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RECENSIONI

MONTANARI

TOMASO MONTANARI, PATRIMONIO CULTURALE – CORRIERE DELLA SERA, EBOOK

Di Tomaso Montanari (Firenze, 1971), storico dell’arte, professore universitario a Napoli, editorialista e blogger italiano, ho seguito con ammirazione le splendide lezioni su Caravaggio trasmesse recentemente da RAI 5. Alla chiarezza espositiva, alla citazione colta delle fonti e dei commenti antichi e contemporanei, all’illustrazione attenta delle sfumature pittoriche di ogni quadro e affresco presentato, Montanari affianca sempre appassionati appelli alla coscienza civica dei cittadini-utenti di opere d’arte, e coraggiose denunce dell’incuria amministrativa, dei furti, dei maneggi e degli interessi mafiosi che assediano il nostro patrimonio artistico.
Qualche anno fa, presentando se stesso su Il Fatto Quotidiano aveva scritto:  «Penso che l’amore per la storia dell’arte non debba essere un fatto privato (o peggio un’evasione, o un modo per non pensare), ma pubblico e ‘politico’. L’articolo 9 della Costituzione ha, infatti, mutato irreversibilmente il ruolo del patrimonio storico e artistico italiano, facendone un segno visibile della sovranità dei cittadini, dell’unità nazionale, e dell’eguaglianza costituzionale, perché ciascuno di noi (povero o ricco, uomo o donna, cattolico o musulmano, colto o incolto) ne è egualmente proprietario. Ma tutto questo è assai difficile da capire, perché oggi la storia dell’arte non è più un sapere critico, ma un’industria dell’intrattenimento ‘culturale’ (e dunque fattore di alienazione, di regressione intellettuale e di programmatico ottundimento del senso critico). Strumentalizzata dal potere politico e religioso, banalizzata dai media e sfruttata dall’università, la storia dell’arte è ormai una escort di lusso della vita culturale».

Autore di importanti volumi per Einaudi, Skira, Carocci e Minimum Fax, oggi collabora a Repubblica ed è appena stato eletto Presidente dell’associazione Libertà e Giustizia. Ho pensato che per introdurre i lettori di SoloLibri alla conoscenza di questo critico, così lontano dalle sguaiatezze, dalle volgarità e dalle autocelebrazioni mediatiche di molti suoi noti colleghi, e così impegnato nella difesa della ricchezza artistica e ambientale del nostro paese, fosse interessante recensire un ebook edito nel 2013 da Corriere della Sera, e offerto al prezzo risibile di 1,99 euro.

Ecco dunque Patrimonio culturale. Ripartire dall’ABC. Si tratta di “21 tesi per rivoluzionare la politica culturale italiana”, scandite in ordine alfabetico, esposte con un stile “asciutto e apodittico”. La direzione ideologica di tali lemmi è già evidente e dichiarata dai titoli: dai più polemici (Finanziamenti, Ius soli, Noleggi, Pubblico e Privato) ai più sconfortati (Educazione, Qualunque, Ultimi, Vandali). Ma basterebbe forse citare alcune frasi dai primi tre capitoli:

Ambiente: “È il contesto, il vero, inarrivabile, capolavoro dell’arte italiana. Il tessuto continuo di natura e arte, figure a parole, storia e idee che ci avvolge e ci dà forma”. Bene comune: “Oggi una profonda depressione culturale riduce la nostra vita alla sola dimensione economica: o meglio finanziaria… Ma esistono cose che non hanno prezzo, che non si possono comprare”. Costituzione: “L’articolo 9 della Carta dice che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Appoggiandosi all’autorità dei Salmi e del Vangelo, di Dante e Vasari, ma citando anche David Foster Wallace, Edgar Wind e Tony Judt, Tomaso Montanari esprime tutta la sua indignazione verso una politica culturale che, anziché proteggere il patrimonio straordinario del nostro paese, lo mercanteggia, lo svende, lo privatizza offrendone la custodia ad amministratori incompetenti e a politicanti corrotti.

 

© Riproduzione riservata         

www.sololibri.net/Patrimonio-culturale-Montanari.html; 14 marzo 2017

RECENSIONI

MONTANARI

TOMASO MONTANARI, LE STATUE GIUSTE – LATERZA, ROMA-BARI 2024

 

Nel paragrafo conclusivo del suo ultimo libro, Le statue giuste, Tomaso Montanari afferma che bisogna vegliare affinché “la storia, tutta intera, non sia dimenticata, falsificata, strumentalizzata a favore del potere presente”. Perché la “Storia” che ci viene raccontata, oggi, è distorta, parziale, resuscitata perlopiù con finalità repressive, e non in maniera problematica, contestualizzata e coinvolgente, come dovrebbe: studiata poco e male a scuola, è chiusa in asfittiche aree di ricerca nelle università, mentre ogni riflessione culturale rimane circoscritta nell’ambito della contemporaneità.

Storico dell’arte, divulgatore culturale, saggistarettore dell’Università per stranieri di Siena, Montanari (Firenze 1971) ha supportato campagne di opinione orientate alla difesa del patrimonio artistico, museale e architettonico italiano. La sua ultima battaglia civile prende di mira statue, monumenti, affreschi antichi e moderni osservabili in spazi pubblici, dedicati a eventi storici e personaggi responsabili di comportamenti riprovevoli, addirittura di reati penali, e più gravemente ancora di colpe ideologiche e militari.

Nell’arco di millenni la ricezione delle immagini ha creato contrapposizioni tra culto adorante e volontà di distruzione, appellandosi a differenti ideologie e fideismi: dalla costruzione del vitello d’oro nell’Esodo ai culti faraonici in Egitto, dalle damnationes memoriae di epoca romana alla riforma protestante, dalla rivoluzione francese fino alle dittature del ’900.

