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MESSUD

CLAIRE MESSUD, LA DONNA DEL MARTEDI’ – BOLLATI BORINGHIERI, TORINO 2015

Claire Messud (1966), scrittrice americana nota anche in Italia per il suo romanzo di successo “I figli dell’imperatore”, in questa sua più recente pubblicazione affronta il tema dell’emigrazione politica attraverso la vicenda (minima e banale a livello personale, tormentata e drammatica se letta con l’occhio della storia del ‘900) di una ragazza ucraina, Maria Poniatowski, costretta negli anni tragici del nazismo ad emigrare in Canada.

La donna del martedì si apre con poche righe che sembrano introdurre una situazione di misteriosa violenza: Maria, governante ormai anziana, si reca come fa regolarmente da più di quarant’anni ogni martedì alle 7,55 di mattina, nell’appartamento di Mrs. Ellington, una signora novantenne, semicieca e bisbetica, per accudirla nella cura personale e domestica.
Entrando scorge con terrore una striscia di sangue che dall’ingresso segna la parete fino alla camera da letto della padrona. La quale tuttavia non è morta, sgozzata da qualche ladro o energumeno introdottosi nottetempo, ma dorme placidamente tra due cuscini. Alle insistenze della governante, Mrs. Ellington confessa di essersi distrattamente tagliata un dito la sera prima, e di aver cercato tentoni la sua camera appoggiandosi al muro, e sporcandolo senza accorgersene. Chiusa questa parentesi introduttiva piuttosto inessenziale, il romanzo prosegue narrando la vita intera di Maria Poniatowski, dall’infanzia poverissima in Ucraina, con la sua numerosa famiglia contadina, fino all’invasione tedesca e alla deportazione in Germania (dapprima come bracciante, poi come operaia), quindi alla fuga e alla liberazione, conclusasi con l’incontro e il matrimonio con un giovane polacco (Lev). I due sposi si imbarcano verso il Canada, dove lentamente riescono a crearsi una vita dignitosa, lavorando e crescendo un figlio.

Claire Messud ci racconta la storia di un’esistenza come ce ne sono tante, senza particolari trasporti emotivi o approfondimenti psicologici, descrivendo le piccole sconfitte quotidiane della famigliola, ma anche i progressi economici: il figlio che si laurea, l’ostilità della nuora, la morte di Lev, e il lavoro di governante di Maria presso Mrs.Ellington. Lavoro che si concluderà quando la signora verrà ricoverata in una casa di riposo. “Aveva l’impressione che l’unica cosa da ignorare fosse la più evidente di tutte: la fine. Bisognava assolutamente evitare – Maria aveva mentito di rado in vita sua, e non le era piaciuto – di accordarle il posto che, in ogni caso, aveva già usurpato. Maria era circondata dalla fine”.

Una narrazione piana o forse piatta, questa di Claire Messud, che accompagna la sua protagonista attraverso la registrazione degli avvenimenti in discesa che la portano a concludere una vita silenziosa, grigia, rassegnata, in un ambiente che le rimane estraneo, come i sentimenti che lo animano. Non esattamente la “storia straordinaria” che ci prometteva la nota in quarta di copertina.

 

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www.sololibri.net/La-donna-del-martedi-Messud.html        27 ottobre 2016

RECENSIONI

METZ

THIERRY METZ, SULLA TAVOLA INVENTATA – EDIZIONI DEGLI ANIMALI, ROMA 2018

Di Thierry Metz sono state pubblicate poche cose in italiano. Una sorta di diario a frammenti degli ultimi mesi di vita da lui trascorsi nella clinica di Cadillac per disintossicarsi dall’alcol e guarire da una forte depressione, e ‒ lo scorso anno ‒ una scelta di versi a cura di Riccardo Corsi, per le Edizioni degli Animali. Tutte le poesie (che gli valsero il Premio Voronca nel 1988 e il Premio Froissart nel 1989) sono state raccolte nel volume Poésies (1978-1997), edito in Francia da Pierre Mainard nel 2017.

Poeta intenso e disperato, ebbe un’esistenza tormentata da difficoltà economiche e lavorative, da pesanti lutti e da problematici rapporti ambientali, acuiti dalla sua particolare fragilità emotiva. Nato a Parigi nel 1956, sposatosi ventenne con una compagna di scuola da cui ebbe tre figli, si trasferì nei dintorni di Agen, sulle rive della Garonna. Qui trascorse un breve periodo di serenità, presto funestato dalla morte del secondogenito Vincent, a otto anni schiacciato da un’automobile davanti ai suoi occhi. Per mantenere la famiglia, lavorava saltuariamente come muratore e sterratore, e da questa faticosa esperienza trasse materiale per un volume edito da Gallimard nel 1990, Il diario di un manovale, in cui narrava senza retorica o autocompatimenti la quotidianità della vita in un cantiere edilizio. La sua dipendenza dall’alcol, gli improvvisi accessi di aggressività, il dolore per la morte del suo bambino lo condussero a reiterati ricoveri in ospedali psichiatrici e a pesanti trattamenti farmaceutici, che lo portarono a suicidarsi poco più che quarantenne.

