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RECENSIONI

MENICANTI

DARIA MENICANTI, IL CONCERTO DEL GRILLO – MIMESIS, MILANO 2013

L’opera  completa di Daria Menicanti (con tutte le poesie inedite, diverse prose, una ricca bibliografia e una scelta di ritratti fotografici), pubblicata da Mimesis nel 2013, è arrivata dieci anni fa a colmare un vuoto, assolvendo al dovere intellettuale di presentare al pubblico italiano la pregevole produzione di un’autrice schiva e immeritatamente trascurata dalla critica, fatta eccezione per alcuni importanti nomi di letterati che se ne erano occupati negli anni ’60, agli esordi della sua attività (Sergio Solmi, Vittorio Sereni, Lalla Romano). Il corposo volume di oltre ottocento pagine, intitolato Il concerto del grillo, è introdotto da due appassionati saggi di Fabio Minazzi e Silvio Raffo, e da un’affettuosa nota di Brigida Bonghi, che si è occupata della trascrizione e digitalizzazione di tutto il materiale raccolto.

Daria Menicanti è nata a Piacenza nel 1914, sesta figlia di un bancario toscano antifascista e di una maestra fiumana, e dopo frequenti trasferimenti a seguito della famiglia si è stabilita a Milano, dove ha trascorso la maggior parte della vita, insegnando e occupandosi di traduzioni, soprattutto dall’inglese. Laureatasi in Estetica su John Keats, è stata sposata con il filosofo Giulio Preti dal 1937 al 1954, in un’unione burrascosa ma vitale e reciprocamente arricchente. Insieme, i due coniugi facevano parte della cosiddetta “Scuola di Milano”, animata e promossa dal pensatore razionalista Antonio Banfi, che riuniva personalità di rilievo come Enzo Paci, Remo Cantoni, Dino Formaggio, Luciano Anceschi, Luigi Rognoni, Vittorio Sereni, Antonia Pozzi, Maria Corti, insieme a molti altri poeti e intellettuali. Cresciuta in questo stimolante ambiente culturale, Daria Menicanti approfondì lo studio di letterati e filosofi internazionali, iniziando a pubblicare i propri lavori piuttosto tardi, in seguito alla separazione dal marito, dopo aver recuperato un’autonomia creativa personale prima trattenuta.

I primi tre volumi di versi uscirono da Mondadori tra il 1964 e il 1978, sotto l’egida e l’affettuosa cura di Sereni: in seguito, solamente editori minori si interessarono alla sua opera, che giustamente questo importante volume, finanziato dal Centro Internazionale Insubrico e dall’Università dell’Insubria, ha voluto recuperare.

La scrittura menicantea ha patito sottovalutazioni e fraintendimenti, in parte determinati anche dal carattere spigoloso, riservato e severo della poeta. I suoi versi sono stati accostati, per la limpidezza e la semplicità, a quelli di Umberto Saba, oppure accomunati alla trasognante trasparenza di Sandro Penna o ancora alla giocosità di Palazzeschi. In realtà, nulla appare in essi di estemporaneo o ingenuo, essendo invece estremamente sorvegliati nella forma, curati nella scelta lessicale, ricercati nell’impiego delle allitterazioni, pur nel rifiuto di qualsiasi astuzia sperimentale. Soprattutto concettualmente lucidi, animati da una criticità razionalista più orientata all’illuminismo che al romanticismo. Certo, amore e morte sono argomenti predominanti, ma affrontati con un’attenzione antiretorica, e corretti da una forte dose di ironia e autoironia. Temi privilegiati erano la descrizione degli ambienti, in particolari urbani e periferici, con i personaggi che li animano (il primo libro si intitola infatti Città come), quindi l’analisi dei rapporti interpersonali e l’esplorazione del proprio mondo interiore, e infine un variegato bestiario, a cui dedicò nel 1986 l’antologia di Altri amici. Al suo amatissimo Fuchs riservò la citazione di Caninamente: “… e lui mi aspetta e accompagna nei luoghi / deliziato. La sua corte remota / generica e all’antica / teneramente comica è sul punto / sempre di lusingarmi. Ti ricordi / cosa diceva quel proverbio inglese? / Quando sei solo / Dio ti manda un cane”. E in Felini esibisce un’anticipatrice sensibilità ecologica: “La lunga tigre lucente, il leopardo fiorito / – la guardinga, la silenziosa grazia – / tuttora ci minacciano / ma della loro scomparsa”. Mentre odora di spietata vendetta questo Epigramma per verme: “Un verme tranquillo e bavoso / d’un roseo infantile fa il traghetto / del viale. / Mi domando perché poi / mi faccia quasi tenerezza… Ah, sì, / è perché ti assomiglia, mio diletto”.

L’ironia, garbata e sorniona, come tratto caratteristico non solo del suo carattere, ma anche della produzione in versi, si evince da molte poesie sparse in tutti i sette volumi pubblicati in vita, in cui offre di sé un’immagine spiritosamente dolente, da estranea al consorzio umano perché a disagio nel rapportarsi agli altri, e insieme espropriata dall’adesione naturale a una semplice, a-problematica fisicità. Si descrive camaleonticamente come un “mite grillo”, “un cane lupino”, “una gatta sottile”, “una che va vestita come capita”, paragonandosi alla pioggia, a una nuvola, a una siepe recisa, a un palloncino: senza mai voler far cambio con altre vite, senza invidiare successi, soldi, riconoscimenti.

Tra i suoi ironici autoritratti, possiamo rileggere Di zitella, tratto da Un nero d’ombra (1969): “Dio era distratto quando nacqui. Pose / nel nido delle mie costole asciutte / un cuoricino di zitella inglese. / Sbagliò, certo. Così il mio illuminismo / si scontra spesso con le irrazionali / pretese dell’involontario muscolo. / E quando tutti sono lieti a Pasqua / e nelle feste natalizie, io soffro / atrocemente per gli abeti mozzi / i pini uccisi… E il museo roseobianco / degli agnellini fitti nelle

ceste / mi fa fuggire stretta e singhiozzante”. Oppure Poeta, da Poesie per un passante (1978): “In giro me ne vado come un cirro / silenzioso color ombra. Mi piace / stare alto sui tetti a galleggiare / guardando, io mi sento il palloncino / fuggito dal suo grappolo: una cosa / ironica leggera e all’apparenza / felice”. L’ironia di Daria Menicanti talvolta sfora nella satira, nella critica risentita; altre volte si rifugia nella riflessione filosofica e in pacate meditazioni, come in La Verità: “Da sotto spinge il coperchio del pozzo / la bianca prigioniera. Un’improvvisa / voglia l’ha presa di sole e di vento. / Ed eccola – libellula tremante / di freddo e solitudine – posata / sull’orlo. Ma nessuno / che si faccia vedere con lei / così straniera così nuda priva / di sorrisi e di perdoni”.