L’autore ritiene di dover difendere e incoraggiare il movimento di protesta che lotta contro le mentalità coloniali e totalitaristiche tuttora esistenti, per combattere ingiustizie e soprusi veicolati dall’ordine sociale occidentale ereditato dal passato. In questo senso, la sua vibrante indignazione non va considerata come un’adesione pregiudiziale alla cancel culture, definizione vuota e menzognera attraverso cui si condanna, in nome della conservazione della storia, il vandalico abbattimento di testimonianze materiali e la censura di testi letterari, ma intende rimarcare l’esigenza di trovare una terza via tra distruzione e venerazione, tra dissacrazione e adesione acritica.

I sette capitoli che costituiscono questo saggio (accompagnato da un ricco apparato di note) analizzano momenti ed episodi recenti che su questo argomento hanno dato adito a posizioni contrastanti. A partire dall’intervista di Trump del luglio 2020 contro la cancel culture, definita una barbarie distruttiva nei confronti di un passato storico da difendere ostinatamente, in nome della pacifica convivenza contro la violenza di piazza, della tradizione contro l’iconoclastia, dell’amore contro l’odio: messaggio raccolto e rafforzato nelle esternazioni più recenti di Giorgia Meloni e Gennaro Sangiuliano.

Montanari si sofferma sull’abbattimento di monumenti avvenuti in anni recenti in diverse parti del mondo: negli Stati Uniti sono stati oggetto di contestazione e demolizione i marmi raffiguranti i generali sudisti della Guerra di Secessione, nel campus dell’Università di Città del Capo la statua del teorico dell’apartheid Cecil Rhodes, a Bristol nel giugno del 2020 quella bronzea dello schiavista Edward Colston. Episodi sempre accompagnati da contestazioni, processi, proposte alternative di correzione.

Tali “eroi” del passato meritavano davvero l’onore di un monumento, in grado di influenzare positivamente l’immaginario di abitanti, turisti, passanti disinformati, o questo privilegio non andrebbe riservato a coloro che promuovono cambiamenti positivi, lottando per la pace, l’uguaglianza e l’unità sociale? Una statua dovrebbe offrire un modello di comportamento e una bussola va loriale, creare un visibile legame sentimentale tra passato e presente, raccontare il passato per spiegare il presente e proiettarsi in un futuro migliore…

Le piazze e i viali italiani sono ornati da mausolei, sculture, busti, targhe dedicate a sovrani, statisti, condottieri, filosofi e artisti dall’operato poco democratico, dai re di Casa Savoia ai generali risorgimentali, in un pantheon celebrativo spesso imbarazzante, costruito su un’idea di dominio (“dei maschi, dei bianchi, degli occidentali, dei cristiani, della cultura classica”…) L’ omaggio agli anni del fascismo e del colonialismo (1882-1960, con mezzo milione di vittime africane) è ancora recuperabile nella toponomastica nazionale, e negli articoli goliardicamente derisori, orgogliosamente razzisti e misogini di Indro Montanelli.

Montanari porta l’esempio dell’Aula Magna della Sapienza di Roma, affrescata da un dipinto di Mario Sironi celebrativo dei fasti mussoliniani. Italo Balbo, Rodolfo Graziani, Giuseppe Bottai e altri gerarchi fascisti godono tuttora di imperitura e grata memoria in diverse città della penisola, e anche i nomi delle strade non sfuggono a questa genuflessa tradizione. L’universo femminile viene ignorato: solo otto vie su cento sono dedicate a figure di donne, perlopiù rappresentative della classicità, della mitologia, e soprattutto del mondo cattolico (madonne, sante, martiri), della cura e del sacrificio personale.

Non si tratta solo di dare un giudizio estetico sulla qualità spesso scadente di molte opere d’arte, ma di considerare il codice dei significati che vengono trasmessi, generalmente di subordinazione e obbedienza a ideologie che calpestano i diritti delle minoranze, la pluralità delle culture, la differenza di genere, lo sfruttamento della forza lavoro.

Nei monumenti e nelle intitolazioni di strade e scuole, così come nel calendario civile (con un 2 Giugno celebrante la festa della Repubblica attraverso discutibili parate militari), il messaggio trasmesso è inequivocabile: “La scrittura simbolica dello spazio pubblico non è mai neutrale, non è un saggio di storia o una lezione accademica: è invece un atto politico che sceglie un versante della storia, e lo propone alla venerazione di tutta una comunità”.

La proposta suggerita da Tomaso Montanari (già indicata nel libro di Alessandro Portelli Il ginocchio sul collo, recensito in gennaio su Gli stati Generali) non consiste nell’esortare alla cancellazione e all’abbattimento di statue e testimonianze di un passato controverso e non condivisibile, ma in una loro risignificazione, risemantizzazione da affidare a storici e artisti che ne accompagnino l’esposizione con commenti adeguati. Oppure nel loro trasferimento dallo spazio pubblico a uno spazio museale “in cui la loro intera storia venga narrata nel modo più oggettivo, largo e inclusivo”, senza tuttavia eliminare i segni della loro precedente esistenza in luoghi destinati alla visibilità collettiva.

Basta una targa, per inquadrare correttamente le tante cose che una statua può raccontare su ciò che ha davvero raffigurato in passato e rappresenta nell’oggi.