L’uomo che pende (Via del Vento, Pistoia 2001) è una raccolta di un centinaio di piccoli brani narrativi (riflessioni, illuminazioni poetiche, descrizioni di luoghi e personaggi), appuntati tra la fine del 1996 e l’inizio del 1997, durante il suo ricovero al centro ospedaliero di Cadillac, nel padiglione Charcot. Metz racconta in uno stile sobrio e quasi documentaristico la sua degenza tra medici, infermieri, malati psichici impegnati in diverse maniere al recupero di una parvenza di vita sana e socialmente reintegrata. Con questo proponimento apre il suo diario: “È l’alcol. Sono qui per svezzarmi, ridiventare un uomo di acqua e di tè. Considero i giorni che vengono con tranquillità, da lontano, ma attento. Devo uccidere qualcuno dentro di me, anche se non sono troppo sicuro di farcela. Tutta la questione è di non perdere il filo. Di legarlo a ciò che si è, a ciò che sono, scrivendo”. Consapevole della problematicità della disintossicazione, registra i suoi fallimenti, le ricadute, le paure: “Lentezza, confusione talvolta, dovute al trattamento che ricevo. Ne ho coscienza come un tuffatore o un alpinista. E ne ho bisogno. Mi sbarazzo di un’ebbrezza con un’altra, di una morte con un’altra morte, del vuoto con il vuoto. La mia voce contraddetta non passa, per il momento, che attraverso queste vie contrastate d’eclissi”. E ancora: “Ogni parola mi affanna”. Registra amaramente lo scandire di ore tutte uguali, tutte sorvegliate e amorfe: “Ogni mattina è l’inventario, il giro delle camere. Ci si saluta, si cambiano le lenzuola, le fodere, danno del decoroso e del pulito. Si rifà il letto. L’erba cresce, gli uccelli passano ma tutto quello che è detto non offre alcun passaggio. Allora si aspetta il caffè e il pane davanti a una porta. Solo gli orologi hanno il tempo di avere tempo”. La sua consapevolezza del baratro in cui sta per precipitare rimane lucida, disincantata, come la cognizione filosofica dell’irriducibilità del reale all’espressione verbale: “Il linguaggio non ha senza dubbio d’accessibile che l’indicibile. E l’indecifrabile. L’accesso non è dentro né fuori. Introvabile e tuttavia qui. L’impercettibile è la nostra sorridente complicità”. Si ucciderà a Bordeaux il 16 aprile del 1997.

I versi antologizzati nell’elegante volumetto Sulla tavola inventata risalgono all’inverno 1986-1987, e ancora riflettono sprazzi di luminosa e innocente grazia, per quanto presaghi a volte di una minaccia futura. Vibrano di una reiterata invocazione, rivolta a sé stesso o a un imprecisato “Uomo”, presenza amicale o angelica, promessa di soccorso solidale e salvezza: “Guarda”, ripetono, ed è un invito celaniano (“Smetti di leggere, guarda!”), a schiudersi verso un fuori benefico, positivo, aperto.
Il fuori verdeggiante di alberi e prati, il cielo attraversato dal volo di uccelli (ghiandaie, pettirossi, merli): osservandolo il poeta dimentica noia e delusioni (“che importa questo / io”), nell’attesa di una qualsiasi epifania, sia essa parola, incontro, amore. O magari una “tavola inventata” intorno a cui sedersi, cercando una comunicazione fraterna, non intellettuale, non libresca: “Scrivi / non nella scrittura / ma nell’intimità del pozzo / dove il più chiaro si nasconde”, “Poche parole per raggiungerti / ma ascolta: / se non hai niente da dire allo storno / alla ghiandaia / perché discutere con la sentinella / che ha fatto il nido / nel libro”, “Vecchia orsa minore / vieni a vedere: / sorge un giardino / nel respiro dell’albero / è questo il luogo / dove uomo e uccello / si meravigliano”. Una pagina interrotta, quella di Thierry Metz, che con le sue grandi mani da campione di sollevamento pesi, ruvide mani di muratore, sapeva scrivere con delicatezza di foglie, di ali, di speranze negate.

 

© Riproduzione riservata            «Il Pickwick», 7 febbraio 2019

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MEYER SABINO

GIOVANNA MEYER SABINO, ...DEMOCRAZIA E’ FEMMINA. DONNE CALABRESI E CAMBIAMENTO – PELLEGRINI, COSENZA 1995

 