I versi per il marito Giulio Preti, grande amore e grande dolore della sua vita, sono raccolti nell’ultimo volume Canzoniere per Giulio del 2004, introdotto da una lunga prosa che riassume la vita trascorsa insieme (“Fin dagli inizi infatti tra noi ci furono scontri ed impennate, si alzarono muri di silenzio: tutti e due scotevamo furiosamente la catena, in particolare io che mi dolevo prigioniera di un uomo, sia pur di eccezione, ma estremamente possessivo e geloso”). Quindi una trentina di composizioni, e tra queste Epigramma VIII: “Dopo tanto odio ti ricordo infine / con animo fraterno / e ti perdono / il bene che mi hai fatto”, per cui Vittorio Sereni, amico di una vita, ha voluto scrivere: “Un limpido canzoniere, sempre leggibile come un canzoniere d’amore e sempre capace di ribaltarsi, con poco più di un docile fruscìo, in un canzoniere di morte”.

Gli ultimi anni di Daria Menicanti furono segnati da lutti e malattie, ma anche dal calore di “rari amici scontrosi”, e dal riavvicinamento alla famiglia d’origine, e in particolare alla nipote Lucia Pezzini, che non solo si occupò di conservare e catalogare tutta la sua opera, ma la accolse in casa durante l’invalidante malattia psichica, fino all’inevitabile ricovero in una clinica a Mozzate, in provincia di Como, dove la poeta morì il 4 gennaio del 1995.

 

© Riproduzione riservata             «Gli Stati Generali», 18 gennaio 2024

 

 

 

RECENSIONI

MERIGGI

GIORGIA MERIGGI, RIPARARE IL VIOLA – MARCO SAYA, MILANO 2017

Riparare il viola è il primo volume di versi pubblicato da Giorgia Meriggi (Milano, 1966), e vista la densità e la compattezza letteraria che esprime, possiamo supporre che l’autrice abbia voluto pazientemente e sapientemente lasciar sedimentare a lungo dentro di sé forme e significati del suo dettato poetico. Alla poesia viene demandata la missione riparatrice e ordinatrice del viola dell’esistenza, magma oscuro di cui spesso si tinge la realtà opprimente che ci circonda, come osserva giustamente Antonio Bux sulla quarta di copertina: “È un lento riparare le fratture / di questi muri, riempire le crepe / con ciò che è andato in pezzi: erbacce, vezzi, / ossa di teiere, sillabe avanzate / dai versi, resti di macelleria. // Con le metafore poi si sutura, / sono emostatiche”.

Sofferenza e disagio paiono evidenti nella scelta di termini che esprimono un malessere fisico riflesso in un’immedicabile infelicità interiore: “scordatura atriale”, “insonnia”, “infarto”, “acufeni”, “infezione” vengono sottolineati dal riproporsi di vocaboli aggressivi, taglienti, feroci nella loro graffiante ruvidezza (rovi, crepe, spini, solchi, doglie, strappi, croste, scaglie, amputazioni, inferriate, trincee, lance, cocci, uncini, carta vetrata…). E allora, l’unico scampo al dolore del corpo e dell’anima può venire dall’osservazione attenta dell’esterno, di ciò che nella natura continuamente cresce e fiorisce, del verde salutare in grado di promettere guarigione e rinascita: “Ecco che inizia a ricoprire l’erba / le malefatte dell’inverno…”.

Se pure il mondo vegetale soffre (“le radici incarcerate”, le “stanchissime foglie”, “i fiori stinti”), indagato com’è con applicazione quasi chirurgica, chi scrive riesce a ipotizzare un approdo salvifico cui aggrapparsi solo nell’enumerazione classificatrice di piante e fiori, nel silenzio degli orti, dei campi e delle serre, in una sorta di religiosità panica e naturale: “i boschi sono chiese senza / un tetto, create dai mantra di insetti / notturni”. Addirittura sembra affiorare un’immedesimazione del corpo ferito nella fisicità arborea: sangue-linfa, braccia-rami, piedi-radici, pelle-corteccia (“Quando io cammino / qui sono una quercia. // … Quando io cammino qui io so / di essere un faggio”, “La pazienza di stare in un vaso, / per durare fino a un altro giardino”, “Dondolando sopra un noi / rinforzo i punti sulla faccia. / Il filo / si rompe, canfora e paglia escono / dalle cuciture”, “L’esperienza in amputazioni aiuta / a tenere il giardino ordinato”). In queste metamorfosi vegetali (come non pensare a Ovidio?) si cela il desiderio di fuggire il male (“Vedi nel mondo il serpente, o vedi / la corda”), spesso incarnato in minacciose figure maschili, talvolta crudelmente indifferenti, quando non addirittura brutalmente sopraffattrici.

La parola piena ed esatta di Giorgia Meriggi, terragna e mai eterea, priva di qualsiasi indulgenza o retorica, riesce ad aderire in concretezza all’immagine: essa stessa fatta corpo, materia.

© Riproduzione riservata        https://www.sololibri.net/Riparare-il-viola-Giorgia-Meriggi.html        16 gennaio 2018

 