 

© Riproduzione riservata                        «Gli Stati Generali», 16 febbraio 2024

 

 

RECENSIONI

MONTORFANI

PIETRO MONTORFANI, L’OMBRA DEL MONDO – ARAGNO, TORINO 2020

Già dal titolo di questa raccolta di Pietro MontorfaniL’ombra del mondo, possiamo intuire quanto temi e toni inscritti nel registro dell’autore siano sospesi in un’atmosfera di non-luminosità, non-trasparenza e probabilmente anche di non-appartenenza a una realtà vissuta come costrittiva e non condivisibile. È un tratto comune a chi, nato intorno agli anni ’80, scrive versi con una sorta di estraneità alla corrente precipitosa degli avvenimenti, quasi incapace non solo di adeguarsi ad essi, ma addirittura di comprenderli e di giustificarli. Un distacco che si vela, appunto, di ombra e di rassegnata rinuncia. L’introversione, la riflessione sul sé, ma anche una sorta di altera consapevolezza della propria acuta sensibilità, rende questi poeti umili e insieme fieri del loro dissenso, che non arriva mai però a essere ribellione o aperto contrasto.

Le sezioni del libro di Montorfani dichiarano esplicitamente questa sospensione di contatto con il mondo e il velo attraverso cui lo osservano, già nel loro nominarsi: «Dove nulla succede, Gente che passa, Il punto della croce, Così in pace, tra le altre. E diverse composizioni riprendono nei titoli una terminologia di negatività, sofferenza, alienazione: agonia, silenzio, confine, ibernazioni, memoria, pace. I due ultimi capitoli del libro sono dedicati all’assenza di persone amate, eventi luttuosi di cui si sottolinea l’incomprensibile ingiustizia: in Giona l’idea di sepoltura corrisponde al piccolo spazio occupato sulla terra durante un’esistenza tribolata («Dove ti metteranno ora? Disegnalo per noi il posto / che ti è stato assegnato / anima tormentata che ti insabbi / infilata di sbieco / tra le cose del mondo»), per cui l’approdo sperato rimane solo quello tacitante e protettivo della morte: «Di nuovo silenzio / buio fitto / odori notturni / portati dal vento / e grande quiete / in ogni dove». Ancora, in Memoria II nei versi dedicati a un aquilone, è l’idea di costrizione e impedimento che blocca il volo leggero e variopinto nell’alto del cielo: «Ciò che non sanno più / è il nome di quel rombo colorato, / di tela sottile, con il filo, / che prima volava e ora / lotta per liberarsi di tra i / rami e non ci riesce».

Trovare uno spiraglio di luce si può e si deve, e il poeta sembra cercarlo nel viaggio, nella dislocazione mentale e fisica in un altrove che offra orizzonti liberatori. «Il varco è qui?», pare domandarsi seguendo indicazioni montaliane. Ed eccola, allora, «la maglia rotta nella rete» attraverso cui fuggire, salvandosi: sarà Berlino, Varsavia, Praga, Siena, Finisterre, o nella metafora più suggestiva del libro, il passaggio alpino della Flüela, «dentro il buio dei monti», che indica un transito migratorio, abbandono del passato ma anche traguardo verso il futuro, rito iniziatico da superare per sopravvivere.
Montorfani, ticinese, è nato e vissuto in zona di confine, crocevia di culture e lingue differenti, che dalla pianura di Lugano si alza verso le Alpi svizzere («superato il più stretto / corridoio d’Europa nel cui / buio si muore / dopo tanta piana per chi / suona la cornamusa nella stiva / del San Gottardo per chi / stride»), e attraverso di esse ci si apre al continente, accompagnati dal più tradizionale ed evocativo degli strumenti, che annuncia la venuta di un laico dies natalis. Le facce che si incontrano sono tuttavia quelle di persone anonime, sconosciute, «gente che passa… dove nulla succede… in un silenzio assordante», secondo una geografia che ‒ se pur varia tra Gibilterra e la Russia, fiordi e fiumi, boschi e deserti, ponti e viadotti, cartelloni pubblicitari e posti di blocco, caravan e santuari ‒, resta estranea, impenetrabile.

L’Europa percorsa da Pietro Montorfani diventa simbolo di un’unione fittizia che non è in grado di saldare né la sua storia (dalle grotte di Lascaux a re Artù alle tragiche migrazioni mediterranee), né i suoi territori («Europa a testa in giù: / oltre le Alpi, il Mare»), e che nemmeno la poesia riesce a redimere: «Che agonia questi ultimi / giorni d’Europa, accesi da albe / di destini infranti, / chiusi da sere di notizie / sempre uguali. // Muta e non muta l’orizzonte // e inspiegabilmente si avvicina, / stringe la mente dentro un cerchio / che solo il cielo contiene».

 

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/Ombra-del-mondo-Montorfani.html

5 settembre 2020

 

RECENSIONI

MORAVIA

ALBERTO MORAVIA, IL VIAGGIO A ROMA – BOMPIANI, MILANO 1988

 

