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RECENSIONI

MARCHI

RAFFAELE MARCHI, DA GIOVANI SI MUORE COSÍ TANTE VOLTE

GATTOMERLINO, ROMA 2023

 

Raffaele Marchi (Ostiglia 1991), slavista e traduttore dal russo, ha pubblicato presso le edizioni romane Gattomerlino la raccolta di racconti Da giovani si muore così tante volte, titolo che suona un po’ come amara constatazione un po’ come memento rimproverante verso chi da tempo giovane non è più, e forse dimentica che non esistono età assolutamente felici. Sembra proprio la scontentezza di sé e del proprio ruolo sociale il leitmotiv del volume, insieme all’insoddisfazione lavorativa e all’alienazione determinata dal neocapitalismo, più ancora che l’infelicità personale dovuta a inquietudini, disagi o sofferenze interiori. Solitudine, mancanza di dialogo, rapporti affettivi precari, caratterizzano queste diciannove storie brevi, dal registro stilistico multiforme: si susseguono monologhi, dialoghi, meditazioni filosofiche e teologiche, commenti a fatti di cronaca, spesso scritti in prima persona, addirittura facendo parlare un pub “modestamente frequentato”, testimone afflitto dello squallido viavai degli avventori.

I protagonisti dei racconti appartengono in genere al ceto sociale più modesto: sono operai, commesse, insegnanti, impiegati, casalinghe, tutti frustrati e infiacchiti dalla routine quotidiana.  Il loro habitat è il condominio popolare, il bar del quartiere, il negozio alimentare. Manifestano indifferenza verso l’impegno civile, insieme a una generica ostilità per i detentori del potere: “una razza che sembra perennemente sul filo dell’estinzione, e poi non muore mai. Sempre un erede si trova”.

La realtà in cui questi personaggi si muovono appare come una recita imposta, una finzione in cui essi sono solo comparse, mai attori principali: “Sempre si finge. Somma due occhi ad altri due occhi e avrai un uguale infinito di bugie”. Poiché verità e giustizia rimangono utopie irrealizzabili, ci si rifugia nell’agnosticismo, nel disincanto o peggio, nello scherno: “Un altro mondo non c’è… Noi sappiamo d’esser qui, e pure che là non ci saremo”. Leggiamo nel susseguirsi delle pagine il monologo sospiroso di una cassiera del supermercato, che attende la fine del turno tra pazienza dovuta ai clienti e giustificabile irritazione; il dialogo di tre professori che durante la ricreazione conversano di tutto: guerre, capitalismo, poesia, d’accordo solo sulla capraggine insulsa degli allievi (“Bombe! Bombe! Andiamo a fare l’educazione col tritolo”). E ancora il rito del caffè mattutino raccontato da un misantropo cui pesa affacciarsi alla vita, o due amici musicisti “inseparabili, incicciati come sardine nella scatola”, in perenne litigio riguardo alle loro abilità di interpreti.

A riprova della versatilità dell’autore, troviamo anche alcune storie più intenerite, con un alone di romantica ingenuità che le rende particolarmente godibili. Come L’asprezza chiama sul labbro, in cui il giovane protagonista viene avvicinato da una donna anziana mentre sta raccogliendo le prugne su un albero in giardino, e le permette gentilmente di approfittare della stessa operazione per portarsi via un cestino ripieno di succosi frutti: solo dopo aver risposto a un serrato e importuno interrogatorio della vecchia sulle abitudini dei proprietari della casa, capisce di essere stato generoso con una ladra che cercava informazioni per poter rubare nell’abitazione. Oppure, nel bellissimo Storia senza una vera fine la descrizione puntuale della passeggiata di una coppia, “leonessa e babbuino”, scandita dalla diversa velocità dei passi, dei pensieri, degli sguardi, dei gesti, fino all’arrivo nel bilocale in cui abita e al sonno condiviso senza amore nello stesso letto.

Usando un linguaggio lineare e pacato, impreziosito da innovazioni lessicali, dialettismi e neologismi, Raffaele Marchi ci introduce in un mondo in cui la banalità del quotidiano affossa ogni speranza di riscatto, ogni illusione di cambiamento, riducendo i rapporti umani a uno scambio di contatti superficiali, a volte basati sull’inganno e lo sfruttamento, più spesso sull’apatia e la rassegnazione che contrassegnano il nostro “piccolo spettacolo del vivere”.

 

© Riproduzione riservata          SoloLibri.net            4 agosto 2023

 

RECENSIONI

MARCOALDI

FRANCO MARCOALDI, QUINTA STAGIONE – EINAUDI, TORINO 2020

Franco Marcoaldi (eclettico autore di versi e narrativa, di libri di viaggio, di testi teatrali, musicali e televisivi, e inoltre consulente editoriale e collaboratore de La Repubblica), ha da poco firmato per la Collezione di Poesia einaudiana il suo nono volume, un monologo drammatico in versi, intitolato Quinta stagione.

La stagione che si apre al poeta, alle soglie dei sessantacinque anni, è inedita, nuova, sconosciuta, si offre come generosa e vivace sorpresa: “tempo / indefinito, penoso e scriteriato / – sole nell’uragano, arcobaleno al buio, / sete dell’affogato”. Eccolo dunque sopraggiunto, il momento ineludibile e severamente censorio in cui si tirano le somme dell’esistenza intera, in cui eccesso di parole e afasia si rincorrono e sovrastano, resi entrambi urgenti dall’esigenza di giustificare o di sorvolare, come consiglia l’autore. Il teatro degli inganni che vede ogni essere umano protagonista della recita imposta dai copioni del vivere sociale, si trasforma in un teatro interiore, magari ugualmente confuso e cacofonico, ma perlomeno più assorto, e nelle aspirazioni, più sincero. “Ora però ti è offerta l’occasione / di raccoglierti e fermarti, / di osservare e di osservarti”.