RECENSIONI

MESSORI

VITTORIO MESSORI, LA SFIDA DELLA FEDE – SAN PAOLO, MILANO 1993

Definito recentemente dal L’Europeo «ultra moderato» (in compagnia di Formigoni, Opus Dei, Giacomo Biffi), Vittorio Messori, giornalista e scrittore cattolico molto noto, e attualmente opinionista di  Avvenire  e  Jesus, è senz’altro ideologicamente di parte, e di parte non progressista, ma non risulta certo moderato nei temi e nei toni. Le Edizioni San Paolo hanno accolto in un volume di 500 pagine 216 articoli che Messori ha pubblicato con spirito militante negli ultimi anni, presentandoci un prodotto editoriale di grande valenza culturale e politica, provocante e barricadiero già nel titolo: La sfida della fede . Secondo Guitton, riportato da Messori, per un filosofo «scrivere un articolo di cronaca è cogliere ciò che vi è d’eterno nell’attualità che passa», e l’autore modenese si attiene saldamente a questo spirito di ricerca del duraturo nell’effimero, dello sconfinato nel limite. Infatti il punto di partenza di queste meditazioni è sempre uno spunto di cronaca, dall’ora di religione al Meeting di Rimini, agli Hooligans, alle polemiche sulla Sindone, e numerosissimi sono i personaggi citati, politici italiani o stranieri, intellettuali, teologi o gente comune. Ma il punto d’arrivo è comunque un altro, più universale e rispondente a una visione cattolica dell’esistenza, rigidamente e orgogliosamente chiusa nella consapevolezza della superiorità del cattolicesimo rispetto alle altre religioni, siano esse quella ebraica, quella protestante o quella islamica. Anche in ciò lontano dalle tendenze teologiche più moderne, Messori sembra divertirsi a far provocatoriamente boccacce all’ecumenismo. Si può forse tentare un giudizio formale di questa scrittura in cui stile e pensiero si porgono vicendevolmente soccorso, cementandosi in un tutto inscindibile: Messori stesso dà al proposito tre consigli per attuare un buon giornalismo e per preparare omelie d’effetto: semplificazione, cioè riduzione di ogni articolo ad un solo tema, che va smontato e svelato negli ingranaggi più nascosti; personalizzazione, cioè mettersi in gioco, parlare in prima persona; drammatizzazione, quindi cercarsi un antagonista da confutare e combattere, sia esso «un uomo, un’idea, il peccato che è in noi». Con il risultato che gli scritti di Messori sono concreti e di conseguenza anche nella forma suffragati da frequenti esempi o citazioni. Nel contenuto, il nostro autore ricorda lo sprezzo della modernità di un Ceronetti, gli strali rabbiosi contro il senso comune di un Cioran, l’astio verso la stupidità di un Canetti; caustico e diretto, mai conciliante o diplomatico, sa di attirarsi meno fulmini di quelli che scaglia. E gli oggetti della sua polemica sono tanti, e di successo, e vincenti: dal turismo di massa («nuovo, oppressivo obbligo sociale, potente devastatore antropologico e culturale»), alla rivendicazione gay e femminista, alla falsificazione attuata dai media sui dati scientifici, all’ecologismo fanatico, che più di ogni altra cosa sembra catalizzare le rabbie feroci di Messori, molto spesso sacrosante. Chi sceglie Messori come avversario sa di trovarsi di fronte a posizioni ben nette e tranciate senza sfilacciamenti, spesso a un’ironia feroce poco disposta a patteggiamenti. I mulini a vento contro cui combatte questo Don Chisciotte dell’Eucarestia, sono tanti e giganteschi, camaleontici soprattutto nella fazione in cui lo stesso Messori si situa. E allora giù bordate sulla burocrazia clericale, che rischia di soffocare con la sua elefantiasi lo scarso clero superstite, sull’enorme quantità di documenti, discorsi, encicliche che «assedia il piccolo gregge», sul cedimento teologico e catechistico che tende a ridurre la nostra fede a «un cristianesimo asettico, sterilizzato, tutto nei limiti del gusto da borghesia del terziario: una fede presentabile in società». E ancora, imbarazzanti difese d’ufficio delle pagine considerate più buie della storia del Papato, come la difesa argomentata di Papa Alessandro VI Borgia. Di fronte a tanto fervore savonaroliano, anche un miscredente qualsiasi e i tanti «cristiani della domenica» si trovano a leggere con ammirato stupore pagine di ardente animosità sulla fede, sulla necessità di «irrompere in chiesa» per affermare la generosa follia del messaggio divino, contro il buon senso, il tiepidume. Messori non annacqua la parola evangelica, la rende se possibile più cruda, pronuncia a voce chiara e forte il suo «credo quia absurdum», al punto da non sorridere all’ipotesi che l’ebreo errante esista davvero, che circoli qualcuno tra di noi che è stato testimone della vita di Gesù: «Possiamo anche fidarci, scommettere sul sì, accettare quella dimensione cui la ragione ci ha portati, ma che alla fine la travalica: non la contraddice, la supera…». Credere l’incredibile, altrimenti che fatica, che vanto ci sarebbe nel definirsi cristiani? Messori mette in crisi gli incerti, provoca i disinvolti laicizzanti, manda in tilt femministe radicali da mezza tacca, scrivendo banalità urtanti e offensive mescolate a verità trasparenti e sconvolgenti. Giù il cappello davanti a tanta spietata e faticosa coerenza.

«L’Arena», 30 dicembre 1993

RECENSIONI

MESSORI

Ricordo di Giorgio Messori a dieci anni dalla morte

 

LA  NEVE  A  ZURIGO

Nel volume di Giorgio Messori Storie invisibili c’è un racconto intitolato La neve a Zurigo. E’ il primo che ho letto, con commozione particolare, perché io ho conosciuto Giorgio proprio a Zurigo, e dopo di allora ci siamo persi di vista. Insegnavo italiano per il Consolato dal 1978, lì vivevo con mio marito Siro Angeli e con le nostre due bambine. Il lavoro che svolgevo non era gratificante, ma era molto ben retribuito, e mi dava la possibilità di vivere con relativa tranquillità la mia non facile situazione familiare in una città bella, efficiente, ricca.

Giorgio era capitato a Zurigo nell’86, per una supplenza nei miei stessi corsi di Lingua e Cultura Italiana a livello medio. Ne parlava un poco nel suo racconto: «Ogni pomeriggio andavo a scuola e dovevo sempre trattenere la nausea per cominciare a lavorare. La nausea mi veniva perché gli studenti erano difficili da trattare. Tutti figli di emigrati italiani, si davano continuamente manate sulle spalle e sputavano per terra». In effetti, l’insegnamento in terra straniera non dava grandi soddisfazioni: gli alunni non venivano in classe volentieri, in genere costretti dai genitori, che a loro volta riversavano sui corsi di italiano le loro frustrazioni e aspirazioni. Insegnanti e bidelli svizzeri ci erano ostili, e spesso capitava di fare lezione negli scantinati o in aule improvvisate.  Ma tutti noi, chi più chi meno, eravamo lì per una scelta imposta da circostanze esistenziali di non semplice soluzione.  Scriveva bene Giorgio: «Anch’io in fin dei conti, ero finito a Zurigo per allontanarmi da qualcosa. Il mondo è pieno di gente che scappa e lascia ricordi».

Ma la città ha un suo fascino discreto e accattivante, sia d’inverno sia nella stagione più calda. E Giorgio si era impadronito di questa seduzione silenziosa e sottile; lui e Zurigo si assomigliavano abbastanza: «Camminavo sul lago tra i gabbiani, i capelli al vento, e mi sentivo padrone di una mia città personale. Preferivo andare sul lago perché il cielo era più aperto, entrare la sera in un bar mi faceva sentire troppo solo, seduto su uno sgabello assediato dagli altri. Camminavo lungo il lago anche se pioveva. Non c’era quasi mai nessuno, solo qualche vecchietta che veniva a dar da mangiare ad anatre e gabbiani. I cigni li odiavo, col loro collo lungo cercavano sempre di fregare le anatre. Mi mettevo anch’io a guardare queste zuffe, insieme alle vecchiette che le provocavano, ed ero contento. Poi proseguivo e riposavo lo sguardo sull’acqua, sulle colline color ruggine, le sculture moderne sopra i prati verdi. Era bella Zurigo anche se pioveva, quasi meglio perché c’era ancor meno gente e la luce era meno sfacciata».

