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RECENSIONI

MANNO

LUIGI MANNO, L’ABBANDONO (e-book), STREETLIB, 2015

Nel suo blog, Luigi Manno scrive di sé: «Nato al Sud. Classe di ferro 1988. Architetto di formazione, creativo di vocazione. Scrittore da tanto, fumettista da meno, blogger da poco». Non sono solo queste scarne parole di presentazione che possono incuriosire chi, come me, quotidianamente indaga con curiosità tutte le novità editoriali presenti sul web, avventurandosi anche in campi di non assidua frequentazione: in questo caso, l’arte del fumetto. Quanto il titolo lapidario dell’e-book, L’abbandono, accompagnato da un intrigante sottotitolo: «Solo. Spaventato. Abbandonato dal suo cane». E soprattutto l’immagine di copertina, con quel ragazzo stralunato e spettinato, due macchiette bianche sotto gli occhi che potrebbero essere lacrime o escrescenze cutanee oppure riflessi di luce.

Un adolescente spaurito e randagio che cerca il suo cane più randagio di lui («Billy, perché mi hai abbandonato? Billy, perché mi hai lasciato?»), in una città ostile, tra gente che lo ignora e lo schiva. Dorme nei giardini altrui, per terra, sull’erba sotto il cielo stellato, rubacchia qua e là, viene inseguito, offeso, picchiato. Colpisce il lettore l’espressione impaurita del ragazzino, il suo chiedersi meravigliato il perché dell’indifferenza altrui, che culmina in un primo piano tristissimo, con la didascalia «Era solo». La pagina finale ci stupisce con la sorpresa della caccia feroce ai diversi e agli abbandonati da parte di un mondo di persone “civili” trasformati in animali: lupi, porci, galline.

Un e-book che costa poco più di niente, disegnato con maestria, che si legge e si guarda – sorridendo amaro – in cinque minuti.

 

© Riproduzione riservata       

www.sololibri.net/L-abbandono-Luigi-Manno.html;     31 marzo 2017

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MANTEGAZZA

RAFFAELE MANTEGAZZA, FUGA – ANIMAMUNDI, OTRANTO 2022

Otto brevi capitoli per raccontare l’arte della fuga, non – ovviamente – quella bachiana, bensì quella che a ciascuno di noi si prospetta, almeno una volta nella vita, come liberazione dall’angoscia, allontanamento da un problema che appare irrisolvibile, exit-strategy salvifica. Raffaele Mantegazza illustra varie modalità di fuga, alcune negative, altre invece propositive, in quanto forme di resistenza rispetto a un potere onnivoro e castrante che blocca l’individuo in una situazione mortificante.

Partire, scappare, andarsene, lasciare tutto: si tratta di una decisione che può assumere la connotazione di scelta egoistica e vile, soprattutto nei riguardi della collettività da cui si prende commiato. In termini bellici e militari diventa addirittura qualcosa di spregevole. Lo stesso suicidio, anche quando esprima disperazione o richiesta di aiuto, viene spesso tacciato di codardia ed egocentrismo. In realtà fuggire è spesso l’opzione più intelligente e razionale di fronte a un pericolo o a una minaccia; addirittura può acquistare una valenza educativa, di maturazione e arricchimento culturale, poiché in grado di aprire orizzonti nuovi, offrendo esperienze esistenziali valorizzanti.

Esistono fughe di evasione, anch’esse da non biasimare: nel gioco, nel sogno, nella creazione artistica.

Altre avventurose, o difensive, o virtuali in mondi illusori, sempre più frequentati in particolare dai giovani che amano costruirsi personalità fittizie e consolatorie. Fughe pericolose perché cogenti: quelle nelle dipendenze da droghe o alcol. Socialmente svantaggiose, come la dispersione scolastica. C’è poi un modo di sottrarsi alla libertà e all’indipendenza di giudizio, nella speranza di trovare sicurezza e protezione nella massificazione e nel conformismo, nella rinuncia al proprio io, temendo il confronto o la sconfitta nel rapporto con gli altri.

Fuggire nello spazio è sempre possibile: muoversi, viaggiare, emigrare sono opzioni alla portata di ciascuno. Spostarsi nel tempo, tornare con la memoria al passato o proiettarsi in un futuro fantascientifico e distopico è per ora solo una possibilità della mente, così come la capacità di innalzarsi nell’estasi mistica, secondo i percorsi tracciati da diverse tradizioni religiose.

Ci sono fughe, tuttavia, meno filosofiche, meno romantiche, meno individualistiche di quelle dettate da ribellioni, ansia di avventura, sogno. Intraprese per evitare “la fame, la miseria, l’oppressione, lo sterminio. Il capitalismo neoimperialista crea la fuga non come soluzione elitaria o come speranza di salvezza ma inizialmente come mera risposta dell’istinto di sopravvivenza. Milioni di esseri umani sono in fuga perché non possono fare altrimenti”.

L’autore puntella la sua esposizione con frequenti e originali citazioni tratte da film, canzoni d’autore, opere letterarie. Quindi possiamo leggere testimonianze bibliche e filosofiche, alternando brani di Joyce e Proust con Calvino e Rodari, recuperando i versi di Vecchioni, Fossati, Ron e Masini: anche questi rimandi testuali testimoniano quanto il fuggire (da dove, da cosa, perché?) faccia parte di uno dei comportamenti umani più frequenti e complessi. Negli ultimi cinquant’anni sono scomparse in Italia 60.000 persone: una trasmissione seguitissima come Chi l’ha visto? ne dà testimonianza settimanalmente.

