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RECENSIONI

MAYER

HANS MAYER, I DIVERSI – GARZANTI, MILANO 1992

Sarebbe opportuno e auspicabile riproporre oggi, almeno in e-book, il volume di Hans Mayer I diversi, edito da Garzanti nel 1978 e poi ripubblicato nel 1992, perché il tema affrontato rimane, ahimè, tuttora prepotentemente attuale, nonostante gli incessanti ma inascoltati inviti alla comprensione e al rispetto per qualsiasi minoranza, rivolti agli individui e alle società, alla sensibilità dei singoli e alla legislazione ufficiale. Mai come oggi, però, tale puntuale ed enfatica esortazione viene nei fatti disattesa, con una recrudescenza preoccupante di sadismo, intolleranza, violenza fisica e verbale nei riguardi di chi è “altro”.

Hans Mayer (1907-2001), allievo di Adorno e Horkheimer, distintosi in Germani a noto anche in Italia per i suoi studi letterari sforanti nel sociale, suggerendo coinvolgimenti etico-politici (cfr. Letteratura vissuta, Milano 1991), propose negli anni ’70 una lettura totalizzante, quasi enciclopedica, della discriminazione, che attraversando diacronicamente la storia letteraria mondiale, percorreva un filo di pensiero unificante sulla diversità, individuata in tre grandi categorie umane: la donna, l’omosessuale, l’ebreo.

Servendosi di strumenti scientifici e approcci specialistici eterogenei, confezionò con I diversi un volume ambizioso da utilizzare come manuale e compendio antologico, più che come testo critico vero e proprio. I diversi si propone infatti come libro a tesi, pamphlet politico, già a partire dalla lapidaria affermazione iniziale: “L’illuminismo borghese è fallito… l’uguaglianza formale davanti alla legge… non ha comportato una conseguente uguaglianza materiale delle prospettive di vita”. Considerazione quasi scontata, condivisibile pressoché universalmente, soprattutto per ciò che riguarda i tre gruppi presi in considerazione da Mayer: donne, omossessuali, ebrei pagano ancora a caro prezzo la contraddizione irrisolta di essere altro dalla maggioranza dominante in cui tuttavia sono inseriti. Difficile però parlare coma fa Mayer di tre gruppi omogenei, per cui nei secoli e alle latitudini più diverse siano valse lo stesso tipo di discriminazioni culturali. Cosa unisce Giovanna d’Arco a Klaus Mann, Jean Genet allo Shylock shakespeariano, Giuditta a Edoardo II, Rimbaud ai personaggi ebrei di Dickens e di George Eliot? Basta il tratto unificante della differenza a collegare tra loro esperienze intellettuali e sociali così lontane e ambivalenti? Con quale rigore scientifico si può, oggi, dopo decenni di studi approfonditi della cultura femminista, parlare della donna come “minoranza diversa” in tutta la storia della letteratura dalla Bibbia in poi?

Altrettanto difficile da condividere appare la scelta di Mayer di eludere temi e nomi essenziali all’interno delle tre categorie prese in considerazione, tacendo di autori che hanno dibattuto a lungo, e pagato sulla propria pelle, la diversità: Christa Wolf, Elie Wiesel, Pierpaolo Pasolini, per indicare personaggi notissimi anche al dibattito culturale tedesco, nemmeno citati nel repertorio delle note.

Un volume quindi, quello di Mayer, di notevole interesse documentario, senz’altro pungolante e animato da vis polemica, ma ideologicamente ibrido e formalmente appesantito da uno stile assertivo e perentorio, nella sua monotona paratassi; teutonicamente rigoroso nel negare a noi lettori l’addolcimento di qualche metafora, la pausa diluente di qualche subordinata.

 

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SoloLibri.net › Recensioni di libri › I diversi di Hans Mayer              18 dicembre 2023

