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RECENSIONI

MISHIMA

YUKIO MISHIMA, IL PADIGLIONE D’ORO – FELTRINELLI, MILANO 2015

Il padiglione d’oro (Feltrinelli, 2015) di Yukio Mishima, pubblicato in Giappone nel 1956 e oggi riproposto, ambientato negli anni della seconda guerra mondiale e del primo dopoguerra: anni di fanatismo, dolore, sconfitta e rancorosa volontà di rivincita morale, per l’impero nipponico e per i suoi abitanti. Di questi sentimenti, e di altri (esaltato estetismo, incandescente desiderio di purezza, morbosa attrazione verso il male e il peccato), Mishima rende testimonianza nella figura del giovane protagonista Mizoguchi, aspirante monaco buddista, balbuziente e deforme, scisso tra complessi di inferiorità e consapevolezza orgogliosa della propria superiore intelligenza: «Per un ragazzo tanto irrimediabilmente riservato e chiuso, non era forse naturale ritenersi creatura eletta? Mi pareva d’aver atteso in qualche parte del mondo, chiamato a compiere una missione che era ancora ignota a me stesso».

Mizoguchi analizza con spietatezza sentimenti e azioni di chiunque lo circondi: la madre ignorante e meschina, il padre abate rassegnato al proprio fallimento, i religiosi melliflui e compromessi del suo monastero, i due amici più cari (la nobiltà severa del primo, lo scaltro opportunismo vincente del secondo), e poche, ributtanti figure femminili, ridotte quasi sempre al rango di prostitute.
La stessa concentrata attenzione ai corpi e alle anime di chi avvicina, viene rivolta dal giovane anche agli oggetti, alla natura, agli ambienti: ma soprattutto all’osservazione analitica, feroce, dei propri sentimenti e pensieri. Sapendosi brutto e rifiutato dagli altri, è ossessivamente affascinato dalla bellezza, dalla sua immutabile persistenza, dalla sua salvifica necessità. Al punto di programmare con spietatezza la distruzione del grandioso padiglione quattrocentesco di un santuario di Kyoto, emblema per lui di inarrivabile gratuità, eleganza, grandezza spirituale. Mishima sa muoversi magistralmente nei meandri di una mente e di una cultura impregnate di estetismo, devozione e spregio.

 

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www.sololibri.net/IL-PADIGLIONE-D-ORO-YUKIO-ISHIMA.html     21 dicembre 2016

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MISHIMA

YUKIO MISHIMA, MARTIRIO – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2009

L’editrice pistoiese Via del Vento pubblica questo libricino di Yukio Mishima, «personalità complessa, di tendenze manifestamente omosessuali, romantico, narcisista, soggiogato dai temi della sensualità e della morte, esaltato difensore delle tradizioni del sistema imperiale, e amareggiato per il progressivo e inarrestabile processo di occidentalizzazione del suo paese» al punto di scegliere di darsi violentemente e platealmente la morte, a 45 anni, con harakiri.
Martirio, un racconto di poche pagine, scritto nel 1948 (quando l’autore era solo ventitreenne, un anno prima del suo capolavoro, Confessioni di una maschera), è teso e compatto, vibrante di un’atmosfera di morbosa e ossessiva negatività. Ambientato in un collegio per «rampolli dell’aristocrazia», ricorda temi e suggestioni di due capolavori della letteratura occidentale: I turbamenti del giovane Toerless e Il Signore delle mosche. Come in questi, qui è il male che incombe nelle vicende claustrofobiche e brutali di un gruppo di adolescenti, «armati di una freddezza di cuore e un’arroganza degna di tanti adulti». Vicende che si snodano attraverso le due direttrici delle pulsioni di Eros e Thanatos, «nel loro tragico e inevitabile darsi avvinghiate in tossica unità» come spiega il postfatore Francesco Cappellini.

Il piccolo Watari, «di stupefacente bellezza» viene preso di mira ed è oggetto di angherie da parte degli allievi più grandi, perché estraneo al branco, ribelle alle sue regole e ostinatamente rivolto con lo sguardo al cielo «come fosse Cristo». Sorpreso a rubare, viene selvaggiamente picchiato e infine impiccato, mentre i compagni danzano «come piccoli demoni» intorno a lui, orgogliosi «di aver ucciso qualcuno».
Un Martirio come quello del San Sebastiano di Guido Reni che tanto aveva turbato la sessualità giovanile di Yukio Mishima. Il fatto che il corpo di Watari alla fine del racconto scompaia, lasciando penzolare la corda vuota liberamente, aggiunge un ulteriore, irrazionale elemento di angoscia alla narrazione.

 

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www.sololibri.net/Martirio-Yukio-Mishima.html       3 luglio 2016

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MISHIMA

YUKIO MISHIMA, TRASTULLI DI ANIMALI – FELTRINELLI, MILANO 2008

Prescindendo dal titolo,  piuttosto infelice e ammiccante, ma in realtà allusivo ai caratteri poco razionalmente controllati dei tre protagonisti, e ai ruoli da loro assunti seguendo una sorta di istinto epidermico (“come animali che s’incontrano per la prima volta, si fiutavano reciprocamente con una attitudine pericolosa”), questo romanzo di Yukio Mishima conferma la maestria dell’autore: non solo nell’introspezione psicologica dei personaggi, e nella corrispondente descrizione fisica e ambientale, ma soprattutto nella costruzione a incastro degli avvenimenti, nella rivelazione imprevista di cause precedenti e di effetti susseguenti al loro agire, nell’epilogo drammatico di altissima tensione. Riguardo al quale, la quarta di copertina rivela essere stato scritto di getto da Mishima la notte del capodanno del 1961, dopo aver ascoltato il Fidelio di Beethoven alla Scala di Milano.
Il paesaggio gentile e luminoso del paesino di pescatori nella penisola di Izu (“luce lacerante … accecante mare … infuocata panchina … sole troppo abbacinante… raggi ardenti …”), fa da contrasto alle ombre che avvolgono i sentimenti e l’esistenza dei protagonisti, riassunta icasticamente in una frase all’inizio della narrazione:
“Anzitutto c’era una donna infelice e disperata. Un marito egoista e crudele. Un giovane compassionevole, pieno di vigore. E con ciò la storia sembrava già compiuta”.
Tre, dunque, gli attori sulla scena. Ippei, professore universitario di tedesco, intellettuale vanesio riconvertitosi al commercio, elegante quarantenne amante del lusso e delle donne; sua moglie Yūko, fragile e tormentata; il giovane e vigoroso Kōji, loro dipendente, invaghito della padrona. Accecato dalla gelosia, ma soprattutto rabbioso per le continue umiliazioni che il marito-padrone impone a tutti, gli fracassa la testa procurandogli un’emiparesi afasica.
Dopo due anni trascorsi in carcere, Kōji viene accolto nuovamente dalla stessa coppia, ora proprietaria di un avviato vivaio, a perpetuare una penosa convivenza accanto all’uomo disabile – trasformato in una inespressiva maschera tragica – e alla sposa infermiera: in tre prigionieri della stessa plumbea atmosfera fatta di rimorso, pietà, rancore, paura, dedizione e odio.
Rapidamente il romanzo si avvia verso la sua inevitabile e sconvolgente conclusione, sempre mantenendo però un’attenzione e una sensibilità quasi fotografica alla descrizione dei particolari, fisici e paesaggistici, che fanno da sfondo ai dialoghi, ai monologhi, ai silenzi dei tre personaggi. E lo scavo nelle emozioni profonde delle loro anime, nei rovelli dei sentimenti, nell’inevitabilità di un destino che sembra sopraffarli e decidere per loro, ci restituisce il pathos della grande narrativa, quando si confronta con i temi eterni della colpa, della morte, dell’amore.

