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RECENSIONI

MAUGHAM

SOMERSET MAUGHAM, PIOGGIA – ADELPHI, MILANO 2012

Da anni Adelphi sta ripubblicando i romanzi e i racconti di William Somerset Maugham (1874-1965), controverso autore britannico che nella prima metà del ’900 conobbe un enorme successo internazionale e vivaci polemiche, sia per la brillantezza della scrittura, sia per la sua attività di spionaggio al soldo dei servizi segreti inglesi, sia per la sua burrascosa vita privata.

Il libriccino azzurro della “Piccola Biblioteca” comprende due racconti, Pioggia e Il reprobo, entrambi ambientati nelle isole dell’Oceano Pacifico, dove Maugham viaggiò e soggiornò a lungo tra il 1916 e il 1930, diventando il cronista per antonomasia dell’ultimo periodo del colonialismo inglese. Accomunati non solo dallo sfondo naturale (ritratto negli affascinanti paesaggi marini, nella vegetazione lussureggiante e nei turbinosi mutamente climatici), ma soprattutto dal sarcasmo con cui vengono tratteggiati i personaggi principali nella loro ansia puritana di redenzione, pedine dell’eterno conflitto tra il bene e il male.

Ecco due esempi di descrizione paesaggistica ricavati dalle novelle: “Non era la pioggerella inglese, che cade gentilmente sulla terra; era una pioggia spietata, in qualche modo terribile; ci sentivi la malignità delle forze primordiali della natura. Non cadeva, fluiva. Era un diluvio celeste, e batteva sul tetto di lamiera con un’insistenza esasperante. Sembrava animata da un’intima rabbia”, “Il mare era un olio, e il sole tramontò fulgido. Tramontò dietro un’isola e per qualche minuto la mutò in una mistica città celeste… Calò la notte e subito il cielo fu pieno di stelle”.

Il reprobo del secondo racconto è un giovanotto inglese alcolizzato e violento, Ginger Ted, che vive di traffici strani nell’isola di Baru, accoppiandosi con giovani indigene e facendo a pugni con chiunque gli capiti a tiro. Il missionario-medico del luogo, Mr. Jones, insieme a sua sorella Martha (una pia quarantenne ossuta e severa) si propongono di recuperare il malvagio alla vita civile della comunità, e sarà proprio la donna a riuscire non solo a redimerlo, ma a farne un proselito cristiano altruista e astemio, convincendolo addirittura alle nozze, dopo aver trascorso casualmente una notte con lui, senza patire alcun oltraggio, e averne intuito l’insospettata sensibilità.

Pioggia, racconto giustamente celebre anche per tre trasposizioni cinematografiche (del 1928, del 1932 e del 1953 con Gloria Swanson, Joan Crawford e Rita Hayworth) è più drammaticamente teso dal punto di vista etico. Ancora in primo piano è un missionario-medico, Mr. Davidson, alto e magro, taciturno e cupo, con “occhi grandi e tragici”, segnato da “un senso come di fuoco represso, che sconcertava ed era vagamente inquietante”. Costretto da un’epidemia di morbillo a riparare con la moglie in una squallida casa privata insieme ad altri viaggiatori, sbarcati con loro dalla stessa nave, deve condividere la quarantena di due settimane con Miss Thompson, una ventisettenne rotondetta, querula e ordinaria, presto rivelatasi come una prostituta in fuga dal proprio passato. L’ossessione della conversione evangelica si impossessa del protagonista, formalmente integerrimo, intimamente perturbato. Spinto dall’ansia di salvare le anime, nel suo ruolo di religioso si era votato con la moglie a instillare negli indigeni il senso del peccato, a loro del tutto ignoto, proibendo qualsiasi promiscuità sessuale, danze e atteggiamenti illeciti, credenze idolatre, e obbligandoli a coprire le loro nudità: “Li salveremo loro malgrado”, ripeteva, esercitando il proprio potere censorio attraverso un sistema di multe. Tanta rigorosa e austera moralità del reverendo finisce per trasformarsi in una crudele persecuzione nei riguardi della coinquilina reietta, obbligata a chiudersi nella sua stanza senza alcun rapporto con l’esterno, a umiliarsi in riti e preghiere che si protraggono giorno e notte, e infine a lasciare l’isola su ordine del governatore per tornare a San Francisco, dove l’attende una condanna a tre anni di carcere. La notte prima del suo imbarco, tuttavia, accade tra la peccatrice e il suo implacabile giudice qualcosa di imprevisto e sconvolgente, per cui la condanna impietosa del pastore, ormai sicuro del trionfo divino sul male, ha un esito beffardamente tragico.