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MAZZOLARI

PRIMO MAZZOLARI, COME PECORE IN MEZZO AI LUPI – CHIARELETTERE, FIRENZE 2011

«Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a stargli dietro. Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. Questo è il destino dei profeti». Con queste parole si esprimeva Paolo VI a proposito di Don Primo Mazzolari, nato in provincia di Cremona nel 1890 e morto nel 1959: figura coraggiosa e indipendente di prete “scomodo”, anticipatore di molte istanze dottrinarie e pastorali del Concilio Vaticano II. Attento soprattutto alla dimensione sociale e politica del Cristianesimo, dal 1921 fu parroco nel piccolo paese di Bozzolo, con proibizione per molti anni di predicare fuori dalla sua diocesi e di pubblicare articoli che esulassero dal commento evangelico.
Sempre a fianco degli ultimi, vicino alla Chiesa dei poveri, e sempre, ostinatamente, capace di lottare in difesa della pace, anche contro il ritardo ecclesiastico nel condannare tutte le guerre. L’appassionata prefazione di Don Virginio Colmegna, commentando la “radicalità profetica” di questi scritti, afferma: “Don Mazzolari ci richiama oggi a riscoprire che quella domanda etica, di senso, spesso ispirata e alimentata dal Vangelo, deve diventare energia politica, deve ambire a diventare protagonista del cambiamento, capace di rinnovare la politica anche nel linguaggi…”

Contro la “politica della pattumiera” di cui parlava Don Primo Mazzolari, Colmegna esprime un auspicio, invitando a leggere il parroco di Bozzolo nella sua coinvolgente attualità: “La politica deve essere competente, plurale, deve pensarsi come servizio, gestendo il potere in modo responsabile, esprimendo professionalità, capacità anche di impresa e di sviluppo”.

 

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www.sololibri.net/pecore-mezzo-lupi-Mazzolari.html     7 novembre 2016

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MAZZONI

GUIDO MAZZONI, I MONDI – DONZELLI, ROMA 2010

“I mondi degli altri che si incrociano col mio”, recita un verso di questo libro di Guido Mazzoni, intitolato appunto I mondi (primo libro di poesia dell’autore, allievo di Romano Luperini e docente di Letteratura Italiana all’Università di Siena, che ha già firmato importanti testi di critica letteraria). E questo contrasto tra io-altri, interno-esterno, verità-finzione, solitudine-comunione domina tutte le sei sezioni in cui è suddiviso il volume, che alterna brani in prosa (dal ritmo lento e meditato, intenso e introspettivo) a poesie dall’andamento narrativo e per lo più paratattico, che sembrano quasi svolgere la funzione di eco, di intensificato ribadimento alle asserzioni in prosa.

Versi e prose prendono spesso spunto da avvenimenti biografici: un’operazione subita nell’adolescenza, “la possibilità della mia morte… la marginalità del mio destino fra quelle porte a vetri”; il piccolo appartamento in periferia pagato con un mutuo che fa litigare i genitori; i coinquilini laboriosi contenti del poco che hanno; la commessa che ripete docilmente gli stessi gesti “aderendo a ciò che le è accaduto, a ciò che è stato fatto di lei, come a un destino che è insensato contestare”; il figlio neonato esibito da una coppia amica, impaurita e fiera del suo nuovo, “irreversibile” destino genitoriale.
Ma pur partendo da esperienze personali, Guido Mazzoni sa fare emergere, con consapevole e compassionevole malinconia, la sua pacata riflessione su ciò che accomuna tutti gli esseri umani: un’esistenza di solitudine e incomunicabilità, di finzioni pubbliche e disperazioni private, di fallimenti personali e approdi finali che conducono al nulla: “Non c’è un senso ma un infinito adattamento”, “ogni istante basta a se stesso/ e alle cose che ripete”, “nell’incredibile/ massa degli altri per cui non esistiamo. Oggi penso/ che l’essenziale non sia comunicabile,/ ma imploda al di fuori di noi”, “solo violenza al fondo delle cose”, “Ora so che non ha senso rompere/ la miopia che ci fa esistere”. Estraneità, rassegnazione, sconfitta. Anche la poesia si orienta verso un’oggettivazione disincantata dell’esistenza, verso una sconsolata filosofia.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/I-mondi-Guido-Mazzoni.html     16 settembre 2016

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MAZZONI

GUIDO MAZZONI, LA PURA SUPERFICIE – DONZELLI, ROMA 2017 – euro 13 – pp. 78

La chiave per entrare nelle poesie di questo volume edito da Donzelli sta forse nella citazione di Kafka ad esergo: «Da tutte le cose mi separa uno spazio cavo che non mi affretto a delimitare».

La pura superficie delle cose, che Guido Mazzoni osserva e racconta in versi e prosa, rimane appunto cava, distante, estranea, offrendosi indifferente allo sguardo dell’autore, compreso in un ruolo di documentarista obiettivo e poco coinvolto nell’esplorazione di sé e del non sé, quasi infastidito dalla materialità di ogni vicinanza. Contiguo è l’altro, ma non vicino. E anzi, disturbante, angoscioso nella sua pretesa di rendersi presente, nella sua presuntuosa richiesta di attenzione: «la vita degli altri è bianca e spettrale», «Ciò che siete non è reale. Ciò che siete vi oltrepassa a ogni istante», «siete un luogo inabitato».