Pensare o dire “Calabria” suscita in noi immagini contrapposte ma comunque coinvolgenti. Da un lato, l’idillio di una natura imperiosamente affascinante: solare, impervia, dura nei paesaggi, nel clima e nel carattere della sua gente; dall’altro, l’impaurita incomprensione di una realtà sociale violenta e disgregata, dove l’ottusa e aggressiva protervia di pochi spadroneggia, prevaricando la letargica, fatalistica inerzia dei più. Eppure, anche la rassegnazione secolare al sopruso può improvvisamente venire scossa, se un gruppo di persone decide di dar voce al proprio disagio, facendosi voce anche del disagio altrui; e se queste persone sono donne, e se a raccogliere le loro testimonianze è una donna, ecco che le parole possono diventare in maniera tanto più innovativa coro, grido, eco in continuo sviluppo. Così è stato per l’esperienza del gruppo  Plurale femminile, nato a Tropea nel ’90, su iniziativa di alcune donne del paese, fiancheggiate da turiste e da movimenti di opinione esterni. Gruppo che concentra la sua attività intorno a tre tematiche fondamentali: protezione dell’ambiente, restauro del centro storico e salvaguardia del turismo. Tali obiettivi vengono perseguiti attraverso capillari operazioni di sensibilizzazione: discussioni, volantinaggi, assemblee, marce, dibattiti pubblici sui diritti civili e sulla mafia. Tutta questa campagna di mobilitazione produce ben presto i suoi effetti; il Consiglio Comunale di Tropea, incalzato e pubblicamente contestato dal gruppo di donne, attua alcuni interventi straordinari sui problemi ambientali più urgenti (fogne, nettezza urbana, acqua, viabilità); nasce all’interno dell’ospedale un tribunale per i diritti del malato; si organizza un convegno su Ambiente e partecipazione cui intervengono Gianfranco Amendola, Antonio Cederna, Luigi Lombardi Satriani; si richiede di creare un parco nazionale e un parco marino e la costruzione di un megadepuratore destinato alle acque zonali. L’attivismo frenetico e le iniziative incalzanti, anche se talvolta non ben coordinate, di  Plurale femminile  sortiscono all’improvviso e auspicato scioglimento del Consiglio Comunale, e al conseguente commissariamento della città. Ma proprio sul problema delle elezioni del nuovo consiglio comunale, P.F. entra in crisi, spaccandosi tra chi vuole fiancheggiare i partiti storici della sinistra, e chi invece preferirebbe costituire una propria lista civica. Il gruppo arriva presto a istituzionalizzarsi, con tutto ciò che nel bene e nel male questo comporta: meno velleitarismo e spontaneismo, più concretezza e un pragmatismo maggiormente attento alle regole del gioco. Quattro anni di lavoro politico generoso e indefesso, concorrono a cambiare la mentalità della gente del paese, esortano i calabresi a uscire dal guscio producendo il miracolo di una nuova amministrazione, efficiente e onesta. E vengono oggi raccontati in un elegante e intelligente volume di Giovanna Meyer Sabino, giornalista italiana trapiantata da molti anni a Zurigo, sempre attenta ai problemi dell’emarginazione e del femminismo. Il libro ...Democrazia è femmina  si articola in tre parti: nella prima sezione vengono esposti e analizzati i fatti, gli avvenimenti concreti – documentati da foto, interviste, manifesti, ecc.; nella seconda parte viene approfondita la riflessione sui meccanismi razionali e inconsci che hanno agito all’interno del gruppo di donne, sulle motivazioni che le hanno spinte ad aggregarsi, sulle difficoltà che hanno minacciato il loro operare. Ogni analisi particolare viene infine inserita in un contesto culturale e sociale più vasto, nelle coordinate necessarie che inquadrano la problematica condizione femminile nel nostro Sud. E’ una proposta di coinvolgimento, una scommessa sul futuro, quella suggerita dalle donne di Tropea, esempio di una impegno coraggioso da condividere, possibilmente da esportare.

 

«Agorà» (Svizzera), 1 novembre 1995

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MICHON

PIERRE MICHON, RIMBAUD IL FIGLIO – MAVIDA, REGGIO EMILIA 2005

Pierre Michon, autore molto noto e premiato in Francia, ha dedicato nel 1991 un volume ad Arthur Rimbaud, ripercorrendone non solo la tribolata e breve esistenza, ma anche la genesi della magistrale produzione poetica, incastonata come un gioiello all’interno di un’epoca di febbrile creatività artistica, e di altrettanto vivaci polemiche letterarie. Rimbaud il figlio, quindi: figlio non solo di una famiglia piccolo borghese di Charleville, provinciale e conformista cittadina delle Ardenne; non solo di una mamma ignorante e ossessionata dal culto delle apparenze («Vitalie Rimbaud nata Cuif»); ma di un ambiente culturale rifiutato rabbiosamente, che seppe per antitesi partorire un genio, ribelle e incompreso, sì, ma splendente di luce propria.

La scrittura di Pierre Michon, raffinata e lieve, funambolica e lirica, sospesa tra un barocchismo onirico e il gusto celebrativo, ben si accorda a descrivere l’esistenza del giovane poeta, accompagnandola nelle sue evoluzioni e nei suoi silenzi, e soprattutto nelle sue illuminazioni creative. La casa editrice emiliana Mavida ha riproposto questa estetizzante biografia rimbaudiana nel 2005, con traduzione attenta di Maurizio Ferrara e inquietanti illustrazioni di Isabella Branella.

L’interesse di Michon giustamente si focalizza sulle figure di contorno, che servono da sfondo e contrasto a far meglio risaltare l’eccezionalità del poeta maudit. Il padre assente, capitano di «guarnigioni lontane»; la vampiresca madre Vitalie, donna «sofferente e malvagia… creatura d’imprecazione e di disastro»; il delicato e romantico insegnante di lettere del liceo, Georges Izambard, convinto che la poesia dovesse rappresentare il buono e il bello del vivere. Tutti e tre questi personaggi ottennero con la loro sola presenza all’ombra di Arthur di provocarne l’insubordinazione, il ribollente rigetto di ogni convenzione, di ogni abitudine, di ogni tradizione. Il ragazzo fugge da Charleville che non sopporta, macina chilometri a piedi, arriva in Belgio, forse va a Parigi nei giorni rivoltosi della Comune. Con la protervia e la presunzione dei suoi pochi anni, invia i suoi versi ai poeti parnassiani contemporanei, come Banville o Demeny, onesti ma banali, che li leggono con stupore e spavento: «Là dove è passato vedono un grande solco che taglia in due il campo della poesia, rigettando da un lato il vecchiume, pieno certamente di belle opere, ma vecchiume, e dall’altro il fiero podere devastato del moderno, dove forse non cresce niente, ma è moderno».