Il poemetto, scandito in dodici sezioni, si distende in forme gradevolmente colloquiali, con una voce narrante e interrogante che interloquisce con altri invisibili personaggi, o con se stesso, in un vivace scambio delle parti, dove toni meditativi si alternano ad accenti più disinvolti e maliziosi, cadenze musicali a impostazioni più rigidamente prosastiche. Come succede in una conversazione telefonica, o in un informale incontro tra conoscenti, oppure – al contrario – in un ovattato confessionale, in un’equilibrata seduta psicanalitica. Quando a bassa voce si ammette che all’euforia spesso subentrano stanchezza e pesantezza, accorgendosi che “È tutto fuori asse, è tutto / fuori tempo”, perché dopo la primavera e l’estate vissute con entusiastica partecipazione, adesso ci si deve accontentare di un autunno piovoso, di un infreddolito inverno: “Ah, com’è difficile imparare / a tramontare”. Che se poi nel giorno dei morti o a Natale spuntano improvvise fioriture di rose, riprendono vigore pomodori rinsecchiti, ecco che lo scherzo fuori stagione assume le sembianze di una crudele provocazione.

Le metafore utilizzate da Marcoaldi nella sua riflessione sul tempo che scorre inesorabile, sull’età che avanza, appaiono al lettore curiose e leggere, svagate nella loro imprevista allusività (l’angelo spiumato, i bulloni allentati, il mantice affannoso della fisarmonica, la corona di perle sgranata…).

Negli excursus recriminatori sulla politica, la finanza, la burocrazia, l’inquinamento, l’onnipresenza onnivora dei media, e più in generale sugli uomini di potere e sugli ignavi che non si ribellano, l’autore rivela una sua natura di esasperato corrector morum, nauseato dall’oggi, risentito verso ieri, scettico sul domani. Il vortice di attività di successo in cui ha investito le proprie energie giovanili, e le aspirazioni della maturità, si manifesta nella sua fatua inconsistenza: “una sceneggiata / che ora scopro falsa e vuota”. Dei tanti amici persi per strada, dei postulanti soccorsi e ingrati, degli amori banali e molesti, rimane poco o niente: “E allora: davvero vuoi sapere / quante sono le creature / per le quali piangerò / lacrime sincere il giorno / della loro morte? Cinque, sei, sette. / Non di più”.

Riguardo al suo futuro individuale, e a quello che aspetta l’umanità tutta, Franco Marcoaldi mantiene scarse illusioni, in questa Quinta stagione: “Solo la danza e il canto ci possono aiutare”, “Ti prego, accontentati dei sensi, / accontentati dell’occhio”. Oltre la materia di cui siamo fatti, oltre la bellezza gratuita che ci viene quotidianamente offerta, e di cui spesso nemmeno ci accorgiamo, ci resta appena “la nostra comica e dolente // esistenziale passeggiata / nello spazio sublunare”.

Tra rassegnazione, malinconia e vaghissime attese, il poeta conclude il suo monologo in versi, in un teatro semi-deserto, davanti a un pubblico distratto, che non sa più applaudire.

 

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/Quinta-stagione-Marcoaldi.html                     13 ottobre 2020

 

 

 

RECENSIONI

MARI

MICHELE MARI, TU, SANGUINOSA INFANZIA – EINAUDI, TORINO 2009

«…basta che ci capiti in mano una nostra fotografia di quando avevamo sette o dieci anni per scioglierci di commozione come ulissidi che rivedan la patria, ecco chi sono gridiamo, quello lì sono, volevo ben dire, io sono sempre quello». E ancora: «Sentiva in profondo che se la vita è corruzione ed abiura, dovrebbe essere altissimamente morale contrapporre alla sua ruina il movimento contrario del riscatto, del disseppellimento affettuoso».

Il movimento contrario di Michele Mari, in questi splendidi undici racconti, è quindi non tanto il recupero dell’infanzia, quanto il rientro nell’infanzia, là dove tutto è iniziato e finito: «Non c’è stato molt’altro, nella vita. No, è quasi tutto laggiù». Sono le parole finali dell’ultimo capitolo del libro Tu, sanguinosa infanzia, in cui due vecchi si scambiano ricordi in un ospizio, nel 2030, ritrovando gli stessi incubi, fraintendimenti, incomprensioni, sadismi degli adulti che hanno traumatizzato il loro mondo bambino. Commozione, rabbia, nostalgia: ma anche affettuoso umorismo, simpatia indulgente. In una scrittura che sa unire magistralmente eleganza e ironia, acume psicologico e sensibilità formale, cultura eclettica e disarmata emotività.
Questo bambino ritrovato nella passione irrefrenabile per i libri di avventura, per i fumetti, per le copertina di Urania, coltiva un feticistico rapporto con il pensiero, con l’immaginazione; ma anche con un se stesso urticato, ferito da troppa intensità percettiva.
Ecco allora entusiastici incanti e trasalimenti di gratitudine, mescolati ad angosciosi sensi di colpa, di inadeguatezza: per un regalo inaspettato e forse immeritato, per un incontrollabile desiderio di vendetta, per un eccesso di pruderie snobistica.Gli ambienti e i caratteri sono descritti con acuta empatia, lo stile è curatissimo, l’aggettivazione lussureggiante e originale.
Sulle canzoni degli alpini ci siamo immagoniti tutti, nelle nostre infanzie sanguinose: grazie a chi ce lo ricorda con intenerita intelligenza.