Se gli altri sono “spettrali”, l’autoritratto che l’autore dipinge di sé è altrettanto impietoso: «Sono una piccola persona, nessuna fede / mi accoglie veramente, voglio molto poco», «Io sono soltanto questo aneddoto», «Non aderisco a nulla», «Ho quarant’anni, sono fatto di pezzi, nulla mi giustifica». Esperienze personali e tragedie collettive risultano intercambiabili, nella coscienza poetica attonita e sconcertata di Guido Mazzoni (il Brasile delle favelas e del latifondo, il G8 di Genova, le Torri Gemelle, l’oscena ferocia delle esecuzioni dell’Isis): brani narrativi intercalati a versi, risentiti nel richiamo severo a un’indignazione morale che tuttavia si confessa insincera, fittizia, probabilmente morbosa nella sua attrazione verso la brutalità delle stragi: «si capisce che gli altri non ci riguardano o non ci interessano», «Da qualche tempo gli eventi scivolano sopra di me, / non mi toccano».

Uno schermo difende e protegge da ogni alterità, e insieme intrappola, condanna a un’inscalfibile incomunicabilità, a una gelida ipnosi. Tanto è vero che il mezzo di trasporto più raccontato è anche il più freddo e impersonale, il più veloce e sotterraneo: la metropolitana, in cui è impossibile stabilire qualsiasi tipo di rapporto che travalichi “la pura superficie”: i viaggiatori si guardano “opachi”, definendosi tra loro con un unico attributo (calabrese, simpatico, studente fuori sede, tatuata, stronzo, filippino…). Il reale, la storia non appaiono più interpretabili con gli schemi rigidi del passato – bene e male divisi nettamente a metà, capitalismo e socialismo, sfruttati e sfruttatori – se persino il proletariato dà fastidio, le donnette precarie sono galline, i giovani insulsi e prede di tempeste ormonali, i colleghi insopportabilmente vacui. Small talk, telefonate, cene noiose, cazzeggi, video porno, sesso intristito, fisicità escrementizia. Si salvano rare e antiche relazioni amichevoli, mai troppo intime, con intellettuali di cui viene citato il nome, collaboratori del blog ideato dall’autore: Gigi Simonetti, Rino Genovese, Daniele Balicco. Oppure uno scampolo di genuinità può venire offerto dalla lettura reinterpretata di Wallace Stevens, presente in ogni sezione del volume con la sua serena adesione all’autenticità della natura.

Un’infelicità senza desideri, quella espressa da Guido Mazzoni, in versi che forse lui stesso troverebbe retorico definire poetici: denotativi, prosastici, privi di qualsiasi ritmo, artificio letterario, innovazione linguistica: «Ho scritto un testo che non tende a nulla. Vuole solo esserci, come tutti. / Ho scritto un testo che rimane in superficie».

 

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www.sololibri.net/pura-superficie-poesie-mazzoni.html         4 ottobre 2017

 

 

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Mc CARTHY

CORMAC Mc CARTHY, FIGLIO DI DIO – EINAUDI, TORINO 2008

Ambientato nel Tennessee contadino più squallido e ottuso, questo romanzo di Cormac McCarthy ha come protagonista un uomo violento e solitario, che conduce un’animalesca esistenza in “una vecchia casa di assi”, in simbiosi col suo fucile, con asce e coltelli, con le bestie del bosco, e con i pochissimi esseri umani che riescono a sopportare la sua presenza. Lester Ballard “è piccolo, sporco, con la barba lunga. Si muove con impacciata ferocia tra la paglia secca, in mezzo alla polvere e alle strisce di luce…Nient’altro che un figlio di Dio come voi, forse”. Ma di un dio minore, evidentemente, a cui non crede, convinto solo di dover difendere rabbiosamente il suo minimo spazio vitale, e la sua sopravvivenza ferina. McCarthy ne descrive con implacabile precisione e oggettività ogni movimento, soffermandosi solo sui suoi gesti esteriori: dai più umilianti e banali a quelli derivati dalla sua indifferente crudeltà. Lester Ballard sembra non avere anima né sentimenti, quindi l’autore non fa alcun cenno ad essi. Lo racconta in terza persona, osservandolo da distanza ravvicinatissima. E lo fa raccontare dal coro anonimo dei suoi compaesani,esasperati o compiaciuti della sua asociale brutalità, ma spesso selvatici quanto lui. Furbo e cattivo, fa del suo odio un’arma rivolta contro tutti: vicini di casa, fedeli della parrocchia, animali selvatici e domestici, e donne. Soprattutto donne. Da spiare, sporcare, offendere, violentare, uccidere. Durante un inverno impietoso, Ballard si trasforma da morboso guardone di coppiette a loro assassino, ossessionato dai corpi morti su cui infierisce, accoppiandosi coi cadaveri delle ragazze, svestendole e rivestendole con furore necrofilo, abbandonandosi a ogni perversione e crudeltà prima di collezionarne e nasconderne i cadaveri. Braccato dalla legge e dal desiderio di vendetta dei suoi concittadini, muore banalmente in prigione per una polmonite, senza pentirsi: sepolto in solitudine come conviene a un mostro, “figlio di dio”.