© Riproduzione riservata                   «Gli Stati Generali», 19 luglio 2021

 

 

 

 

 

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MAURENSIG

PAOLO MAURENSIG, LA VARIANTE DI LÜNEBURG – ADELPHI, MILANO 1993

«Era un’ossessione da cui non potevo difendermi; da mattina a sera non pensavo ad altro che ad alfieri e pedoni e torri e re, a A e B e C e Matto e Arrocco, con tutto il mio essere e il mio sentimento ero spinto verso il quadrato della scacchiera. Il piacere del gioco era diventato vizio, il vizio necessità, una mania, una rabbia frenetica, che a poco a poco penetrò non solo le ore in cui ero sveglio, ma anche il mio sonno».

Sono frasi che Stefan Zweig mise in bocca al protagonista della sua  Novella degli scacchi nel 1941.

«Non so dire esattamente quando accadde, ma so che un giorno incominciai a giocare un’interminabile partita: che dall’altra parte della scacchiera ci fosse il mio io o il mio Dio, poco importava. In brevissimo tempo occupò tutti i miei pensieri, non ci fu spazio per nient’altro che non fosse quella partita: essa divenne la mia fede, unica e insostituibile».

Sono frasi che Paolo Maurensig mette in bocca al protagonista-narratore del suo affascinante romanzo La variante di Lüneburg, appena edito da Adelphi. Paolo Maurensig è un agente di cambio friulano, cinquantenne alla sua opera prima. Che Roberto Calasso pubblichi nella prestigiosa collana  Fabula un autore italiano è cosa piuttosto infrequente: che pubblichi un autore sconosciuto è decisamente straordinario, e depone a priori in favore del testo in questione.
In effetti, il lettore si trova di fronte a un’opera eccezionale, per il tema trattato, per lo spessore culturale sottesovi, per l’estrema raffinatezza formale: uno stile denso ed elegante insieme, il cui ritmo narrativo è dettato dal procedere del pensiero, modellato sulla cadenza di questo. Ne segue le pause, le divagazioni, ma anche animosità improvvise, confutazioni stringenti. Respiriamo, leggendo queste pagine, aria – e forse anche musica – mitteleuropea, più rarefatta e avvolgente di quella cui ci ha abituato la narrativa italiana odierna. La passione per gli scacchi, intesa come filosofia, come approccio alla vita o sfida alla morte, è il tema del libro, com’era il tema della novella di Zweig, con cui Maurensig sembra voler giocare a rimpiattino, attraverso sapienti e ricorrenti richiami: ora come allora la partita a scacchi è metafora di una ben più profonda contrapposizione tra due culture (quella conformista, violenta e ottusa del nazismo, e quella spirituale, ricercata ma perdente dell’ebraismo). Le analogie tra i due testi sono così frequenti da non poter risultare casuali: il gioco vissuto come estasi e condanna, il viaggio (qui in treno, là in nave) durante il quale avviene lo scontro tra le due diverse personalità dei protagonisti, l’Austria dell’Anschluss e la Germania dei campi di concentramento, l’assenza totale di personaggi femminili, il riferimento continuo al trascendente, le riflessioni sulla fisiognomica, i nomi dei grandi scacchisti degli anni ’20, e soprattutto il crescendo di pathos, di angoscia, che attanaglia il lettore fino alla conclusione tragica e liberatoria, fino allo scacco matto definitivo della morte. Il libro si apre con la descrizione del suicidio di un ricchissimo imprenditore tedesco, Dieter Frisch, avvenuto nello splendido parco della sua villa settecentesca alle porte di Vienna. Inspiegabili, a prima vista, i motivi del suo gesto: l’uomo  «era una di quelle persone alle quali il successo sembra arridere in tutti i campi…» Prestante e attivo nonostante l’età avanzata, divideva la sua attività tra l’azienda di Monaco e la ricca residenza viennese, in cui consacrava le sue ore di riposo all’unica passione che gli si conosceva: il gioco degli scacchi. Proprio questa sua occupazione secondaria si palesa ben presto essere la ragione della sua fine violenta, e il romanzo lo svela a poco a poco, attraverso le misurate rivelazioni del narratore che, rimasto nell’ombra per tutta la prima parte del volume, si dichiara poi l’antagonista di una vita, animato da una sete di vendetta durata decenni.