Entrano prepotentemente in questa storia «Verlaine con un cappello derby sul marciapiede della Gare de l’est», la passione tormentata con il poeta ventisettenne stilisticamente più tradizionale di lui, i vagabondaggi in giro per l’Europa, gli eccessi e l’assenzio, l’alcol e le provocazioni scandalose, la gelosia folle che esplode nello sparo «all’ala dell’arcangelo atterrito», in una letargica Bruxelles. E ancora inquietudini e solitudini, le Bateau Ivre composto a diciassette anni, Une Saison en enfer scritto di furia e di nascosto nel solaio di una fattoria di Roche, ritorni rancorosi in famiglia e di nuovo fughe a Parigi, dove si lascia fotografare dal famoso ritrattista Carjat, nell’unica immagine giovanile che ci rimane: biondo, spettinato e sfinito, occhi chiari e spaesati. Poi mestieri di ogni genere, l’Italia e l’imbarco per l’Abissinia, la rinuncia alla scrittura. «…andare a crepare in quell’insulso Corno d’ Africa, in mezzo a popolazioni senza corde da toccare, dove gli unici maestri sono il deserto, la sete, la Sorte, tutti i sovrani poco visibili e insabbiati come sfingi, ma sovrani, capitani, che mormorano ineffabili allarmi nel vento sulle dune, con le trombe fantasma del vento». Quindi il tumore alla gamba, l’amputazione con la sega a Marsiglia, la morte a 37 anni.

 

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https://www.sololibri.net/Rimbaud-il-figlio-Michon.html         19 maggio 2018

 

 

 

RECENSIONI

MICHON

PIERRE MICHON, GLI UNDICI ‒ ADELPHI, MILANO 2018

Con il suo romanzo d’esordio Vies minuscules, oggi considerato un classico, Pierre Michon vinse nel 1984 il Prix France Culture, ottenendo in seguito altri prestigiosi riconoscimenti internazionali. Già in questa sua prima opera, che narrava le esistenze di personaggi umili e sconosciuti, l’autore esibiva uno stile forbito e letterariamente controllato, immaginoso e insieme melodiosamente seduttivo, ricco di riferimenti culturali ed eruditi che spaziavano dalla pittura alla musica, dalla storia al folklore.

Utilizzando lo stesso tocco elegante e fastoso, nel 2009 Michon scrisse Les Onze, pubblicato oggi da Adelphi con il titolo Gli undici, nella traduzione di Giuseppe Girimonti Greco. In questo volume, la voce narrante si rivolge a “un signore” immaginario, evocante il lettore universale, per tratteggiare la vicenda umana ed artistica del pittore François-Élie Corentin, nato nel 1730 a Combleux, un borgo nei pressi di Orléans, sulle rive della Loira, allievo di Tiepolo e in seguito collaboratore di David.

La ricostruzione biografica dell’artista è minuziosa: si sofferma sulle sue doti fisiche e caratteriali, sull’ambiente familiare e geografico in cui ebbe a crescere, sull’educazione ricevuta negli anni turbinosi che videro l’Ancien Régime soccombere sotto il giogo feroce del Terrore, durante la Rivoluzione. La prima parte del libro, senz’altro più coinvolgente e formalmente risolta, inquadra il paesaggio naturale e parentale in cui si svolse l’infanzia di Corentin: il nonno materno, ingegnere incaricato di canalizzare la Loira fortificandone gli argini; quello paterno, vinaio arricchitosi col commercio; la delicata e sensibile mamma, presto lasciata sola dall’ambizioso marito desideroso di inseguire la gloria letteraria a Parigi. In questi primi capitoli, Michon delinea un interessante spaccato della società settecentesca di provincia, utilizzando analisi sia psicologiche sia politiche: Freud e Marx per descrivere la dipendenza e la ribellione affettiva del protagonista dalle figure genitoriali, e lo sfruttamento della mano d’opera impiegata nello sterramento del fiume, con un’attenzione empatica per le condizioni subumane in cui viveva la classe lavoratrice. «Ecco, provi un po’ a immaginare quale speranza possa riservare una vita che consiste nel raccogliere fango per metterlo in una gerla, svuotare la gerla in un carretto e ripetere ogni giorno, da mane a sera, un’azione di quella levatura, con il solo miraggio di un pezzo di pane nero, pane di piombo, e sopra a questo un sonno di piombo per digerirlo; e la domenica, la sbornia di piombo».