 

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www.sololibri.net/Trastulli-di-animali-Yukio-Mishima.html   2 gennaio 2016

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MISTRAL

GABRIELA MISTRAL, CANTO CHE AMAVI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2010-2018

Prima poetessa latinoamericana a ricevere il Nobel nel 1945, la cilena Gabriela Mistral (Vicuña, 1889-New York 1957) ebbe un’esistenza ricca di passioni civili e avvenimenti eccezionali. Nata in una famiglia di modeste condizioni in un paesino alle pendici delle Ande, iniziò giovanissima a insegnare come maestra rurale, progredendo caparbiamente negli studi e nella professione fino ad assumere incarichi dirigenziali al Ministero dell’Istruzione, e in seguito a rivestire la carica di Console in diverse città europee e americane, sempre mantenendo vivo il suo interesse per le riforme scolastiche e l’impegno in favore delle classi sociali più indigenti e dei diritti delle donne. Non ancora quarantenne, aveva affermato di sé: “Sono cristiana e integralmente democratica. Credo che il cristianesimo, con il suo profondo senso sociale, possa salvare i popoli. Ho scritto come chi parla nella solitudine. Infatti sono vissuta molto sola dovunque. I miei maestri d’arte e di vita: la Bibbia, Dante, Tagore e i russi… Il pessimismo in me è un atteggiamento di malcontento creativo, attivo e ardente, non passivo. Ammiro, senza professarlo, il buddismo, che per qualche tempo conquistò il mio spirito… Vengo da una famiglia di contadini e sono una di loro. I miei grandi amori sono la fede, la terra, la poesia…”.

Proprio come poetessa ottenne molti riconoscimenti, pubblicando diverse raccolte (Desolazione, Tenerezza, Taglio del bosco, Torchio, Poema del Cile), in cui parlava di amore e politica, religione e femminismo, bellezze naturali e ingiustizie sociali. Il suo vero nome era Lucila Gogoy Alcayaga, ma aveva scelto lo pseudonimo di Gabriela Mistral in onore di due poeti da lei molto amati: il nostro Gabriele D’Annunzio, e l’occitano Frédéric Mistral, Premio Nobel nel 1904.

L’editore milanese Marcos y Marcos ha di recente ripubblicato un’antologia, Canto che amavi, che raccoglie testi dell’autrice cilena dai contenuti e dalle forme più differenziate, ma tutti animati da un’insopprimibile energia vitale, da un’esplicita volontà comunicativa, da una radicale esigenza di chiarezza stilistica.

Dalla sua famiglia di donne forti e indipendenti (la nonna ebrea, la madre abbandonata dal marito con le figlie ancora piccole, la sorella che l’aveva sempre incoraggiata e sostenuta nella carriera) Gabriela ereditò l’intraprendenza e il coraggio di opporsi alle convenzioni sociali e al maschilismo patriarcale del Cile del primo ’900. A loro dedicò versi di gratitudine e rimpianto, consapevole che all’universo femminile è spesso demandato di sopportare la fatica quotidiana dell’esistere, con la relativa delusione di un mancato riconoscimento affettivo, culturale e sociale.

Gli intensi e sofferti amori della sua vita (il fidanzato Romeo Ureta Carvajal morto suicida, la scrittrice statunitense Doris Dana a cui fu legata dal dopoguerra fino alla morte), furono raccontati in poesie appassionate, in cui dolore e dedizione assumono tonalità di struggente coinvolgimento: “Io ti stenderò in terra soleggiata con una / tenerezza di madre per il figlio dormiente, / e si farà la terra morbidezza di culla / accogliendo il tuo corpo di bimbo addolorato”, “Ti attendo senza limite né tempo. / Tu non temere notte, nebbia o pioggia. / Vieni per strade conosciute o ignote. / Chiamami dove sei, anima mia, / e avanza dritto fino a me, compagno”, “Mi son seduta a metà della Terra, / amor mio, a metà della vita, / apro le vene e il cuore, / mi schiudo in melograno vivo, / e rompo il mogano rosso / delle mie ossa che ti amavano”.

Sempre la morte aleggia come spettro ed emblema di irreparabile ingiustizia nelle sue composizioni: sia quella della madre (“Questa morte è stata per me una lunga e oscura sosta, un paese dove ho vissuto cinque o sei anni, paese amato per la presenza di mia madre, paese odiato per la lunga stasi della mia anima in una profonda crisi religiosa”), sia quella dell’amatissimo nipote Juan Miguel, uccisosi a diciassette anni.

Viscerale è l’attaccamento che Gabriela esprime per tutto ciò che la circonda: persone e paesaggi. Racconta dei campesinos sfruttati nei latifondi (“chi semina, chi irriga, / chi fa potature e innesti, / chi taglia e si accolla / sotto un sole di fuoco / anguria, viscera rosa, / melone che sa di cielo, ancora una volta, ancora / non ha un suo pezzo di terra”); di madri che allattano neonati denutriti (“Dai! Non è vero che tremi / come un Gesù Bambino / e che il seno di tua madre / si seccò di sofferenza!).