Ho passato le vacanze natalizie -complice un breve soggiorno a Roma, madre matrigna di Alberto Moravia e di tanti suoi romanzi- in compagnia del primo tomo delle sue Opere Complete, edito da Bompiani. Si trattava per me in parte di una rilettura (Gli indifferenti, Inverno di malato, Agostino…), ma per lo più di piacevolissime scoperte tardive: mi hanno incantato i racconti Delitto al circolo del tennis e L’ufficiale inglese, ho ammirato la struttura ben articolata e la scrittura asciutta de La romana. Mi sono avvicinata quindi all’ultimo successo di Moravia, Il viaggio a Roma, con una certa trepidazione, temendo di incorrere nuovamente nella delusione che mi avevano provocato le sue opere più recenti, timore che per fortuna è andato scomparendo nel corso della lettura. La vicenda narrata è quella di un viaggio che il giovane protagonista, Mario De Sio, fa a Roma per incontrarvi il padre, non più rivisto da una quindicina d’anni, da quando cioè era stato costretto, bambino, a seguire la madre a Parigi. “Viaggio” è, come sempre, termine duplice, di conoscenza e arricchimento esteriore e interiore insieme. Per Mario, in particolare, questo ritorno a Roma ha una funzione terapeutica: in termini psicanalitici, serve a liberarlo dal complesso edipico nutrito nei riguardi della madre, morta nel pieno di una giovinezza sensuale e sfrenata. Appena giunto nella capitale, dopo un piacevole viaggio aereo in compagnia di due francesi, madre e figlia (Jeanne, giovane vedova inappagata, e Alda, acerba e inquieta quattordicenne, destinate entrambe ad avere un ruolo risolutorio nella crisi esistenziale del protagonista), questi ritrova un padre complessato e istrione, per cui sente subito un’avversione molto simile al ribrezzo fisico. Con una tecnica narrativa che potrebbe sembrare ingenua e un po’ irritante da parte di un narratore consumato come lui, Moravia già dal secondo capitolo esibisce al lettore la chiave di interpretazione del romanzo: nella prima lunga conversazione col padre, precipitosa e pretestuosa, Mario viene a conoscenza di quanto aveva rimosso per quindici anni, e rivive quella che Freud ha definito “la scena primaria”, cui egli scopre di avere assistito da bambino, sorprendendo un animalesco accoppiamento della madre con l’amante. Il giovane ne è talmente scosso da essere portato a ricreare tale scena con tutte le donne che incontra, cercando puntigliosamente di recuperare tutti i particolari ambientali e fisici che riesce a ricostruire nella memoria. Jeanne, Alda, la scimmiesca donna di servizio Oringia, e infine la conturbante amica del padre Esmeralda, fungono tutte, più o meno consapevoli, da controfigure della madre, cui sono confrontate per contrasto o somiglianza. Il romanzo è quindi la storia di un incesto desiderato e mai consumato, una terapia analitica caparbiamente voluta ma destinata al fallimento a causa dell’eccessiva coscienza razionale del protagonista, che è insieme paziente e analista di se medesimo. Il sesso, come in tutti i romanzi moraviani, è ossessivamente presente nella vicenda, ma nello stesso tempo trattato con spietatezza e freddezza clinica: nessun rapporto fisico viene portato a termine, poiché ogni personaggio finisce per fuggire precipitosamente o per bloccarsi, reiterando una morbosa esibizione di genitali vogliosi e insoddisfatti. Oltre al sesso, ritroviamo in questo romanzo tanti altri tipici temi di Moravia: l’età di Mario, in bilico tra adolescenza e giovinezza, tra una virtuale disponibilità ad aderire a qualsiasi evento e una sostanziale estraneità al mondo che lo circonda, ci ricorda altri caratteri dello scrittore: Agostino, Luca, Girolamo, Michele. Il fatto che Mario si consideri poeta, ma non scriva poesie in quanto tutte le poesie che vorrebbe scrivere sono già state scritte da Apollinaire; il fatto, insomma, che egli sia un poeta fallito, lo accosta alla galleria di altri intellettuali frustrati che Moravia ha sempre scelto come protagonisti dei suoi romanzi. La Roma agiata e borghese, che fa da sfondo a questa storia, con i suoi giardini spelacchiati, le signorili palazzine anni ’20, gli interni luminosi con ampie terrazze, è la stessa Roma complice e ruffiana di tante altre vicende. Il concetto di famiglia come istituzione-rifugio da rispettare e salvaguardare esteriormente, ma in realtà crogiolo di inganni, simulazioni, interessi inconfessabili e altrettanto inconfessabili vizi o sopraffazioni, è anch’esso un motivo riconoscibile di Moravia. Ancora, le figure femminili sempre ambigue, sempre carnali al limite di ogni fisicità, figure dominanti rispetto allo scialbo mondo maschile, ripercorrono tutto il filo dei personaggi (madri, amanti, sorelle) che abbiamo conosciuto dagli indifferenti in poi, al punto che l’acerbità scontrosa e aggressiva della protagonista più giovane, Alda, e l’opulenza felliniana esibita da Esmeralda ricalcano i personaggi de La vita interiore in modo impressionante. Dà un po’ fastidio, in questo Viaggio a Roma, l’insistito ricorso a situazioni da manuale di psicanalisi, per cui ogni avvenimento e ogni pulsione sono freudianamente interpretabili e, purtroppo, freudianamente ineccepibili: ma anche questo, lo sappiamo, è ormai diventato un tic – più che un topos- in Moravia, e glielo perdoniamo volentieri, in considerazione del fatto che lui, almeno, è un grande narratore. Altri, che magari vendono di più, si riducono ai loro tic, senza aggiungere molto.