«Questa è, in primo luogo, la storia di una rivalità, che si manifestò proprio su una scacchiera, su quel riquadro che può sembrare ristretto solo a chi non voglia o non possa vederne la profondità: poiché si tratta invece di un mondo per nulla limitato e niente affatto innocuo, dal momento che ciò che vi si perpetua, avvalendosi di un atto creativo che a volte assume l’aspetto di un’autentica opera d’arte, è un’azione di inaudita violenza, una forma di omicidio bianco, inapparente, il cui esito viene riconosciuto e condiviso unicamente dai due contendenti. Non c’è nulla che leghi due persone quanto una seria sfida su una scacchiera. Esse diventano le opposte polarità di una creazione mentale che è opera di entrambi, ma in cui uno si annulla a vantaggio dell’altro».

I due avversari negli scacchi, il tedesco Frisch e l’ebreo Tagori, già ostili dall’adolescenza, quando si sfidavano in estenuanti tornei – l’uno metodico e inflessibile, l’altro geniale e febbrile – si ritrovano a Bergen Belsen, l’uno ufficiale nazista e spietato aguzzino, l’altro (salvato dalla morte purché intrattenga con gli scacchi l’ufficiale SS) costretto a barattare al gioco la vita dei compagni con le proprie vittorie. A una mossa inattaccabile ideata dall’ebreo Tagori (la variante di Lüneburg) e avversata teoricamente dal tedesco, è affidato il compito di scovare dopo la guerra l’ex nazista camuffatosi sotto mentite spoglie: Dieter Frisch viene individuato e smascherato attraverso una rivista d scacchi, raggiunto e “processato” in treno dal figlio adottivo di Tagori, costretto alla confessione e alla resa finale. Frisch non regge alla sconfitta nel gioco e nella storia, e si ammazza: ma più che di un suicidio, si tratta di «un’esecuzione capitale,seppure differita nel tempo e nello spazio», affidata agli scacchi.

 

«L’Arena», 7 luglio 1993

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MAURIAC

FRANÇOIS MAURIAC, THÉRÈSE DESQUEYROUX – ADELPHI, MILANO, 2009

A Thérèse Desqueyroux, figura di donna esecrabile, ambigua e umanissima, François Mauriac (1885-1970, Premio Nobel nel 1952) dedicò non solo l’opera omonima del 1927, ma anche un secondo romanzo nel 1935, e due novelle successive, ossessionato dalla vicenda esistenziale e giuridica di lei, ispirata a un reale fatto di cronaca. Cattolicissimo fustigatore dei costumi corrotti della provincia francese – sedicente cristiana –, nascosti sotto coltri di perbenismo di facciata, di omertà e segreti inconfessabili (come in La farisea e in Groviglio di vipere), qui l’autore sembra parteggiare per la protagonista, rea confessa e mai pentita di un tentato uxoricidio. La sua antipatia è tutta indirizzata, infatti, al marito di lei, Bernard Desqueyroux, latifondista ottuso e volgare, interessato solo alla rendita fondiaria, alla caccia, al cibo e alla propria cagionevole salute di ipocondriaco.

“Il più preciso degli uomini, questo Bernard: classifica tutti i sentimenti, li isola, non coglie il groviglio di concatenazioni, di passaggi che li collega…Uno di quei campagnoli che fuori dal buco del loro paese sono ridicoli, e la cui vita non è utile a una causa, a un’idea, a una persona”. Un uomo metodico e controllato, che appartiene “alla razza dei ciechi, all’implacabile razza dei semplici”. Anche l’ambiente in cui si colloca la vicenda dei due coniugi appare da subito grigio e soffocante, immobile nella sua crudele indifferenza verso le persone che lo abitano:

