo»). Eppure l’uomo aveva conosciuto tribolazioni, miseria e tragedie, come la morte dell’unico figlio maschio in guerra, e il suicidio di un nipote molto amato: ma era nella dedizione quotidiana alla scrittura, nel «diario sterminato» (C. Bo) in cui ogni giorno appuntava i suoi versi che aveva saputo trovare un’ancora di salvezza: «Màseno versi in ogni ora / comò che fa ’l mulin co’l gran». Non era, la sua, una produzione a-storica, indifferente al rumore del mondo e alle sue sofferenze e ingiustizie, e non era nemmeno un ricorso consolatorio all’idillio: se fedi e ideologie gli rimanevano sostanzialmente estranee, l’unica voce che riteneva doveroso ascoltare era proprio quella, empatica e meravigliata, dell’ispirazione poetica. «Quanto più moro / presenza / al mondo intermitente / e luse che se spenze, de ponente / tanto più de la vita m’inamoro. / E del sol rîe che fa fiurî l’avril / e del miel che l’ha in boca, / la prima neve che za fioca / sia pur lenta e zentil».

Priva di varianti e novità, iterativa in una sua finitezza innocente, anteriore addirittura alla creazione del mondo, la poesia di Marin tende a un continuo slancio verso un altrove, verso un infinito che può essere sia la distesa equorea sia il cielo: tutto azzurro o bianco, tutto limpido, silenziosa e rasserenante promessa di felicità. Utilizzando in maniera reiterata un lessico limitato, sfruttando ossessivamente le rime, fa del microcosmo gradese un universo privo di confini spazio-temporali. E la sua Grado si identifica completamente con il mare, prima fonte di ispirazione e di nutrimento, quasi metafora di madre accogliente e protettiva. Nel 1980, in una sorta di confessione letteraria, affermava: «Il mare è stato per me la più pura parola dell’Alterità e la più immediata incarnazione della Divinità. Il cielo, e soprattutto il firmamento, certo, era anche lui parola divina, ma il mare era qualcosa di più. È come l’aria che permette il respiro. Il mare lo vedevo e non solo lo vedevo, ma in esso mi tuffavo, conoscevo i suoi capricci, le sue bellezze le ore meravigliose di “soio” e le ore di tempesta, alla sua vita partecipavo… Proprio lì, dentro il mio mare ho avuto la prima, più semplice rivelazione della presenza di Dio».

«Mar queto mar calmo / no’ vogie no’ brame / respiro de salmo / tra dossi e tra lame»; «La breve riva / spalanca el mar grando: / de quando in quando / ariva un’ola più viva, co’ ‘nbriva»; «E ‘ndéveno cussì le vele al vento / lassando drìo de noltri una gran ssia, / co’ l’ánema in t’i vogi e ‘l cuor contento / sensa pinsieri de manincunia»; «El vento za se placa / e la risaca / ariva in saca / ma lenta e straca. // El can del cuor nol bagia / e la passion la tase / el mar stesso nol ragia: / dal siel cala la pase. // Pase me vogio granda / via dei travagi de la tera, / lontan da la bufera / che a pico el bastimento manda».

L’ingenuità espressiva di Marin, lontana da ogni sperimentalismo e intellettualismo, non è affettata; deriva da una «adesione dal basso all’ambiente» (A. Zanzotto): «No son sapiente / e sé poche parole: / le sole / che adopera la zente»; «Trasparensa e durata: / questa la gno ilusion, / questa l’aspirassion / che nel cuor se dilata». Così aveva tentato di spiegare la propria vocazione letteraria: «Dove, quando, come queste liriche si formino, non lo so. Io solo le trascrivo e a volte rapidissimamente, e di rado mi avviene di dover apportare modifiche… La poesia non è costruzione intellettuale, fatto di volontà e di disciplina. Io, molte volte tra la veglia e il sonno, vedo in me molte poesie che poi lascio andare perché mi secca svegliarmi, ma altre volte in due minuti fisso nella carta la poesia che ho già trovato in me».