Descrive le distese di campi di mais (“Il santo mais s’innalza / in due impeti verdi, / e assopito si riempie / di tortore ardenti”), il mare rugghiante (“E morì il mare una notte, / da una riva all’altra riva; / si raggrinzì, si restrinse, / come un manto ritirato. // Come un albatros ebbro / o un animale in fuga, / fino all’ultimo orizzonte / con dieci ondate correva”), le montagne (“Quando sogno la Cordigliera, / le sue lunghe gole attraverso, / e di esse odo, senza tregua, / un fischio quasi un giuramento”), i fiumi (“Nella valle del Rio Blanco, / là dove nasce l’Aconcagua, / giunsi a bere, balzai a bere / sotto la sferza di cascata, / che cadeva fluente e dura / e si rompeva aspra e bianca”), l’Oceano (“Vedo alla fine del Pacifico / il mio arcipelago livido, / e un’isola mi ha lasciato / di alcione morto odore acido”).

Lo stile usato da Gabriela Mistral ovviamente muta nel tempo, adeguandosi ai contenuti trattati e alle varie influenze letterarie assorbite durante le lunghe permanenze in paesi stranieri: alla base della sua scrittura rimane comunque l’eredità della formazione culturale contadina, con i frequenti apporti sia di termini regionali e formule proverbiali, sia di simbologie tradizionali religiose. Il traduttore del volume edito da Marcos y Marcos, Matteo Lefèvre, nella nota finale così commenta la sua tecnica formale: “La poesia di Gabriela Mistral delinea un universo ritmico e metrico vario e complesso. La poetessa cilena spazia infatti da liriche che adottano o rivisitano metri tradizionali della lirica romanza (sonetto) a composizioni che invece mostrano un’architettura ritmica e un sistema di versificazione molto più articolato e originale”.

Il rapporto tra Gabriela e il Cile è stato sempre problematico e ambiguo. Fu spesso discriminata perché le sue poesie non corrispondevano ai criteri politici e culturali di una società ancora fortemente maschilista e conservatrice. Alla sua morte, avvenuta a sessantasette anni per tumore al pancreas, le sue disposizioni testamentarie non vennero rispettate, né per quanto riguardava la sepoltura, che avrebbe voluto avvenisse nell’amata città cilena di Montegrande, né per la donazione di una cospicua parte dell’eredità ai bambini poveri del quartiere in cui aveva trascorso l’infanzia.

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 4 settembre 2020

 

 

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MODIANO

PATRICK MODIANO, BIJOU – EINAUDI, TORINO 2014

Una storia di rassegnata infelicità, quella raccontata da Patrick Modiano in questo romanzo breve del 2001. Bijou era il nome dato alla ragazza Therese quando era piccola: così la chiamava sua madre prima di abbandonarla e di scappare in Marocco, senza dare più notizie di sé. Una madre inquieta, dalle confuse aspirazioni artistiche, che aveva dovuto rinunciare alla sua professione di danzatrice in seguito a un incidente. Therese, cresciuta senza affetti e senza radici, si trova a vagare in una Parigi allucinante e desolata, con la disperazione di chi sa di non avere nessuno che l’aspetti da qualche parte. Le rimangono ricordi annebbiati della sua infanzia, poche foto, l’immagine di stanze disadorne e di lontani parenti imbarazzati e sempre sulla difensiva. La giovane si imbatte in alcune presenze: una coppia problematica e sospettosa che le affida la propria bambina da seguire per alcune ore pomeridiane, ma poi sparisce misteriosamente, forse per nascondere qualche attività illecita. Un giovane traduttore che le offre un’ospitalità garbata, e tuttavia priva di slanci. Una matura farmacista che la segue con affetto materno e protettivo, ma senza rivelarle i veri motivi del suo interessamento. Soprattutto, però, una donna sconosciuta incontrata in metropolitana, nei cui lineamenti Therese si illude di ritrovare il profilo materno, e che segue con ansia ostinata nei meandri della più squallida periferia parigina, cercando informazioni su di lei nel suo malinconico caseggiato, senza trovare tuttavia il coraggio di presentarsi. Le frasi brevi, secche, prive di metafore e scarse di aggettivazioni con cui Modiano descrive la triste vicenda della ragazza, ben accompagnano il perdersi di lei, senza scopo o aspettative, nella metropoli indifferente: il vezzeggiativo del titolo rende ancora più amara la sua scelta finale di bambina arresa alla solitudine, non ancora pronta a rinascere, bloccata in una ghiacciata incubatrice.

IBS, 15 gennaio 2015

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MODOTTI

TINA MODOTTI, IRRECUPERABILE RIBELLE – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2016

Nella curata ed elegante collana I quaderni delle edizioni pistoiesi Via del Vento è da poco uscito Irrecuperabile ribelle, un libriccino di pensieri sulla vita e l’arte della fotografa Tina Modotti, curato e tradotto da Francesco Cappellini che, nella sua postfazione, afferma: “La fotografia autentica possiede sempre qualcosa di sovversivo e rivoltoso: le immagini della Modotti rimandano direttamente alla sua passione, al suo amore e al suo impegno per gli umiliati e offesi di cui scelse di mettersi al servizio… Tina rivolge la sua attenzione alla realtà umana e sociale che la circonda cogliendone la bellezza e la dignità senza mai correre il rischio di scadere, da una parte in una forma di miserabilismo e pietismo, dall’altra nel reportage fotografico etnografico fine a se stesso”.