IBS, 28 agosto 2014

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McGOUGH

ROGER McGOUGH, LA RESA DEI CONTI – MEDUSA, MILANO 2021

L’antologia di Roger McGough pubblicata da Medusa raccoglie versi tratti da quattro raccolte uscite in Gran Bretagna tra il 2009 e il 2021. McGough, nato nei pressi di Liverpool nel 1937, oltreché poeta è drammaturgo, performer teatrale, autore di testi per l’infanzia e conduttore da più di vent’anni del seguitissimo programma radiofonico della BBC Poetry, Please. Negli anni’60 ha iniziato la sua carriera come paroliere pop e componente di un trio musicale cabarettistico di successo: questa esperienza di contatto diretto con il variegato pubblico giovanile inglese – in un decennio in fibrillazione per la rivoluzionaria comparsa di nuovi gruppi rock –, e il sapiente utilizzo di mezzi di comunicazione di massa, lo mise in grado di servirsi di un lessico quotidiano, provocatorio e veloce, tipico di una generazione di adolescenti che a gran voce reclamava attenzione sul palcoscenico mondiale.

Il suo primo volume di versi, The Mersey Sound, scritto in collaborazione con altri due poeti di Liverpool, divenne nel 1967 un best seller, e conobbe numerose ristampe, grazie a un linguaggio sperimentale, misto di cultura classica e popolare, fitto di termini slang, calembour, citazioni tratte dal cinema, dai fumetti, dalle canzoni, con l’esplicita tendenza a un’oralità fatta di un fraseggio sincopato e poliritmico, variazioni fonetiche, pause improvvise, ripetizioni, elenchi e rime elementari.

L’ironia e lo sberleffo al paludato stile accademico di quel lavoro inaugurale, si mantenne anche nelle produzioni successive di McGough, sempre improntate all’ironia e all’autoironia, e soprattutto a una grande abilità divulgativa. Nell’antologia di cui ci occupiamo, che esibisce il programmatico titolo de La resa dei conti, permane l’entusiastica adesione a un’esistenza vissuta intensamente, senza censure o rimpianti, anche nell’età più avanzata, da godere con dinamismo e gioiosità, pur nella consapevolezza dell’avvicinarsi della fine: “Non c’è cura per l’invecchiamento / La morte sarà incurabile, ma diventare vecchi non è una malattia”. Convinto che l’essere anziani non sia una condanna, ma una stagione della vita da affrontare con pienezza, ne tratteggia con arguzia e spietata sincerità pregi e difetti, schernendo anche L’eterno riposo con un invito ad andare in discoteca: “Alza il volume, abbassa la Luce Perpetua, / e lasciali divertire. Amen”.

Quanti indirizzi cambiati, treni presi e persi, libri letti e dimenticati. Ma è sempre valsa la pena, secondo Roger McGough, di sbagliare e ricredersi, di ridere e piangere, in omaggio al caleidoscopico e futile teatrino della vita. I ricordi? Da rinverdire solo se divertenti. Gli amori? Nessuna nostalgia, visto le delusioni che hanno procurato. I figli? Da sfruttare economicamente, facendo pagare loro quanto sono costati. I consigli da dare alle future vedove? Sghignazzanti e vendicativi. Il decadimento fisico? Si accetta come inevitabile pedaggio per il privilegio di non essere ancora morti. La lezione da dare al mondo consiste nello sbeffeggiare gli stereotipi sul decadimento senile, o rinforzarli sadicamente, sogghignando.