Poesia sorgiva, quindi, mai adulterata da intenzioni o tentazioni extra-testuali, e via via nel tempo sempre depurata da ogni materialità, tesa a un’astrazione capace di far coincidere «trasparenza assoluta e brama di vivere» (C. Magris), come esemplificano questi versi: «Me son contento d’êsse nato / de longo tenpo d’êsse su la tera, / dopo tanto dolor e tanta guera / son incora beato. // Tanto hè godúo la luse, el sol; / le musiche dei vinti in duti i sieli, / el cantusâ su l’alba dei noveli / e perfin el tramonto che me duol». Tale ribadita estraneità a mode e corruttivi attualismi viene attribuita dai due curatori del volume, Edda Serra e Claudio Magris, all’uso particolarissimo che Marin fa del dialetto: lingua di una tradizione reinventata, che non dà voce a un localismo pittoresco, ma dilata e fluidifica il vocabolario italiano in una musicalità morbida e armoniosa, appoggiata al prevalere delle vocali e alla facilità delle rime, in un ritmo cadenzato che volutamente sembra riecheggiare il moto ondoso del mare.

 

© Riproduzione riservata         «Nazione Indiana», 26 settembre 2018

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MARINETTI

FILIPPO TOMMASO MARINETTI, UCCIDIAMO IL CHIARO DI LUNA! – STREETLIB, 2019 (ebook)

Il chiaro di luna riveste, nell’immaginario collettivo, lo sfondo ideale di ogni espressione sentimentale, dalle dichiarazioni d’amore alla nostalgia intenerita per ciò che è perduto, fino alla vaghezza idilliaca offerta da un paesaggio naturale. Magari accompagnato dalle note della celebre sonata beethoveniana, risulta anche essere il simbolo più trito e retorico di un certo romanticismo languido e sognante, a lungo sfruttato in poesia, nell’arte, nel cinema. Naturale, quindi, che il rivoluzionario fondatore del futurismo Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), esaltatore del progresso, della velocità, della guerra e della fisicità, abbia voluto chiamare Uccidiamo il chiaro di luna! un suo provocatorio pamphlet del 1912, il cui titolo è diventato la parola d’ordine del movimento futurista e della sua ansia innovatrice contro ogni tradizione, politica e letteraria. Già le frasi iniziali del breve saggio indicano l’esaltazione con cui Marinetti intendeva spronare i suoi compagni alla ribellione contro gli amorfi interpreti del pacifismo, del neutralismo e della classicità artistica, definiti Paralisi, Podagra, gregge puzzolente, insetti, cimici, lebbra schifosa, pesce ammucchiato, lugubri formiche della saggezza, code di pavoni, pomposi galli di banderuole, leziosi fazzoletti profumati:

“Olà! grandi poeti incendiari, fratelli miei futuristi! … Usciamo da Paralisi, devastiamo Podagra e stendiamo il gran Binario militare sui fianchi del Goriankar, vetta del mondo! … Turbini di polvere aggressiva; accecante fusione di zolfo, di potassa e di silicati per le vetrate dell’Ideale! …Fusione d’un nuovo globo solare che presto vedremo risplendere! —Vigliacchi! — gridai, voltandomi verso gli abitanti di Paralisi, ammucchiati sotto di noi, massa enorme di obici irritati, già pronti per i nostri futuri cannoni. «Vigliacchi! Vigliacchi! …Perché queste vostre strida di gatti scorticati vivi? … Per ora, ci accontentiamo di far saltare in aria tutte le tradizioni, come ponti fradici! …La guerra? … Ebbene, sì: essa è la nostra unica speranza, la nostra ragione di vivere, la nostra sola volontà! …Sì, la guerra! Contro di voi, che morite troppo lentamente, e contro tutti i morti che ingombrano le nostre strade!”