 

«Agorà» (Svizzera), 22 febbraio 1989

RECENSIONI

MORAVIA

ALBERTO MORAVIA, LA VITA INTERIORE – BOMPIANI, MILANO 1978

La vita interiore merita un dibattito che superi l’interesse letterario e diventi momento di verifica ideologica, perché questo libro si presenta già da adesso come best-seller, come terreno di scontro tra varie ipotesi interpretative e critiche. Inoltre, dovrebbe essere l’ultimo romanzo di Alberto Moravia (stando alle dichiarazioni dell’autore), cioè di colui che viene considerato il più importante scrittore d’Italia, il narratore per eccellenza della crisi borghese, l’intellettuale che “fa” opinione, che interviene sempre e su tutte le fondamentali questioni del paese. Ebbene, questo suo ultimo libro, mi sembra essere un omaggio che Moravia rende a se stesso e una omaggio reso alla protagonista di tutta la sua opera: la borghesia. Spiegherò il perché. Ne La vita interiore esistono temi e personaggi che sono un po’ la sintesi, la “codificazione” di temi e personaggi moraviani precedenti. Desideria che spia la madre e l’amante di lei che contano i soldi con venerazione sacrale, e che cerca di dissacrare il denaro in maniera piuttosto infantile, è Luca de La disubbidienza, che scopre i genitori davanti alla cassaforte e decide di distruggere i suoi risparmi. Desideria-madre-amante della madre, è quello che esisteva ne Gli indifferenti tra Carla-la madre-Leo. Il rapporto incestuoso con la madre, anche se più larvato, era già in Agostino. Ma tutto ciò, la ripetizione di cose più o meno già dette, è certamente un’operazione legittima in qualsiasi scrittore, e possiamo presumere che Moravia abbia inteso offrirci appunto una “summa” dei suoi argomenti, una carrellata riassuntiva di personaggi e situazioni. Operazione legittima, anche se non particolarmente originale. Criticabile mi sembra invece l’omaggio alla borghesia, sia come protagonista sia come interlocutore (pubblico). Moravia infatti costruisce il suo libro usando tutti gli ingredienti che oggi rendono: c’è perciò molta psicanalisi, c’è un pizzico di marxismo, c’è il femminismo, c’è il rapporto scrittore-testo scritto. Analizziamoli, allora, questi ingredienti. La psicanalisi è strumento essenziale attraverso cui si compone il rapporto tra l’Io dell’autore e la protagonista intervistata: ma gli schemi sono talmente tipici, talmente freudiani da risultare manualistici, e tutto il racconto-intervista ha in realtà il sapore di una confessione cattolicamente intesa, con quel tanto di morbosità insistita che spunta nelle domande provocatorie e quel tanto di masochismo autoflagellante di chi si confessa. Il marxismo c’entra, nel libro, tirato in ballo dalla rivolta studentesca (intuita più attraverso i blue-jeans e le scarpe da tennis che altro) e da sedicenti gruppi rivoluzionari armati. Ma l’immersione nella borghesia è tale che anche il personaggio proletario che dovrebbe contrapporsi a essa, ne risulta (come ha già scritto Pierrot sul QdL) una brutta copia. Al di fuori della classe borghese quindi non esiste nulla, se il proletariato non ha valori che non siano parodie di quelli borghesi, se anche il femminismo sembra non saper dare risposte o indicazioni valide: la protagonista è una donna giovane, Desideria, con un nome che è un augurio e un programma, con un’origine bastarda che potrebbe aiutarla a uscire dalle sue contraddizioni. Eppure del femminismo Desideria non recepisce nulla: non la gioia del sesso che per lei è tormento e ossessione, non la ribellione agli stereotipi in cui è consciamente immersa, non la solidarietà con le altre donne. L’erotismo che è uno dei caratteri dominanti del romanzo, sembra anch’esso rispondere a esigenze extra-testuali: è forse simbolico che non si sia un rapporto amoroso “normale” in tutto il libro. Desideria odia il suo corpo, perciò la continua masturbazione non è mai carezza, bensì violenza, negazione; Desideria tenta a più riprese di prostituirsi, subisce con soddisfazione maniacale lo stupro “liberatorio”; sua madre oscilla tra lesbismo (un lesbismo cattivo, padronale) e ansie di sodomizzazioni; dei tre uomini, uno sodomizza al grido di «Dammi l’America», l’altro -il proletario- è un puttaniere, il terzo è un prostituto. E’ evidente che tutto ciò cerca volutamente di rappresentare la distruzione e la negatività di un mondo, di una cultura in sfacelo; ma le situazioni sono a tal punto esasperate da sembrare false, fittizie, a volte ridicole. Una borghesia, insomma, talmente negativa (stupida, rivoltante, volgare) da risultare banale, non credibile. Infine, l’ultima novità del romanzo, il rapporto con cui lo scrittore si pone davanti al testo, alla narrazione, al personaggio: Desideria gli concede un’intervista che l’autore trascrive con fedeltà oggettiva e neutrale, e dopo 400 pagine lo abbandona reclamando il suo diritto a tornare nel nulla dell’esistenza solo scritta: «La tua immaginazione mi ha bruciata, consumata. Alla fine non esisterò più, se non nella tua scrittura, come impronta, come personaggio».

Ciò farebbe supporre (e neppure tanto improvvisamente, se si riflette ai moduli narrativi che Desideria impiega nella sua pretesa “intervista” raccontata a voce: contrasto che rimane la cosa più interessante del romanzo) che scrittore e Desideria siano la stessa persona, che le conclusioni cui lei approda (non tanto i due omicidi che restano immotivati, non convincenti) siano quelle che Moravia le detta: non c’è soluzione o risposta al negativo, alla crisi della borghesia, che è crisi totale, di tutti. Ho scritto che il romanzo è un omaggio a questa classe (perché nulla esiste all’infuori di essa, e perché per soddisfare precise indicazioni di gusto della borghesia è stato scritto, con minuzia fredda e distaccata) e un omaggio di Moravia a se stesso. Si può concludere che Moravia poteva trattarsi meglio, che speriamo in un altro libro, quello sì «più terribile e necessario».