Raffaele Mantegazza, Professore associato di scienze pedagogiche presso il Dipartimento di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi Milano Bicocca, nelle sue numerosissime pubblicazioni, si è occupato di pedagogia, comics, fantascienza, sapienza biblica, filosofia e canzone d’autore, interrogandosi sempre sulla possibilità di una resistenza nei confronti di ogni tipo di dominio e di arroganza del potere.

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 2 maggio 2022

 

 

 

RECENSIONI

MANTELLINI

MASSIMO MANTELLINI, DIECI SPLENDIDI OGGETTI MORTI – EINAUDI, TORINO 2020

Massimo Mantellini (Forlí, 1961) è uno dei nostri maggiori esperti di internet. Collabora a diverse testate giornalistiche, occupandosi di temi legati alla cultura digitale, alla politica delle reti, alla privacy e al diritto all’accesso. Ha da poco pubblicato con Einaudi Dieci splendidi oggetti morti, un saggio dedicato a dieci cose-arnesi-utensili-articoli-prodotti (oggetti, insomma) che hanno fatto parte della nostra quotidianità per molti anni, e ora non vengono più usati. Sono morti. Desueti, ridicoli, addirittura imbarazzanti. Eppure sono stati compagni fedeli delle nostre esistenze, quasi parenti stretti e insostituibili.

Mappe stradali, telefoni fissi, penne stilografiche, lettere e francobolli; che fine hanno fatto, nelle abitazioni, nelle auto, nelle borse delle persone? Il libro parla di loro, dell’autore, di ognuno di noi, collegando passato e futuro, privato e pubblico.

La piantina di Parigi su cui un personaggio flaubertiano cercava di orientarsi era forse la progenitrice delle enormi mappe stradali Michelin, complicatissime da ripiegare dopo averle consultate con estrema difficoltà (come riuscivamo a districarci tra i vari colori delle strade, i nomi quasi illeggibili dei paesini, le distanze segnalate in chilometri da addizionare?). Erano esposte con il loro bel colore rosso o blu nelle stazioni di servizio, negli autogrill, e poi conservate nelle tasche laterali dell’auto. Oggi abbiamo il GPS, Google Map, Street View, che ci impediscono di perderci, o ci fanno perdere con strategica crudeltà: il processo intrapreso dall’umanità è comunque quello di eleminare ogni imprecisione, fino al raggiungimento utopico dei mezzi di trasporto a guida autonoma.

E il telefono, quello grigio o nero SIP, con la rotella di composizione, e poi con la più moderna tastiera, appeso all’entrata o appoggiato su una credenza, con quale supponente stupore verrà giudicato da un adolescente di oggi, abituato allo smartphone, agli sms, a WhatsApp: cosa resterà a testimoniare l’esistenza delle cabine a gettone, se non qualche film d’antan?

Se poi pensiamo ai mezzi con cui le persone hanno lasciato tracce scritte di sé, ecco che dobbiamo recuperare vecchie Olivetti, carta carbone, penne a stilo, esercizi di calligrafia, consapevoli che anche solo scrivere a mano una cartolina è diventato per molti di noi un esercizio muscolare piuttosto faticoso. Sembra che persino le tastiere dei nostri pc verranno presto sostituite da gelide tecnologie vocali, quindi chissà se si stamperanno ancora francobolli e si imbucheranno lettere; certo non ci capiterà più di aprire con trepidazione telegrammi gialli consegnati con urgenza…

La macchina fotografica analogica, con la cara vecchia pellicola nel rullino di plastica, è stata soppiantata da quella digitale, facile e democratica, utilizzata universalmente con la diffusione maniacale dei propri selfie su Instagram. Al libro si preferisce il più agile ma impersonale e-book, che non conserva traccia del nostro possesso individuale (mentre la scomparsa di enciclopedie, dizionari, elenchi telefonici non ha lasciato grandi rimpianti negli utenti). Lettori e acquirenti di quotidiani sono una razza in via di estinzione, le edicole smobilitano, le riviste cartacee falliscono: pertanto i giornali, come i dischi in vinile, le cassette e i cd, sono diventati merce rara, rimpiazzata da altri sistemi di formazione/informazione: Facebook, YouTube, Spotify, Pandora o Apple Music.

Anche i fili e i cavi elettrici sono stati sostituiti dal più asettico e ordinato wi-fi. La contemporaneità si è ripulita di tanti orpelli, quasi magicamente sterilizzata, avvolta da un “rumoroso silenzio”. Così come l’inquinamento luminoso delle nostre città ha cancellato le stelle nei cieli notturni.

Massimo Mantellini ci racconta gli “oggetti orfani” – quelli che abbiamo seppellito -, con affettuosa nostalgia, recuperando ricordi della propria infanzia, e abitudini collettive dimenticate: lo fa citando viaggi, incontri, romanzi, testi filosofici, spettacoli teatrali e cinematografici. Senza esimersi da considerazioni teoriche importanti, velate da un rimpianto non classificabile come conservatore o passatista, ma certo caratterizzato emotivamente: “La tecnologia brutalizza gli oggetti morti, li sostituisce senza ripensamenti, scioglie ogni poesia che li avvolge. Sposta le cose della nostra vita dall’ingresso di casa alla cantina, e poi dalla cantina alle aste di modernariato su eBay o alle teche di qualche museo del design. E in questo processo di rapida sostituzione anche una parte della nostra umanità rischia di essere cancellata. Fino a un mondo nel quale gli oggetti smetteranno di essere connessi a noi e perderanno ogni importanza”.