Sovversiva e rivoltosa, quindi, come fotografa; Irrecuperabile ribelle come donna e attivista politica: Tina Modotti nacque a Udine nel 1896, e a diciassette anni raggiunse il padre, “agitatore socialista e libertario”, in California. L’accurata biografia che conclude questa pubblicazione ci narra le vicende turbinose della sua vulcanica esistenza, conclusasi nel 1942 a Città del Messico, dove Modotti fu colta da infarto all’interno di un taxi. La sua fine, come tutta la sua vita, fu avvolta da ipotesi leggendarie di complotti, perché l’artista e la donna mai si era sottratta alla radicalità dei sentimenti privati e dell’impegno politico, che l’aveva resa invisa al potere ma amata dal popolo e dall’opposizione di sinistra.
Con il primo compagno, un pittore canadese, si trasferì a Los Angeles, tentando la carriera cinematografica, ben presto abbandonata. Conobbe quindi il famoso fotografo Edward Weston, che la introdusse nel suo ambiente artistico, insegnandole i primi rudimenti del mestiere, di cui la giovane riuscì ben presto a impossessarsi con assoluta maestria. Insieme, si trasferirono nel 1923 in Messico, allora polo di attrazione per tutte le avanguardie politiche e culturali del mondo, negli anni di ricostruzione sociale post-rivoluzionaria. Qui l’abilità tecnica di Tina trovò nutrimento e spessore in una maturazione della sua coscienza civile e umana, interessata a testimoniare i disagi e le lotte della popolazione più umile. Prima arrestata e poi espulsa dal paese, riparò a Mosca, diventando membro del Soccorso Rosso Internazionale, e impegnandosi in attività clandestine e in missioni segrete internazionali a fianco del nuovo compagno Vittorio Vidali. Con lui partecipò alla lotta anti-franchista durante la guerra civile spagnola, stringendo rapporti di amicizia con Robert Capa, Hemingway, Machado e Dolores Ibarruri. Sempre con Vidali tornò poi in Messico, in un regime di semi-clandestinità.
Dell’attività di fotografa di Tina Modotti, limitata ad un arco di cinque anni (dal 1924 al 1929), rimangono solo duecento fotografie, alcune delle quali sono riportate in queste pagine, il cui valore sta soprattutto nel proporre al lettore l’unico scritto programmatico di Tina, e una scelta di lettere inviate al suo grande amore e mentore Edward Weston. Di questa breve antologia offriamo qui alcuni stralci: “Penso di essere una fotografa, nient’altro. Se le mie fotografie risultano diverse da ciò che solitamente viene fatto in questo campo, è esattamente perché cerco di produrre non arte ma fotografie oneste, senza distorsioni o manipolazioni. La maggior parte dei fotografi cerca ancora effetti “artistici”, limitando altri mezzi o espressioni grafiche… La fotografia, proprio perché può essere prodotta solo in quell’istante e perché si fonda su ciò che oggettivamente esiste davanti all’obiettivo, costituisce il mezzo più soddisfacente per registrare la vita vera in tutti i suoi aspetti, e da ciò deriva il suo valore documentario”; “Questo problema della vita e dell’arte è la mia tragicommedia – lo sforzo che faccio per dominare la vita è tutta energia sprecata che potrebbe essere usata meglio se la dedicassi all’arte – allora sì che avrei più cose da mostrare”;  “Edward caro – mi sento così ricca e fortunata per averti conosciuto in questa vita – per esserti stata vicino, per averti amato e per amarti. Benedetto il giorno in cui abbiamo capito che avevamo ambedue qualcosa da dirci”.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Irrecuperabile-ribelle-Modotti.html      24 agosto 2016

RECENSIONI

MONTALE

EUGENIO MONTALE, PRODA DI VERSILIA – EINAUDI, TORINO 2013 (ebook)

Enrico Testa (Genova, 1956) ‒ saggista, poeta e professore di Storia della Lingua italiana all’Università di Genova ‒, ha commentato in un ebook einaudiano una delle poesie più complesse di Eugenio Montale, Proda di Versilia, pubblicata in rivista per la prima volta nel 1946 e poi compresa nel volume La bufera del 1956. Testa ci offre una disamina approfondita del testo montaliano, analizzando la metrica (che adotta in misura quasi esclusiva l’endecasillabo), l’utilizzo contenuto delle rime e la varietà del lessico, ricco di forestierismi, vocaboli desueti, dotti, settoriali o di nobile ascendenza letteraria. Lontano da ogni ovvietà e facile discorsività, il linguaggio di Montale si definisce proprio in questa ricercatezza ed estrema precisione della terminologia, tendente a evitare qualsiasi vaghezza o approssimazione. Nessuno sperimentalismo fine a se stesso, quindi; invece un ancoraggio costante alla nostra tradizione letteraria più illustre: Dante e Leopardi in primis, con rimandi intertestuali «sottoposti ad un viraggio di significato e investiti di connotazioni distinte dalla ‘fonte’ originaria».

Il «classicismo moderno» montaliano instaura una relazione tra la tradizione dei classici e «la partecipazione al dramma e al gusto contemporaneo», servendosi di temi, argomenti e prospettive attuali, ma attraverso una ricerca formale «ferrea, sensibile e concreta» che sa mantenersi in equilibrio tra una sostenuta ed elegante eloquenza e una serie di distorsioni più colloquiali capaci di movimentare l’andamento del testo.

Proda di Versilia si compone di «quattro lunghe strofe strutturate sintatticamente in maniera assai complessa con ricco sfoggio di subordinate, incisi, parentetiche». Enrico Testa le commenta analiticamente, indicandone i fondamentali elementi stilistici (anafore, antitesi, cambi di soggetto, elencazioni, parentesi, incisi, sospensioni) e di contenuto (scarti temporali, squarci di memorie, descrizioni paesaggistiche, botaniche e ittiche). Il contrasto più evidente messo in luce dall’indagine testiana è quello tra il presente e il passato, i vivi e i morti, il bene e il male: «Un raffinato sistema di corrispondenze e opposizioni semantiche che introduce ad un luogo, ad uno spazio: quello, perduto, dell’origine, delle sue figure e del suo tempo». Questa poesia infatti «può anche essere letta come tappa fondamentale di un processo mentale e immaginativo e di un percorso tematico che hanno impegnato Montale per tutta la sua esistenza poetica»: la Liguria dell’infanzia diventa luogo mitico proprio perché perduto, quindi da riedificare liricamente attraverso elementi concreti dell’ambiente circostante in cui vive l’età adulta.