La ricettività nei riguardi dello sfruttamento del popolo, introduce all’obiettivo che Michon si propone di raggiungere con il suo romanzo: la denuncia del potere, che guida la Storia in un’eterna lotta di sopraffazione e violenza. Il pittore François-Élie Corentin, affermatosi nell’ambiente artistico parigino senza tuttavia raggiungere mai una vera fama, nel gennaio del 1794 viene incaricato da un gruppo di sanculotti di dipingere un quadro di grandi dimensioni, raffigurante gli undici membri del Comitato di salute pubblica, da esporre al Louvre. Il dipinto, ricompensato molto generosamente, dovrà essere ultimato in gran segreto e in tempi brevissimi, e ritrarre con sfarzo gli Undici detentori del potere assoluto negli anni del Grande Terrore. Undici personaggi, in guerra fratricida tra loro e con la società, assetati di sangue e vendetta, presuntuosi e dispotici, mossi da un «compassionevole zelo per gli sventurati» e insieme dall’ambizione folle di rivoluzionare la storia. «Tutti costoro, questi undici, tutti scrittori come le ho già detto, avevano in comune principalmente il fatto di apporre le loro undici sigle in calce ai vari decreti relativi a cannoni, grano, ghigliottina, requisizioni ed esecuzioni».

Gli Undici, responsabili di far «cadere quaranta teste al giorno», vengono quindi ritratti dal pittore in un quadro celebrativo, con Robespierre e i suoi raffigurati in gloria per i posteri: un quadro capolavoro, dipinto con l’intento di attrarre l’ammirazione spaventata dei visitatori del Louvre di fronte all’esibizione sfrontata del dominio egemone della forza. Un quadro che tuttavia non è mai esistito, come non è mai esistito François-Élie Corentin, invenzione superba di Pierre Michon, a indicare quale sia stato da sempre il ruolo oppressivo di chi esercita il potere nella storia dell’umanità. Per questo libro, Michon ha ricevuto il Grand prix du roman de l’Académiefrançaise.

 

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https://www.sololibri.net/Gli-Undici-Michon.html             26 novembre 2018

 

 

RECENSIONI

MILLER

HENRY MILLER, RIFLESSIONI SULLA MORTE DI MISHIMA – FELTRINELLI, MILANO 2016

Gli opposti si attraggono? Capita anche tra gli scrittori, ed è successo allo scandaloso e anticonformista romanziere newyorkese Henry Miller (1891-1980) nei riguardi del giapponese Yukio Mishima (1925-1970): non pornografo ma crudele, non democratico ma elitario, non pacifista ma bellicoso, non ilare ma ossessivo.
Miller giustificava questa sua attrazione intellettuale per Mishima con un interesse più generico verso la letteratura, l’arte e il cinema nipponico e con uno, più particolare, per la scrittura, per il fanatismo e soprattutto per la morte spettacolare e morbosa di quell’autore.

Nei giapponesi “l’elemento estetico e quello emozionale sono sempre strettamente intrecciati” e Miller si confessava attratto dall’aura di mistero e impenetrabilità che circonda gli orientali “sia a livello di popolo sia di individui”.
Mishima era senz’altro un individuo particolarissimo.
Ossessionato dalla bellezza, nei corpi e nell’arte, voleva fare della sua esistenza un capolavoro estetico, fisicamente e moralmente, al punto da decapitarsi platealmente, a quarantacinque anni, tramite il “seppuku”, il suicidio rituale dell’antica tradizione dei samurai: rifiutando così sia il suo inevitabile invecchiamento fisico, sia l’annacquamento senile della sua narrativa, sia soprattutto l’involgarimento della civiltà nipponica e la sua corruzione sul modello del capitalismo occidentale.
Era un fanatico, Mishima? Forse. Ma soprattutto era assillato dal proposito di far rivivere nel suo paese i nobili costumi degli avi: “Egli voleva ristabilire la dignità, il rispetto e la fiducia in se stessi, l’autentico cameratismo, l’amore per la natura e non l’efficienza, l’amore di patria e non lo sciovinismo, l’imperatore quale simbolo della capacità di comando in opposizione a un gregge senza volto e senza anima obbediente a ideologie mutevoli, i cui valori sono stabiliti dai teorici della politica”

Per questo perseguì con cieca tenacia l’idea di costituire un piccolo esercito privato, elegante nelle uniformi e ferocemente deciso a opporsi al degrado dell’ordine costituito. Narcisista, individualista, stoico, eccessivo in tutto, Mishima era privo di qualsiasi senso dell’umorismo, non sapeva ridere né sorridere, credeva solo nell’eternità dello spirito, nel dovere di rispettare i princìpi senza alcuna concessione alla leggerezza, al profitto materiale, al divertimento. E in questo Henry Miller prendeva le distanze dallo scrittore eroico e invasato. Pur essendo consapevole che la sua amata America, democratica e libera nei costumi, sarebbe stata destinata al declino morale, al caos, alla perdita di ogni valore, invocava il diritto alla vita, alla pace, alla tolleranza verso gli altri. Convinto che non si potesse cambiare il mondo, riteneva più saggio comprenderlo anche nelle sue manchevolezze, provando compassione anche per il nemico. “Tornare all’umanità. Alla comune umanità… Mettersi carponi a insegnare l’alfabeto alle formiche – se ci si riesce”. Tutto sommato, di Mishima non ricordiamo l’ideologia militare e il manipolo di esaltati samurai, spariti nel nulla dopo la sua morte. Ricordiamo invece l’eleganza della sua scrittura, l’invocazione continua al perfezionamento di sé, l’esaltazione della bellezza. E ci aiuta a farlo questo saggio di Miller, Riflessioni sulla morte di Mishima.