 

© Riproduzione riservata                 «Gli Stati Generali», 8 novembre 2020

 

 

RECENSIONI

MARAINI

DACIA MARAINI, GITA A VIAREGGIO – FAHRENHEIT 451, ROMA 2013

Questo bel racconto che Dacia Maraini pubblicò su Paragone nel 1964 viene ora riproposto dall’attenta casa editrice romana Fahrenheit 451, con un’illuminante ed acuta postfazione di Eugenio Murrali. Due coppie di mezz’età, in evidente crisi di stanchezza matrimoniale (Antonio e Pietra, Gino e Tina) decidono in un piovoso pomeriggio sotto Pasqua di lasciare la capitale e di dirigersi a Viareggio, con il pretesto di far visita a un vecchio amico pittore, Carmelo. Al volante dell’auto è Tina, voce narrante e sguardo disincantato- deluso e insieme spietato- su luoghi, oggetti e persone. L’autrice segue con meticolosa e fredda analiticità sia il percorso materiale dell’automobile (sorpassi e insulti, rallentamenti e soste, indifferenti paesaggi esterni), sia il vagare mentale della protagonista, e il suo soffermarsi su ciò che succede all’interno dell’abitacolo: spezzoni di discorsi, sigarette e caramelle, noia e piccole provocazioni. La descrizione dei corpi e degli ambienti è puntuale, asettica e lenta, come in una serie di fedeli ma impersonali inquadrature cinematografiche: «Il suo braccio è corto, molto corto rispetto al resto del corpo. Le dita invece sono lunghe, normali, con dei ciuffi di peli biondi sul dorso delle falangi»; «…in disordine, giacciono sparpagliati cinque o sei barattoli di colore, una manciata di pennelli e pennellesse, uno spruzzatore elettrico, due bocce di colla americana, della carta di giornale, due coltelli da cucina macchiati di verde, una grande latta di trementina e dei tamponi di garza imbevuti d’olio e di colore».

A Viareggio, la gita delle due coppie si concluderà con un duplice tradimento, vissuto dalla protagonista con assoluta estraneità e abulia, che lo stile asciutto e neutrale della Maraini riesce a rendere con intelligente finezza.

 

«Leggendaria» n. 104, marzo 2014

RECENSIONI

MARAINI

DACIA MARAINI, L’ETA’ DEL MALESSERE – EINAUDI, TORINO 1988

L’età del malessere è il secondo romanzo di Dacia Maraini, pubblicato nel ’62 e subito accolto come libro rivelazione di uno stile nuovo, di un’autrice promettente. Ambientato nella periferia romana, ha come protagonista la borghesia più umile, vittima e insieme artefice degli anni del boom economico di un’italietta miracolata e squallida. La vicenda è narrata in prima persona da Enrica, una diciassettenne che vive con indifferenza sia i suoi drammi personali, sia quelli della penosa fauna umana cui appartiene. Figlia unica di una coppia già in là con gli anni, la ragazza osserva con disincanto il lento declino della madre, sfiancata e umiliata nel logorante arrabattarsi di un piccolo impiego: la vede oscena nel suo corpo sformato, nei vestiti lisi, nelle amicizie volgari, e insieme penosa nelle ambizioni meschine di rivincita, di riscatto. Forse con più affetto, ma con uguale severa implacabilità, Enrica guarda al padre, artista fallito e alcolizzato che si è ridotto a dedicare ogni suo tempo ed energia alla costruzione di elaboratissime e invendibili gabbie per uccelli. In questo tragico universo familiare si muove la giovane, senza tuttavia la benché minima voglia di evaderne. Abulica, indifferente a tutto, sue uniche aspirazioni sembrano essere l’acquisto di un paio di scarpe nuove o di un maglioncino aderente. Non si ribella alla frustrante relazione cui la costringe Cesare, uno studente fuori corso, che la usa come amante di riserva, in attesa di sposare una ricca fidanzata che rispetta. Enrica frequenta un corso di computisteria e stenografia tra insegnanti e compagni che paiono tutti più disgraziati e infelici di lei, compie poi un’umiliante esperienza di lavoro in casa di un’anziana ed eccentrica contessa, ma niente sembra segnarla, niente la scuote. Vive come in trance avvenimenti crudi e crudeli, dalla morte della madre a saltuari episodi di prostituzione, a un drammatico aborto clandestino. Solo alla fine, il matrimonio di Cesare la costringe a scegliere, le impone un cambiamento: e il libro termina con l’intenzione almeno annunciata di voltare pagina, di dare un nuovo indirizzo alla propria vita. Il fascino che indugia in queste pagine è tutto in questa storia narrata senza alcuna retorica o ammiccamento, ma con tale dolente asciuttezza che il malessere in cui sono avvolti i personaggi contagia anche il lettore, amareggiandolo, indignandolo.