L’incontro con Giorgio era avvenuto a casa mia nella primavera dell’86, con una specie di irruzione in quell’appartamento di Berninastrasse da parte di un gruppo di amici: Giorgio, appunto, e poi Beppe Sebaste, Vivian Lamarque, Livia Candiani  e il suo compagno. L’occasione era stata offerta dal quarantesimo compleanno di Vivian, che ci frequentava già da molto tempo, e che avevamo voluto festeggiare in un modo un po’ diverso dal solito. Io e Siro vivevamo una vita abbastanza riservata e solitaria, lui scriveva e nelle ore pomeridiane, quando io lavoravo, si occupava delle bambine (Silvia allora aveva solo un anno, Daria frequentava le elementari): io insegnavo e mi dedicavo all’andamento familiare. Ci frequentavano pochi amici e colleghi, raramente ricevevamo visite dall’Italia, e talvolta l’Istituto di Cultura ci affidava qualche ospite da portare in giro per la città o da intrattenere per qualche ora.
Ricordo dunque quella giornata con nitidezza e simpatia, era stata piacevole e riuscita, ed è ancora immortalata da alcuni scatti fotografici.
Avevamo preparato per Vivian una torta alle fragole e panna, con le candeline: e lei era particolarmente felice e un po’ eccitata dalla trasferta elvetica. Livia e compagno sembravano quasi spaesati ma incuriositi dalla novità dei luoghi. Beppe mi era parso subito entusiasta e trascinatore. Ma Giorgio in particolare mi aveva colpito, per la sua silenziosità e malinconia che me lo aveva subito reso simile: aveva un’aria quasi distratta e estraniata, si avvicinava a cose e persone forse con la paura di disturbare, di essere di troppo. Fumava molto.

Nel pomeriggio avevamo fatto un giro ricognitivo della città, e poi, soprattutto per fare felice Vivian (in quegli anni affascinata dagli studi di e su Jung), ci eravamo dedicati a un pellegrinaggio nei luoghi junghiani sparsi per tutto il cantone. Quindi eravamo capitati a Bollingen, nel basso lago, dove tuttora esiste la bellissima casa dello psicanalista svizzero, abitata dagli eredi. Era una costruzione severa, nubilosa, con un vasto giardino lambito dalle acque del lago: ricordo i salici aggrappati a un terreno in pendio, con i rami fronzuti che pendevano bagnandosi in basso, e poi altra vegetazione scomposta e varia. Ci incuriosiva particolarmente, però, l’ interno della villa, ed era stato Beppe Sebaste, il più coraggioso e intraprendente tra noi, a incaricarsi di chiedere ai parenti di poter entrare per dare un’occhiata alla sacralità delle stanze private. Ci aveva aperto una pallida e bionda ventenne, evidentemente la pronipote di Jung, molto carina e forse un po’ stanca dell’invadenza dei curiosi, quasi renitente a concederci il permesso ambito. E Beppe per convincerla, nel suo trascinante entusiasmo, aveva concluso la sua perorazione dicendo: «Wir sind alle Schrifsteller!» (Noi siamo tutti scrittori!). Ricordo che allora il mio imbarazzo davanti a tanta orgogliosa consapevolezza aveva trovato riscontro nell’espressione intimidita di Giorgio, evidentemente a disagio di fronte all’esibizione dichiarata di una nostra pudica aspirazione. La giornata si era conclusa in una specie di osteria, a bere qualcosa e a raccontarci i nostri sogni. Forse in quella occasione Giorgio e Beppe ci avevano regalato i  primi volumi pubblicati dalla casa editrice che avevano fondato a Reggio Emilia: Aelia Laelia.

Nei mesi successivi, ottenuto l’incarico di insegnamento dal Consolato, Giorgio era venuto quattro o cinque volte a trovarci, e si era trattenuto a con noi a cena. Parlava pochissimo di sé, e sempre con trattenuto pudore. Non ci ha mai raccontato, per esempio, del suo amore svizzero, la dolce hostess della Swiss Air di cui scrive nel racconto. Né siamo mai stati nel suo appartamentino periferico, con la portinaia curiosa, che lo amava perché era «Uno straniero  che non somigliava agli italiani che conosceva…uno che ascolta la musica a volume bassissimo, si muove sulla moquette in punta di piedi, non sposta i mobili di notte». In genere si limitava ad ascoltare le lunghe confidenze di Siro sul suo passato di dirigente Rai: gli piaceva stare a sentire dei suoi incontri con scrittori famosi, o le memorie della guerra e del dopoguerra. Io mi limitavo a preparare in cucina, o a tenere occupate le bambine perché non disturbassero.
Mi torna in mente però un episodio, di quando una volta eravamo intenti alla conversazione, mentre la piccolina dormiva e Daria guardava alla tivù ticinese il film Matrimonio all’italiana, e dopo un po’, forse spaventata dalla turbolenza dei rapporti dei protagonisti, si era avvicinata al tavolo e ci aveva chiesto: «Ma i matrimoni in Italia sono tutti così?». Ritrovo nella mente la risata di Giorgio, che per la prima volta vedevo disteso e divertito.

Tra noi parlavamo soprattutto dell’insegnamento, e poco della nostra scrittura: solo una volta ho osato regalargli un mio volume di poesie, attendendo con ansia e timore il suo giudizio. Che è stato poi espresso in questi termini: «Mi sono piaciute perché sono poesie chiare», e non ho mai capito se quel “chiare” volesse dire, come speravo, “luminose” o, come temevo, “troppo semplici”. Non credo che, prima di partire, Giorgio sia venuto a salutarci. Non ci siamo più sentiti per anni, credo non abbia nemmeno saputo della morte di Siro, o comunque non me ne ha dato sentore. Poi, improvvisamente, e non so attraverso quali canali, ho ricevuto una telefonata dalla sua casa editrice che mi annunciava l’invio del suo romanzo Nella Città del Pane e dei Postini, in cui si ricordava di noi, delle nostre cene, e ne parlava con affetto. Infine, l’anno dopo, il suo editore Alessandro Scansani mi comunicava la sua dolorosa e prematura morte, avvenuta nel 2006, per un tumore al cervello. Lasciava una giovanissima moglie e un bambino di un anno, alcuni volumi di narrativa e di critica.

Molte persone attraversano le nostre vite come meteore, alcune facendoci del bene, altre del male, altre ancora lasciandoci impressioni lievi, di tranquilla indifferenza. Ma Giorgio, nei pochi incontri che abbiamo avuto, è riuscito a regalarmi di sé un ricordo indelebile perché delicato, incapace di malignità, quasi sospeso tra realtà e pensiero. Di questo gli sono grata.