Il grido di battaglia chiama a raccolta “pazzi e pazze, scamiciati, seminudi”, decisi a “ringiovanire il volto rugoso della Terra”, ruggenti e famelici come leoni che “erette le code, sparse al vento le criniere, foravano il cielo nero e profondo”. E se nel cielo splende “la Luna carnale, la Luna dalle belle cosce calde”, ecco che dalle turbe animose dei combattenti “si udì gridare nella solitudine aerea degli altipiani: — Uccidiamo il chiaro di luna!”, simbolo di languore imbelle e sdolcinato. “Fu così che trecento lune elettriche cancellarono coi loro raggi di gesso abbagliante l’antica regina verde degli amori”. Luce elettrica contro i bagliori del satellite pallido, mitragliatrici contro le arrugginite baionette, aeroplani contro la vecchia cavalleria. “Facciamoci dunque degli aeroplani! — Saranno azzurri! — gridarono i pazzi — azzurri, per sottrarci meglio agli sguardi del nemico, e per confonderci con l’azzurro dèi cielo …È nostra, la vittoria …ne sono sicuro, poiché i pazzi lanciano già al cielo i loro cuori, come bombe! Attenti! …Fuoco! …Il nostro sangue? …Sì! Tutto il nostro sangue, a fiotti, per ricolorare le aurore ammalate della Terra!”

Ma, cent’anni dopo la furiosa battaglia marinettiana, la graziosa e silenziosa luna leopardiana continua a illuminarci: gentile, paziente. Per nostra fortuna.

 

© Riproduzione riservata      13 dicembre 2019

https://www.sololibri.net/Uccidiamo-il-chiaro-di-luna-Marinetti.html

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MARTINI

CARLO MARIA MARTINI – ALAIN ELKANN, CAMBIARE IL CUORE – BOMPIANI, MILANO 1993

Cambiare il cuore è l’esortazione che rivolge a tutti i credenti il Cardinale Carlo Maria Martini, arcivescovo di Milano, in un’intervista concessa ad Alain Elkann e pubblicata da Bompiani. Cambiare il cuore prima ancora dei pensieri e degli atteggiamenti, prima ancora delle abitudini e degli scenari su cui si muove la nostra quotidianità: ed è un cambiamento che si attua ponendosi soprattutto in una posizione di silenziosa e fiduciosa attesa, di disponibilità all’incontro con Dio che, se aspettato con fede, arriva e non delude. Incalzato dalle domande, sempre molto corrette e trattenute, quasi pudiche, di Elkann, il Cardinale Martini si lascia coinvolgere dalle tematiche più varie, spaziando dalla banalità del contingente all’universalità, dal concreto alla teoria. Accenna brevemente ad alcuni particolari biografici (la nascita a Torino da una solida famiglia borghese non particolarmente religiosa, il rapporto più intenso con la madre e un fratello, la passione per la montagna e per il teatro), per soffermarsi più a lungo sulle scelte fondamentali che hanno disegnato i confini della sua esistenza. Dapprima, quindi, la presa di coscienza di quale destino lo aspettasse: «Mi sembra che sia stato tra i dieci e gli undici anni, quando ho incominciato a intuire che Dio voleva davvero entrare in un rapporto personale con me, che io potevo parlargli come a un amico, che c’era tra noi una vera amicizia. In quel tempo ho anche cominciato ad avere il senso della ‘totalità’ di Dio, cioè la percezione che Dio è tutto e può chiedere tutto, la dedizione di una persona e della sua intera esistenza».