 

© Riproduzione riservata

www.sololibri.net/Tu-sanguinosa-infanzia-Michele.html      8 gennaio 2016

RECENSIONI

MARI

MICHELE MARI, ROSSO FLOYD – EINAUDI, TORINO 2015

Stupisce sempre constatare come Michele Mari, forse il più eclettico dei nostri scrittori, riesca a cambiare registro ad ogni libro, dall’aulico baroccheggiante all’ironico-sarcastico, dall’elegiaco intenerito al cronachistico, dal robustamente narrativo al più disinvoltamente spumeggiante. E non si limita a dominare sempre con estrema eleganza i vari stili, bensì affronta anche temi e contenuti diversi nella sostanza, nelle epoche, nei luoghi e ambienti.
Così, leggendolo tutto, siamo trasportati dalla Recanati leopardiana dell’ottocento alla sua infanzia milanese degli anni ’60, dalla nostalgia degli amori liceali alla Londra dickensiana di due secoli fa.
In questo Rosso Floyd (Einaudi, 2015), la storia dei Pink Floyd viene ripercorsa dagli esordi, quando il gruppo si compose nel suo nucleo originario, attribuendosi inizialmente i nomi più stravaganti e insostenibili, fino all’ultimo disco e concerto: seguendone destini e defezioni, trionfi e tradimenti. E l’originalità di questa operazione consiste nell’aver dato voce a una moltitudine di personaggi, veri e immaginari, intrecciando insieme episodi reali ad altri di fantasia: recuperando notizie, testimonianze, aneddoti, pettegolezzi, invenzioni e leggende metropolitane.
Ne esce un quadro convincente e vivace di anni che hanno rivoluzionato la musica, la moda, le ideologie, la morale del mondo intero. Fu la colonna dei PF ad accompagnare lo sbarco sulla luna nel 69, fu il loro concerto a Venezia vent’anni dopo a sconvolgere la nostra politica nazionale: contesi e rifiutati da Antonioni, da Kubrick; un loro LP rimase in classifica per 18 anni; costruirono spettacoli megagalattici; imposero copertine che fecero epoca. E soffrirono esiliando la pazzia geniale di Syd Barrett, sopravvivendo all’allontanamento di Roger Waters: «Quando tutto è rosa non si distinguono bene i contorni degli oggetti, quando tutto è fluido le forme evolvono l’una nell’altra e quello che fino a un attimo prima era vero diventa falso. E il falso diventa vero…»

 

© Riproduzione riservata      www.sololibri.net/Rosso-Floyd-Michele-Mari.html      1 febbraio 2016

RECENSIONI

MARI

 MICHELE MARI, EURIDICE AVEVA UN CANE – EINAUDI, TORINO 2015

I diciotto racconti di Michele Mari recentemente riproposti da Einaudi avevano già conosciuto un notevole successo nel 1993, al momento della prima edizione presso Bompiani. Mari è oggi considerato fra i maggiori scrittori italiani, tra i più originali e inventivi; forse addirittura il più sfrontatamente e polemicamente coraggioso. Il suo linguaggio arcaicizzante -al limite del manierismo-, imbevuto di letterarietà (colto, allusivo, spiazzante), lo situa nella scia di pochi altri grandi scrittori del nostro 900: Gadda, Landolfi, Manganelli. Il racconto che dà il titolo al volume (Euridice aveva un cane) è forse l’unico che si dipana in maniera più tradizionale, narrando delle vacanze estive del giovane protagonista nella casa dei nonni al paese di Scalna, e del suo perpetuo e tormentato rapporto con i vicini: chiassosi, spavaldamente ignoranti e lietamente burini, pertanto in soddisfatto connubio con l’ideologia dominante del tempo e dei luoghi. Michele invece, giovane intellettuale solitario e rabbioso, riesce a sopportare solo la frequentazione dell’anziana signora Flora, del suo cane Tabù e della loro vecchia casa («credo che tranne le lampadine non ci fosse un solo oggetto posteriore alla guerra»).

Questo rifiuto elitario del mondo adulto, ritenuto ottuso ed eticamente ingiustificabile, si ritrova in altri capitoli del libro, e si ripropone quasi come un topos in tutta la narrativa di Mari. Ad esempio, nel primo splendido racconto, I palloni del signor Kurz, in cui gli allievi di un collegio maschile combattono le loro velleitarie partite di calcio contro un diabolico vicino che puntualmente si impossessa dei loro palloni sconfinati nel suo giardino. Oppure ancora in Cicoria matta, dove un imbranato Giovannino è ossessionato dall’idea di scoprire quale misteriosa e affascinante «essa» si celi sotto la gonna della matta del paese. E ne Il volto delle cose troviamo un bambino obeso e sbeffeggiato che medita sul brutto voto impartitogli dal «maestro stizzito», e si incupisce osservando il volgare grigiore del mondo intorno a lui (due paginette di esibita maestria letteraria!).

C’è poi un altro tema che affiora continuamente dalla scrittura di Michele Mari: una sorta di corteggiamento della morte, un cupio dissolvi in atmosfere da incubo, l’angoscia del dissolvimento o dell’imputridimento di oggetti e corpi, tenuto a bada sempre con un’ironia sferzante, un sarcasmo acuto e doloroso. Ne sono esempio i racconti  In virtù della mostruosa intensità,  Tutto il dolore del mondo, Tutti vivemmo a stento, L’ora di Carrasco, La serietà della serie, La legnaia, in cui i personaggi lottano contro i loro fantasmi mentali o contro la prevaricazione violenta e meschina di chi li circonda. Il lettore rimane annichilito da alcune soluzioni finali inaspettate, imprevedibili, e perciò tanto più corrosive e divertenti, e legge ammirato la ricostruzione -tutta in esilarante dialetto romanesco-della leggenda di Romolo e Remo (Li fratelli mia); può sentirsi anche irritato dall’ostentata e tracotante misantropia dell’autore (di nuovo Gadda e Landolfi, ma anche Thomas Bernhard), che con supponenza definisce il weekend «il dittico festo ove starnazza sovrana la massa», o dal suo nevrotico personaggio che cerca affannosamente in un cinema l’unico posto che lo preservi da qualsiasi disturbante presenza umana. Ma come non riconoscere l’eccezionalità della scrittura di Mari in brani come questo: «vede un mondo sporco fatto di brutte facce presuntuose di persone ingrugnate, vede i luridi marciapiedi pieni di vomitevoli scaracchi giallastri e di volitanti cartigli e di cicche schiacciate intese sia come mozziconi fumati sia come chewing-gum salivosi sputati, vede il chiarore grigiastro del cielo piovoso, piovigginoso o piovorno specchiarsi nelle pozze fangose…»

Se si diceva che alcuni antichi rabbini amassero la Torah più di Dio, così potremmo dire che Michele Mari ami la letteratura più della realtà. Ma questo deve considerarsi un difetto in un grande scrittore?