 

«Agorà» (Svizzera), 23 novembre 1988

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MARAINI

DACIA MARAINI, IL BAMBINO ALBERTO – BOMPIANI, MILANO 1988

Il bambino Alberto di cui parla questo libro è ovviamente lo scrittore Alberto Moravia, con cui Dacia Maraini ha costituito per una ventina d’anni la coppia più intellettualmente impegnata e anticonformista della patrie lettere. Il volume è scandito in tre interviste, volte a ricostruire l’ambiente familiare e culturale in cui si è dipanata l’infanzia del più noto fra i nostri scrittori, e quali influenze e strascichi quest’età giovanile abbia lasciato nella produzione narrativa dell’autore. Dacia Maraini interroga incalzante e lucidissima un Moravia quanto mai ritroso e restio ad ammettere turbamenti o complessi, propenso piuttosto a rimuovere e a negare qualsiasi episodio, ricordo o emozione possa essere letto freudianamente come rivelatore di qualche tabù. Lo scrittore sembra volersi nascondere dietro a verità assiomatiche, usa come schermo difensivo dichiarazioni di principio talvolta addirittura ingenue: «La mia letteratura non è affatto lo specchio della mia vita e del mio carattere; Il tempo non esiste. La personalità non esiste…Il passato non mi interessa, mi rattrista e basta; Penso che tutta la vita sia al presente, come al cinematografo». Eppure subito dopo, messo alle corde dall’analisi puntuale e un po’ spietata della Maraini, finisce per ripiegare, per ammettere quasi seccato: «Non ci ho mai pensato, ma è vero… strano, evidentemente hai ragione tu…E’ la prima volta che me ne rendo conto…»

Bravissima l’autrice in questa operazione maieutica di scavo, scandaglio, collegamento di particolari, ricomposizione finale, ottenuta con un ritmo concitato nel porre le domande, nell’estrapolare citazioni, nel confrontare situazioni. Bravissima nel riproporre un’epoca, un clima culturale e nello sbalzare figure femminili a tutto tondo (la madre, «una bella donna molto attenta alle convenzioni», il padre collerico e indifferente alla vita familiare, le governanti francesi, le due sorelle cui vengono dedicate due interviste a parte, che tuttavia poco aggiungono al già raccontato). E però proprio questa abilità incredibile di interrogare e di indagare, soffermandosi anche su particolari minimi, o sulle abitudini più personali dell’intervistato, questa scaltrezza investigativa, quasi, finisce per imbarazzare il lettore, mettendolo di fronte a un’intimità altrui non si sa quanto opportunamente svelata, sbandierata. Come un processo a porte aperte, una seduta psicanalitica diffusa con l’altoparlante. Moravia stesso definiva tutta la sua infanzia «Un lungo, inspiegabile disagio». Forse, appunto, non tutto si può spiegare.

 

«Agorà» (Svizzera), 30 novembre 1988

RECENSIONI

MARAINI

FOSCO MARAINI, GNOSI DELLA FANFOLE – LA NAVE DI TESEO, MILANO 2019

Fosco Maraini fu tutto fuorché fosco. Chiarissimo, limpido e appassionato, vorace di vita e di avventura, viaggiatore instancabile, etnologo, orientalista, alpinista, fotografo, scrittore e poeta. Nato a Firenze nel 1912, figlio di uno scultore ticinese e di una scrittrice anglo-ungherese, crebbe bilingue nello stimolante ambiente artistico e intellettuale fiorentino, laureandosi in Scienze Naturali e Antropologiche. Nel 1935 sposò la pittrice siciliana Topazia Alliata di Salaparuta, da cui ebbe le tre figlie Dacia, Yuki e Toni. Dopo il divorzio dalla moglie, nel 1970 si unì in seconde nozze alla giapponese Mieko Namiki, con la quale visse a Firenze, lavorando al suo archivio fotografico e alle sue pubblicazioni fino alla morte, sopraggiunta nel 2004. La sua biblioteca, contenente circa 9.000 tra volumi e periodici e 42.000 fotografie, è conservata presso il Gabinetto G.P. Vieusseux di Firenze.

Animato da una forte curiosità nei confronti del mondo, visitò un gran numero di paesi, soprattutto orientali, raccogliendo testimonianze di grande valore etnografico. Prima della seconda guerra mondiale, Maraini si trasferì in Giappone, come lettore di lingua italiana. L’8 settembre 1943 si trovava a Tokyo e avendo rifiutato di aderire alla Repubblica di Salò, venne internato in un campo di concentramento a Nagoya con tutta la famiglia per circa due anni. Finita la guerra tornò in Italia, riprendendo i suoi viaggi e i reportage fotografici in Medio ed Estremo Oriente. Insegnante di lingua e letteratura giapponese all’Università di Firenze, si segnalò presto come uno dei massimi esperti del popolo e della cultura Ainu.

La sua vivacità intellettuale lo portò a cimentarsi anche con la poesia, utilizzando una tecnica particolare, da lui definita “meta semantica”.

Gnòsi delle Fànfole è un libriccino di versi che dagli anni ’60 ha conosciuto un crescente successo in diverse edizioni (De Donato 1966, Dalai 1994-2007 con CD audio, Baldini e Castoldi 1978-2001, Mondadori 2007, fino alla più recente per La nave di Teseo, con un’esaustiva e affettuosamente entusiastica introduzione della figlia Toni). L’originalità assoluta della raccolta è stata messa in luce da molti critici e linguisti, poiché in essa il lavoro compositivo si concentra sulla parola, e più specificamente, sul suo suono. All’autore non interessava tanto il significato trasmesso dal messaggio poetico, bensì la sua ricezione uditiva, lo sconcerto e la divertita riflessione provocate nel pubblico dall’ascolto. Procedimenti e obiettivi di tale metodo di scrittura venivano così illustrati nella Premessa: “Proponi dei suoni ed attendi che il tuo patrimonio d’esperienze interiori, magari il tuo subconscio, dia loro significati, valori emotivi, profondità e bellezze. E dunque la parola come musica e scintilla”. Poesia sonora, quindi, e musicalmente suggestiva, in cui l’effetto straniante è dato dall’accostamento o dalla fusione di termini conosciuti con altri inventati, privi di senso, spesso parodianti la letteratura colta.