In Grandi abbracci, il poeta si chiede “Prima di andare, a chi do un abbraccio?” ed enumera familiari e amici, fidanzate e insegnanti, vacanze e sbronze: ma soprattutto le parole “che sono sempre state una buona compagnia”. Convinto che l’eternità celeste auspicata da molti sia noiosissima, McGough dedica numerose composizioni del suo ultimo volume all’attualità (in particolare alla pandemia che sta convertendo il genere umano a un gretto individualismo), alle abitudini mantenute con scarso spirito critico (le lunghe code negli uffici, l’ubbidienza ai diktat dei media, l’ossessione delle statistiche) e al ruolo pubblico e privato rivestito dalla poesia, arte inutile, non remunerativa,  tuttavia disinteressata, e talvolta addirittura nobile: “Facciamo festa per la nascita della poesia / Per il bisogno di interrogare, ispirare e creare / Che se ne elenchino i modi. Facciamo festa”. Perché, come scrive Franco Nasi nella postfazione, “La poesia è una cosa che ci riguarda, che ri-guarda le nostre vite, e che può aiutarci a dare qualche risposta”. Quindi, Poetry, Please.

 

© Riproduzione riservata        «L’Indice dei Libri del mese» n. I, gennaio 2021

 

 

 

 

RECENSIONI

MELE

ALFRED MELE, LIBERI ! – CAROCCI, ROMA 2015

Il filosofo americano Alfred Mele (1951), che vanta approfondite conoscenze di psicologia e neuroscienze e insegna all’Università della Florida, ha pubblicato Liberi! – un interessante saggio recentemente uscito da Carocci – per confutare le tesi di numerosi scienziati internazionali, i quali da anni affermano che l’essere umano è profondamente condizionato nelle sue azioni sia dalla sua attività cerebrale sia da fattori ambientali: insomma, che il libero arbitrio di cui ci vantiamo e su cui dibattono da secoli tribunali ecclesiastici e civili, in realtà è un’illusione. «Oggi sono essenzialmente due gli argomenti scientifici contro l’esistenza del libero arbitrio (free will). Il primo afferisce alle neuroscienze e sostanzialmente afferma che tutte Ole nostre decisioni sono prese inconsapevolmente, e quindi non liberamente. L’altro argomento è legato alla psicologia sociale e sostiene che fattori di cui siamo inconsapevoli esercitano su di noi una influenza tale da non lasciare spazio al libero arbitrio».

Alfred Mele contesta queste affermazioni analizzando criticamente gli esperimenti scientifici che le suffragherebbero, convinto che ricusare la libertà di coscienza produrrebbe solo un aggravio dei comportamenti negativi all’interno dell’ordine sociale, in quanto molti si potrebbero ritenere non responsabili delle proprie azioni delittuose o comunque colpevoli.
In particolare l’autore polemizza con le tesi del neurofisiologo statunitense Benjamin Libet (1916-2007) che già trent’anni fa scoprì (attraverso oggettive procedure di laboratorio, rilevate con elettroencefalogrammi, oscilloscopi ed elettrodi applicati alla corteccia cerebrale di soggetti volontari) che il tempo intercorrente tra l’esecuzione di un atto e il rendersi conto di farlo è di 0,5 secondi, dimostrando così che il cervello si prepara all’azione prima che il soggetto divenga consapevole di aver deciso di compiere il movimento. La vera causa delle nostre azioni non sarebbero dunque le intenzioni coscienti e la nostra volontà, bensì un’attività inconscia del cervello.
Contro tale interpretazione, Alfred Mele usa diversi argomenti, sottolineando che il tempo soggettivo non sempre corrisponde al tempo misurato con metodi fisici; il fatto poi che la coscienza situi la volontà in un certo istante non implica che essa sia affiorata proprio in quell’istante e non prima. Inoltre, l’attivazione di alcune aree cerebrali potrebbe corrispondere, anziché alla decisione vera e propria, a una fase di preparazione della decisione. E un movimento automatico privo di implicazioni morali non è rappresentativo di una decisione cosciente: una libera scelta si riferisce a un comportamento complesso, non è presa istantaneamente ma è frutto di lunga riflessione. Nonostante gli esperimenti di Libet siano stati confermati negli anni successivi da numerosi altri studiosi (Fried, Ramachandran, Chun Sion Soon), Mele ostinatamente difende l’esistenza della libera volontà umana da un punto di vista filosofico, ritenendola baluardo irrinunciabile della dignità della persona. E irride anche alle tesi della psicologia sociale, secondo cui siamo talmente condizionati dall’ambiente familiare e sociale, dalla genetica, dalle abitudini e dalle convenzioni, dalle ideologie religiose e politiche, dall’educazione e dall’istruzione impartitaci, che non ci resta alcuno spazio per l’iniziativa autonoma e per la libertà di azione e di pensiero. Le tesi e gli esperimenti scientifici che Alfred Mele contesta con più veemenza (talvolta dilungandosi in esempi e puntualizzazioni alquanto pedantesche) sono quelli proposti da studiosi come Daniel Wegner, Michael Gazzaniga e Stanley Milgram, i quali affermano che le intenzioni consce non sono mai tra le cause delle azioni corrispondenti: noi agiamo inconsciamente, e poi tendiamo a giustificare le nostre azioni a posteriori, sulla base di pregiudizi o automatismi.