 

«incroci on line», 8 maggio 2016

 

 

 

RECENSIONI

MARIANELLI

MARIANELLO MARIANELLI, VEDERE O NON VEDERE – AKTIS, PISA 1992

Viviamo nella civiltà dell’immagine: vedere e essere visti ci rassicura sulla realtà della nostra stessa esistenza; protagonista attivo o passivo dell’accadere, offuscato dall’indistinto o abbagliato dall’eccesso, è lo sguardo il più vitale e sfruttato dei cinque sensi. Per Marianello Marianelli, germanista di fama, recensore per La Nazione e scrittore in proprio, lo shakespeariano “Essere o non essere” si ripropone in un più probabile e veritiero Vedere o non vedere, dove l’azione dell’occhio è sinonimo e garanzia di un rapporto autentico con il reale, di una penetrazione che è anche possesso. Vedere come acquisizione di coscienza, ma insieme condanna alla consapevolezza e alla disillusione; non vedere come cecità, incapacità ad agire, morte civile, ma insieme libertà di sogno e, perché no?, di errore. I quattro racconti che Marianelli raduna sotto il titolo, appunto, di Vedere o non vedere, definiti dall’autore «meditazioni narrative», vengono accomunati tutti in qualche modo dalla riflessione sui drammatici vantaggi (agiti o patiti) dell’osservazione. Secondo modalità già sperimentate nei suoi ultimi volumi di racconti, l’autore si inventa un quotidiano impastato di futuro, con avveniristiche striature di fantascienza: nella prima storia, ad esempio, immagina una clinica – che ha la spietata efficienza di un lager – in cui la gente può registrare in cassetta, e poi visionare secondo rigidissime clausole, i propri sogni. Pazienti in cui tutti potremmo riconoscerci, frequentano la clinica in preda ai desideri più inconfessabili, pazzi di rimpianti o gelosia, drogati da un onirismo fasullo, da una visionarietà artificiosa. Così uno scrittore famoso rinuncia a inventare ulteriori trame narrative perché trova più rapido, comodo e redditizio produrre, registrare e mettere in commercio i suoi sogni, commentati da critici in delirio e acquistati da un pubblico ignorante. Anche gli animali sognano, con una ingenuità e una poesia che li rivela molto migliori dei loro padroni. Se è difficile difendere i sogni della gente (il direttore della clinica verrà infatti ricattato, lusingato, spiato, minacciato e alla fine distrutto materialmente insieme alla sua creatura), ancora più problematico è difendere la gente dai suoi sogni, tirannici e crudeli divulgatori delle miserie morali di ognuno. Nel secondo racconto, ambientato a Pisa, un’inspiegabile malattia o fattura condanna Piazza dei Miracoli a una progressiva e irrimediabile autoriduzione. I monumenti rimpiccioliscono, sembrano voler ritirarsi in se stessi, e il mondo scientifico impazzisce nel tentativo di individuarne cause e rimedi. Sarà un semplice ingegnere poco “coltivato” a scoprire la natura di questa stregoneria: i monumenti rimpiccioliscono relativamente alla frequenza con cui vengono fotografati o filmati, si dimostrano allergici alla scienza e al progresso, pretendono che li si guardi come li si è guardati per secoli, con fede e stupore ammirato, con l’indugio paziente che meritano i capolavori, in silenzio. Ancora il silenzio è il protagonista per negazione dell’ultimo racconto, ambientato in un’ aldilà particolare, ridotto all’esistenza di sole voci, a una vita eterna fatta di parole. I profumi, la musica, le visioni di ogni genere possono essere solamente raccontate da voci «beate e sospese», più o meno fioche, più o meno convinte. Se all’inizio era il Logos, Marianelli suppone che anche alla fine unica superstite rimanga la parola, e a lei venga demandata la responsabilità di creare o annullare qualsiasi parvenza di realtà. Nel più breve e delicato dei quattro momenti narrativi, Marianelli riesce forse a raggiungere con naturale eleganza e fluidità il più alto dei suoi esiti, amalgamando al meglio (come suggerisce sapientemente Giampaolo Rugarli nella prefazione) «quotidiano e meraviglioso». Il suono esile di un flauto si insinua nella mente dell’autore ad avvisarlo dell’imminenza di un evento triste: una morte, un allontanamento, un addio.

Marianelli ha una scorza rude, scontrosa e talvolta pungente, che non ama essere sbucciata, ma che qua e là si scortica con ritrosia, rivelando, tenerissima e incantata, la polpa dolce di un frutto ignorato dai più.