“Angelouse è veramente ai confini del mondo… una frazione composta da un pugno di fattorie, senza chiesa, né municipio, né cimitero, disseminate intorno a un campo di segale… collegate da un’unica strada dissestata… in una serie di viottoli sabbiosi, dopodiché, fino all’oceano, non c’è altro, solo ottanta chilometri di paludi, lagune, pini sparuti e sterili distese dove, alla fine dell’inverno, le pecore hanno il colore della cenere”. Su questo sfondo opprimente si muove Thérèse, non bella ma affascinante, gelida creatura chiusa in un suo rancore di perpetuamente incompresa, costretta dal padre e dalla società a ingabbiarsi in un matrimonio da subito avvertito come una prigione, accerchiata dall’intera famiglia del marito, dalla servitù, dal paese bigotto e ignorante. Thérèse non sopporta Bernard, i suoi maldestri approcci sessuali, il suo russare, la sua conversazione poco brillante: rimane estranea e indifferente anche alla nascita della loro unica bambina, Marie, verso cui confessa di non provare alcun sentimento materno. I rari momenti di apertura nei confronti del prossimo si riducono a saltuarie frequentazioni con la giovane e ingenua cognata Anna, con un parroco rigido e poco classificabile, con un ragazzo tisico, intellettuale anticonformista che cerca vanamente di scuotere l’apatia di lei. A questo punto, il tentato avvelenamento del marito risulta a Thérèse l’unica via praticabile per uscire dalla sua prigione esistenziale: scoperta e processata, viene salvata dal carcere grazie alla testimonianza dello stesso Bernard, che la scagiona per salvare l’onorabilità della famiglia. Nonostante la libertà riottenuta, la protagonista dal piccolo viso “livido e inespressivo” patisce una ben più severa condanna da parte di tutto il cerchio domestico e sociale: isolata, offesa, umiliata da tutti, accetterà di venire allontanata da casa, trasferendosi a Parigi nel tentativo di uscire dal suo disadattamento caratteriale, confusa nell’anonimato della metropoli.

 

«Il Pickwick», 6 novembre 2017

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MAUROUARD

ELVIRE MAUROUARD, RENDERE A NAPOLI TUTTI I SUOI BACI  – ENSEMBLE, ROMA 2015

Nei nove capitoletti in cui è diviso il libro di Elvire Maurouard, Rendere a Napoli tutti i suoi baci, l’autrice offre ai lettori una ricostruzione storica della città partenopea a partire dalle origini mitologiche fino al Regno dei Borboni, rivisitando luoghi e personaggi che l’hanno resa grande e ammirata in tutto il mondo.

Il titolo sembra voler indicare quanto Napoli sia in credito, da parte della cultura e dell’opinione pubblica universale, di stima e affetto (e di baci!), per ciò che nei secoli ha elargito con generosità nell’arte, nella musica e nella letteratura. Un patrimonio di bellezze naturali e di sapere che è stato regalato agli uomini, e che oggi pretende giustamente di venire ricompensato.

Elvire Maurouard, nata ad Haiti nel 1971, membro della Société des Poètes français, è insegnante, giornalista, poetessa e scrittrice di saggi. Autrice di romanzi e racconti pluripremiati e tradotti in molte lingue, si è fatta conoscere dal pubblico italiano per la prima volta con questo pamphlet pubblicato dalle edizioni Ensemble.

Seguendo le tracce dello scrittore e politico francese, fautore dell’indipendenza haitiana, Alphonse de Lamartine (1790-1869), anch’egli affascinato dallo splendore della Campania e cantore entusiasta del suo capoluogo, Elvire Maurouard fonde in una prosa musicale e irruente testimonianze documentarie, ricordi personali, descrizioni impressionistiche e poesie piene di luce e colori, di eccitata e prorompente venerazione: “Napoli! La Vita! La Vita! La Vita!… // Napoli, io ti ho vista! Mi è sembrato che Dio nascesse / nel mio cuore inebriato; ho sentito vibrare il movimento del mondo, / portavo in me la luce di coloro che camminano sui sentieri della verità… // o Città Radiosa e Intramontabile… // Città di inni, camminavo nel tuo cuore / lungo il viale ombreggiato e dorato //…Mi abbagli ancora, luce torrida e infinita”.

All’entusiasmo incontenibile dei versi celebrativi, l’autrice associa un’alta considerazione per tutta la storia, il pensiero, l’arte napoletana. Esalta i filosofi come Giambattista Vico; i musicisti come Corelli, Vinci, di Capua, Jommelli, Durante, Leo, Porpora, Paisiello, Piccinni, Pergolesi; i pittori come Luca Giordano e Salvator Rosa (“pittore delle tempeste che fracassano i vascelli e sradicano le querce, della polvere, delle acque straripanti, delle mischie e del vento”); gli scrittori come Salvatore di Giacomo (“ama cullare il popolo. Lo sente nobile, fiero, degno di ammirazione, di una fierezza ostentata nelle piaghe oscure di Napoli”). Virgilio, “dolce poeta dal limpido verso”, ha la sua tomba in questa città, e qui anche Boccaccio aveva trovato nella procace Maria d’Aquino la sua Fiammetta ideale.