La conclusione a cui arriva Liberi! è che esiste senza ombra di dubbio un “libero arbitrio modesto”, che ci permette di prendere nella quotidianità decisioni razionali e informate, ma di limitata rilevanza. Riguardo invece all’effettiva consistenza di un “libero arbitrio ambizioso”, indipendente dalle leggi di natura e dai vincoli sociali, è forse il caso di attendere, per pronunciarsi in proposito, un approfondimento maggiore negli studi sperimentali.

 

© Riproduzione riservata           www.sololibri.net/Liberi-Alfred-R-Mele.html      23 maggio 2016

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MELLONI

GIACOMO MELLONI, IL MUSICISTA OSCURO – VOLAND, ROMA 2017

Le edizioni Voland proseguono nella loro meritoria iniziativa di scoprire e incoraggiare giovani talenti della nostra narrativa. Dopo Vita e morte delle aragoste, di Nicola H. Cosentino (già recensito su SoloLibri), ora ci propongono in lettura il primo romanzo di un autore romano, Giacomo Melloni, classe 1984, che vive e lavora a Parigi come insegnante e traduttore dal francese.

Il musicista oscuro narra di una ossessione, una sorta di incubo che affligge il personaggio principale: il confronto schiacciante con chiunque consideri superiore a sé. Del protagonista non conosciamo nemmeno il nome: sappiamo però che vive solitario in una stanzetta disordinata, nel quartiere più sordido e pericoloso di una metropoli, mantenendosi con il lavoro precario di guardiano in un museo, giusto per pagarsi vitto e alloggio, e potersi dedicare al sogno di ottenere qualche riconoscimento nel mondo discografico. La consapevolezza delle proprie scarse doti musicali si è insinuata in lui già dal primo affacciarsi della passione per le note: a dodici anni, con le prime lezioni di chitarra affidate a un maestro mediocre e vanesio, poi con la partecipazione a una band dilettantesca. Nonostante la lucidità con cui sa analizzare l’inconsistenza delle sue utopie, abbandona gli studi universitari per seguire il suo miraggio, rischiando non solo la sopravvivenza materiale, ma addirittura la salute mentale. Diventa infatti presto preda di allucinazioni, manie di persecuzione, attacchi di panico, dipendenza dall’alcol, autolesionismo, a cui tenta di sfuggire frequentando locali di terz’ordine dove esibire inedite composizioni, mal recepite dallo scarso pubblico e dai colleghi. Già l’incipit del romanzo, in tono sarcastico e astioso, indica quale sia il sentimento che il giovane musicista nutre verso chi, come lui, alimenta patetiche illusioni sulle proprie capacità artistiche e su un improbabile successo futuro: «Ogni martedì vado in un locale e partecipo alle jam session che organizzano. Lì, oltre a imbattermi in qualche ragazzo pieno di speranze e privo di talento, ho a che fare con quella montagna di escrementi umani che riunisce il variegato universo dei musicisti falliti. Ultracinquantenni nostalgici di tempi remoti, vecchi bluesman inascoltabili, metallari inquietanti, un teatro degli orrori che esibisce un look altrettanto spaventoso: gilet di pelle, pantaloni attillati, grosse e pesanti cinture di cuoio, catene d’acciaio, volgari occhiali da sole, bandane umide di sudore, calvizie precoci dissimulate sotto inaccettabili cappelli a bombetta, stivaloni col tacco».