In seguito, con la giovinezza, più espliciti si fanno i punti di riferimento culturali, le letture, gli esempi che emozionano e motivano (S. Tarcisio, S. Luigi Gonzaga, S. Stanislao Kostka), per arrivare ai problemi e alle tentazioni adulte su cosa sia la fede, su come conquistarla e mantenerla, narrati attraverso la pregnante metafora dello scalatore sorpreso da un banco di nebbia, e che pure, attaccato alla roccia, attende il ritorno del sole. Con estrema umiltà, il Cardinale confessa quanto può essere difficile oggi esercitare il sacerdozio: «Certo, vi sono stati momenti in cui l’esperienza di essere prete e religioso mi è apparsa particolarmente faticosa, al limite della sopportabilità…ma gli anni non hanno fatto che confermare la bontà della scelta presa all’inizio». Consapevolezza della propria finitudine di creatura, ma anche coscienza di un’ineliminabile tensione all’infinito, che si può raggiungere attraverso la riflessione e il silenzio: «Senza silenzio mi sento dilacerato dalla molteplicità delle cose che mi cadono addosso e che vorrebbero monopolizzarmi. Ho dunque bisogno dell’ascolto di Dio così come ho bisogno dell’aria per respirare».

Ciò che ci sembra più particolarmente e generosamente aperto alle istanze religiose dell’uomo d’oggi, è che il Cardinale Martini torni a parlare delle questioni fondamentali della fede (vita e morte, peccato e redenzione, Chiesa e altre religioni), senza immiserire il dibattito in questioni formali tanto di moda tra altri teologi: la sessualità è un dono, e Martini non parla di limitazione delle nascite; l’aids è una tragedia, e i suoi malati sono fratelli da accogliere, da comprendere. Parole coraggiose anche nei riguardi dei poveri, di chi non ha lavoro, della sua diocesi di Milano e di tutte le questioni politiche, metropolitane e planetarie che siano. Ma soprattutto un richiamo forte e cordiale a chi pratica altre religioni (in primis l’ebraismo), effettuato materialmente con la fondazione della  Cattedra dei non credenti, ormai alla VI edizione in Milano, affinché il confronto riesca ad approdare a una ricerca comune. Il tono di ogni risposta di Carlo Maria Martini è affettuoso, indulgente, senz’altro non dogmatico, di sprone alla nostra potenzialità di arricchimento, ben sapendo che la «fatica del vivere» è di tutti: la nostra, quindi, ma anche la sua, «perché anche coloro che hanno ‘un ruolo’ la condividono senza sosta né sconti con ogni uomo e donna, vecchio e bambino, malato e disperato della terra».

 

«L’Arena», 3 febbraio 1994

RECENSIONI

MARTINI

GIULIA MARTINI, TRESOR – INTERNO POESIA, LATIANO (BR) 2024

Il volume di versi Tresor di Giulia Martini (Pistoia 1993) si suddivide in quattro capitoli (Tabù, Corrente calmo, Corsa sul posto, Tresor), ed è aperto da un’estesa, approfondita, coltissima introduzione di Giulia Depoli, che rischia di mettere in imbarazzo qualsiasi volonteroso recensore, costretto per forza di cose ad attingere non solo alla dovizia di informazioni fornite sul testo, ma soprattutto all’appassionato e sapiente scavo interpretativo della prefatrice.

Seconda prova della poeta, dopo Coppie minime del 2018 (edito sempre da Interno Poesia), in cui già lavorava su concetti linguistici quali i fonemi, in questo volume è di nuovo il linguaggio il terreno operativo prediletto, attraverso l’utilizzo frenetico ed esasperato di citazioni, varianti lessicali, allotropie, distorsioni sintattiche, rimaneggiamenti diacronici, e soprattutto di prelievi da materiali letterari precedenti.

Il titolo stesso, Tresor, (con le varianti Tesoro, Tresoro, Teisoiro, e con l’anagramma Resort) è un evidente richiamo all’enciclopedia in volgare di Brunetto Latini, ampiamente saccheggiata nei testi medievali e nei loro commenti critici, documentanti il passaggio dal latino all’italiano – iscrizioni murali e funerarie, documenti notarili, atti di vendita, bilanci contabili. Altrettanto sfruttato è l’apporto della Divina Commedia, soprattutto a partire dal Canto XV dell’Inferno, i cui rimandi lessicali sono disseminati in tutto il volume, insieme a echi e recuperi di tutta la grande tradizione della nostra letteratura otto-novecentesca.