In Una giornata ad urlapicchio, ad esempio, il poeta si prende gioco della lirica amorosa tradizionale, ambientando petrarchescamente i suoi versi sullo sfondo di una natura in cui cielo, alberi, uccelli esaltano la dichiarazione finale dell’amata: “t’amo per davvero”. Ma che giornata è, quella in cui sboccia l’idillio tra i due innamorati? È “un giorno a zìmpagi e zirlecchi / un giorno tutto gnacchi e timparlini”, in cui “le nuvole buzzillano, i bernecchi / ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini”. Un’esplosione di suoni allegri, pieni di zzz di insetti, di cchh di volatili canterini cinguettanti nella pineta (come non pensare per contrasto al celebrativo D’Annunzio?), “un giorno carmidioso e prodigiero”, in cui ovviamente non si può che amare “per davvero”. A tale giornata solare e vivace si oppongono invece giorni “smègi e lombidiosi” (in cui “smegi” richiama la noiosità di “mogi”, e “lombidiosi” fa pensare al fastidio di una lombaggine), e meriggi (montaliani?) “gnàlidi e budriosi / che plògidan sul mondo infragelluto”: invenzioni linguistiche assolutamente geniali, sferzanti il tritume monotono sia della comunicazione quotidiana, sia della consuetudine letteraria.

Ecco qui la poesia nella sua interezza, ascoltabile in rete nell’interpretazione musicale di Stefano Bollani e Massimo Altomare (album Sonica Polygram, 1998): “Ci son dei giorni smègi e lombidiosi / col cielo dago e un fònzero gongruto / ci son meriggi gnàlidi e budriosi / che plògidan sul mondo infragelluto, / ma oggi è un giorno a zìmpagi e zirlecchi / un giorno tutto gnacchi e timparlini, / le nuvole buzzillano, i bernecchi / ludèrchiano coi fèrnagi tra i pini; / è un giorno per le vànvere, un festicchio / un giorno carmidioso e prodigiero, / è il giorno a cantilegi, ad urlapicchio / in cui m’hai detto “t’amo per davvero”.

Per spiegare la sua tecnica poetica, l’autore aveva inventato il termine “meta semantica”, intendendo con ciò che la produzione andava oltre la semantica, nel privare le parole del loro significato più usuale e scontato, continuando però a utilizzare vocaboli che nel suono risultassero ancora familiari alla lingua italiana, e ne rispettassero grammatica e sintassi. Tale pratica aveva avuto illustri precedenti nel cinquecentesco Teofilo Folengo, e nel poemetto del 1871 Jabberwocky di Lewis Carroll. Altri esempi di utilizzo giocoso e fuorviante della lingua si trovano nel nostro ’900: nei futuristi Farfa, Lucini, Palazzeschi; poi in Sanguineti, Zanzotto, Giuliani, Dario Fo, Scialoja, Niccolai, Frasca, e in tanti componimenti satirici anonimi.

Le Fànfole chiedono di essere recitate ad alta voce, magari cantate, e interpretate attraverso l’intervento decodificante del lettore, la sua partecipazione diretta nello sbrogliare il canovaccio dei rimandi lessicali, delle onomatopee, delle assonanze-dissonanze, delle etimologie, delle rime. Poesia tangenziale e bipolare, secondo la definizione del suo creatore, che così la decantava: “Il linguaggio comune, salvo rari casi, mira ai significati univoci, puntuali, a centratura precisa. Nel linguaggio meta semantico invece le parole non infilano le cose come frecce, ma le sfiorano come piume, o colpi di brezza, o raggi di sole, dando luogo a molteplici diffrazioni, a richiami armonici, a cromatismi polivalenti, a fenomeni di fecondazione secondaria, a improvvise moltiplicazioni catalitiche nei duomi del pensiero, dei moti più segreti”.

Il più noto e celebrato modello dell’invenzione stilistica di Maraini ci viene fornito da Il Lonfo, magistralmente reinterpretato nei suoi spettacoli da Gigi Proietti e recuperabile su Youtube: “Il lonfo non vaterca né gluisce / e molto raramente barigatta, / ma quando soffia il bego a bisce bisce / sdilenca un poco, e gnagio s’archipatta. / È frusco il lonfo! È pieno di lupigna / arrafferia malversa e sofolenta! / Se cionfi ti sbiduglia e t’arrupigna / se lugri ti botalla e ti criventa. / Eppure il vecchio lonfo ammargelluto / che bete e zugghia e fonca nei trombazzi / fa lègica busìa, fa gisbuto;/ e quasi quasi, in segno di sberdazzi / gli affarfaresti un gniffo. Ma lui zuto / t’alloppa, ti sbernecchia; e tu l’accazzi.”

È un animale, il lonfo, o uno zombie minaccioso? Forse un lupo, un ghiro, una pantegana, un cagnolone inoffensivo? Il poeta lo descrive con una serie di attributi bizzarri e fantasiosi (gnagio, frusco, vecchio, ammargelluto, zuto), di verbi indicanti azioni vaghe e misteriose (non vaterca, non gluisce, raramente barigatta, sdilenca, s’archipatta, sbudiglia e arrupigna, botalle e criventa, bete, zugghia, fonca, fa busìa, fa gisbuti, t’alloppa e ti sbernacchia), ma in qualche modo ostili e derisorie.