Napoli fonte di ispirazione per grandi artisti, meta privilegiata del turismo universale, ha fornito e ricevuto vicendevolmente prestigio e onore da chi ha ospitato, regalando gioia con la vivacità degli abitanti, con il folklore delle tradizioni, con la spettacolarità dei paesaggi e la magnificenza degli edifici. Ha sofferto invasioni ed epidemie, rivoluzioni e saccheggi, in un avvicendarsi di epoche di miserie e di splendori. “Più volte conquistata, Napoli ha conservato immutata nei secoli la propria personalità. Puntualmente fu vittoriosa sui suoi vincitori: non furono loro a soggiogarla, bensì lei ad accoglierli, sedurli, a farli suoi”.

Una scrittrice haitiana che vive in Francia ha saputo ricordarci con entusiasmo e passione la grandezza e la bellezza di una nostra città, ricca di fascino e contraddizioni.

 

© Riproduzione riservata

https://www.sololibri.net/Rendere-Napoli-tutti-suoi-baci-Maurouard.html      7 giugno 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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MAUVIGNIER

LAURENT MAUVIGNIER, I PASSANTI – DEL VECCHIO, BRACCIANO 2014

Questo romanzo, uscito in Francia nel 2002 e ora pubblicato dall’editore Del Vecchio, ripropone all’attenzione del pubblico il suo autore, celebrato come uno degli scrittori più originali d’oltralpe. Il plot narrativo si riduce in pratica a un solo drammatico episodio, lo stupro di Claire narrato attraverso le voci del violentatore e di un’amica della vittima. Claire non esiste, non esiste la sua umiliazione raccontata da lei stessa, non la sua vergogna e il desiderio di vendetta: silenziosa come quasi sempre chi patisce, ed è sopraffatto da una forza bruta a cui non ha potuto ribellarsi. In compenso, parlano molto gli altri due protagonisti della narrazione, accomunati non solo dalla inconsistenza delle loro vite, ma dalla paura ossessiva di non esistere agli occhi degli altri. Parlano con lunghi monologhi alternati, prodotti con lo stesso monotono stile, colto e filosofeggiante, nonostante si intuisca una loro provenienza sociale poco più che proletaria. Lo stupratore è uno sradicato trentenne che non è mai riuscito a vivere con pienezza la sua esistenza, in fuga dagli altri e da se stesso, ciondolante in vagabondaggi inconcludenti, tormentato dai suoi fallimenti, che attribuisce però alla crudeltà del mondo nei suoi riguardi. L’amica vicina di casa (scontenta di sé, del suo lavoro e dei suoi amori casuali), che era riuscita a trovare una consonanza di sensibilità solo con Claire, non si perdona di non averla difesa, e di avere perso anche lei. Quindi proprio le voci narranti, responsabili in modo diverso di violenza, finiscono per apparire vittime: accomunate dagli stessi pensieri e dalle stesse vigliaccherie, e incredibilmente anche dallo stesso modo di esprimersi. I quattro occhi colorati della copertina, chiusi in uno solo sul retro del libro, ben simboleggiano il soccombere di tutti di fronte al dolore, patito o procurato: forse il titolo francese (Ceux d’à coté) poteva venir meglio tradotto in “quelli accanto”, più colpevoli dei generici “passanti”.

IBS, 13 dicembre 2014

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MAYER

HANS MAYER, I DIVERSI – GARZANTI, MILANO 1992

Sarebbe opportuno e auspicabile riproporre oggi, almeno in e-book, il volume di Hans Mayer I diversi, edito da Garzanti nel 1978 e poi ripubblicato nel 1992, perché il tema affrontato rimane, ahimè, tuttora prepotentemente attuale, nonostante gli incessanti ma inascoltati inviti alla comprensione e al rispetto per qualsiasi minoranza, rivolti agli individui e alle società, alla sensibilità dei singoli e alla legislazione ufficiale. Mai come oggi, però, tale puntuale ed enfatica esortazione viene nei fatti disattesa, con una recrudescenza preoccupante di sadismo, intolleranza, violenza fisica e verbale nei riguardi di chi è “altro”.

Hans Mayer (1907-2001), allievo di Adorno e Horkheimer, distintosi in Germani a noto anche in Italia per i suoi studi letterari sforanti nel sociale, suggerendo coinvolgimenti etico-politici (cfr. Letteratura vissuta, Milano 1991), propose negli anni ’70 una lettura totalizzante, quasi enciclopedica, della discriminazione, che attraversando diacronicamente la storia letteraria mondiale, percorreva un filo di pensiero unificante sulla diversità, individuata in tre grandi categorie umane: la donna, l’omosessuale, l’ebreo.