 

© Riproduzione riservata     www.sololibri.net/Riflessioni-morte-Mishima-Miller.html     9 agosto 2016

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MISHIMA

YUKIO MISHIMA, IL PADIGLIONE D’ORO – FELTRINELLI, MILANO 2015

Il padiglione d’oro (Feltrinelli, 2015) di Yukio Mishima, pubblicato in Giappone nel 1956 e oggi riproposto, ambientato negli anni della seconda guerra mondiale e del primo dopoguerra: anni di fanatismo, dolore, sconfitta e rancorosa volontà di rivincita morale, per l’impero nipponico e per i suoi abitanti. Di questi sentimenti, e di altri (esaltato estetismo, incandescente desiderio di purezza, morbosa attrazione verso il male e il peccato), Mishima rende testimonianza nella figura del giovane protagonista Mizoguchi, aspirante monaco buddista, balbuziente e deforme, scisso tra complessi di inferiorità e consapevolezza orgogliosa della propria superiore intelligenza: «Per un ragazzo tanto irrimediabilmente riservato e chiuso, non era forse naturale ritenersi creatura eletta? Mi pareva d’aver atteso in qualche parte del mondo, chiamato a compiere una missione che era ancora ignota a me stesso».

Mizoguchi analizza con spietatezza sentimenti e azioni di chiunque lo circondi: la madre ignorante e meschina, il padre abate rassegnato al proprio fallimento, i religiosi melliflui e compromessi del suo monastero, i due amici più cari (la nobiltà severa del primo, lo scaltro opportunismo vincente del secondo), e poche, ributtanti figure femminili, ridotte quasi sempre al rango di prostitute.
La stessa concentrata attenzione ai corpi e alle anime di chi avvicina, viene rivolta dal giovane anche agli oggetti, alla natura, agli ambienti: ma soprattutto all’osservazione analitica, feroce, dei propri sentimenti e pensieri. Sapendosi brutto e rifiutato dagli altri, è ossessivamente affascinato dalla bellezza, dalla sua immutabile persistenza, dalla sua salvifica necessità. Al punto di programmare con spietatezza la distruzione del grandioso padiglione quattrocentesco di un santuario di Kyoto, emblema per lui di inarrivabile gratuità, eleganza, grandezza spirituale. Mishima sa muoversi magistralmente nei meandri di una mente e di una cultura impregnate di estetismo, devozione e spregio.

 

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www.sololibri.net/IL-PADIGLIONE-D-ORO-YUKIO-ISHIMA.html     21 dicembre 2016

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MISHIMA

YUKIO MISHIMA, MARTIRIO – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2009

L’editrice pistoiese Via del Vento pubblica questo libricino di Yukio Mishima, «personalità complessa, di tendenze manifestamente omosessuali, romantico, narcisista, soggiogato dai temi della sensualità e della morte, esaltato difensore delle tradizioni del sistema imperiale, e amareggiato per il progressivo e inarrestabile processo di occidentalizzazione del suo paese» al punto di scegliere di darsi violentemente e platealmente la morte, a 45 anni, con harakiri.
Martirio, un racconto di poche pagine, scritto nel 1948 (quando l’autore era solo ventitreenne, un anno prima del suo capolavoro, Confessioni di una maschera), è teso e compatto, vibrante di un’atmosfera di morbosa e ossessiva negatività. Ambientato in un collegio per «rampolli dell’aristocrazia», ricorda temi e suggestioni di due capolavori della letteratura occidentale: I turbamenti del giovane Toerless e Il Signore delle mosche. Come in questi, qui è il male che incombe nelle vicende claustrofobiche e brutali di un gruppo di adolescenti, «armati di una freddezza di cuore e un’arroganza degna di tanti adulti». Vicende che si snodano attraverso le due direttrici delle pulsioni di Eros e Thanatos, «nel loro tragico e inevitabile darsi avvinghiate in tossica unità» come spiega il postfatore Francesco Cappellini.

Il piccolo Watari, «di stupefacente bellezza» viene preso di mira ed è oggetto di angherie da parte degli allievi più grandi, perché estraneo al branco, ribelle alle sue regole e ostinatamente rivolto con lo sguardo al cielo «come fosse Cristo». Sorpreso a rubare, viene selvaggiamente picchiato e infine impiccato, mentre i compagni danzano «come piccoli demoni» intorno a lui, orgogliosi «di aver ucciso qualcuno».
Un Martirio come quello del San Sebastiano di Guido Reni che tanto aveva turbato la sessualità giovanile di Yukio Mishima. Il fatto che il corpo di Watari alla fine del racconto scompaia, lasciando penzolare la corda vuota liberamente, aggiunge un ulteriore, irrazionale elemento di angoscia alla narrazione.