 

Opere di Giorgio Messori:

L’ultimo buco nell’acqua, racconti brevi (con Beppe Sebaste), Aelia Laelia, Reggio Emilia 1983

Nella città del pane e dei postini, Diabasis, Reggio Emilia 2007

Viaggio in un paesaggio terrestre, Diabasis, Reggio Emilia 2007 (con Vittore Fossati)

Storie invisibili e altri racconti, Diabasis, Reggio Emilia 2008

Fin dove può arrivare l’infinito, Skira, Milano 2012 (con A.C. Quintavalle)

«incroci on line», 11 febbraio 2016

 

RECENSIONI

MESSUD

CLAIRE MESSUD, LA DONNA DEL MARTEDI’ – BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2015

Claire Messud (1966), scrittrice americana nota anche in Italia per il suo romanzo di successo “I figli dell’imperatore”, in questa sua più recente pubblicazione affronta il tema dell’emigrazione politica attraverso la vicenda (minima e banale a livello personale, tormentata e drammatica se letta con l’occhio della storia del ‘900) di una ragazza ucraina, Maria Poniatowski, costretta negli anni tragici del nazismo ad emigrare in Canada.

La donna del martedì si apre con poche righe che sembrano introdurre una situazione di misteriosa violenza: Maria, governante ormai anziana, si reca come fa regolarmente da più di quarant’anni ogni martedì alle 7,55 di mattina, nell’appartamento di Mrs. Ellington, una signora novantenne, semicieca e bisbetica, per accudirla nella cura personale e domestica.
Entrando scorge con terrore una striscia di sangue che dall’ingresso segna la parete fino alla camera da letto della padrona. La quale tuttavia non è morta, sgozzata da qualche ladro o energumeno introdottosi nottetempo, ma dorme placidamente tra due cuscini. Alle insistenze della governante, Mrs. Ellington confessa di essersi distrattamente tagliata un dito la sera prima, e di aver cercato tentoni la sua camera appoggiandosi al muro, e sporcandolo senza accorgersene. Chiusa questa parentesi introduttiva piuttosto inessenziale, il romanzo prosegue narrando la vita intera di Maria Poniatowski, dall’infanzia poverissima in Ucraina, con la sua numerosa famiglia contadina, fino all’invasione tedesca e alla deportazione in Germania (dapprima come bracciante, poi come operaia), quindi alla fuga e alla liberazione, conclusasi con l’incontro e il matrimonio con un giovane polacco (Lev). I due sposi si imbarcano verso il Canada, dove lentamente riescono a crearsi una vita dignitosa, lavorando e crescendo un figlio.

Claire Messud ci racconta la storia di un’esistenza come ce ne sono tante, senza particolari trasporti emotivi o approfondimenti psicologici, descrivendo le piccole sconfitte quotidiane della famigliola, ma anche i progressi economici: il figlio che si laurea, l’ostilità della nuora, la morte di Lev, e il lavoro di governante di Maria presso Mrs.Ellington. Lavoro che si concluderà quando la signora verrà ricoverata in una casa di riposo. “Aveva l’impressione che l’unica cosa da ignorare fosse la più evidente di tutte: la fine. Bisognava assolutamente evitare – Maria aveva mentito di rado in vita sua, e non le era piaciuto – di accordarle il posto che, in ogni caso, aveva già usurpato. Maria era circondata dalla fine”.

Una narrazione piana o forse piatta, questa di Claire Messud, che accompagna la sua protagonista attraverso la registrazione degli avvenimenti in discesa che la portano a concludere una vita silenziosa, grigia, rassegnata, in un ambiente che le rimane estraneo, come i sentimenti che lo animano. Non esattamente la “storia straordinaria” che ci prometteva la nota in quarta di copertina.

 

© Riproduzione riservata  

www.sololibri.net/La-donna-del-martedi-Messud.html        27 ottobre 2016

RECENSIONI

METZ

THIERRY METZ, SULLA TAVOLA INVENTATA – EDIZIONI DEGLI ANIMALI, ROMA 2018

Di Thierry Metz sono state pubblicate poche cose in italiano. Una sorta di diario a frammenti degli ultimi mesi di vita da lui trascorsi nella clinica di Cadillac per disintossicarsi dall’alcol e guarire da una forte depressione, e ‒ lo scorso anno ‒ una scelta di versi a cura di Riccardo Corsi, per le Edizioni degli Animali. Tutte le poesie (che gli valsero il Premio Voronca nel 1988 e il Premio Froissart nel 1989) sono state raccolte nel volume Poésies (1978-1997), edito in Francia da Pierre Mainard nel 2017.

Poeta intenso e disperato, ebbe un’esistenza tormentata da difficoltà economiche e lavorative, da pesanti lutti e da problematici rapporti ambientali, acuiti dalla sua particolare fragilità emotiva. Nato a Parigi nel 1956, sposatosi ventenne con una compagna di scuola da cui ebbe tre figli, si trasferì nei dintorni di Agen, sulle rive della Garonna. Qui trascorse un breve periodo di serenità, presto funestato dalla morte del secondogenito Vincent, a otto anni schiacciato da un’automobile davanti ai suoi occhi. Per mantenere la famiglia, lavorava saltuariamente come muratore e sterratore, e da questa faticosa esperienza trasse materiale per un volume edito da Gallimard nel 1990, Il diario di un manovale, in cui narrava senza retorica o autocompatimenti la quotidianità della vita in un cantiere edilizio. La sua dipendenza dall’alcol, gli improvvisi accessi di aggressività, il dolore per la morte del suo bambino lo condussero a reiterati ricoveri in ospedali psichiatrici e a pesanti trattamenti farmaceutici, che lo portarono a suicidarsi poco più che quarantenne.