Il percorso intellettuale e di scavo conoscitivo che ha condotto Montale ad essere uno dei massimi poeti del ’900 ha senz’altro come punto di partenza i «primi anni» di Proda di Versilia, in cui si muovono le «care ombre» del passato, ma non va ridotto allo stereotipo nostalgico dell’abbandono di un mondo magico reso irrecuperabile da deturpazioni ambientali e corruzioni morali. Nella sua «arca privata» il poeta salva «figure, oggetti, animali, ricordi che travalicano spazi e tempi», diventando «etnografo di se stesso e della sua tribù perduta». Lungi dal celebrare retoricamente un’età trascorsa, cementandola in un monumento «marmoreo ed egolatrico», Eugenio Montale recupera consapevolmente figure, vicende e luoghi marginali, colloquiando con loro senza la pretesa di raggiungere i «valori alti e trascendenti del miracolo». Non più, dunque, una tensione verso l’eternità e il suo nulla, ma un parlare, per quanto nostalgico e rievocativo, in grado di attingere al proprio mondo vitale e primitivo, però in relazione con la realtà attuale, precariamente concreta: saldando inizio e fine nelle loro inquietudini e contrasti, aldilà di ogni favola, invenzione o trascendimento onirico.

Una lettura, quella di Enrico Testa, che ci aiuta a penetrare nei significati più difficilmente decifrabili della poesia montaliana, e ci sollecita a rileggere quel capolavoro che rimane tuttora La bufera, recentemente riproposto da Mondadori.

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/Proda-di-Versilia-Montale.html     26 agosto 2019

 

 

 

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MONTALE

EUGENIO MONTALE, LA BUFERA – MONDADORI, MILANO 2020

 

«Montale occupa, nella poesia italiana del Novecento, lo stesso posto che Leopardi occupa nella poesia dell’Ottocento: è l’autore più importante del secolo, colui che ha cambiato, una volta per sempre, il modo di intendere la lirica moderna nella nostra letteratura».

Con queste parole di elogio e profonda considerazione, Guido Mazzoni apre il suo saggio introduttivo al volume mondadoriano dedicato a La bufera, terzo libro di versi di Eugenio Montale, pubblicato da Neri Pozza nel 1956, diciassette anni dopo Le occasioni, una volta trascorsa e metabolizzata la sardana infernale della seconda guerra mondiale, di cui molte poesie rendono sofferta testimonianza. Una bufera storica, quella che ha investito le sorti del mondo, ma anche «guerra cosmica, di sempre e di tutti», come ebbe a chiarire lo stesso autore, che in quegli anni visse tribolate vicende personali (politiche, professionali e sentimentali), ben documentate dalla biografia curata da Tiziana de Rogatis.

Mazzoni indica nella prefazione le ragioni della centralità di Montale nella storia letteraria italiana, e quelle per cui La bufera risulta altrettanto nodale all’interno della sua produzione. Difficile, ma non oscura, la scrittura del poeta genovese si offriva come alternativa al crepuscolarismo, all’ermetismo e al simbolismo, rifuggendo sia da qualsiasi impenetrabile autoreferenzialità (l’orfismo inesplorabile dal senso comune, il soggettivismo incomunicabile nella sua esclusiva arbitrarietà), sia dall’incontrollata caoticità delle procedure avanguardistiche e surrealiste. Il classicismo moderno di Montale si pone invece come comunicabile al lettore, pur nella sua ardua interpretazione, perché mantiene un riferimento preciso alla realtà, ai dati sensibili della memoria, alla descrizione di persone, ambienti e oggetti, per quanto possano essere privati e individuali. Pur esibendo uno stile “alto”, di grande compostezza formale e legato alla tradizione letteraria, è riuscito a mantenersi ancorato ai dati reali dell’esistenza e della storia, fedele a un contesto di vita quotidiana esperibile da chiunque.

Guido Mazzoni individua quattro elementi caratterizzanti il classicismo montaliano. In primo luogo la continuità (metrica, sintattica e lessicale) con la lirica premoderna di stile tragico, ma in una maniera dinamicamente dialettica, senza ossequi restaurativi al passato, e invece con aperture al plurilinguismo, al repertorio colloquiale, a una terminologia tecnicamente esatta ed eterogenea. Secondariamente, l’io cui si rifanno le poesie è definito da un ideale umanistico di signorilità e compostezza, con precise caratteristiche di ceto e di classe, individuabili più come categorie dello spirito che come categorie sociali. In terzo luogo, Montale interpreta in maniera umanistica e raffinata la crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo e i suoi conflitti interiori, dando all’esperienza personale un valore universale, senza pietismi, ribellioni, autoflagellazioni ironiche. Infine, sull’esempio eliotiano, evita l’effusione soggettiva, sentimentale e retorica, preferendo al compiacimento egotistico, all’accentramento soggettivo individuale, un’oggettivazione del mondo concreto e vissuto; nessuna immediatezza descrittiva o ansia di confessione tardoromantica, dunque, ma la capacità di circostanziare in un racconto partecipabile al lettore anche i suggerimenti offerti dalla sua vicenda e memoria privata.

Questo volume, il primo a includere tutti i testi della Bufera (introdotti e annotati da Ida Campeggiani e Niccolò Scaffai, corredati da una ricchissima bibliografia e da due interventi critici di Gianfranco Contini e Franco Fortini) completa la serie dei commenti alle opere montaliane inaugurata nel 2002 nella collana degli Oscar Mondadori, ripresa e proseguita di recente nello “Specchio”. L’introduzione di Niccolò Scaffai si sofferma sulla composizione del libro a partire dalla prima pubblicazione in Ticino della plaquette di quindici liriche intitolata Finisterre, e quindi sulle vicende editoriali conclusesi nel 1977 con l’edizione mondadoriana di Tutte le poesie. Scaffai valuta poi temi e forme del testo, il suo successo di pubblico e critica, le lunghe polemiche riguardanti il manierismo di Montale. Tutte le poesie contenute nella Bufera vengono situate nel contesto storico, culturale ed esistenziale in cui sono state scritte, commentate nello stile e nei contenuti, relazionate alla precedente produzione dell’autore e a quella degli scrittori italiani e stranieri che più lo hanno influenzato.