 

© Riproduzione riservata 

www.sololibri.net/Martirio-Yukio-Mishima.html       3 luglio 2016

RECENSIONI

MISHIMA

YUKIO MISHIMA, TRASTULLI DI ANIMALI – FELTRINELLI, MILANO 2008

Prescindendo dal titolo,  piuttosto infelice e ammiccante, ma in realtà allusivo ai caratteri poco razionalmente controllati dei tre protagonisti, e ai ruoli da loro assunti seguendo una sorta di istinto epidermico (“come animali che s’incontrano per la prima volta, si fiutavano reciprocamente con una attitudine pericolosa”), questo romanzo di Yukio Mishima conferma la maestria dell’autore: non solo nell’introspezione psicologica dei personaggi, e nella corrispondente descrizione fisica e ambientale, ma soprattutto nella costruzione a incastro degli avvenimenti, nella rivelazione imprevista di cause precedenti e di effetti susseguenti al loro agire, nell’epilogo drammatico di altissima tensione. Riguardo al quale, la quarta di copertina rivela essere stato scritto di getto da Mishima la notte del capodanno del 1961, dopo aver ascoltato il Fidelio di Beethoven alla Scala di Milano.
Il paesaggio gentile e luminoso del paesino di pescatori nella penisola di Izu (“luce lacerante … accecante mare … infuocata panchina … sole troppo abbacinante… raggi ardenti …”), fa da contrasto alle ombre che avvolgono i sentimenti e l’esistenza dei protagonisti, riassunta icasticamente in una frase all’inizio della narrazione:
“Anzitutto c’era una donna infelice e disperata. Un marito egoista e crudele. Un giovane compassionevole, pieno di vigore. E con ciò la storia sembrava già compiuta”.
Tre, dunque, gli attori sulla scena. Ippei, professore universitario di tedesco, intellettuale vanesio riconvertitosi al commercio, elegante quarantenne amante del lusso e delle donne; sua moglie Yūko, fragile e tormentata; il giovane e vigoroso Kōji, loro dipendente, invaghito della padrona. Accecato dalla gelosia, ma soprattutto rabbioso per le continue umiliazioni che il marito-padrone impone a tutti, gli fracassa la testa procurandogli un’emiparesi afasica.
Dopo due anni trascorsi in carcere, Kōji viene accolto nuovamente dalla stessa coppia, ora proprietaria di un avviato vivaio, a perpetuare una penosa convivenza accanto all’uomo disabile – trasformato in una inespressiva maschera tragica – e alla sposa infermiera: in tre prigionieri della stessa plumbea atmosfera fatta di rimorso, pietà, rancore, paura, dedizione e odio.
Rapidamente il romanzo si avvia verso la sua inevitabile e sconvolgente conclusione, sempre mantenendo però un’attenzione e una sensibilità quasi fotografica alla descrizione dei particolari, fisici e paesaggistici, che fanno da sfondo ai dialoghi, ai monologhi, ai silenzi dei tre personaggi. E lo scavo nelle emozioni profonde delle loro anime, nei rovelli dei sentimenti, nell’inevitabilità di un destino che sembra sopraffarli e decidere per loro, ci restituisce il pathos della grande narrativa, quando si confronta con i temi eterni della colpa, della morte, dell’amore.

 

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www.sololibri.net/Trastulli-di-animali-Yukio-Mishima.html   2 gennaio 2016

RECENSIONI

MISTRAL

GABRIELA MISTRAL, CANTO CHE AMAVI – MARCOS Y MARCOS, MILANO 2010-2018

Prima poetessa latinoamericana a ricevere il Nobel nel 1945, la cilena Gabriela Mistral (Vicuña, 1889-New York 1957) ebbe un’esistenza ricca di passioni civili e avvenimenti eccezionali. Nata in una famiglia di modeste condizioni in un paesino alle pendici delle Ande, iniziò giovanissima a insegnare come maestra rurale, progredendo caparbiamente negli studi e nella professione fino ad assumere incarichi dirigenziali al Ministero dell’Istruzione, e in seguito a rivestire la carica di Console in diverse città europee e americane, sempre mantenendo vivo il suo interesse per le riforme scolastiche e l’impegno in favore delle classi sociali più indigenti e dei diritti delle donne. Non ancora quarantenne, aveva affermato di sé: “Sono cristiana e integralmente democratica. Credo che il cristianesimo, con il suo profondo senso sociale, possa salvare i popoli. Ho scritto come chi parla nella solitudine. Infatti sono vissuta molto sola dovunque. I miei maestri d’arte e di vita: la Bibbia, Dante, Tagore e i russi… Il pessimismo in me è un atteggiamento di malcontento creativo, attivo e ardente, non passivo. Ammiro, senza professarlo, il buddismo, che per qualche tempo conquistò il mio spirito… Vengo da una famiglia di contadini e sono una di loro. I miei grandi amori sono la fede, la terra, la poesia…”.

Proprio come poetessa ottenne molti riconoscimenti, pubblicando diverse raccolte (Desolazione, Tenerezza, Taglio del bosco, Torchio, Poema del Cile), in cui parlava di amore e politica, religione e femminismo, bellezze naturali e ingiustizie sociali. Il suo vero nome era Lucila Gogoy Alcayaga, ma aveva scelto lo pseudonimo di Gabriela Mistral in onore di due poeti da lei molto amati: il nostro Gabriele D’Annunzio, e l’occitano Frédéric Mistral, Premio Nobel nel 1904.