L’uomo che pende (Via del Vento, Pistoia 2001) è una raccolta di un centinaio di piccoli brani narrativi (riflessioni, illuminazioni poetiche, descrizioni di luoghi e personaggi), appuntati tra la fine del 1996 e l’inizio del 1997, durante il suo ricovero al centro ospedaliero di Cadillac, nel padiglione Charcot. Metz racconta in uno stile sobrio e quasi documentaristico la sua degenza tra medici, infermieri, malati psichici impegnati in diverse maniere al recupero di una parvenza di vita sana e socialmente reintegrata. Con questo proponimento apre il suo diario: “È l’alcol. Sono qui per svezzarmi, ridiventare un uomo di acqua e di tè. Considero i giorni che vengono con tranquillità, da lontano, ma attento. Devo uccidere qualcuno dentro di me, anche se non sono troppo sicuro di farcela. Tutta la questione è di non perdere il filo. Di legarlo a ciò che si è, a ciò che sono, scrivendo”. Consapevole della problematicità della disintossicazione, registra i suoi fallimenti, le ricadute, le paure: “Lentezza, confusione talvolta, dovute al trattamento che ricevo. Ne ho coscienza come un tuffatore o un alpinista. E ne ho bisogno. Mi sbarazzo di un’ebbrezza con un’altra, di una morte con un’altra morte, del vuoto con il vuoto. La mia voce contraddetta non passa, per il momento, che attraverso queste vie contrastate d’eclissi”. E ancora: “Ogni parola mi affanna”. Registra amaramente lo scandire di ore tutte uguali, tutte sorvegliate e amorfe: “Ogni mattina è l’inventario, il giro delle camere. Ci si saluta, si cambiano le lenzuola, le fodere, danno del decoroso e del pulito. Si rifà il letto. L’erba cresce, gli uccelli passano ma tutto quello che è detto non offre alcun passaggio. Allora si aspetta il caffè e il pane davanti a una porta. Solo gli orologi hanno il tempo di avere tempo”. La sua consapevolezza del baratro in cui sta per precipitare rimane lucida, disincantata, come la cognizione filosofica dell’irriducibilità del reale all’espressione verbale: “Il linguaggio non ha senza dubbio d’accessibile che l’indicibile. E l’indecifrabile. L’accesso non è dentro né fuori. Introvabile e tuttavia qui. L’impercettibile è la nostra sorridente complicità”. Si ucciderà a Bordeaux il 16 aprile del 1997.

I versi antologizzati nell’elegante volumetto Sulla tavola inventata risalgono all’inverno 1986-1987, e ancora riflettono sprazzi di luminosa e innocente grazia, per quanto presaghi a volte di una minaccia futura. Vibrano di una reiterata invocazione, rivolta a sé stesso o a un imprecisato “Uomo”, presenza amicale o angelica, promessa di soccorso solidale e salvezza: “Guarda”, ripetono, ed è un invito celaniano (“Smetti di leggere, guarda!”), a schiudersi verso un fuori benefico, positivo, aperto.
Il fuori verdeggiante di alberi e prati, il cielo attraversato dal volo di uccelli (ghiandaie, pettirossi, merli): osservandolo il poeta dimentica noia e delusioni (“che importa questo / io”), nell’attesa di una qualsiasi epifania, sia essa parola, incontro, amore. O magari una “tavola inventata” intorno a cui sedersi, cercando una comunicazione fraterna, non intellettuale, non libresca: “Scrivi / non nella scrittura / ma nell’intimità del pozzo / dove il più chiaro si nasconde”, “Poche parole per raggiungerti / ma ascolta: / se non hai niente da dire allo storno / alla ghiandaia / perché discutere con la sentinella / che ha fatto il nido / nel libro”, “Vecchia orsa minore / vieni a vedere: / sorge un giardino / nel respiro dell’albero / è questo il luogo / dove uomo e uccello / si meravigliano”. Una pagina interrotta, quella di Thierry Metz, che con le sue grandi mani da campione di sollevamento pesi, ruvide mani di muratore, sapeva scrivere con delicatezza di foglie, di ali, di speranze negate.

 

© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 7 febbraio 2019

RECENSIONI

MEYER SABINO

GIOVANNA MEYER SABINO, ...DEMOCRAZIA E’ FEMMINA. DONNE CALABRESI E CAMBIAMENTO – PELLEGRINI, COSENZA 1995

 

Pensare o dire “Calabria” suscita in noi immagini contrapposte ma comunque coinvolgenti. Da un lato, l’idillio di una natura imperiosamente affascinante: solare, impervia, dura nei paesaggi, nel clima e nel carattere della sua gente; dall’altro, l’impaurita incomprensione di una realtà sociale violenta e disgregata, dove l’ottusa e aggressiva protervia di pochi spadroneggia, prevaricando la letargica, fatalistica inerzia dei più. Eppure, anche la rassegnazione secolare al sopruso può improvvisamente venire scossa, se un gruppo di persone decide di dar voce al proprio disagio, facendosi voce anche del disagio altrui; e se queste persone sono donne, e se a raccogliere le loro testimonianze è una donna, ecco che le parole possono diventare in maniera tanto più innovativa coro, grido, eco in continuo sviluppo. Così è stato per l’esperienza del gruppo  Plurale femminile, nato a Tropea nel ’90, su iniziativa di alcune donne del paese, fiancheggiate da turiste e da movimenti di opinione esterni. Gruppo che concentra la sua attività intorno a tre tematiche fondamentali: protezione dell’ambiente, restauro del centro storico e salvaguardia del turismo. Tali obiettivi vengono perseguiti attraverso capillari operazioni di sensibilizzazione: discussioni, volantinaggi, assemblee, marce, dibattiti pubblici sui diritti civili e sulla mafia. Tutta questa campagna di mobilitazione produce ben presto i suoi effetti; il Consiglio Comunale di Tropea, incalzato e pubblicamente contestato dal gruppo di donne, attua alcuni interventi straordinari sui problemi ambientali più urgenti (fogne, nettezza urbana, acqua, viabilità); nasce all’interno dell’ospedale un tribunale per i diritti del malato; si organizza un convegno su Ambiente e partecipazione cui intervengono Gianfranco Amendola, Antonio Cederna, Luigi Lombardi Satriani; si richiede di creare un parco nazionale e un parco marino e la costruzione di un megadepuratore destinato alle acque zonali. L’attivismo frenetico e le iniziative incalzanti, anche se talvolta non ben coordinate, di  Plurale femminile  sortiscono all’improvviso e auspicato scioglimento del Consiglio Comunale, e al conseguente commissariamento della città. Ma proprio sul problema delle elezioni del nuovo consiglio comunale, P.F. entra in crisi, spaccandosi tra chi vuole fiancheggiare i partiti storici della sinistra, e chi invece preferirebbe costituire una propria lista civica. Il gruppo arriva presto a istituzionalizzarsi, con tutto ciò che nel bene e nel male questo comporta: meno velleitarismo e spontaneismo, più concretezza e un pragmatismo maggiormente attento alle regole del gioco. Quattro anni di lavoro politico generoso e indefesso, concorrono a cambiare la mentalità della gente del paese, esortano i calabresi a uscire dal guscio producendo il miracolo di una nuova amministrazione, efficiente e onesta. E vengono oggi raccontati in un elegante e intelligente volume di Giovanna Meyer Sabino, giornalista italiana trapiantata da molti anni a Zurigo, sempre attenta ai problemi dell’emarginazione e del femminismo. Il libro ...Democrazia è femmina  si articola in tre parti: nella prima sezione vengono esposti e analizzati i fatti, gli avvenimenti concreti – documentati da foto, interviste, manifesti, ecc.; nella seconda parte viene approfondita la riflessione sui meccanismi razionali e inconsci che hanno agito all’interno del gruppo di donne, sulle motivazioni che le hanno spinte ad aggregarsi, sulle difficoltà che hanno minacciato il loro operare. Ogni analisi particolare viene infine inserita in un contesto culturale e sociale più vasto, nelle coordinate necessarie che inquadrano la problematica condizione femminile nel nostro Sud. E’ una proposta di coinvolgimento, una scommessa sul futuro, quella suggerita dalle donne di Tropea, esempio di una impegno coraggioso da condividere, possibilmente da esportare.