“Un libro fatto con le parole degli altri”, secondo la calzante enunciazione della prefatrice, nel quale emerge però – oltre all’assidua ricerca formale – una altrettanto fondamentale ricerca interiore, tramite l’imperiosa volontà di definizione dell’io, come si rileva già dai primi versi della sezione iniziale Tabù: “Io sono quella che bene non aio”, “Et eu so kosì davanti a vui”.

Il rapporto io/altro da me (io/natura, io/istituzioni, io/amanti, io/famiglia, io/luoghi) viene mimetizzato, calmierato e quasi neutralizzato attraverso lo schermo (giocoso a volte, più spesso violentemente polemico) dello sperimentalismo linguistico. Tuttavia affiora sempre, soprattutto laddove si intuisce una ferita che la poeta non ha potuto o voluto rimarginare. Con le varie città abitate, con il patrimonio familiare, con la legge, con l’amore, con il cibo, con la madre. Madre che non è unicamente quella che l’ha partorita, ma anche un’altra che l’ha adottata e amata, e una terza che l’ha nutrita: forse proprio la lingua, obbligandola a un’alimentazione imposta e canonica, maldeglutita, rifiutata: “La fame è un gesto naturale. E intanto / adocchiata da tutta la famiglia / finisci il piatto li riguardi e pensi / dove nascono la lingua e la madre”; “Mi chiami e la madre diventa un problema / che devo risolvere io, durante i pasti / i fieri pasti, gli splendenti pasti, / che non mi lasci di mangiarli in pace. // Mi dici che la madre ha l’oro in bocca, / ma che non parla mai, non le si vede”; “Ma vada terra una alla madre mia carnale. / Una alla nostra comune madre. / Un’altra a quell’altra madre mia”; “Seduta al buio, in cucina, la santa / la madre si riversa in fiumi d’oro”.

Nella sezione centrale del libro, Corrente calmo, l’io si camuffa nelle vesti di un notaio, che utilizzando termini tecnici traslati da antichi documenti del volgare italiano, assume il ruolo legiferante e oppressivo di chi imbroglia e raggira utilizzando la copertura dell’ufficialità legale, coprendo abusi di usurai,  ecclesiastici e potentati vari: “Questo vaso sono io dicente / e più che dicente, contraddicente”, “Devi soltanto donare tutti i tuoi beni all’abbazia, cedere fino all’ultima sostanza, sapendo bene che non riceverai niente in cambio”. Le inserzioni prosastiche, spesso conclusive di singole composizioni, e rivolte a un lettore generalizzato e comune, rivestono la funzione – come nel caso qui riportato – di conferire autorità al testo, sottolineando in modo perentorio qualcosa di non contestabile.

Tresor è anche un canzoniere amoroso, e la relazione con la donna amata, intessuta di conflitti, passione erotica, dissidi economici, dedizione affettiva, attraversa l’intera raccolta: “Com’era bello quando rimanevi / e non sapevo più dove mi fossero / gli occhi, per guardarti. E le mani”. Fino alla sezione conclusiva che dà il titolo al volume, ed è un esplicito invito a lasciarsi coinvolgere nel rapporto con chi si ama, in un legame capace di oltrepassare l’individualità: “Datemi tutto, senza niente in cambio, / non perché lo chiedo, per entusiasmo”.  Attraverso l’altro/altra Giulia Martini recupera la totalità dell’io, in un augurio programmatico coinvolgente il futuro: “Non puoi fallire, se segui la tua stella, / mancare l’appuntamento con te stessa”.

L’intera operazione messa in atto da Tresor, nella sua sovrabbondanza di segni e significati, ha la finalità di stimolare in chi legge un attivo interesse verso la comunicazione letteraria così come si è stratificata nei secoli, in un coinvolgimento nuovo, non scontato, con i testi e le loro sovrastrutture-sottostrutture.