Allo smacco di non essere all’altezza delle proprie aspirazioni, si aggiunge per il protagonista la coscienza della sua scarsa avvenenza, afflitta anzi da una “bruttezza tragicamente comune”: l’incontro con Silvana, donna tanto ricca quanto fisicamente orrenda, lo precipita nel baratro del disprezzo di sé e dell’autocompatimento, rendendolo inoltre aggressivo e geloso nei riguardi di chi reputi eccessivamente fortunato e capace. La competizione umiliante con gli altri si concretizza soprattutto nel confronto con il vicino di casa violinista e dandy, rumorosamente boccaccesco, che arriva a spiare in casa e a pedinare fuori casa, invidioso fino allo spasimo dei suoi successi, amorosi e musicali. Il naufragio esistenziale del protagonista assume i contorni di un delirio psicotico, e la sua immaginazione malata finisce per farlo interagire con le figure di un quadro improvvisamente animatosi: l’irrealtà allucinatoria diventa preferibile alla detestata realtà di una vita da perdente. Dalla quale riesce infine a riscattarsi con un eclatante e disperato gesto finale: l’omicidio del violinista attraverso cui raggiungerà la notorietà tanto desiderata.

La narrazione di Giacomo Melloni, espressa con ritmo incalzante, da empatica e solidale con il suo personaggio quale sembrava inizialmente, nel proseguo delle pagine diventa irrisoria e beffarda, intenzionata a demolire l’inconsistenza caratteriale, gli atteggiamenti esaltati e i propositi farneticanti di lui, che ne rivelano la velleitaria personalità di “oscuro” pseudo-artista, assillato dai propri fallimenti.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Il-musicista-oscuro-Melloni.html       1 dicembre 2017

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MEMORIA

MEMORIA – RIVISTA STORICA – ROSENBERG & SELLIER, TORINO 1981

I professori di storia, i cattedrattici, quelli che pubblicano sulle riviste universitarie autorevoli saggi volti a rintuzzarsi vicendevolmente le ultime tesi, avranno scosso la testa paterni. Non dico fatto un balzo sulla sedia, quello no: sprecare a tal punto sorpresa e indignazione vale per le gesta di un enfant prodige quale Carlo Ginzburg (irriverente storico-segugio), ma insomma anche lui titolare di cattedra, quindi da prendere sul serio. Invece questa nuova rivista, Memoria, sembra avere meritato solo qualche rimbrotto sorridente, qualche recensione spazientita, come quella apparsa su Repubblica: Memoria è infatti la prima rivista di storia delle donne, scritta solamente da donne (e quel “solamente”, molti l’hanno letto nel senso che “sono solo donne”). La veste grafica è sobria e discreta come si addice a una rivista teorica: ma ad avvertirci che non si tratta di Studi medievali o di Clio, servono anche il colore della copertina, viola, le illustrazioni da un quadro di Klee (Occhi di strega) che accennano velatamente ad un simbolismo sessuale, prima ancora che l’editoriale e il sommario degli articoli. Questa rivista dal titolo rivelatore (una discussione sulla scelta di questo titolo avrebbe perfettamente introdotto il numero primo) riesce ad essere un contributo al femminismo; non nasce da uno spirito di rivincita, ma da un “desiderio di conoscenza” che è volontà di rileggere la storia delle donne (o di leggerla ex-novo; è mai stata letta correttamente?) al di là dei rigidi schematismi imposti dalla storiografia ufficiale, stralciandola – per così dire – dalla storia maschile fatta sempre passare come storia universale. Quale Memoria, allora? Una memoria selettiva, intanto, che scelga di indagare quei momenti di particolare rilevanza nella storia delle donne, trascurati o interpretati erroneamente dalla storicistica maschile. E in questo ambito tenga conto che la storia femminile è storia di relazioni, non riducibile a un elementare contrapporsi di antagonismi e oppressioni, ma storia che se ruota intorno a momenti concreti, a ruoli determinati, a condizioni oggettive, a fatti accaduti, non è tuttavia circoscrivibile interamente in questi limiti, e va letta con un metro sensibile anche all’evoluzione/involuzione dei sentimenti. Ragione e sentimenti è il tema di questo primo numero, doveroso omaggio a uno stereotipo culturale che scinde l’identità umana in due poli (uno positivo, maschile, l’altro negativo, femminile) e l’identità femminile in due ruoli (fanciulla casta, moglie fedele, madre amorosa) e uno “diverso” da rifiutare. Compito della donna storico è quello di studiare questa norma costrittiva e lo scarto dalla norma, con i prezzi da pagare che esso ha imposto e impone. Tuttavia pochi dei saggi presenti in questo volume (Di Cori, Ripa di Meana, Pelaja) si attengono strettamente a questo principio: uno in particolare, che analizzando un caso di infanticidio del 1882, indaga sul groviglio di dati consci e inconsci, privati e pubblici, che interagiscono in un delitto del genere. Un altro saggio (Bompiani) smonta gli elementi compositivi della figura di Cenerentola nelle varie edizioni della fiaba, con occhio particolarmente attento alle relazioni parentali e alla pluralità di sentimenti che in esse si accavallano. Altri quattro interventi, invece, lavorano su fonti indirette (Bonacchi, D’Amelia, Biadene, De Giorgio) commentando testi sia maschili sia femminili e suggerendone un nuovo approccio di lettura. Fraire, Magli e Groppi propongono, con indubbia profondità e fertilità teorica, studi che non sono però focalizzati sulla donna e potrebbero comunque essere destinati ad altra rivista storica o psicanalitica. Un contributo estremamente interessante è quello di Cantarella, che studia le origini nel mito e nella tradizione letteraria greca dell’unica saggezza riconosciuta alle donne: la “metis”, l’astuzia, vissuta nella cultura occidentale più come difetto che come virtù. La rivista non sente la mancanza di momenti creativi: l’unica invenzione è una lettera di Pericle ad Anassagora (E.Sormani), che getta un ponte tra storia antica e femminismo. Molto buona è anche la parte documentaristica, con un accurato notiziario, recensioni, informazioni e bibliografie. In conclusione, alcuni difetti della rivista – già peraltro messi in luce dall’editoriale – possono essere la scarsa adesione al tema di alcuni saggi, la mancanza di analisi di figure femminili, la preponderanza delle fonti indirette su quelle dirette; ma se consideriamo che ci troviamo di fronte al primo tentativo di rivista storica delle donne, che ha il grosso merito di non essere rancorosa come altri contributi femministi, e di proporre un’analisi e un obiettivo comune a tutto il corpo redazionale – cosa del tutto nuova per una rivista storica non partitica, dobbiamo ammettere che si tratta di una svolta importante nella cultura del movimento femminista e (speriamo) nella coscienza storica del nostro paese.