Allegramente canzonatorio è anche l’atteggiamento che il nostro illustre orientalista sfodera nei riguardi della triade Carducci-Pascoli-D’Annunzio, dei crepuscolari e di Gozzano, di Montale e Quasimodo, motteggiando la pomposità seriosa, l’intenerita mansuetudine, la tormentante angoscia dei maggiori poeti italiani del primo ’900: “Io t’amo o pia cicala e un trillargento / ci spàffera nel cuor la tua canzona” (Carducci), “Ricordi quando usavano le boppie / calate sui pitànferi supigni, / e légoli girucchi a panfe doppie / mornavano gli splagi e i pitirigni?” (Pascoli), “Io vissi all’era / degli Andali ludiati e perfidiosi: / gli artèdoni liriavano in finiera / metàrcopi e sindrèfani rodiosi…” (D’Annunzio), “Oh zie, oh dolci zie in bardocheta / voltatevi col glostro ricamato, / scendete per le scale a beta beta / dai màberi del tempo agglutinato!” (Gozzano), “nel sole si smarmellano budrince / al neon s’affastigiano vetrali” e “tra gli spissi gramosi / e blastifèmi, sul bovatro / svettiscono zirgendo gli acrolissi” (Montale), “t’ascolto lucifuso nell’azzurra / voragine d’un’alba di bugie” (Quasimodo),

Vengono allora in mente i versi che Aldo Palazzeschi dedicò all’ironia sorniona dei poeti, quando sanno giocare con le parole: “Il poeta si diverte, / pazzamente, / smisuratamente. // Non lo state a insolentire, / lasciatelo divertire / poveretto, / queste piccole corbellerie / sono il suo diletto”.

Senz’altro Fosco Maraini si è divertito, scrivendo le sue Fànfole: sarcastico già nel titolo scelto per la raccolta, poiché suggeriva fosse decifrabile attraverso la gnosi, cioè grazie a una conoscenza misterica raggiungibile per illuminazione interiore solo da pochi iniziati. La cui chiave interpretativa, però, non poteva che essere quella della risata ribelle e sbeffeggiante. Ma che risata ingegnosamente ed estrosamente creativa, la sua.

 

© Riproduzione riservata                  «Il  Pickwick», 13 novembre 2019

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MARCHESINI

MATTEO MARCHESINI, ATTI MANCATI – VOLAND, ROMA 2013
SOLI E CIVILI – ED. DELL’ASINO, ROMA 2012

Prende le mosse un po’ faticosamente, questo romanzo del giovane e agguerrito critico Matteo Marchesini, ambientato in una Bologna piuttosto provinciale e riconoscibilissima nelle sue strade e nei suoi personaggi, dai più famosi ai più caratteristici nella loro stramba originalità («un teatrino di figure petroniane»). Protagonista e evidente alter ego dell’autore è l’ intellettuale trentenne Marco Molinari, «eccessivo, intricato e sarcastico», «micidiale… e aleatorio», dal «poligrafismo un po’ presenzialista», che accumula sulla sua scrivania libri e articoli, assorbito ossessivamente in un lavoro «che non ha orari e quasi non ha gesti, asettico, ripulito da ogni sgradevole contatto umano». Intorno a lui ruotano poche altre figure: il suo mentore-guru Bernardo Pagi, «l’Adorno delle Due Torri», ritiratosi in un eremo campestre nel tentativo di allontanarsi dai riti vacui e mondani della società letteraria. Il fantasma dell’amico più caro, Ernesto, morto in un ambiguo incidente d’auto, e rivale in amore e nella scrittura, bello-benestante-limpido ma prevedibile nelle aspirazioni e nei comportamenti. E soprattutto Lucia, la sua ex fidanzata, inquieta esploratrice di interessi culturali alla moda: dalla politica solidale delle Ong alla cucina alternativa. Lucia, tornata a Bologna dopo anni di assenza, riprende i contatti con Marco a prima vista per rimproverargli i suoi «atti mancati», le sue disattenzioni e indifferenze nei confronti degli altri e del mondo, la sua «tetragona, cocciuta scelta d’inesperienza». In realtà per metterlo di fronte alla tragedia della sua malattia terminale, dapprima nascosta pudicamente, e poi rivelata nel tragico squallore della chemio, delle operazioni, dell’ indebolimento fisico. Nel rinnovato incontro-scontro tra i due, Marco non riesce comunque a sottrarsi al suo velleitarismo letterario, reso esplicito nei dialoghi spesso artificiosi e costruiti, indicativi di «un’aspirazione pubblica che interferisce con l’ispirazione vera».
Più incisivo e convincente della prova narrativa, è invece l’appassionato saggio letterario di Matteo Marchesini, pubblicato nel 2012 dalle Edizioni dell’Asino.
Nella prefazione Goffredo Fofi indica l’ultimo trentennio di storia patria come contrassegnato «dall’accettazione di una progressiva stupidità collettiva», privo di figure intellettuali e artistiche di rilievo etico o politico, e invece scisse tra potere mediatico-giornalistico e potere cattedratico: comunque imbelli, e prone. A questa estesa categoria «chiassosamente servile» di narcisi da salotto è giusto e necessario opporre personalità «portatrici di una istruttiva diversità», di una strenua e coraggiosa capacità di resistenza all’omologazione, alle blandizie delle vendite editoriali di successo, all’assalto a redazioni e studi televisivi. Così si impegna generosamente e orgogliosamente a fare Marchesini, proponendo alla riflessione dei lettori la rivisitazione dei percorsi di vita e scrittura di cinque intellettuali che hanno inciso, con la loro scabra e indocile moralità e con la loro acuta capacità critica, la storia letteraria italiana del novecento: Savinio, Noventa, Fortini, Bianciardi e Bellocchio. Sono ritratti ammirati e partecipi di cinque saggisti (e narratori e poeti) «soli e civili», diversi e lontani tra di loro anche nelle esperienze esistenziali e culturali, ma accomunati da una «capacità demitizzante e demistificatoria», in grado di ragionare «sulla storia del loro tempo senza idolatrarla», legati a un’idea di classicismo «dotto e popolare» a un tempo, ma nemico di qualsiasi cerebrale estetismo, e animati tutti dal sentimento imprescindibile della loro finitezza. Un richiamo sintetico e insieme approfondito, questo di Marchesini, alla riscoperta di cinque maestri del pensiero e della scrittura novecentesca che hanno saputo lasciare un’impronta fondamentale (ma troppo spesso sottovalutata) nella nostra cultura.