 

© Riproduzione riservata          «L’Indice dei Libri del Mese» n. XI, novembre 2024

 

RECENSIONI

MARZANO

MARCO MARZANO, QUEL CHE RESTA DEI CATTOLICI – FELTRINELLI, MILANO 2012

Emblematica l’immagine di copertina del libro-inchiesta di Marco Marzano: un vistoso cerotto a forma di croce su fondo bianco, a indicare il tentativo di arginare una ferita, un sanguinamento, o di tappare una falla. In Quel che resta dei cattolici tre anni di interviste, di viaggi, di frequentazioni private e pubbliche, di approfondimenti culturali, hanno portato l’autore (non credente ma educato in una famiglia tradizionalmente praticante, e oggi professore di sociologia all’Università di Bergamo) a sondare il terreno scivoloso e spesso tendenziosamente occultato della fede e della pratica religiosa in Italia. A partire dalle realtà più popolari delle parrocchie, dei campi scuola, dei seminari, delle messe disertate, delle superstizioni, dei settarismi, della stanchezza e della solitudine del clero. Per concludere che il nostro è un paese «sempre più secolarizzato o meglio deistituzionalizzato, in costante allontanamento da quella che è stata per secoli la “sua” chiesa».

Un paese in cui i fedeli non frequentano più i sacramenti, in particolare la confessione, avvertita come un rito obsoleto e invasivo della propria privacy: oggi il senso del peccato è stato sostituito da quello del disagio psicologico, la penitenza dal rinforzo della propria autostima, il rimorso è ritenuto una eccessiva pruderie sentimentale.
E tutti gli altri riti soffrono della stessa grave crisi: dal matrimonio in chiesa soppiantato dalle convivenze, dai funerali gestiti come happenings musicali e riunioni familiari, dalle cresime totalmente insignificanti e incomprese, fino alle ordinazioni presbiteriali ormai ridotte a numeri esigui e umilianti. Si salva forse ancora il battesimo, che i genitori vivono però quasi come una vaccinazione, «un’assicurazione contro gli imprevisti, un rituale magico di protezione». Sembra che la Chiesa descritta da Marco Marzano in Quel che resta dei cattolici abbia ormai ben poco da dire a una popolazione disinibita e superficiale, attirata semmai da pericolosi movimenti settari, prede di fanatismi teologicamente poco fondati.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/Quel-che-resta-cattolici-Marzano.html            22aprile 2016

 