 

«L’Arena», 8 ottobre 1992

RECENSIONI

MARIANELLI

MARIANELLO MARIANELLI, IL FANTASMA DI CHIANCIANO / UNA CASA DI PAROLE
GIARDINI, PISA 1987

Marianello Marianelli, germanista, direttore di istituti italiani di cultura in Germania, professore di letteratura tedesca all’Università di Pisa e collaboratore de La Nazione, ha mantenuto segreta, in tanti anni di fedele devozione alle lettere teutoniche, una sua seconda, robusta pelle di narratore in proprio: soffocando (per discrezione, per pudore, o in rispettoso omaggio al senso “alto” dello scrivere) una voce che – tra le tante spudorate pronte a gracchiare il loro niente – a ragione avrebbe potuto rivelare i suoi ricchi e diversi timbri. Recentemente, presso l’editore Giardini di Pisa, Marianelli ha raccolto in due volumi racconti e articoli scritti nell’arco di un quarantennio, e via via più assiduamente in quest’ultimo periodo, libero dall’attività accademica. Il fantasma di Chianciano raccoglie tredici storie, definite dall’autore stesso «disincantate», probabilmente perché non concedono alcuna residua illusione sul senso di questo nostro vivere, incapace di qualche riscatto che ne travalichi il puro accadere. Ma il disincanto appartiene anche allo stile, impersonale, fattuale, tendente a livellare in una indifferente intercambiabilità i personaggi e le loro vicende, e a personalizzare gli oggetti, a concretizzare immagini e pensieri. Così, sono le camicie esposte in un grande magazzino a scegliersi i clienti, e sono i numeri nati dalla mente di un matematico che gli scandiscono il tempo da dedicare all’amore, fino a impedirgli ogni abbandono; gli occhi di un radiologo vedono attraverso le cose, i corpi; il Mar Tirreno improvvisamente registra e diffonde amplificate tutte le voci e i discorsi che si sono sciolti tra le sue onde; un fantasma turba la villeggiatura degli ospiti di Chianciano, visualizzazione del loro represso collettivo; i fiori di Amburgo improvvisano un’insurrezione, ribellandosi all’ipocrisia di chi li vuole messaggeri d’amore in un mondo senza amore. Soprattutto nell’ultimo racconto, Una donna è una donna, Marianelli riesce a incantare disincantando, quando narra del trapianto del cervello di una popolana nel corpo di un’aristocratica, dello straniamento che ne deriva alla sopravvissuta e del tragico imbarazzo che la situazione suscita tra i parenti delle due donne: tutto ciò in uno stile asciutto e veloce, che molto offre alla dimensione visiva della narrazione, e poco o niente alla retorica di una lettura sentimentale. Il secondo volume, Una casa di parole, riunisce, per un immaginario album di famiglia e società, una quarantina di prose in cui Marianelli tratteggia «le parti che ha via via recitate dalla guerra a oggi», ripiegando – anziché sulle immagini – sulle parole, «le vere sconfitte del nostro tempo». Parole semplici e pesanti come mattoni, per costruire una casa più solida dell’investimento in muratura. Parole che ritraggono persone o cose «assai care, care nel solito doppio senso di amate e pagate care». Come la figlia Lia, presenza assidua e pungente in tutto il volume: la lunga e incrollabile fedeltà a Lia è testimoniata da dichiarazioni d’amore stupefatto e stupefacente nel memoriale dedicato alla figlia duenne; nelle pagine intenerite e amareggiate dalla crudeltà incosciente della ragazzina che nega al padre un ballo, preferendogli le attenzioni di insipidi giovanetti, o dalla spavalda contestazione della studentessa sessantottina; nell’ultimo Happy Day in cui la figlia ormai preside rende omaggio al genitore con un saggio canoro degli alunni. Questo destino di padre, amato e patito con un’adesione che si suppone addirittura maggiore di quella che accompagna qualsiasi altro ruolo, o dovere, si esalta nella prosa fino a raggiungere un lirismo da scandire in versi: «Ora che sei venuta, scalpita il cavallo rosso del mio sangue, ti tengo su una mano come il mio falcone impaziente dei miei paesi». La paternità si esprime attraverso la morbosità e l’ansia di possesso che siamo abituati a ritrovare nella consapevolezza di essere madre: «Io conosco tutto di te…sapevo il tuo viso prima di creartelo…in te si sazia la mia poca sete di eternità». Ma decine sono le “foto di famiglia” da appendere, da non lasciare ingiallite tra i ricordi privati e pubblici di scarsa comunicabilità. Marianelli figlio che assiste alla riesumazione delle ossa dei suoi genitori, e se li porta in braccio, così, in due cassette di alluminio, a fare un giro in macchina. Marianelli nonno che prepara un presepe al nipotino e osserva sconfitto e complice la trasformazione moderna dello scenario natalizio in un Parking-Center in miniatura. Marianelli scrittore civile che non si vergogna di essere tale, scabro nella commozione e alto nello sdegno: per una Sardegna amata-odiata in guerra, per una Germania compatita e detestata nel dopoguerra. Per parafrasare uno dei racconti più belli, in cui l’autore bambino inciampa in un invisibile filo d’acciaio, che lo ferisce a tradimento, potremmo definire i racconti di Una casa di parole come trame di fili che incidono, che lasciano un segno. Anche se il lettore che corre tra di loro, commosso, divertito, finge di non accorgersene.

 

«Agorà» (Svizzera), 3 marzo 1988

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MARIN

BIAGIO MARIN, POESIE – GARZANTI, MILANO 2017

Il volume che Garzanti ha dedicato a Biagio Marin raccoglie un’ampia scelta delle sue poesie, e una serie di contributi critici dei maggiori letterati italiani del ’900: Carlo Bo, Pier Paolo Pasolini, Andrea Zanzotto, Pier Vincenzo Mengaldo, Massimo Cacciari, e dei curatori Edda Serra e Claudio Magris. Secondo quest’ultimo «Il canzoniere di Marin ha la continuità del diario e il respiro dell’eternità: pervaso da un umanissimo senso del sacro e da un’illuminante percezione del cosmo, tocca con limpida e serena naturalezza apici di profondità metafisica».