Servendosi di strumenti scientifici e approcci specialistici eterogenei, confezionò con I diversi un volume ambizioso da utilizzare come manuale e compendio antologico, più che come testo critico vero e proprio. I diversi si propone infatti come libro a tesi, pamphlet politico, già a partire dalla lapidaria affermazione iniziale: “L’illuminismo borghese è fallito… l’uguaglianza formale davanti alla legge… non ha comportato una conseguente uguaglianza materiale delle prospettive di vita”. Considerazione quasi scontata, condivisibile pressoché universalmente, soprattutto per ciò che riguarda i tre gruppi presi in considerazione da Mayer: donne, omossessuali, ebrei pagano ancora a caro prezzo la contraddizione irrisolta di essere altro dalla maggioranza dominante in cui tuttavia sono inseriti. Difficile però parlare coma fa Mayer di tre gruppi omogenei, per cui nei secoli e alle latitudini più diverse siano valse lo stesso tipo di discriminazioni culturali. Cosa unisce Giovanna d’Arco a Klaus Mann, Jean Genet allo Shylock shakespeariano, Giuditta a Edoardo II, Rimbaud ai personaggi ebrei di Dickens e di George Eliot? Basta il tratto unificante della differenza a collegare tra loro esperienze intellettuali e sociali così lontane e ambivalenti? Con quale rigore scientifico si può, oggi, dopo decenni di studi approfonditi della cultura femminista, parlare della donna come “minoranza diversa” in tutta la storia della letteratura dalla Bibbia in poi?

Altrettanto difficile da condividere appare la scelta di Mayer di eludere temi e nomi essenziali all’interno delle tre categorie prese in considerazione, tacendo di autori che hanno dibattuto a lungo, e pagato sulla propria pelle, la diversità: Christa Wolf, Elie Wiesel, Pierpaolo Pasolini, per indicare personaggi notissimi anche al dibattito culturale tedesco, nemmeno citati nel repertorio delle note.

Un volume quindi, quello di Mayer, di notevole interesse documentario, senz’altro pungolante e animato da vis polemica, ma ideologicamente ibrido e formalmente appesantito da uno stile assertivo e perentorio, nella sua monotona paratassi; teutonicamente rigoroso nel negare a noi lettori l’addolcimento di qualche metafora, la pausa diluente di qualche subordinata.

 

© Riproduzione riservata     

SoloLibri.net › Recensioni di libri › I diversi di Hans Mayer              18 dicembre 2023

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MAZZOLARI

PRIMO MAZZOLARI, COME PECORE IN MEZZO AI LUPI – CHIARELETTERE, FIRENZE 2011

«Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a stargli dietro. Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto anche noi. Questo è il destino dei profeti». Con queste parole si esprimeva Paolo VI a proposito di Don Primo Mazzolari, nato in provincia di Cremona nel 1890 e morto nel 1959: figura coraggiosa e indipendente di prete “scomodo”, anticipatore di molte istanze dottrinarie e pastorali del Concilio Vaticano II. Attento soprattutto alla dimensione sociale e politica del Cristianesimo, dal 1921 fu parroco nel piccolo paese di Bozzolo, con proibizione per molti anni di predicare fuori dalla sua diocesi e di pubblicare articoli che esulassero dal commento evangelico.
Sempre a fianco degli ultimi, vicino alla Chiesa dei poveri, e sempre, ostinatamente, capace di lottare in difesa della pace, anche contro il ritardo ecclesiastico nel condannare tutte le guerre. L’appassionata prefazione di Don Virginio Colmegna, commentando la “radicalità profetica” di questi scritti, afferma: “Don Mazzolari ci richiama oggi a riscoprire che quella domanda etica, di senso, spesso ispirata e alimentata dal Vangelo, deve diventare energia politica, deve ambire a diventare protagonista del cambiamento, capace di rinnovare la politica anche nel linguaggi…”

Contro la “politica della pattumiera” di cui parlava Don Primo Mazzolari, Colmegna esprime un auspicio, invitando a leggere il parroco di Bozzolo nella sua coinvolgente attualità: “La politica deve essere competente, plurale, deve pensarsi come servizio, gestendo il potere in modo responsabile, esprimendo professionalità, capacità anche di impresa e di sviluppo”.