Suddivisa in sette sezioni (FinisterreDopoIntermezzo; ‘Flashese dedicheSilvaeMadrigali privatiConclusioni provvisorie: in tutto 55 liriche e due prose, composte tra il 1939 e il 1954), la raccolta tratta temi diversi, dalla tragica attualità della guerra alla funzione testimoniale della poesia, espressione di dignità umana e intellettuale, che sola può offrirsi come spazio di riflessione morale e di libertà. La novità fondamentale rappresentata dai versi de La Bufera consiste nel rilievo che il poeta dà al contesto storico, verso cui prende una decisa posizione di condanna, espressa già nell’epigrafe  di Finisterre  (citazione dello scrittore francese seicentesco Agrippa d’Aubigné: «Les prences n’ont point d’yeux pour voir ces grand’s merveilles, leurs mains ne servent plus qu’à nous persécuter…»), evidente sconfessione del potere dominante negli anni del fascismo, da lui vissuti in una dignitosa e solitaria non-collaborazione. In questo senso, il testo più esplicitamente rappresentativo del libro è La  primavera hitleriana, in cui viene descritta la visita di Hitler a Firenze avvenuta nel maggio del 1938 («un messo infernale / tra un alalà di scherani»), nell’attesa del «respiro di un’alba che domani per tutti / si riaffacci, bianca ma senz’ali / di raccapriccio». Gli intollerabili eventi politici (l’hic et nunc da cui prende sempre spunto l’ispirazione montaliana) assumono quindi una valenza metafisica, diventando simbolo di un “male di vivere” che accompagna negativamente l’essere umano nel dipanarsi della sua vita materiale.

Lo sconforto derivato dalla constatazione della brutalità della tregenda bellica e della dittatura, ma anche dell’indifferenza morale della popolazione entro cui tale sciagura ha potuto manifestarsi, viene in parte mitigato dalla presenza di due figure femminili contrapposte, Clizia e la Volpe, effettivamente legate alla sua biografia (Clizia è Irma Brandeis, giovane studentessa ebrea-americana conosciuta a Firenze nel 1933, la Volpe è la poetessa torinese Maria Luisa Spaziani). Alla donna, mai descritta nella sua interezza, ma resa sempre in un solo atteggiamento o in un minimo particolare fisico, Montale demanda differenti funzioni: il recupero della memoria, l’espressione di un’alterità spirituale, l’implacabile difficoltà del distacco, la generosità dell’indulgenza, la missione salvifica dal baratro in cui sta per affondare. Clizia, severa e algida donna-angelo di impronta stilnovistica, è richiamo all’assoluto e all’ultraterreno; la Volpe recupera un eros più concreto e vitale, altrettanto coinvolgente ma meno angoscioso.

Forse, ad esemplificare la complessa coerenza tematica e stilistica del libro, è sufficiente l’accostamento di due liriche in esso comprese: quella iniziale, che dà il titolo all’intera raccolta, e la penultima, Piccolo testamento, giustamente considerata tra i capolavori letterari del nostro Novecento. In entrambe, storia privata e storia collettiva (la guerra, il nazismo) si compenetrano, illuminandosi e oscurandosi a vicenda; in entrambe una figura femminile si costituisce come senhal di perdita e di salvezza. Nei due componimenti è simile la forma metrica (versi liberi con prevalenza di endecasillabi), il costante utilizzo di rime e figure retoriche (allitterazioni, enjambement, onomatopee, ossimori, metafore) e di termini obsoleti, arcaici o specifici (sgronda, candisce, sistri, fuia, fandango, madreperlacea, sardana), la prevalenza di una sintassi frantumata e paratattica.

Ne La bufera all’elemento atmosferico della tempesta, metafora della guerra in corso, si contrappone il profilo della donna amata, strana sorella, legata al poeta da un’affinità spirituale più assolutizzante dell’amore, ma lontana perché fuggita in altro paese per sottrarsi alle persecuzioni razziali, e ora al riparo nella sua casa, elegante nido notturno improvvisamente rischiarato dalla luce di un lampo: l’istante rivelatore che non basta a illuminare il buio abisso in cui il dolore privato e quello storico fanno precipitare i due protagonisti.

In Piccolo testamento sono presenti i temi tipici della poetica montaliana: la sfiducia nella politica intesa come potere, la polemica contro qualsiasi ideologia massificante (chierico rosso, o nero), l’addensarsi di un futuro minaccioso (la sardana si farà infernale… un ombroso Lucifero… l’ali di bitume… l’urto dei monsoni). Ma c’è anche la fiera rivendicazione della propria coerenza morale (Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio / non era fuga) e della fedeltà alla funzione salvifica della poesia (il tenue bagliore strofinato / laggiù non era quello di un fiammifero), ancora una volta personificata da una figura femminile amata in passato, recuperata nostalgicamente attraverso i suoi gesti più usuali, e nei piccoli oggetti (la cipria nello specchietto) a cui affidava la sua testimonianza di vita e di resistenza.

La bufera: “La bufera che sgronda sulle foglie / dure della magnolia i lunghi tuoni / marzolini e la grandine, / (i suoni di cristallo nel tuo nido / notturno ti sorprendono, dell’oro / che s’è spento sui mogani, sul taglio / dei libri rilegati, brucia ancora / una grana di zucchero nel guscio / delle tue palpebre) / il lampo che candisce / alberi e muro e li sorprende in quella / eternità d’istante – marmo manna / e distruzione – ch’entro te scolpita / porti per tua condanna e che ti lega / più che l’amore a me, strana sorella, – / e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere / dei tamburelli sulla fossa fuia, /
lo scalpicciare del fandango, e sopra / qualche gesto che annaspa… / Come quando / ti rivolgesti e con la mano, sgombra / la fronte dalla nube dei capelli, / mi salutasti – per entrar nel buio”.

Piccolo testamento: “Questo che a notte balugina / nella calotta del mio pensiero, / traccia madreperlacea di lumaca / o smeriglio di vetro calpestato, / non è lume di chiesa o d’officina / che alimenti / chierico rosso, o nero. / Solo quest’iride posso / lasciarti a testimonianza / d’una fede che fu combattuta, / d’una speranza che bruciò più lenta / di un duro ceppo nel focolare. / Conservane la cipria nello specchietto / quando spenta ogni lampada / la sardana si farà infernale / e un ombroso Lucifero scenderà su una prora / del Tamigi, dell’Hudson, della Senna / scuotendo l’ali di bitume semi- / mozze dalla fatica, a dirti: è l’ora. / Non è un’eredità, un portafortuna / che può reggere all’urto dei monsoni / sul fil di ragno della memoria, / ma una storia non dura che nella cenere / e persistenza è solo l’estinzione. / Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato / non può fallire nel ritrovarti. / Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio / non era fuga, l’umiltà non era / vile, il tenue bagliore strofinato / laggiù non era quello di un fiammifero”.