 

«incroci on line», 25 aprile 2014

RECENSIONI

MARCHESINI

MATTEO MARCHESINI, CRONACA SENZA STORIA – ELLIOT, ROMA 2016

Matteo Marchesini (Castelfranco Emilia, 1979) è uno dei più interessanti ed eclettici giovani scrittori italiani: critico letterario, poeta e narratore, vivace polemista culturale, collabora attivamente a diversi importanti quotidiani e a trasmissioni radiofoniche e televisive. Ha da poco raccolto per le edizioni Elliot la sua produzione in versi, sparsa in diverse pubblicazioni a partire dal 1999, sotto il titolo – programmaticamente definitorio – di Cronaca senza storia. Quasi a esibire l’esplicita volontà di ritagliare per la sua poesia uno spazio più individuale e circoscritto rispetto alle prese di posizione dichiaratamente ideologiche riservate agli altri suoi interventi critici.

La prefazione al volume reca la firma di Paolo Maccari, ed è un’introduzione acuta, partecipe e approfondita alla scrittura di un amico di cui si ammira il rigore intellettuale e di cui si condivide il metodo speculativo.
La raccolta si suddivide in due parti: la prima ospita i testi più recenti e inediti, la seconda offre al lettore una selezione di versi già pubblicati da Scheiwiller nel 2009 con il titolo Marcia nuziale.
Partendo proprio da questa seconda sezione, possiamo rilevare quanto qui Marchesini, “poeta sentimentale… con attitudine ragionativa” (come viene definito da Maccari) si rispecchiasse emotivamente nella relazione con l’altro da sé, sia che fosse la donna amata, o l’ambiente familiare e cittadino di formazione. I versi dedicati all’infanzia e alla figure genitoriali (Asilo) delineano un’atmosfera claustrofobica, di anni turbati non tanto da qualche innominabile violenza, quanto da una sorda e reciproca incomprensione, imbastita di silenzio-isolamento-noia, nel rapporto con i parenti, i compagni, i sobborghi proletari, la casa piccolo-borghese: stasi, paura, movimenti secchi, assenza, incubo, chiusura sono termini rivelatori di una incomunicabilità ingessante: «tutto il quartiere è saturo ed informe / come le cose di cui non parliamo»; «qui si resta / per sempre tra incuria e redenzione».

Il rapporto di coppia, descritto in Litania e negli splendidi diciassette sonetti di La seconda attesa, risulta invece più vitalizzante, nella sua bellicosità come nella dedizione più intenerita. Si tratta di poesie dall’impianto assolutamente tradizionale, quasi classicheggiante, caratterizzate spesso da ariosi endecasillabi, da incipit che ricordano i Mottetti montaliani o il discorsivismo teatrale della Bovary di Giovanni Giudici: «Ci fermiamo davanti a un’altalena»; «Tutto il mio pensare è nel guardarti»; «Alle mie cene cadi in dormiveglia»; «Forse è questa città che mi fa orrore»; «La tortura più grande è non sapere».

Inizia già in queste poesie giovanili una sorta di gioco narcisistico e plateale di oscillante confessione e assoluzione, «un lungo autoritratto denigratorio» – secondo l’indovinata formula descrittiva di Maccari – in cui Marchesini si accusa implacabilmente di sterilità fisica e intellettuale, di vile conformismo e inadeguatezza, di totale incapacità di corrispondere sinceramente alla vita nella sua semplice immediatezza, di astrattezza paralizzante sia nei legami sentimentali e affettivi, sia nell’impegno intellettuale.
La colpa riconosciuta e ammessa, esibita soprattutto nella prima parte del libro, e quindi nelle poesie più recenti, è il tradimento della lealtà verso se stesso, la costruzione artefatta di un io letterario falsificante, l’inautenticità che l’uomo e il poeta instaurano quotidianamente con la pagina scritta e con il prossimo: «Per questo ho imparato a sedurre / e non ad amare: non a tradurre, / a imitare soltanto. Nel falò / di una mania vestita da abitudine / io la vita l’ho solo orecchiata»; «Una vita passata / a invidiare la gente che vive / e non sta sul chi vive»; «Io sono questo: ho e faccio paura»; «E io solo saprò la mia demenza / senza poter parlarmi. / Nelle prove di vita io andrò a male».