 

«Quotidiano dei Lavoratori», 30 agosto 1978

RECENSIONI

MORAVIA

ALBERTO MORAVIA, RACCONTI ROMANI – BOMPIANI, MILANO 2001, p. 408

 Tra le tante ingiustizie di cui si macchia il mondo letterario ed editoriale italiano nei riguardi dei suoi protagonisti, una delle più eclatanti è secondo me la sottovalutazione e il conseguente oblio dell’opera di Alberto Moravia, la cui narrativa viene ormai riproposta solo in ebook, decretandone così la sostanziale irrilevanza. Invece, a chi volesse riscoprirne originalità, intelligenza e maestria di scrittura, basterebbe rileggere la prima produzione, a partire da quella di impianto neorealista, e in particolare dai Racconti romani.

Pubblicata nel 1954, la raccolta di settanta novelle – uscite negli anni precedenti sul Corriere della Sera -, narrano le vicende di singoli individui e di famiglie romane, appartenenti a diversi ceti sociali, ma per lo più alla piccola borghesia, al proletariato e al sottoproletariato della capitale. In un linguaggio colloquiale, dimesso e reso più immediato da frequenti dialettalismi, Moravia offriva ai lettori un quadro disincantato delle vicissitudini occorse ai vari personaggi, nel periodo di storia che segnava il trapasso tra la fine del secondo conflitto mondiale e la ricostruzione del paese, quindi tra depressione, umiliazione, senso di sconfitta da un lato e speranza, volontà di ripresa, ottimismo dall’altro.

Il palcoscenico su cui si recita questa commedia umana è sia la Roma delle periferie, delle baracche e delle campagne, sia quella del centro trafficato e vivace, dei monumenti famosi, delle abitazioni e dei negozi dal decoro dignitoso, benché privo di sfarzo. Le voci narranti appartengono nella quasi totalità a giovani uomini, scapoli o maritati con prole, travolti da difficoltà economiche, malattie, tragedie o dissidi tra parenti, desiderosi di riscatto sociale ma contemporaneamente rassegnati al loro fallimento lavorativo ed esistenziale: affidano sé stessi alla sorte, sperando in improbabili colpi di fortuna in grado di mutare in meglio il loro destino.

Operai inquieti e rabbiosi (La rovina dell’umanità), figli e padri insofferenti degli impegni parentali (Scherzi del caldo), negozianti afflitti dai capricci delle mogli (Sciupone), ragazze desiderose di sfondare nel mondo del cinema (Il provino), piccoli truffatori che tentano di arricchirsi con ingenui sotterfugi (Impataccato), sposi in miseria ridotti a rubare oggetti sacri (Ladri in chiesa), ex commilitoni affamati pronti a spolparsi a vicenda (Romolo e Remo). Un piccolo capolavoro, formalmente calibrato in un crescendo irresistibile di comicità e irritazione, risulta essere il monologo di Non approfondire, in cui un marito devotissimo ma assillante e prevaricatore nei confronti della moglie, si tormenta chiedendosi il motivo dell’abbandono di lei.

Moravia descrive le situazioni mortificanti patite dai suoi personaggi con uno sguardo lucido, privo di qualsiasi retorica o falso pietismo, e semmai con amara ironia, rimanendo essenziale e oggettivo nell’illustrare le cause degli avvenimenti, e gli effetti fallimentari e controproducenti delle azioni messe in campo.

Il critico Emilio Cecchi diede di questi racconti un giudizio memorabile: “Una quantità di personaggi che se ne stanno chiusi e saldati in una elementare, inarticolata realtà; in una sfera, in una categoria premorale, che crocianamente si direbbe la categoria dell’utile, dell’economico, della nuda e cruda vitalità”. Anche il nostro cinema seppe abilmente sfruttare gli spunti offerti dalla penna moraviana, attraverso le pellicole di Monicelli, Bolognini, Blasetti, Franciolini.

© Riproduzione riservata        «Gli Stati Generali», 19 agosto 2022

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MORETTO

LUCIANA MORETTO, LA MEMORIA NON HA PALPEBRE – LA VITA FELICE, MILANO 2012

Da un frammento di Emily Dickinson, il titolo di questa raccolta di poesie di Luciana Moretto sembra suggerire che chi ricorda non chiude mai gli occhi, continua a tenerli ostinatamente e nostalgicamente aperti su volti, voci, gesti delle persone che abbiamo amato e che ci hanno lasciato. «Che cos’è la poesia se non il perpetuo racconto di un’assenza, di qualcosa che continuamente manca e che paradossalmente e sempre ci insegue con la sua presenza?», scrive nella sua partecipe prefazione Piero Marelli. Una poesia che si propone di annullare la distanza, recuperando tempi e spazi messi in ombra, ma mai definitivamente cancellati, dalla morte di chi ci è stato caro. In questo caso, del fratello dell’autrice, che lei è certa di poter ritrovare in un’altra, più generosa e perenne dimensione: «sicura dell’eterna compresenza / del tutto nella vita, nella morte», «certo prosegue di là, oltre il confine / d’ombra il patto di alleanza che un’anima / tiene accostata all’altra», «non arresa presenza, / garanzia di vita che continua» nella metafora di un asfodelo giallo reciso che persiste inspiegabilmente a rifiorire. Il fratello amato, le cui ceneri sono conservate in un’urna lontana, «nel continente estremo in vista / del mare», torna vivo nella foto dell’infanzia, sollevato in braccio dalla madre orgogliosa dell’unico figlio maschio. O nel quaderno ritrovato, con i riassunti dell’Iliade, e nei suoi inquieti vagabondaggi intorno al mondo, di cui la sorella poetessa si faceva rassicurante tramite presso i familiari «perplessi». O ancora nell’eco di una telefonata gentile, nelle immagini allegre del giorno del matrimonio. Ma soprattutto nella poesia più delicata del volume, che raffigura il fratello «smagrito e stanco» intento a curare le rose del suo giardino: «Spesso la morte è gentile / e ha buoni modi. Non toglie / qualcosa di vistoso, le basta / che muoia una cosa / una sola, diversa ogni volta. // E così piano piano / dalle tue mani ha tolto la rosa».