 

«Agorà» (Svizzera), 1 novembre 1995

RECENSIONI

MICHON

PIERRE MICHON, RIMBAUD IL FIGLIO – MAVIDA, REGGIO EMILIA 2005

Pierre Michon, autore molto noto e premiato in Francia, ha dedicato nel 1991 un volume ad Arthur Rimbaud, ripercorrendone non solo la tribolata e breve esistenza, ma anche la genesi della magistrale produzione poetica, incastonata come un gioiello all’interno di un’epoca di febbrile creatività artistica, e di altrettanto vivaci polemiche letterarie. Rimbaud il figlio, quindi: figlio non solo di una famiglia piccolo borghese di Charleville, provinciale e conformista cittadina delle Ardenne; non solo di una mamma ignorante e ossessionata dal culto delle apparenze («Vitalie Rimbaud nata Cuif»); ma di un ambiente culturale rifiutato rabbiosamente, che seppe per antitesi partorire un genio, ribelle e incompreso, sì, ma splendente di luce propria.

La scrittura di Pierre Michon, raffinata e lieve, funambolica e lirica, sospesa tra un barocchismo onirico e il gusto celebrativo, ben si accorda a descrivere l’esistenza del giovane poeta, accompagnandola nelle sue evoluzioni e nei suoi silenzi, e soprattutto nelle sue illuminazioni creative. La casa editrice emiliana Mavida ha riproposto questa estetizzante biografia rimbaudiana nel 2005, con traduzione attenta di Maurizio Ferrara e inquietanti illustrazioni di Isabella Branella.

L’interesse di Michon giustamente si focalizza sulle figure di contorno, che servono da sfondo e contrasto a far meglio risaltare l’eccezionalità del poeta maudit. Il padre assente, capitano di «guarnigioni lontane»; la vampiresca madre Vitalie, donna «sofferente e malvagia… creatura d’imprecazione e di disastro»; il delicato e romantico insegnante di lettere del liceo, Georges Izambard, convinto che la poesia dovesse rappresentare il buono e il bello del vivere. Tutti e tre questi personaggi ottennero con la loro sola presenza all’ombra di Arthur di provocarne l’insubordinazione, il ribollente rigetto di ogni convenzione, di ogni abitudine, di ogni tradizione. Il ragazzo fugge da Charleville che non sopporta, macina chilometri a piedi, arriva in Belgio, forse va a Parigi nei giorni rivoltosi della Comune. Con la protervia e la presunzione dei suoi pochi anni, invia i suoi versi ai poeti parnassiani contemporanei, come Banville o Demeny, onesti ma banali, che li leggono con stupore e spavento: «Là dove è passato vedono un grande solco che taglia in due il campo della poesia, rigettando da un lato il vecchiume, pieno certamente di belle opere, ma vecchiume, e dall’altro il fiero podere devastato del moderno, dove forse non cresce niente, ma è moderno».

Entrano prepotentemente in questa storia «Verlaine con un cappello derby sul marciapiede della Gare de l’est», la passione tormentata con il poeta ventisettenne stilisticamente più tradizionale di lui, i vagabondaggi in giro per l’Europa, gli eccessi e l’assenzio, l’alcol e le provocazioni scandalose, la gelosia folle che esplode nello sparo «all’ala dell’arcangelo atterrito», in una letargica Bruxelles. E ancora inquietudini e solitudini, le Bateau Ivre composto a diciassette anni, Une Saison en enfer scritto di furia e di nascosto nel solaio di una fattoria di Roche, ritorni rancorosi in famiglia e di nuovo fughe a Parigi, dove si lascia fotografare dal famoso ritrattista Carjat, nell’unica immagine giovanile che ci rimane: biondo, spettinato e sfinito, occhi chiari e spaesati. Poi mestieri di ogni genere, l’Italia e l’imbarco per l’Abissinia, la rinuncia alla scrittura. «…andare a crepare in quell’insulso Corno d’ Africa, in mezzo a popolazioni senza corde da toccare, dove gli unici maestri sono il deserto, la sete, la Sorte, tutti i sovrani poco visibili e insabbiati come sfingi, ma sovrani, capitani, che mormorano ineffabili allarmi nel vento sulle dune, con le trombe fantasma del vento». Quindi il tumore alla gamba, l’amputazione con la sega a Marsiglia, la morte a 37 anni.

 

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https://www.sololibri.net/Rimbaud-il-figlio-Michon.html         19 maggio 2018

 

 

 

RECENSIONI

MICHON

PIERRE MICHON, GLI UNDICI ‒ ADELPHI, MILANO 2018

Con il suo romanzo d’esordio Vies minuscules, oggi considerato un classico, Pierre Michon vinse nel 1984 il Prix France Culture, ottenendo in seguito altri prestigiosi riconoscimenti internazionali. Già in questa sua prima opera, che narrava le esistenze di personaggi umili e sconosciuti, l’autore esibiva uno stile forbito e letterariamente controllato, immaginoso e insieme melodiosamente seduttivo, ricco di riferimenti culturali ed eruditi che spaziavano dalla pittura alla musica, dalla storia al folklore.

Utilizzando lo stesso tocco elegante e fastoso, nel 2009 Michon scrisse Les Onze, pubblicato oggi da Adelphi con il titolo Gli undici, nella traduzione di Giuseppe Girimonti Greco. In questo volume, la voce narrante si rivolge a “un signore” immaginario, evocante il lettore universale, per tratteggiare la vicenda umana ed artistica del pittore François-Élie Corentin, nato nel 1730 a Combleux, un borgo nei pressi di Orléans, sulle rive della Loira, allievo di Tiepolo e in seguito collaboratore di David.