Biagio Marin (Grado 1891-1985), figlio di un oste, presto orfano di madre, fu allevato dalla nonna paterna. Studiò a Gorizia nel ginnasio di lingua tedesca, quindi alle Scuole Reali Superiori a Pisino (Istria), allora sotto l’Impero Asburgico. Ventenne si trasferì a Firenze, frequentando l’ambiente letterario della “Voce” di Prezzolini, tra scrittori giuliani come lui (Slataper, Stuparich, Saba, Giotti), e altri importanti intellettuali dell’epoca. Approfondì gli studi filosofici e artistici a Vienna, quindi rientrato a Firenze si sposò con Pina Marini, da cui ebbe quattro figli. Al termine della guerra, che lo aveva visto arruolarsi nonostante fosse malato di tubercolosi, si laureò a Roma in filosofia, e in seguito ottenne vari incarichi scolastici e amministrativi in tutto il Friuli Venezia Giulia. Nel 1968 si stabilì nuovamente a Grado, dove rimase fino alla morte. Dal 1912 pubblicò diverse raccolte di versi, quasi tutte in dialetto gradese: i suoi libri più noti furono Elegie istriane (1963), El mar de l’eterno (1967), I canti de l’isola (1970), La vita xe fiama (1972), In memoria (1978), Nel silenzio più teso (1980), La vose de la sera (1985).

Della poesia di Marin tutti i commentatori hanno sottolineato come prima dote la purezza, una sorta di illuminazione disincarnata, che la rende semplice, umanissima e naturale, costantemente uguale a sé stessa dagli anni giovanili alla vecchiaia. Pasolini scrisse che «le poesie di Biagio Marin sono in definitiva la stessa poesia più o meno vicina alla fonte luminosa (accecante) in cui si forma». L’accusa di monotonia che alcuni hanno rivolto ai suoi versi dipende forse dal fatto che in essi non esistono narrazioni vivaci di eventi, e non c’è traccia di dramma: i personaggi descritti sono poco più che comparse sullo sfondo di una modalità poetica che si nutre esclusivamente di una pulitissima e inalterabile musicalità («solo musica fasso: in ela vivo»). Eppure l’uomo aveva conosciuto tribolazioni, miseria e tragedie, come la morte dell’unico figlio maschio in guerra, e il suicidio di un nipote molto amato: ma era nella dedizione quotidiana alla scrittura, nel «diario sterminato» (C. Bo) in cui ogni giorno appuntava i suoi versi che aveva saputo trovare un’ancora di salvezza: «Màseno versi in ogni ora / comò che fa ’l mulin co’l gran». Non era, la sua, una produzione a-storica, indifferente al rumore del mondo e alle sue sofferenze e ingiustizie, e non era nemmeno un ricorso consolatorio all’idillio: se fedi e ideologie gli rimanevano sostanzialmente estranee, l’unica voce che riteneva doveroso ascoltare era proprio quella, empatica e meravigliata, dell’ispirazione poetica. «Quanto più moro / presenza / al mondo intermitente / e luse che se spenze, de ponente / tanto più de la vita m’inamoro. / E del sol rîe che fa fiurî l’avril / e del miel che l’ha in boca, / la prima neve che za fioca / sia pur lenta e zentil».

Priva di varianti e novità, iterativa in una sua finitezza innocente, anteriore addirittura alla creazione del mondo, la poesia di Marin tende a un continuo slancio verso un altrove, verso un infinito che può essere sia la distesa equorea sia il cielo: tutto azzurro o bianco, tutto limpido, silenziosa e rasserenante promessa di felicità. Utilizzando in maniera reiterata un lessico limitato, sfruttando ossessivamente le rime, fa del microcosmo gradese un universo privo di confini spazio-temporali. E la sua Grado si identifica completamente con il mare, prima fonte di ispirazione e di nutrimento, quasi metafora di madre accogliente e protettiva. Nel 1980, in una sorta di confessione letteraria, affermava: «Il mare è stato per me la più pura parola dell’Alterità e la più immediata incarnazione della Divinità. Il cielo, e soprattutto il firmamento, certo, era anche lui parola divina, ma il mare era qualcosa di più. È come l’aria che permette il respiro. Il mare lo vedevo e non solo lo vedevo, ma in esso mi tuffavo, conoscevo i suoi capricci, le sue bellezze le ore meravigliose di “soio” e le ore di tempesta, alla sua vita partecipavo… Proprio lì, dentro il mio mare ho avuto la prima, più semplice rivelazione della presenza di Dio».

«Mar queto mar calmo / no’ vogie no’ brame / respiro de salmo / tra dossi e tra lame»; «La breve riva / spalanca el mar grando: / de quando in quando / ariva un’ola più viva, co’ ‘nbriva»; «E ‘ndéveno cussì le vele al vento / lassando drìo de noltri una gran ssia, / co’ l’ánema in t’i vogi e ‘l cuor contento / sensa pinsieri de manincunia»; «El vento za se placa / e la risaca / ariva in saca / ma lenta e straca. // El can del cuor nol bagia / e la passion la tase / el mar stesso nol ragia: / dal siel cala la pase. // Pase me vogio granda / via dei travagi de la tera, / lontan da la bufera / che a pico el bastimento manda».

L’ingenuità espressiva di Marin, lontana da ogni sperimentalismo e intellettualismo, non è affettata; deriva da una «adesione dal basso all’ambiente» (A. Zanzotto): «No son sapiente / e sé poche parole: / le sole / che adopera la zente»; «Trasparensa e durata: / questa la gno ilusion, / questa l’aspirassion / che nel cuor se dilata». Così aveva tentato di spiegare la propria vocazione letteraria: «Dove, quando, come queste liriche si formino, non lo so. Io solo le trascrivo e a volte rapidissimamente, e di rado mi avviene di dover apportare modifiche… La poesia non è costruzione intellettuale, fatto di volontà e di disciplina. Io, molte volte tra la veglia e il sonno, vedo in me molte poesie che poi lascio andare perché mi secca svegliarmi, ma altre volte in due minuti fisso nella carta la poesia che ho già trovato in me».

