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RECENSIONI

MODIANO

PATRICK MODIANO, BIJOU – EINAUDI, TORINO 2014

Una storia di rassegnata infelicità, quella raccontata da Patrick Modiano in questo romanzo breve del 2001. Bijou era il nome dato alla ragazza Therese quando era piccola: così la chiamava sua madre prima di abbandonarla e di scappare in Marocco, senza dare più notizie di sé. Una madre inquieta, dalle confuse aspirazioni artistiche, che aveva dovuto rinunciare alla sua professione di danzatrice in seguito a un incidente. Therese, cresciuta senza affetti e senza radici, si trova a vagare in una Parigi allucinante e desolata, con la disperazione di chi sa di non avere nessuno che l’aspetti da qualche parte. Le rimangono ricordi annebbiati della sua infanzia, poche foto, l’immagine di stanze disadorne e di lontani parenti imbarazzati e sempre sulla difensiva. La giovane si imbatte in alcune presenze: una coppia problematica e sospettosa che le affida la propria bambina da seguire per alcune ore pomeridiane, ma poi sparisce misteriosamente, forse per nascondere qualche attività illecita. Un giovane traduttore che le offre un’ospitalità garbata, e tuttavia priva di slanci. Una matura farmacista che la segue con affetto materno e protettivo, ma senza rivelarle i veri motivi del suo interessamento. Soprattutto, però, una donna sconosciuta incontrata in metropolitana, nei cui lineamenti Therese si illude di ritrovare il profilo materno, e che segue con ansia ostinata nei meandri della più squallida periferia parigina, cercando informazioni su di lei nel suo malinconico caseggiato, senza trovare tuttavia il coraggio di presentarsi. Le frasi brevi, secche, prive di metafore e scarse di aggettivazioni con cui Modiano descrive la triste vicenda della ragazza, ben accompagnano il perdersi di lei, senza scopo o aspettative, nella metropoli indifferente: il vezzeggiativo del titolo rende ancora più amara la sua scelta finale di bambina arresa alla solitudine, non ancora pronta a rinascere, bloccata in una ghiacciata incubatrice.

IBS, 15 gennaio 2015

RECENSIONI

MODOTTI

TINA MODOTTI, IRRECUPERABILE RIBELLE – VIA DEL VENTO, PISTOIA 2016

Nella curata ed elegante collana I quaderni delle edizioni pistoiesi Via del Vento è da poco uscito Irrecuperabile ribelle, un libriccino di pensieri sulla vita e l’arte della fotografa Tina Modotti, curato e tradotto da Francesco Cappellini che, nella sua postfazione, afferma: “La fotografia autentica possiede sempre qualcosa di sovversivo e rivoltoso: le immagini della Modotti rimandano direttamente alla sua passione, al suo amore e al suo impegno per gli umiliati e offesi di cui scelse di mettersi al servizio… Tina rivolge la sua attenzione alla realtà umana e sociale che la circonda cogliendone la bellezza e la dignità senza mai correre il rischio di scadere, da una parte in una forma di miserabilismo e pietismo, dall’altra nel reportage fotografico etnografico fine a se stesso”.

Sovversiva e rivoltosa, quindi, come fotografa; Irrecuperabile ribelle come donna e attivista politica: Tina Modotti nacque a Udine nel 1896, e a diciassette anni raggiunse il padre, “agitatore socialista e libertario”, in California. L’accurata biografia che conclude questa pubblicazione ci narra le vicende turbinose della sua vulcanica esistenza, conclusasi nel 1942 a Città del Messico, dove Modotti fu colta da infarto all’interno di un taxi. La sua fine, come tutta la sua vita, fu avvolta da ipotesi leggendarie di complotti, perché l’artista e la donna mai si era sottratta alla radicalità dei sentimenti privati e dell’impegno politico, che l’aveva resa invisa al potere ma amata dal popolo e dall’opposizione di sinistra.
Con il primo compagno, un pittore canadese, si trasferì a Los Angeles, tentando la carriera cinematografica, ben presto abbandonata. Conobbe quindi il famoso fotografo Edward Weston, che la introdusse nel suo ambiente artistico, insegnandole i primi rudimenti del mestiere, di cui la giovane riuscì ben presto a impossessarsi con assoluta maestria. Insieme, si trasferirono nel 1923 in Messico, allora polo di attrazione per tutte le avanguardie politiche e culturali del mondo, negli anni di ricostruzione sociale post-rivoluzionaria. Qui l’abilità tecnica di Tina trovò nutrimento e spessore in una maturazione della sua coscienza civile e umana, interessata a testimoniare i disagi e le lotte della popolazione più umile. Prima arrestata e poi espulsa dal paese, riparò a Mosca, diventando membro del Soccorso Rosso Internazionale, e impegnandosi in attività clandestine e in missioni segrete internazionali a fianco del nuovo compagno Vittorio Vidali. Con lui partecipò alla lotta anti-franchista durante la guerra civile spagnola, stringendo rapporti di amicizia con Robert Capa, Hemingway, Machado e Dolores Ibarruri. Sempre con Vidali tornò poi in Messico, in un regime di semi-clandestinità.
Dell’attività di fotografa di Tina Modotti, limitata ad un arco di cinque anni (dal 1924 al 1929), rimangono solo duecento fotografie, alcune delle quali sono riportate in queste pagine, il cui valore sta soprattutto nel proporre al lettore l’unico scritto programmatico di Tina, e una scelta di lettere inviate al suo grande amore e mentore Edward Weston. Di questa breve antologia offriamo qui alcuni stralci: “Penso di essere una fotografa, nient’altro. Se le mie fotografie risultano diverse da ciò che solitamente viene fatto in questo campo, è esattamente perché cerco di produrre non arte ma fotografie oneste, senza distorsioni o manipolazioni. La maggior parte dei fotografi cerca ancora effetti “artistici”, limitando altri mezzi o espressioni grafiche… La fotografia, proprio perché può essere prodotta solo in quell’istante e perché si fonda su ciò che oggettivamente esiste davanti all’obiettivo, costituisce il mezzo più soddisfacente per registrare la vita vera in tutti i suoi aspetti, e da ciò deriva il suo valore documentario”; “Questo problema della vita e dell’arte è la mia tragicommedia – lo sforzo che faccio per dominare la vita è tutta energia sprecata che potrebbe essere usata meglio se la dedicassi all’arte – allora sì che avrei più cose da mostrare”;  “Edward caro – mi sento così ricca e fortunata per averti conosciuto in questa vita – per esserti stata vicino, per averti amato e per amarti. Benedetto il giorno in cui abbiamo capito che avevamo ambedue qualcosa da dirci”.