 

© Riproduzione riservata                     «Il Pickwick», 10 febbraio 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MONTALE

EUGENIO MONTALE, DIVINITÀ IN INCOGNITO. Lettere a Margherita Dalmati (1956-1974) – ARCHINTO, MILANO 2020, pp. 116

A quarant’anni dalla morte di Eugenio Montale (1896-1981), le edizioni Archinto pubblicano le lettere inedite che il premio Nobel scrisse alla musicista e poetessa greca Margherita Dalmati, più giovane di lui di ventiquattro anni, tra il 1956 e il 1974. L’epistolario è stato recuperato ad Atene da Alessandra Cenni, che ha ora magistralmente curato introduzione e note del volume Divinità in incognito, in cui il lettore può scoprire non solo aspetti ignorati della biografia montaliana, ma anche particolari rilevanti della sua attività giornalistica e letteraria.

Margherita Dalmati, il cui vero nome era Maria-Nike Zoroyannidis – coltissima esperta di arte, profonda conoscitrice della storia e della letteratura italiana, traduttrice di Kavafis, Seferis, Elytis –  considerava l’Italia sua seconda patria, soggiornando a lungo a Roma (per perfezionarsi nello studio del clavicembalo al Conservatorio di Santa Cecilia), a Firenze  (dove al caffè delle Giubbe Rosse frequentava amici scrittori e pittori di fama: Luzi, Bigongiari, Gatto, Betocchi) e a Palermo, con l’incarico di lettrice dell’Istituto di Cultura greca e bizantina. Proprio nella città siciliana aveva incontrato per la prima volta fuggevolmente Montale,  ma fu soprattutto il breve periodo trascorso insieme in Grecia nel ’62 che approfondì anche sentimentalmente la loro amicizia. Montale, accompagnato dalla moglie Drusilla Tanzi (la “Mosca” di Satura), allora già molto malata, era stato inviato ad Atene dal Corriere della Sera per una serie di reportage di viaggio, e aveva esplicitamente chiesto l’accompagnamento e la guida di Maria-Nike. Da quel momento lo scambio epistolare tra i due, precedentemente episodico e formale, si era intensificato: ci sono rimaste le 42 lettere di Montale, mentre quelle della Dalmati sono state distrutte, o dallo stesso poeta, o dalla sua fedelissima governante Gina Tiossi, probabilmente gelosa del fascino che la giovane donna esercitava sull’anziano poeta, e decisa a salvaguardarne la fedeltà alla moglie. Firmate spesso come Agenore (nome del mitico re fenicio di Tiro, padre di Europa) su carta intestata del Corriere, ci forniscono nuove chiavi interpretative sull’inattesa e sorprendente svolta creativa della maturità montaliana, avvenuta con la pubblicazione, dopo un lungo periodo di silenzio, degli ultimi tre libri caratterizzati dal passaggio dall’ermetismo a uno stile più prosastico, colloquiale e ironico (Satura, Diario del ’71 e del ’72 e Quaderno di quattro anni).

L’epistolario, inoltre, ci illustra il proficuo scambio culturale tra il poeta e la sua corrispondente, con il reciproco arricchimento derivato dalla collaborativa traduzione di Kavafis, con i riferimenti arguti agli scrittori contemporanei (Moravia, Pasolini, Quasimodo, Ferrata, Zampa, Spaziani…) e alla situazione delle arti e della musica in Italia (“la Scala è un grosso teatro inutile, incapace di formare artisti e legato a un repertorio che ormai sappiamo a memoria”).

Montale confessa il suo fastidio per gli impegni ufficiali e le cerimonie mondane cui deve presenziare, per la routine del lavoro giornalistico, per i progressivi disturbi dovuti all’avanzare dell’età. L’aperta confidenza che si instaura tra loro lo induce a sfogarsi anche sulla difficile quotidianità familiare, costretta tra l’invalidità della moglie e l’opprimente custodia della governante, “l’Erinni domestica”. Alla morte di Drusilla, il 24 novembre 1963, così scrive all’amica: “Margherita cara, spostare i mobili, prendere un cane, vedere amici, ahimè, mi servirebbe poco. Si tratta di 36 anni vissuti insieme nella
buona e nella cattiva sorte, venti dei quali occupati da una lotta eroica per vincere il male che covava, la cecità che progrediva, gli anni che crescevano, l’amministratore che la derubava e tutto il resto che non ti dico. 36, dei quali almeno venti di orrore; ed ora la fedele Gina che vive con noi da vent’anni, stesa al suolo in lacrime, incapace di prender cibo, con le fotografie della morta stese sul letto, sul suolo, dappertutto… Mi capisci?”.

L’amitié amoureuse tra i due dopo l’incontro ateniese era diventata più esplicitamente accesa e coinvolgente, fino a trasformarsi in un’approfondita intesa sentimentale, concretizzata in pochi incontri fisici, a Roma e a Milano, ma esplicitata dal poeta con accenti di reale devozione e gratitudine: “Ti voglio bene, Margherita cara, anche se questo mi spaventa…  lasciami la speranza che un giorno  potrò ripiombare in Grecia e sentirti almeno per un giorno, una notte intera, mia, tutta mia. Ti voglio bene, Maria Nike, ti amo (sono vent’anni che non scrivo una simile parola) e spero che questo mi ringiovanisca e mi faccia vivere a lungo, fino al   giorno in cui potrò sentirmi unito a te anima e corpo per un istante o per un secolo” (19 maggio 1962); “Margherita mia cara e adorata… Io sono fedele per costituzione, anche se mi sono innamorato tre o quattro volte in vita mia (solo i morti non lo fanno), ma ora è davvero l’ultima volta ed anche se è l’ultima è la più preziosa e mi fa camminare un centimetro più alto del suolo… Ti abbraccio con tutto il cuore e con tutto il resto” (22 maggio 1962); “Mia adorata… Così come sei ora mi sembri adorabile e ti sogno la notte come Tristano poteva sognare Isotta. Con feroce desiderio” (2 giugno 1962); “My angel… Io ti posso solo dire che vivo con te ogni minuto e che la mia sofferenza mi aiuta tuttavia a vivere… ora tutto mi pare diverso, più incorruttibile, anche se non si svolge nella stratosfera e accende furiosamente il mio sangue!” (11 giugno 1962); “Mio caro tesoro… Ora che cosa posso aggiungere? Che ti voglio bene, lo sai; che ti amo, anche; che ti ammiro, anche; che ho per te una devozione senza limiti, anche; e allora? Ciò non toglie che io sia un fantasma senza esistenza fisica, senza direzione e senza bussola” (25 agosto 1962); ” Vorrei tanto poter abbracciarti ancora una volta prima di morire. Non ho mai conosciuto nessuno (nessuna) che ti valga. Non credevo di arrivare fino al 68: che me ne faccio del poco tempo che mi resta? Credo di averti detto tutto, mia carissima. Ti amo in modo inverosimile, inutile e non desidero nemmeno di rivederti. Sei come una di quelle stelle che gli astrofisici conoscono: io amo un raggio di luce che vedo appena al telescopio. Non meritavo nulla di più. Si può baciare una stella? Se si può ti mando un bacio lunghissimo, con tanta riconoscenza per la vita o il caso che mi ha permesso d’incontrarti. (22 novembre 1968); “Amo tanto la vita, ma più di tutto Maria Nike” (30 settembre 1969). Fino all’ultima lettera, scritta a settantasette anni: “Voglio dirti semplicemente una cosa. Ed è che TI AMO e che penso a te con infinita tenerezza. Mandami una tua fotografia: ne ho già una ma ne vorrei due. Ti abbraccio e bacio fin la punta dei tuoi piedi. Il tuo Agenore” (12 gennaio 1974).