RECENSIONI

MARZORATI

SERGIO MARZORATI, RITORNO A ZAGABRIA – SELLERIO, PALERMO 1995

Dopo cinquant’anni di assenza, lo scienziato Felix Glavan torna a Zagabria, abbandonata precipitosamente con la famiglia all’epoca delle persecuzioni razziali contro gli ebrei. A richiamarlo in patria, con la promessa di un reinserimento nella sua città natale e di una reintegrazione delle case e dei beni sequestrati dai comunisti, è un giovane funzionario del nuovo stato croato, Stijepan Radic, la cui famiglia aveva conosciuto la famiglia Glavan, mantenendone nel tempo un ricordo ammirato e solidale. Separati dall’età, da esperienze diverse e da funzioni contrastanti (Radic è un giovanotto di grande sensibilità ed entusiastiche letture, Glavan un sessantenne di successo che ha deciso di rimuovere il passato, cancellandone le tracce dalla memoria. Il primo è credente e fiducioso nelle sorti dell’umanità; il secondo è ateo, scettico, privo di affetti), tra di loro si svolge una civilissima e partecipe conversazione nel corso della quale lo scienziato ebreo si arrende ai ricordi: affiorano così facce e mozziconi di frasi in croato, luoghi e sensazioni a lungo soffocate.
Glavan si rivede bambino decenne, brutalmente costretto a interrompere un brano di Haydn studiato al pianoforte per fuggire a Trieste con la famiglia: rivede la nonna fulminata mentre si aggrappa alla rete di confine, e lui e la mamma che ne trascinano il cadavere in terra italiana.
Alla pacata rievocazione della storia straziante di Glavan si contrappongono i luminosi accenni di Radic alla sua esistenza attuale: la giovane moglie, i bambini di cui è orgogliosissimo, il suo impegno nel riscattare un passato collettivo di cui si sente corresponsabile. Per entrambi, dimenticare è impossibile, la memoria diventa condanna. Glavan ricorda la pazzia della madre, preda di ossessioni, di persecuzioni introiettate e oggettivate che non le lasciavano scampo: si colpevolizza per aver ceduto alla necessità di ricoverarla in una clinica psichiatrica, rinunciando – a causa della malattia materna – alla donna che amava. Stabilitosi in Austria, il suo destino di ebreo scampato all’olocausto gli condiziona tutta la vita e perciò di fronte alle insistenze di Radic perché accetti una ricompensa dovuta o meritata da parte dello stato croato, e perché rientri a Zagabria, Glavan dice di no. Un no tranquillo e meditato, consapevole che il passato non si può recuperare: il dolore sofferto è per sempre, irrimediabile, mai giustificato.
Questa storia personale e pubblica, privata e collettiva, ci viene narrata da Sergio Marzorati, autore schivo e parco nelle pubblicazioni quanto elegante ed essenziale nella prosa. Il romanzo è compreso nella collana  La memoria  dell’editrice Sellerio, e non potrebbe essere altrimenti.

 

«L’Arena», 24 aprile 1996

RECENSIONI

MASCITELLI

GIORGIO MASCITELLI, PIOVE SEMPRE SUL BAGNATO – CONIGLIO, MILANO 2008

“…la compassione è indicata comunemente come un sentimento stupido, tipico di chi incontra per la prima volta i problemi del mondo che va male e perciò fa vergognare di sé chi la prova, che si sente coma una fatua creatura incapace di di fronte al vasto mare del mondo che va male”. Va male il mondo? Sì, malissimo. O forse non tanto, secondo questa favola metropolitana di Giorgio Mascitelli, ambientata nella Milano dei barboni e dei senzatetto, di borghesissimi benefattori e di aspiranti capitalisti, tutti sospesi tra indifferenza e compassione, tra altruismo e odio per i diversi. Il protagonista è un homeless, “lavoratore ucraino in mobilità e flessibilità internazionali in quel momento disoccupato, al quale era cresciuta la barba, così che poteva essere definito barbone senza per questo offendere nessuno”. Costui vive con rassegnata umiltà ma senza disperazione, coprendosi di cartoni in difesa dal freddo, in qualche anfratto della Stazione Centrale di Milano. Ed ecco che per un casuale miracolo della provvidenza con la p minuscola, un mattino viene avvicinato da un riccone in auto lussuosa che gli regala mille euro, in omaggio alla sua scelta di “libertà”, o più probabilmente per un malinteso senso di carità pelosa. Così per intere giornate il barbone cerca di soddisfare alcuni suoi desideri censurati da sempre, come quello di comperarsi un bel cappotto, o qualche bottiglia di vino prezioso. Non ci riesce. Viene allontanato dai negozi raffinati, oppure di nuovo confinato nel suo ruolo di miserabile, costretto come sempre ad accettare la carità. Incontra volontari diffidenti, vigili sospettosi, barboni rivali, una professoressa sensibile ma impaurita. Una Milano che non sa aprirsi, nemmeno in grado di cambiargli le sue banconote da 500 con altre di taglio più piccolo. Finisce quindi per regalare a sua volta l’obolo elargitogli, tornando al suo ruolo di accattone. Breve romanzo garbato, con qualche indulgenza al tono didascalico: scritto comunque con eleganza.

IBS, 17 luglio 2014