L’editore milanese Marcos y Marcos ha di recente ripubblicato un’antologia, Canto che amavi, che raccoglie testi dell’autrice cilena dai contenuti e dalle forme più differenziate, ma tutti animati da un’insopprimibile energia vitale, da un’esplicita volontà comunicativa, da una radicale esigenza di chiarezza stilistica.

Dalla sua famiglia di donne forti e indipendenti (la nonna ebrea, la madre abbandonata dal marito con le figlie ancora piccole, la sorella che l’aveva sempre incoraggiata e sostenuta nella carriera) Gabriela ereditò l’intraprendenza e il coraggio di opporsi alle convenzioni sociali e al maschilismo patriarcale del Cile del primo ’900. A loro dedicò versi di gratitudine e rimpianto, consapevole che all’universo femminile è spesso demandato di sopportare la fatica quotidiana dell’esistere, con la relativa delusione di un mancato riconoscimento affettivo, culturale e sociale.

Gli intensi e sofferti amori della sua vita (il fidanzato Romeo Ureta Carvajal morto suicida, la scrittrice statunitense Doris Dana a cui fu legata dal dopoguerra fino alla morte), furono raccontati in poesie appassionate, in cui dolore e dedizione assumono tonalità di struggente coinvolgimento: “Io ti stenderò in terra soleggiata con una / tenerezza di madre per il figlio dormiente, / e si farà la terra morbidezza di culla / accogliendo il tuo corpo di bimbo addolorato”, “Ti attendo senza limite né tempo. / Tu non temere notte, nebbia o pioggia. / Vieni per strade conosciute o ignote. / Chiamami dove sei, anima mia, / e avanza dritto fino a me, compagno”, “Mi son seduta a metà della Terra, / amor mio, a metà della vita, / apro le vene e il cuore, / mi schiudo in melograno vivo, / e rompo il mogano rosso / delle mie ossa che ti amavano”.

Sempre la morte aleggia come spettro ed emblema di irreparabile ingiustizia nelle sue composizioni: sia quella della madre (“Questa morte è stata per me una lunga e oscura sosta, un paese dove ho vissuto cinque o sei anni, paese amato per la presenza di mia madre, paese odiato per la lunga stasi della mia anima in una profonda crisi religiosa”), sia quella dell’amatissimo nipote Juan Miguel, uccisosi a diciassette anni.

Viscerale è l’attaccamento che Gabriela esprime per tutto ciò che la circonda: persone e paesaggi. Racconta dei campesinos sfruttati nei latifondi (“chi semina, chi irriga, / chi fa potature e innesti, / chi taglia e si accolla / sotto un sole di fuoco / anguria, viscera rosa, / melone che sa di cielo, ancora una volta, ancora / non ha un suo pezzo di terra”); di madri che allattano neonati denutriti (“Dai! Non è vero che tremi / come un Gesù Bambino / e che il seno di tua madre / si seccò di sofferenza!).

Descrive le distese di campi di mais (“Il santo mais s’innalza / in due impeti verdi, / e assopito si riempie / di tortore ardenti”), il mare rugghiante (“E morì il mare una notte, / da una riva all’altra riva; / si raggrinzì, si restrinse, / come un manto ritirato. // Come un albatros ebbro / o un animale in fuga, / fino all’ultimo orizzonte / con dieci ondate correva”), le montagne (“Quando sogno la Cordigliera, / le sue lunghe gole attraverso, / e di esse odo, senza tregua, / un fischio quasi un giuramento”), i fiumi (“Nella valle del Rio Blanco, / là dove nasce l’Aconcagua, / giunsi a bere, balzai a bere / sotto la sferza di cascata, / che cadeva fluente e dura / e si rompeva aspra e bianca”), l’Oceano (“Vedo alla fine del Pacifico / il mio arcipelago livido, / e un’isola mi ha lasciato / di alcione morto odore acido”).

Lo stile usato da Gabriela Mistral ovviamente muta nel tempo, adeguandosi ai contenuti trattati e alle varie influenze letterarie assorbite durante le lunghe permanenze in paesi stranieri: alla base della sua scrittura rimane comunque l’eredità della formazione culturale contadina, con i frequenti apporti sia di termini regionali e formule proverbiali, sia di simbologie tradizionali religiose. Il traduttore del volume edito da Marcos y Marcos, Matteo Lefèvre, nella nota finale così commenta la sua tecnica formale: “La poesia di Gabriela Mistral delinea un universo ritmico e metrico vario e complesso. La poetessa cilena spazia infatti da liriche che adottano o rivisitano metri tradizionali della lirica romanza (sonetto) a composizioni che invece mostrano un’architettura ritmica e un sistema di versificazione molto più articolato e originale”.

Il rapporto tra Gabriela e il Cile è stato sempre problematico e ambiguo. Fu spesso discriminata perché le sue poesie non corrispondevano ai criteri politici e culturali di una società ancora fortemente maschilista e conservatrice. Alla sua morte, avvenuta a sessantasette anni per tumore al pancreas, le sue disposizioni testamentarie non vennero rispettate, né per quanto riguardava la sepoltura, che avrebbe voluto avvenisse nell’amata città cilena di Montegrande, né per la donazione di una cospicua parte dell’eredità ai bambini poveri del quartiere in cui aveva trascorso l’infanzia.

© Riproduzione riservata              «Il Pickwick», 4 settembre 2020