Poesia sorgiva, quindi, mai adulterata da intenzioni o tentazioni extra-testuali, e via via nel tempo sempre depurata da ogni materialità, tesa a un’astrazione capace di far coincidere «trasparenza assoluta e brama di vivere» (C. Magris), come esemplificano questi versi: «Me son contento d’êsse nato / de longo tenpo d’êsse su la tera, / dopo tanto dolor e tanta guera / son incora beato. // Tanto hè godúo la luse, el sol; / le musiche dei vinti in duti i sieli, / el cantusâ su l’alba dei noveli / e perfin el tramonto che me duol». Tale ribadita estraneità a mode e corruttivi attualismi viene attribuita dai due curatori del volume, Edda Serra e Claudio Magris, all’uso particolarissimo che Marin fa del dialetto: lingua di una tradizione reinventata, che non dà voce a un localismo pittoresco, ma dilata e fluidifica il vocabolario italiano in una musicalità morbida e armoniosa, appoggiata al prevalere delle vocali e alla facilità delle rime, in un ritmo cadenzato che volutamente sembra riecheggiare il moto ondoso del mare.

 

© Riproduzione riservata         «Nazione Indiana», 26 settembre 2018

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MARINETTI

FILIPPO TOMMASO MARINETTI, UCCIDIAMO IL CHIARO DI LUNA! – STREETLIB, 2019 (ebook)

Il chiaro di luna riveste, nell’immaginario collettivo, lo sfondo ideale di ogni espressione sentimentale, dalle dichiarazioni d’amore alla nostalgia intenerita per ciò che è perduto, fino alla vaghezza idilliaca offerta da un paesaggio naturale. Magari accompagnato dalle note della celebre sonata beethoveniana, risulta anche essere il simbolo più trito e retorico di un certo romanticismo languido e sognante, a lungo sfruttato in poesia, nell’arte, nel cinema. Naturale, quindi, che il rivoluzionario fondatore del futurismo Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), esaltatore del progresso, della velocità, della guerra e della fisicità, abbia voluto chiamare Uccidiamo il chiaro di luna! un suo provocatorio pamphlet del 1912, il cui titolo è diventato la parola d’ordine del movimento futurista e della sua ansia innovatrice contro ogni tradizione, politica e letteraria. Già le frasi iniziali del breve saggio indicano l’esaltazione con cui Marinetti intendeva spronare i suoi compagni alla ribellione contro gli amorfi interpreti del pacifismo, del neutralismo e della classicità artistica, definiti Paralisi, Podagra, gregge puzzolente, insetti, cimici, lebbra schifosa, pesce ammucchiato, lugubri formiche della saggezza, code di pavoni, pomposi galli di banderuole, leziosi fazzoletti profumati:

“Olà! grandi poeti incendiari, fratelli miei futuristi! … Usciamo da Paralisi, devastiamo Podagra e stendiamo il gran Binario militare sui fianchi del Goriankar, vetta del mondo! … Turbini di polvere aggressiva; accecante fusione di zolfo, di potassa e di silicati per le vetrate dell’Ideale! …Fusione d’un nuovo globo solare che presto vedremo risplendere! —Vigliacchi! — gridai, voltandomi verso gli abitanti di Paralisi, ammucchiati sotto di noi, massa enorme di obici irritati, già pronti per i nostri futuri cannoni. «Vigliacchi! Vigliacchi! …Perché queste vostre strida di gatti scorticati vivi? … Per ora, ci accontentiamo di far saltare in aria tutte le tradizioni, come ponti fradici! …La guerra? … Ebbene, sì: essa è la nostra unica speranza, la nostra ragione di vivere, la nostra sola volontà! …Sì, la guerra! Contro di voi, che morite troppo lentamente, e contro tutti i morti che ingombrano le nostre strade!”

Il grido di battaglia chiama a raccolta “pazzi e pazze, scamiciati, seminudi”, decisi a “ringiovanire il volto rugoso della Terra”, ruggenti e famelici come leoni che “erette le code, sparse al vento le criniere, foravano il cielo nero e profondo”. E se nel cielo splende “la Luna carnale, la Luna dalle belle cosce calde”, ecco che dalle turbe animose dei combattenti “si udì gridare nella solitudine aerea degli altipiani: — Uccidiamo il chiaro di luna!”, simbolo di languore imbelle e sdolcinato. “Fu così che trecento lune elettriche cancellarono coi loro raggi di gesso abbagliante l’antica regina verde degli amori”. Luce elettrica contro i bagliori del satellite pallido, mitragliatrici contro le arrugginite baionette, aeroplani contro la vecchia cavalleria. “Facciamoci dunque degli aeroplani! — Saranno azzurri! — gridarono i pazzi — azzurri, per sottrarci meglio agli sguardi del nemico, e per confonderci con l’azzurro dèi cielo …È nostra, la vittoria …ne sono sicuro, poiché i pazzi lanciano già al cielo i loro cuori, come bombe! Attenti! …Fuoco! …Il nostro sangue? …Sì! Tutto il nostro sangue, a fiotti, per ricolorare le aurore ammalate della Terra!”

Ma, cent’anni dopo la furiosa battaglia marinettiana, la graziosa e silenziosa luna leopardiana continua a illuminarci: gentile, paziente. Per nostra fortuna.

 

© Riproduzione riservata      13 dicembre 2019

https://www.sololibri.net/Uccidiamo-il-chiaro-di-luna-Marinetti.html

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MARINO

FRANCESCO MARIA MARINO, LA LINGUA NON HA OSSA MA LE ROMPE – TAU, TODI 2024

Due noti docenti universitari, i Monsignori Stefano Guarinelli e Dario Viganò, si sono occupati nel 2014 e nel 2016 della maldicenza come piaga devastante del vivere civile, in due volumi dal titolo molto espressivo: La gente mormora e Il brusio del pettegolo, rispettivamente per le edizioni San Paolo e Dehoniane. Qualche mese fa anche Tau, altra casa editrice cattolica con sede a Todi, ha pubblicato un agile libro di Padre Francesco Maria Marino, dal titolo ancora più esplicito dei due citati: La lingua non ha ossa ma le rompe, e con un sottotitolo più ponderato (I peccati di lingua tra spiritualità e psicologia).