 

© Riproduzione riservata     

www.sololibri.net/pecore-mezzo-lupi-Mazzolari.html     7 novembre 2016

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MAZZONI

GUIDO MAZZONI, I MONDI – DONZELLI, ROMA 2010

“I mondi degli altri che si incrociano col mio”, recita un verso di questo libro di Guido Mazzoni, intitolato appunto I mondi (primo libro di poesia dell’autore, allievo di Romano Luperini e docente di Letteratura Italiana all’Università di Siena, che ha già firmato importanti testi di critica letteraria). E questo contrasto tra io-altri, interno-esterno, verità-finzione, solitudine-comunione domina tutte le sei sezioni in cui è suddiviso il volume, che alterna brani in prosa (dal ritmo lento e meditato, intenso e introspettivo) a poesie dall’andamento narrativo e per lo più paratattico, che sembrano quasi svolgere la funzione di eco, di intensificato ribadimento alle asserzioni in prosa.

Versi e prose prendono spesso spunto da avvenimenti biografici: un’operazione subita nell’adolescenza, “la possibilità della mia morte… la marginalità del mio destino fra quelle porte a vetri”; il piccolo appartamento in periferia pagato con un mutuo che fa litigare i genitori; i coinquilini laboriosi contenti del poco che hanno; la commessa che ripete docilmente gli stessi gesti “aderendo a ciò che le è accaduto, a ciò che è stato fatto di lei, come a un destino che è insensato contestare”; il figlio neonato esibito da una coppia amica, impaurita e fiera del suo nuovo, “irreversibile” destino genitoriale.
Ma pur partendo da esperienze personali, Guido Mazzoni sa fare emergere, con consapevole e compassionevole malinconia, la sua pacata riflessione su ciò che accomuna tutti gli esseri umani: un’esistenza di solitudine e incomunicabilità, di finzioni pubbliche e disperazioni private, di fallimenti personali e approdi finali che conducono al nulla: “Non c’è un senso ma un infinito adattamento”, “ogni istante basta a se stesso/ e alle cose che ripete”, “nell’incredibile/ massa degli altri per cui non esistiamo. Oggi penso/ che l’essenziale non sia comunicabile,/ ma imploda al di fuori di noi”, “solo violenza al fondo delle cose”, “Ora so che non ha senso rompere/ la miopia che ci fa esistere”. Estraneità, rassegnazione, sconfitta. Anche la poesia si orienta verso un’oggettivazione disincantata dell’esistenza, verso una sconsolata filosofia.

 

© Riproduzione riservata       www.sololibri.net/I-mondi-Guido-Mazzoni.html     16 settembre 2016

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MAZZONI

GUIDO MAZZONI, LA PURA SUPERFICIE – DONZELLI, ROMA 2017 – euro 13 – pp. 78

La chiave per entrare nelle poesie di questo volume edito da Donzelli sta forse nella citazione di Kafka ad esergo: «Da tutte le cose mi separa uno spazio cavo che non mi affretto a delimitare».

La pura superficie delle cose, che Guido Mazzoni osserva e racconta in versi e prosa, rimane appunto cava, distante, estranea, offrendosi indifferente allo sguardo dell’autore, compreso in un ruolo di documentarista obiettivo e poco coinvolto nell’esplorazione di sé e del non sé, quasi infastidito dalla materialità di ogni vicinanza. Contiguo è l’altro, ma non vicino. E anzi, disturbante, angoscioso nella sua pretesa di rendersi presente, nella sua presuntuosa richiesta di attenzione: «la vita degli altri è bianca e spettrale», «Ciò che siete non è reale. Ciò che siete vi oltrepassa a ogni istante», «siete un luogo inabitato».

Se gli altri sono “spettrali”, l’autoritratto che l’autore dipinge di sé è altrettanto impietoso: «Sono una piccola persona, nessuna fede / mi accoglie veramente, voglio molto poco», «Io sono soltanto questo aneddoto», «Non aderisco a nulla», «Ho quarant’anni, sono fatto di pezzi, nulla mi giustifica». Esperienze personali e tragedie collettive risultano intercambiabili, nella coscienza poetica attonita e sconcertata di Guido Mazzoni (il Brasile delle favelas e del latifondo, il G8 di Genova, le Torri Gemelle, l’oscena ferocia delle esecuzioni dell’Isis): brani narrativi intercalati a versi, risentiti nel richiamo severo a un’indignazione morale che tuttavia si confessa insincera, fittizia, probabilmente morbosa nella sua attrazione verso la brutalità delle stragi: «si capisce che gli altri non ci riguardano o non ci interessano», «Da qualche tempo gli eventi scivolano sopra di me, / non mi toccano».