Margerita/Maria-Nike non è Clizia, non è la Volpe, non è la Mosca: le donne più decantate da Montale ne Le Occasioni, ne La Bufera, in Satura; a lei dedica una sola poesia, Botta e risposta III, in cui è rievocato il viaggio in Grecia del 1962: “Ma ero pur sempre nel divino”, scrive. Una Divinità in incognito, questa giovane, riservata, comprensiva e solidale amica straniera, che con assoluta discrezione seppe offrire squarci di miracolosa felicità all’esistenza ormai fragilmente in declino del nostro più importante poeta novecentesco.

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 12 marzo 2021

 

RECENSIONI

MONTANARI

GABRIELLA MONTANARI, ARSENICO E NUOVI VERSETTI– LA VITA FELICE, MILANO 2013

Il poeta e critico letterario Lino Angiuli, nell’introdurre questo «urticante» volume di versi di Gabriella Montanari (Lugo di Romagna, 1971), parla di «intenzione non sublimatoria ma ‘bassa’, ovvero provocatoria e sovversiva, dell’intera raccolta». E ancora di «reattività fino alla rabbia, corporalità fino all’esibizionismo, diversità fino all’antipoesia, lotta senza quartiere verso le mosse perbenistiche e autopromozionali dell’io lirico». Una poesia, quindi, che percorre un itinerario decisamente trascurato dalla vena petrarchesca, intimistica, oracolare, ermetizzante della nostra produzione letteraria più in voga, e invece assume spavaldamente, sprezzantemente, i toni insofferenti alle regole, sarcastici e “maledetti” sulle orme di un Bukowski («di certo c’è / che a Bukowski / una botta gliel’ avrei data, di sicuro»), per risalire – attraverso Villon – fino al nostro sghignazzante Cecco Angiolieri. Gabriella Montanari si fa ironicamente beffe di qualsiasi tronfia ispirazione poetica “alta”, di ogni atteggiato versificatore à la page: «i versi seguono le mode e la domanda di mercato, / si attengono al formato e ai criteri editoriali, / non sgarrano, non dicono una parola di troppo, / profondi perché incomprensibili, sublimi se lo decreta l’Arnoldo // l’orifizio anale non è degno di menzione, / la vita va bene finché non sporca / e a forza di ermetismo e introspezione / vien voglia di scalfire, sverginare / non per posa, ma per amore».

Ma non c’è solo la tradizione letteraria nostrana nel suo target: il feroce e liquidatore arsenico a cui allude il titolo del libro è riservato a qualsiasi aspetto della vita in cui l’autrice si trova impazientemente e rancorosamente costretta: dal «fottutissimo padre padrone» che l’ha messa al mondo, ai parenti morti («la tipica puzza di salma / il tanfo cimiteriale»), alla stupida dirimpettaia diventata madre controvoglia dopo goderecci bagordi, al pontefice («per terra c’è un profilattico esausto / e io mi interrogo sull’utilità del papa») e alla religione tout court («il paradiso è un morso in un tartufo d’alba / il purgatorio, il risveglio dopo una sbornia / l’inferno, il frigo vuoto»), in una sua personale teologia più blasfema che eretica. Nemmeno la natura, nella sua innocente bellezza, si salva dal furioso cupio dissolvi della poetessa («spasmi di pesce rosso a corto d’acqua, / l’ananas immaturo / col suo pennacchio sprezzante, / le banane turgide / come peni con l’ittero», «fuori i gabbiani abbaiano da almeno un’ora / o forse gracchiano», «la battigia è uno sfacelo di meduse, / un mattatoio di granchi e murici dissanguati»), e persino gli innocui e silenziosi libri si meritano velenosi insulti: «inerpicati sugli scaffali / mi ossessionano con le loro facce da campioni d’incassi… // cos’ avranno mai avuto da dire di tanto speciale… / tanto, prima o poi, li vendo al chilo». L’amore stesso è finzione, presa in giro, perdita di tempo e tutt’al più scambio di liquidi o tempesta ormonale: «L’ho accettato come un inevitabile contrattempo. Così come si accetta il ciclo mensile, il tacco della scarpa che nella corsa si spezza o la carta igienica che manca sul più bello», e il sesso «ha il soffio corto dei coiti clandestini / e delle sveltine da divano immondo». Il lettore può ritrovarsi sconcertato o addirittura divertito da questo allegro e rabbioso vorticare di vesciche, genitali, sigarette, birre, obitori, scopate,
maledizioni, sperma: mai scandalizzato, tanto provocatoriamente eccessiva è l’immagine che la poetessa tende a dare di sé («sputai contro le macchine / e pisciai in faccia ai passanti, / presi a sberle il cadavere di mia madre, / rinserii i figli nella placenta, / ritornai feto, spermatozoo ovulo e orgasmo»), ossessivamente insultante anche contro la sua stessa scrittura: «Pisciare, scrivere. Lo stesso sfogo appagante, la soddisfazione di un bisogno impellente». Al punto che chi legge questi versi finisce addirittura per dimenticarsi di valutarli esteticamente, travolto com’è dalla sardana di tanta esplicita fisicità.

 

«L’Immaginazione» n. 276, luglio 2013