«Quotidiano dei Lavoratori», 19 giugno 1981

RECENSIONI

MENICANTI

DARIA MENICANTI, POESIE PER UN PASSANTE – MONDADORI, MILANO 1978

«Le poesie delle donne sono spesso piatte, ingenue, realistiche e ossessive», dice un verso della Maraini: è vero. E’ vero che molte femministe scrivono rabbia contrabbandandola per poesia, è vero che molte poetesse ufficiali (di quelle garantite dalle grosse case editrici) scrivono al maschile, scorporandosi, eteree e asessuate, noiose. Ma ci sono poesie di donne che non nascondono la loro concretezza corporea, che non si vergognano della loro espressa fisicità: se tracciassimo una mappa della letteratura femminile, vedremmo però che sono ancora in netta minoranza. Il libro di Daria Menicanti è un prodotto riuscito di questa minoranza. Formalmente si tratta di una struttura poetica classica, non particolarmente inventiva sul piano del linguaggio ma nemmeno mai scontata; di una tradizionale dignità che evita gli scarti, i giochetti di parole, le astuzie grafiche. Entro questa classicità, i temi e gli oggetti poetici sorprendono e aggrediscono con la loro totale evidenza, apertura, comprensibilità: eppure nemmeno questi sono nuovi (morte-vita, amore-odio, corpo-anima, giovinezza-vecchiaia). Ma è raro sentirli raccontare così senza alcuna paura di retorica: diventano nuovi per il lettore perché evidentemente sono stati vissuti e scritti con la tensione e la sofferenza che li fa nuovi. La Menicanti scrive del suo corpo che invecchia, degli uomini che possiede e che ha posseduto. Invidia le coppiette degli alberghi a ore, prende in giro gli ex-amanti e i corteggiatori, scrive le incertezze e le voglie di essere «meno vili / più accesi». Ma racconta anche le banalità delle canzonette, dei bar, delle storie quotidiane, gli incontri e gli scontri, e dietro appunto città vere, uomini e donne vere, rimpianti veri. Quindi una poesia che non è diretta solo a indagare e ad approfondire un discorso interiore, ma è rivolta anche ai “passanti”. Una lettura piacevole, disintossicante, tra i tanti accademismi e tante difficoltà.

Epigramma per me:

Dopo il bagno unica voluttà / giro svestita per casa. Fa caldo / coi termo che scottano e niente / mi dondola niente mi tremola in corpo. / Gli ossi affiorano scogli puntuti / a marea bassa. / Così in pelle sola / tiepida ed essenziale, puoi parlare / per me di nudità?

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 26 luglio 1978