Questa sofisticazione del sé, questa posa atteggiata del comportamento, viene smascherata solo dalla naturalezza dei bambini, degli animali, delle persone umili: o da una “Cassiopea” che unica può portare salvezza (e sarebbe tutta da commentare, anche nella resa stilistica, la poesia più bella del volume, Gli occhiali, giustamente riportata anche in quarta di copertina).
Se quindi la cifra contenutistica di Cronaca senza storia è tutta racchiusa in questa severa ma compiaciuta circumnavigazione del proprio io, nell’implacabile e ostentato confiteor che accomuna la produzione di Marchesini a quella della maggior parte dei giovani poeti italiani, la resa formale dei suoi versi ne fa l’epigono consapevole di tutta la tradizione del nostro Novecento: Montale, soprattutto, con calchi fedeli di molte Occasioni, ma anche Saba, Luzi, Raboni, il Pasolini più elegiaco, e il già citato Giudici.
Ligio a una musicalità che si esprime nella ricerca assidua di rime e assonanze, nella sentenziosità fonicamente armonica dei distici finali, negli incipit spesso endecasillabici, Matteo Marchesini si distanzia orgogliosamente dalla maniera più in voga tra i suoi coetanei: l’oscurantismo, l’implicito, il frammento, la non significazione, il plurilinguismo, la non assertività, e dichiara esplicitamente la sua riconoscenza, il suo non rinnegabile debito verso i maestri della poesia italiana contemporanea.

 

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9 maggio 2016

RECENSIONI

MARCHI

RAFFAELE MARCHI, DA GIOVANI SI MUORE COSÍ TANTE VOLTE

GATTOMERLINO, ROMA 2023

 

Raffaele Marchi (Ostiglia 1991), slavista e traduttore dal russo, ha pubblicato presso le edizioni romane Gattomerlino la raccolta di racconti Da giovani si muore così tante volte, titolo che suona un po’ come amara constatazione un po’ come memento rimproverante verso chi da tempo giovane non è più, e forse dimentica che non esistono età assolutamente felici. Sembra proprio la scontentezza di sé e del proprio ruolo sociale il leitmotiv del volume, insieme all’insoddisfazione lavorativa e all’alienazione determinata dal neocapitalismo, più ancora che l’infelicità personale dovuta a inquietudini, disagi o sofferenze interiori. Solitudine, mancanza di dialogo, rapporti affettivi precari, caratterizzano queste diciannove storie brevi, dal registro stilistico multiforme: si susseguono monologhi, dialoghi, meditazioni filosofiche e teologiche, commenti a fatti di cronaca, spesso scritti in prima persona, addirittura facendo parlare un pub “modestamente frequentato”, testimone afflitto dello squallido viavai degli avventori.

I protagonisti dei racconti appartengono in genere al ceto sociale più modesto: sono operai, commesse, insegnanti, impiegati, casalinghe, tutti frustrati e infiacchiti dalla routine quotidiana.  Il loro habitat è il condominio popolare, il bar del quartiere, il negozio alimentare. Manifestano indifferenza verso l’impegno civile, insieme a una generica ostilità per i detentori del potere: “una razza che sembra perennemente sul filo dell’estinzione, e poi non muore mai. Sempre un erede si trova”.

La realtà in cui questi personaggi si muovono appare come una recita imposta, una finzione in cui essi sono solo comparse, mai attori principali: “Sempre si finge. Somma due occhi ad altri due occhi e avrai un uguale infinito di bugie”. Poiché verità e giustizia rimangono utopie irrealizzabili, ci si rifugia nell’agnosticismo, nel disincanto o peggio, nello scherno: “Un altro mondo non c’è… Noi sappiamo d’esser qui, e pure che là non ci saremo”. Leggiamo nel susseguirsi delle pagine il monologo sospiroso di una cassiera del supermercato, che attende la fine del turno tra pazienza dovuta ai clienti e giustificabile irritazione; il dialogo di tre professori che durante la ricreazione conversano di tutto: guerre, capitalismo, poesia, d’accordo solo sulla capraggine insulsa degli allievi (“Bombe! Bombe! Andiamo a fare l’educazione col tritolo”). E ancora il rito del caffè mattutino raccontato da un misantropo cui pesa affacciarsi alla vita, o due amici musicisti “inseparabili, incicciati come sardine nella scatola”, in perenne litigio riguardo alle loro abilità di interpreti.

A riprova della versatilità dell’autore, troviamo anche alcune storie più intenerite, con un alone di romantica ingenuità che le rende particolarmente godibili. Come L’asprezza chiama sul labbro, in cui il giovane protagonista viene avvicinato da una donna anziana mentre sta raccogliendo le prugne su un albero in giardino, e le permette gentilmente di approfittare della stessa operazione per portarsi via un cestino ripieno di succosi frutti: solo dopo aver risposto a un serrato e importuno interrogatorio della vecchia sulle abitudini dei proprietari della casa, capisce di essere stato generoso con una ladra che cercava informazioni per poter rubare nell’abitazione. Oppure, nel bellissimo Storia senza una vera fine la descrizione puntuale della passeggiata di una coppia, “leonessa e babbuino”, scandita dalla diversa velocità dei passi, dei pensieri, degli sguardi, dei gesti, fino all’arrivo nel bilocale in cui abita e al sonno condiviso senza amore nello stesso letto.

Usando un linguaggio lineare e pacato, impreziosito da innovazioni lessicali, dialettismi e neologismi, Raffaele Marchi ci introduce in un mondo in cui la banalità del quotidiano affossa ogni speranza di riscatto, ogni illusione di cambiamento, riducendo i rapporti umani a uno scambio di contatti superficiali, a volte basati sull’inganno e lo sfruttamento, più spesso sull’apatia e la rassegnazione che contrassegnano il nostro “piccolo spettacolo del vivere”.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net            4 agosto 2023