 

«Leggendaria» n.104, marzo 2014

RECENSIONI

MORMINO

GIANFRANCO MORMINO, PER UNA TEORIA DELL’IMITAZIONE

RAFFAELLO CORTINA, MILANO 2016

Il professor Gianfranco Mormino, docente di Filosofia Morale all’Università degli Studi di Milano, ha pubblicato un saggio rilevante che, spaziando dall’etologia alla psicologia sperimentale, e basandosi soprattutto sulle scoperte più recenti delle neuroscienze, arriva a conclusioni filosofiche e scientifiche che potrebbero avere senz’altro importanti implicazioni etiche e pedagogiche in futuro. La sua indagine riguarda la teoria dell’imitazione, che pur interessando i comportamenti basici sia dell’uomo sia degli animali, è sempre stata disconosciuta o apertamente snobbata dal pensiero occidentale, con le uniche eccezioni di Spinoza nel passato e di René Girard tra i contemporanei.

«Ci riesce difficile pensare a comportamenti che non siano influenzati da modelli… nulla sembra   sottrarsi alla forza degli esempi esterni, dai quali siamo invincibilmente attratti verso azioni standard che ripetiamo senza nemmeno esserne più consapevoli e che, per questo, attribuiamo ingenuamente alla nostra natura o ai nostri istinti».

La filosofia occidentale, «autoreferenziale e gerarchizzante… funzionale a una politica fondata su un sistema di obbedienza, ricompense e punizioni stabilite in ambito sociale», centrata «essenzialmente su un soggetto europeo, maschio, adulto e sano di mente», ha per duemilacinquecento anni trascurato di interessarsi ai processi psichici e all’agire sia degli animali sia degli esseri umani ritenuti intellettualmente o moralmente più deboli, non dominanti e non produttivi (bambini, razze considerate inferiori, minorati psichici, … donne), focalizzandosi soprattutto sui comportamenti razionali, maturi, spontanei e “liberi” da influenze esterne. L’imitazione, fondamentale nell’apprendimento e in qualsiasi processo cognitivo ma ritenuta attività gregaria, “scimmiottante”, è stata quindi presa in considerazione solo in un periodo recente, a partire dalla scoperta dei neuroni a specchio: mentre in precedenza essa veniva studiata esclusivamente nei suoi livelli elementari – fisiologici e neurologici – relativi al periodo neonatale e della prima infanzia, e nelle azioni più semplici di tutti gli esseri viventi. Oggi la ricerca si occupa dei comportamenti imitativi anche nei suo aspetti sociali, con le ovvie implicanze antropologiche e addirittura economiche.

Riguardo alle motivazioni profonde dei processi imitativi, sussistono ancora negli studiosi forti differenze interpretative. Gianfranco Mormino propone in questo volume una sua suggestiva e originale ipotesi, postulante «l’esistenza di un unico meccanismo mimetico, rimanendo all’interno di una visione unitaria e continuista della logica della vita, passibile di essere applicata tanto agli uomini quanto agli animali». Contestando la presenza di una capacità innata di imitare gli altri, Mormino si interroga (da un punto di vista materialistico e antiteleologico) sulle cause che hanno determinato il successo della funzione della mimesi a livello evoluzionistico (perché e come un essere vivente imita, seguendo quali modelli e per raggiungere quali scopi?). Ed è convinto che ogni singolo animale – umano e non – imiti per meglio adattarsi all’ambiente, stabilizzando «atti motori trovati accidentalmente e rivelatisi favorevoli», e li replichi “autoimitandosi”, con l’obbiettivo di soddisfare i suoi bisogni e di procurarsi piacere. Esplorando l’ambiente circostante per meglio adattarvisi, l’essere vivente apprende in maniera fortuita i movimenti che favoriscono il suo sviluppo, passando poi dall’autoimitazione più elementare e fisiologica ad abilità più raffinate, acquisite nell’interazione con gli altri individui. Il volume si occupa anche delle implicazioni etiche e pedagogiche dell’autoimitazione, cioè di come il soggetto che imita si relazioni con l’interesse comune, di come il suo comportamento venga modificato dai divieti e dalle esortazioni educative della famiglia e della società, di come patisca le identificazioni e le rivalità con gli altri modelli: e lo fa coniugando metodi di indagine multidisciplinari, scientifici e filosofici, nell’intento di proporre un’ipotesi di ricerca scevra da qualsiasi forma di finalismo e intenzionalismo.

 

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www.sololibri.net/Per-una-teoria-imitazione-Mormino.html        31 dicembre 2016

 

 

 

 

RECENSIONI

MORONCINI

BRUNO MORONCINI, MONDO E SENSO – CRONOPIO, NAPOLI 1998

Questo piccolo libro del filosofo Bruno Moroncini, pubblicato nel 1998 ma ancora acquistabile online, è dedicato alle parole e ai silenzi di due grandi figure del pensiero e della poesia novecentesca: Heidegger e Celan, accomunati non solo dall’uso della lingua tedesca, ma soprattutto dalla presenza testimoniale alla tragedia del nazismo e dell’olocausto.
Viviamo in un mondo e in un’epoca storica in cui (come citato dall’esergo di Elie Wiesel) «tacere è proibito, parlare è impossibile»»: tacere e parlare, cioè, del senso e del non senso della nostra esistenza.