La ricostruzione biografica dell’artista è minuziosa: si sofferma sulle sue doti fisiche e caratteriali, sull’ambiente familiare e geografico in cui ebbe a crescere, sull’educazione ricevuta negli anni turbinosi che videro l’Ancien Régime soccombere sotto il giogo feroce del Terrore, durante la Rivoluzione. La prima parte del libro, senz’altro più coinvolgente e formalmente risolta, inquadra il paesaggio naturale e parentale in cui si svolse l’infanzia di Corentin: il nonno materno, ingegnere incaricato di canalizzare la Loira fortificandone gli argini; quello paterno, vinaio arricchitosi col commercio; la delicata e sensibile mamma, presto lasciata sola dall’ambizioso marito desideroso di inseguire la gloria letteraria a Parigi. In questi primi capitoli, Michon delinea un interessante spaccato della società settecentesca di provincia, utilizzando analisi sia psicologiche sia politiche: Freud e Marx per descrivere la dipendenza e la ribellione affettiva del protagonista dalle figure genitoriali, e lo sfruttamento della mano d’opera impiegata nello sterramento del fiume, con un’attenzione empatica per le condizioni subumane in cui viveva la classe lavoratrice. «Ecco, provi un po’ a immaginare quale speranza possa riservare una vita che consiste nel raccogliere fango per metterlo in una gerla, svuotare la gerla in un carretto e ripetere ogni giorno, da mane a sera, un’azione di quella levatura, con il solo miraggio di un pezzo di pane nero, pane di piombo, e sopra a questo un sonno di piombo per digerirlo; e la domenica, la sbornia di piombo».

La ricettività nei riguardi dello sfruttamento del popolo, introduce all’obiettivo che Michon si propone di raggiungere con il suo romanzo: la denuncia del potere, che guida la Storia in un’eterna lotta di sopraffazione e violenza. Il pittore François-Élie Corentin, affermatosi nell’ambiente artistico parigino senza tuttavia raggiungere mai una vera fama, nel gennaio del 1794 viene incaricato da un gruppo di sanculotti di dipingere un quadro di grandi dimensioni, raffigurante gli undici membri del Comitato di salute pubblica, da esporre al Louvre. Il dipinto, ricompensato molto generosamente, dovrà essere ultimato in gran segreto e in tempi brevissimi, e ritrarre con sfarzo gli Undici detentori del potere assoluto negli anni del Grande Terrore. Undici personaggi, in guerra fratricida tra loro e con la società, assetati di sangue e vendetta, presuntuosi e dispotici, mossi da un «compassionevole zelo per gli sventurati» e insieme dall’ambizione folle di rivoluzionare la storia. «Tutti costoro, questi undici, tutti scrittori come le ho già detto, avevano in comune principalmente il fatto di apporre le loro undici sigle in calce ai vari decreti relativi a cannoni, grano, ghigliottina, requisizioni ed esecuzioni».

Gli Undici, responsabili di far «cadere quaranta teste al giorno», vengono quindi ritratti dal pittore in un quadro celebrativo, con Robespierre e i suoi raffigurati in gloria per i posteri: un quadro capolavoro, dipinto con l’intento di attrarre l’ammirazione spaventata dei visitatori del Louvre di fronte all’esibizione sfrontata del dominio egemone della forza. Un quadro che tuttavia non è mai esistito, come non è mai esistito François-Élie Corentin, invenzione superba di Pierre Michon, a indicare quale sia stato da sempre il ruolo oppressivo di chi esercita il potere nella storia dell’umanità. Per questo libro, Michon ha ricevuto il Grand prix du roman de l’Académiefrançaise.

 

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https://www.sololibri.net/Gli-Undici-Michon.html             26 novembre 2018

 

 

RECENSIONI

MILLER

HENRY MILLER, RIFLESSIONI SULLA MORTE DI MISHIMA – FELTRINELLI, MILANO 2016

Gli opposti si attraggono? Capita anche tra gli scrittori, ed è successo allo scandaloso e anticonformista romanziere newyorkese Henry Miller (1891-1980) nei riguardi del giapponese Yukio Mishima (1925-1970): non pornografo ma crudele, non democratico ma elitario, non pacifista ma bellicoso, non ilare ma ossessivo.
Miller giustificava questa sua attrazione intellettuale per Mishima con un interesse più generico verso la letteratura, l’arte e il cinema nipponico e con uno, più particolare, per la scrittura, per il fanatismo e soprattutto per la morte spettacolare e morbosa di quell’autore.

Nei giapponesi “l’elemento estetico e quello emozionale sono sempre strettamente intrecciati” e Miller si confessava attratto dall’aura di mistero e impenetrabilità che circonda gli orientali “sia a livello di popolo sia di individui”.
Mishima era senz’altro un individuo particolarissimo.
Ossessionato dalla bellezza, nei corpi e nell’arte, voleva fare della sua esistenza un capolavoro estetico, fisicamente e moralmente, al punto da decapitarsi platealmente, a quarantacinque anni, tramite il “seppuku”, il suicidio rituale dell’antica tradizione dei samurai: rifiutando così sia il suo inevitabile invecchiamento fisico, sia l’annacquamento senile della sua narrativa, sia soprattutto l’involgarimento della civiltà nipponica e la sua corruzione sul modello del capitalismo occidentale.
Era un fanatico, Mishima? Forse. Ma soprattutto era assillato dal proposito di far rivivere nel suo paese i nobili costumi degli avi: “Egli voleva ristabilire la dignità, il rispetto e la fiducia in se stessi, l’autentico cameratismo, l’amore per la natura e non l’efficienza, l’amore di patria e non lo sciovinismo, l’imperatore quale simbolo della capacità di comando in opposizione a un gregge senza volto e senza anima obbediente a ideologie mutevoli, i cui valori sono stabiliti dai teorici della politica”

Per questo perseguì con cieca tenacia l’idea di costituire un piccolo esercito privato, elegante nelle uniformi e ferocemente deciso a opporsi al degrado dell’ordine costituito. Narcisista, individualista, stoico, eccessivo in tutto, Mishima era privo di qualsiasi senso dell’umorismo, non sapeva ridere né sorridere, credeva solo nell’eternità dello spirito, nel dovere di rispettare i princìpi senza alcuna concessione alla leggerezza, al profitto materiale, al divertimento. E in questo Henry Miller prendeva le distanze dallo scrittore eroico e invasato. Pur essendo consapevole che la sua amata America, democratica e libera nei costumi, sarebbe stata destinata al declino morale, al caos, alla perdita di ogni valore, invocava il diritto alla vita, alla pace, alla tolleranza verso gli altri. Convinto che non si potesse cambiare il mondo, riteneva più saggio comprenderlo anche nelle sue manchevolezze, provando compassione anche per il nemico. “Tornare all’umanità. Alla comune umanità… Mettersi carponi a insegnare l’alfabeto alle formiche – se ci si riesce”. Tutto sommato, di Mishima non ricordiamo l’ideologia militare e il manipolo di esaltati samurai, spariti nel nulla dopo la sua morte. Ricordiamo invece l’eleganza della sua scrittura, l’invocazione continua al perfezionamento di sé, l’esaltazione della bellezza. E ci aiuta a farlo questo saggio di Miller, Riflessioni sulla morte di Mishima.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Riflessioni-morte-Mishima-Miller.html     9 agosto 2016