La cultura religiosa si rivela dunque particolarmente sensibile ai vizi della diffamazione e della calunnia, che in più di un’occasione pubblica sono stati stigmatizzati da Papa Francesco, con una severa deplorazione del “terrorismo delle chiacchiere”: «Su questo punto, non c’è posto per le sfumature: se parli male del fratello uccidi il fratello. E, ogni volta che facciamo questo, imitiamo il gesto di Caino, il primo omicida».

Il testo di Padre Marino, dalle finalità esplicitamente ammonitrici, esortative e didattiche, si apre con un interessante excursus storico concernente il trattato del XIII secolo Summa virtutum e vitiorum, composto dal frate domenicano Guglielmo Peraldo, in cui venivano dettagliatamente illustrati, utilizzando numerose citazioni bibliche e patristiche, 24 peccati commessi con la lingua, 18 valide ragioni per evitarli e 8 rimedi per tacitarli per sempre.

Mormorazione e maldicenza sono le prime gravi colpe di cui ci si macchia usando parole ostili nei confronti del prossimo: la prima sussurrata di nascosto, esprimendo giudizi negativi, inventando situazioni false, manipolando o ingigantendo fatti riportati da altri, creando complicità e consenso in chi ascolta e diffonde il sentito dire. La maldicenza è invece un’abitudine più aperta e sfrontata, spesso motivata dalla volontà di contestare l’autorità e le istituzioni, o per provocare l’esclusione e l’eliminazione di un antagonista scomodo.

Entrambi questi vizi sono ricorrenti in tutti i consessi umani: famiglie, scuole, luoghi di lavoro, comunità religiose e non. Riescono ad avvelenare l’ambiente sociale minando le relazioni, creando un clima di sfiducia e di sospetto, distruggendo rapporti coniugali e di amicizia. Esempi di questo uso malevolo della parola si trovano anche nei testi sacri, con la riprovazione espressa sia nell’Antico che nel Nuovo Testamento. Il monaco del deserto Arsenio (IV secolo) suggeriva un antidoto a tale pratica di alterazione della verità: fuge, tace, quiesce, raccomandando riservatezza, silenzio e serenità d’animo.

L’attuale perdita di una cultura della conversazione appropriata, amichevole, rispettosa degli altri (nei colloqui personali, sulla stampa e nei programmi televisivi) lascia prevalere la volgarità e l’inutilità dei discorsi, determinati dalla mancanza di ascolto e di attenzione, dalla disaffezione al silenzio, dall’assenza di pensiero critico che conduce l’intervento verbale a uno scollamento dalla realtà, con la predilezione per il messaggio vuoto, di circostanza, o addirittura sfrontato e offensivo. Nei rapporti con gli altri prevalgono il sospetto e il giudizio negativo, la condanna a priori e il rifiuto, spesso indotti da un complesso che può essere sia di saccente superiorità, sia di frustrante inferiorità.

Ma quando il malanimo e la maldicenza arrivano a trasformarsi in calunnia, ecco che odio, invidia e gelosia distruggono la reputazione di singoli individui, di famiglie, di intere collettività. Le parole possono guarire e uccidere. Siamo responsabili di quello che diciamo e di come lo diciamo: «Osservate: un piccolo fuoco può incendiare una grande foresta!» (Gc 3, 3-5), pertanto dobbiamo sorvegliare il nostro parlare, e i sentimenti che lo influenzano: «ciò che esce dalla bocca proviene dal cuore. Questo rende impuro l’uomo. Dal cuore, infatti, provengono propositi malvagi, omicidi, adultèri, impurità, furti, false testimonianze, calunnie» (Mt 15, 18-19).

Ancora Papa Francesco, nell’esortazione apostolica Amoris Laetitia del 2016 ricordava: «La Parola di Dio ci chiede: “Non sparlate gli uni degli altri, fratelli” (Gc 4,11). Soffermarsi a danneggiare l’immagine dell’altro è un modo per rafforzare la propria, per scaricare i rancori e le invidie senza fare caso al danno che causiamo. Molte volte si dimentica che la diffamazione può essere un grande peccato, una seria offesa a Dio, quando colpisce gravemente la buona fama degli altri procurando loro dei danni molto difficili da riparare».

Inoltre, la calunnia può diventare, in un’epoca come la nostra dominata dalla fake news, un’arma diabolica, elaborata dagli interessi di vari centri di potere, attraverso abili tecniche pubblicitarie o sottili operazioni propagandistiche, con il fine di creare non solo un consenso di massa ideologico e culturale, ma addirittura di orientare i valori morali, i gusti e le opinioni delle persone, deprivate del diritto di critica, di verifica e persuase all’obbedienza più facile e conformista.

Le indicazioni cristiane suggerite da Padre Marino per contrastare le falsità della comunicazione hanno alle spalle una tradizione millenaria di raccoglimento interiore: silenzio, canto, digiuno, preghiera. Ed è appunto con una preghiera che l’autore chiude ogni capitolo del libro, fino alle Litanie dell’umiltà riportate in Appendice. Proprio all’umiltà si invita il calunniato, suggerendogli di dominare il desiderio di rivalsa e di vendetta con un uso intelligente dell’umorismo che insegna a demitizzare se stessi e gli altri, e con la generosità del perdono così difficile da mettere in pratica. Senza tuttavia dimenticare che calunnia e diffamazione sono reati iscritti nel nostro Codice Penale (Art. 368 e 595), e che lo stesso Gesù così ammoniva: «Ma io vi dico che di ogni parola infondata gli uomini renderanno conto nel giorno del giudizio; poiché in base alle tue parole sarai giustificato e in base alle tue parole sarai condannato» (Matteo 12,36).

 

© Riproduzione riservata       «La Poesia e lo Spirito», 5 novembre 2024