«La mondializzazione, la formazione del mercato mondiale e la globalizzazione dell’economia, che vanno di pari passo con l’unificazione mediatica e digitalizzata del mondo, comportano esattamente la scomparsa del mondo e del senso, la scomparsa del senso del mondo e del mondo del senso».

Un mondo che ingloba tutto, che non ha più un fuori cui rapportarsi, vive in una sorta di regime del senso, di perdita di significazione, in una chiusura conservativa che esclude rischio e libertà, in cui l’azione stessa «finisce per fabbricare cenere».
Heidegger (riletto qui anche attraverso Nancy, Arendt e Lacan) non è ancora stato riabilitato moralmente a causa della sua adesione al nazismo e del suo silenzio sui campi di sterminio: davanti al non-senso della follia hitleriana, il filosofo che pure aveva saputo coniugare nei suoi testi teorici la dignità umana con l’assoluta libertà, regredisce a una complicità effettiva con l’orrore, con il potere e la tutela di un senso “insensato”, optando per una distaccata apatia.
Diversamente da lui, Celan sceglie di parlare, pur consapevole che i suoi versi «devono dismettere il senso per farsi puri significanti del nulla di senso, della sparizione del mondo».

«Parla anche tu, / parla per ultimo, / dì la tua sentenza. / Parla – / Ma non dividere il sì dal no. / Dà alla tua sentenza anche il senso; / dalle l’ombra». La parola poetica «apre un mondo, instaura un abitare…è creatrice, inumana, altra, terribile»: nella sua luce deve tenere conto dell’oscurità, senza la quale nulla risulterebbe. Celan scrive poesie dopo Auschwitz, contravvenendo all’interrogativo adorniano. Ma le scrive inabissandosi nell’oscurità, nell’indicibilità, nel quasi mutismo dell’angoscia.
Bruno Moroncini rilegge il poeta romeno con un’adesione empatica e riconoscente, sulle orme di altri due grandi interpreti celaniani, Szondi e Blanchot: perché al di là dello strazio, della morte, dell’incenerimento, Celan tenta comunque di recuperare un rapporto con l’Altro, con l’Oltre: «Scese, scese / scese una parola, scese / scese attraverso la notte, / volle risplendere, volle risplendere», «Nessuno ci impasta più di terra e argilla, / nessuno alita sulla nostra polvere. / Nessuno. / Lodato sii tu, Nessuno. / Per amor tuo vogliamo / fiorire. / Incontro / a te. / Un niente eravamo, siamo, rimar / remo, fiorendo: / la rosa di Niente, di Nessuno».

 

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www.sololibri.net/Mondo-e-senso-Bruno-Moroncini.html     12 gennaio 2016

RECENSIONI

MORRESI

RENATA MORRESI, BAGNANTI – PERRONE, ROMA 2013

“Niente di finito – siamo nell’indefinito”, chiosa Adelelmo Ruggieri, commentando nella sua postfazione il titolo della raccolta poetica di Renata Morresi (Recanati, 1972), probabilmente volendo indicare però il carattere dominante del libro nella sua interezza. Bagnanti è insieme participio presente, sostantivo e aggettivo, ma nella prima sezione omonima identifica soggetti particolari, che popolano un’isola particolare: non più meta estiva di turismi selezionati o di massa, ma ormai soprattutto approdo di disperati: “scendono caldi sulla sabbia / i corpi lenti molli / dischiusi tutti storti e / terra, /rinati tutti a caso / uomo, donna – // scendono gli uccelli”; “dalle rocce dai picchi sulle acque gli iddii / vedrebbero popoli morbidi lentissimi / fondersi agli anemoni polipi i tanti / piedi avvinghiati agli scogli / staccarsi”.

Il linguaggio smozzicato, frantumato, privo di nessi connettivi, accosta immagini naturali luminose (“acqua oro-azzurra / in piena luce”) alle tracce drammatiche dei corpi annegati e resi deformi dalle onde sulla battigia, insieme a documenti inutilizzabili, a ossa spolpate, falangi, denti, che non sono solo quelli dei migranti africani dell’oggi, ma anche residui di antichi naufragi, di invasioni piratesche, di assalti alleati: catalogati da un implacabile “ufficio degli scomparsi / ampio mar mediterraneo”.

A questa desolante spiaggia isolana, assediata dalla calura e dal disfacimento dei corpi, si contrappone nella seconda sezione del volume l’ambiente borghese ma ugualmente disumano di un aeroporto invaso da vacanzieri intruppati in fila con le loro valigie, accaldati nei bar, stizziti dalle attese davanti alla toilette, persi tra i saluti ai parenti, dialetti e lingue straniere, controllo passaporti e assalti pubblicitari.
Altrettanto alienanti sono gli scenari in cui Renata Morresi ambienta i due ultimi capitoli della sua raccolta: il primo (Vendesi), narrante l’odissea di chi si affida a un’agenzia immobiliare per la ricerca di un appartamento, ed è costretto a una deambulazione frastornata tra quartieri, ambienti, condomini, stanze diverse: “rifinito con cura / funzionale servitissimo adiacente / su due livelli su tre livelli su / struttura ristrutturata di recente”.

Infine, Trenitalia è un malinconico omaggio al mondo composito dei passeggeri che anima le varie frecce bianche e rosse circolanti sui binari della nostra penisola: “«acqua, aranciata, caffè» // ognuno ti tocca del tutto / d’una piena mancanza / ognuno da un’unica polla / di aria ti invita / nella sua stella nana”.

Tutti soli, tutti insieme – migranti, turisti, inquilini, pendolari: l’affollata solitudine in cui siamo immersi.

 

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www.sololibri.net/Bagnanti-Renata-Morresi.html     2 settembre 2016