Uno schermo difende e protegge da ogni alterità, e insieme intrappola, condanna a un’inscalfibile incomunicabilità, a una gelida ipnosi. Tanto è vero che il mezzo di trasporto più raccontato è anche il più freddo e impersonale, il più veloce e sotterraneo: la metropolitana, in cui è impossibile stabilire qualsiasi tipo di rapporto che travalichi “la pura superficie”: i viaggiatori si guardano “opachi”, definendosi tra loro con un unico attributo (calabrese, simpatico, studente fuori sede, tatuata, stronzo, filippino…). Il reale, la storia non appaiono più interpretabili con gli schemi rigidi del passato – bene e male divisi nettamente a metà, capitalismo e socialismo, sfruttati e sfruttatori – se persino il proletariato dà fastidio, le donnette precarie sono galline, i giovani insulsi e prede di tempeste ormonali, i colleghi insopportabilmente vacui. Small talk, telefonate, cene noiose, cazzeggi, video porno, sesso intristito, fisicità escrementizia. Si salvano rare e antiche relazioni amichevoli, mai troppo intime, con intellettuali di cui viene citato il nome, collaboratori del blog ideato dall’autore: Gigi Simonetti, Rino Genovese, Daniele Balicco. Oppure uno scampolo di genuinità può venire offerto dalla lettura reinterpretata di Wallace Stevens, presente in ogni sezione del volume con la sua serena adesione all’autenticità della natura.

Un’infelicità senza desideri, quella espressa da Guido Mazzoni, in versi che forse lui stesso troverebbe retorico definire poetici: denotativi, prosastici, privi di qualsiasi ritmo, artificio letterario, innovazione linguistica: «Ho scritto un testo che non tende a nulla. Vuole solo esserci, come tutti. / Ho scritto un testo che rimane in superficie».

 

© Riproduzione riservata  

www.sololibri.net/pura-superficie-poesie-mazzoni.html         4 ottobre 2017

 

 

RECENSIONI

Mc CARTHY

CORMAC Mc CARTHY, FIGLIO DI DIO – EINAUDI, TORINO 2008

Ambientato nel Tennessee contadino più squallido e ottuso, questo romanzo di Cormac McCarthy ha come protagonista un uomo violento e solitario, che conduce un’animalesca esistenza in “una vecchia casa di assi”, in simbiosi col suo fucile, con asce e coltelli, con le bestie del bosco, e con i pochissimi esseri umani che riescono a sopportare la sua presenza. Lester Ballard “è piccolo, sporco, con la barba lunga. Si muove con impacciata ferocia tra la paglia secca, in mezzo alla polvere e alle strisce di luce…Nient’altro che un figlio di Dio come voi, forse”. Ma di un dio minore, evidentemente, a cui non crede, convinto solo di dover difendere rabbiosamente il suo minimo spazio vitale, e la sua sopravvivenza ferina. McCarthy ne descrive con implacabile precisione e oggettività ogni movimento, soffermandosi solo sui suoi gesti esteriori: dai più umilianti e banali a quelli derivati dalla sua indifferente crudeltà. Lester Ballard sembra non avere anima né sentimenti, quindi l’autore non fa alcun cenno ad essi. Lo racconta in terza persona, osservandolo da distanza ravvicinatissima. E lo fa raccontare dal coro anonimo dei suoi compaesani,esasperati o compiaciuti della sua asociale brutalità, ma spesso selvatici quanto lui. Furbo e cattivo, fa del suo odio un’arma rivolta contro tutti: vicini di casa, fedeli della parrocchia, animali selvatici e domestici, e donne. Soprattutto donne. Da spiare, sporcare, offendere, violentare, uccidere. Durante un inverno impietoso, Ballard si trasforma da morboso guardone di coppiette a loro assassino, ossessionato dai corpi morti su cui infierisce, accoppiandosi coi cadaveri delle ragazze, svestendole e rivestendole con furore necrofilo, abbandonandosi a ogni perversione e crudeltà prima di collezionarne e nasconderne i cadaveri. Braccato dalla legge e dal desiderio di vendetta dei suoi concittadini, muore banalmente in prigione per una polmonite, senza pentirsi: sepolto in solitudine come conviene a un mostro, “figlio di dio”.

IBS, 28 agosto 2014