 

© Riproduzione riservata        www.sololibri.net/Irrecuperabile-ribelle-Modotti.html      24 agosto 2016

RECENSIONI

MONTALE

EUGENIO MONTALE, PRODA DI VERSILIA – EINAUDI, TORINO 2013 (ebook)

Enrico Testa (Genova, 1956) ‒ saggista, poeta e professore di Storia della Lingua italiana all’Università di Genova ‒, ha commentato in un ebook einaudiano una delle poesie più complesse di Eugenio Montale, Proda di Versilia, pubblicata in rivista per la prima volta nel 1946 e poi compresa nel volume La bufera del 1956. Testa ci offre una disamina approfondita del testo montaliano, analizzando la metrica (che adotta in misura quasi esclusiva l’endecasillabo), l’utilizzo contenuto delle rime e la varietà del lessico, ricco di forestierismi, vocaboli desueti, dotti, settoriali o di nobile ascendenza letteraria. Lontano da ogni ovvietà e facile discorsività, il linguaggio di Montale si definisce proprio in questa ricercatezza ed estrema precisione della terminologia, tendente a evitare qualsiasi vaghezza o approssimazione. Nessuno sperimentalismo fine a se stesso, quindi; invece un ancoraggio costante alla nostra tradizione letteraria più illustre: Dante e Leopardi in primis, con rimandi intertestuali «sottoposti ad un viraggio di significato e investiti di connotazioni distinte dalla ‘fonte’ originaria».

Il «classicismo moderno» montaliano instaura una relazione tra la tradizione dei classici e «la partecipazione al dramma e al gusto contemporaneo», servendosi di temi, argomenti e prospettive attuali, ma attraverso una ricerca formale «ferrea, sensibile e concreta» che sa mantenersi in equilibrio tra una sostenuta ed elegante eloquenza e una serie di distorsioni più colloquiali capaci di movimentare l’andamento del testo.

Proda di Versilia si compone di «quattro lunghe strofe strutturate sintatticamente in maniera assai complessa con ricco sfoggio di subordinate, incisi, parentetiche». Enrico Testa le commenta analiticamente, indicandone i fondamentali elementi stilistici (anafore, antitesi, cambi di soggetto, elencazioni, parentesi, incisi, sospensioni) e di contenuto (scarti temporali, squarci di memorie, descrizioni paesaggistiche, botaniche e ittiche). Il contrasto più evidente messo in luce dall’indagine testiana è quello tra il presente e il passato, i vivi e i morti, il bene e il male: «Un raffinato sistema di corrispondenze e opposizioni semantiche che introduce ad un luogo, ad uno spazio: quello, perduto, dell’origine, delle sue figure e del suo tempo». Questa poesia infatti «può anche essere letta come tappa fondamentale di un processo mentale e immaginativo e di un percorso tematico che hanno impegnato Montale per tutta la sua esistenza poetica»: la Liguria dell’infanzia diventa luogo mitico proprio perché perduto, quindi da riedificare liricamente attraverso elementi concreti dell’ambiente circostante in cui vive l’età adulta.

Il percorso intellettuale e di scavo conoscitivo che ha condotto Montale ad essere uno dei massimi poeti del ’900 ha senz’altro come punto di partenza i «primi anni» di Proda di Versilia, in cui si muovono le «care ombre» del passato, ma non va ridotto allo stereotipo nostalgico dell’abbandono di un mondo magico reso irrecuperabile da deturpazioni ambientali e corruzioni morali. Nella sua «arca privata» il poeta salva «figure, oggetti, animali, ricordi che travalicano spazi e tempi», diventando «etnografo di se stesso e della sua tribù perduta». Lungi dal celebrare retoricamente un’età trascorsa, cementandola in un monumento «marmoreo ed egolatrico», Eugenio Montale recupera consapevolmente figure, vicende e luoghi marginali, colloquiando con loro senza la pretesa di raggiungere i «valori alti e trascendenti del miracolo». Non più, dunque, una tensione verso l’eternità e il suo nulla, ma un parlare, per quanto nostalgico e rievocativo, in grado di attingere al proprio mondo vitale e primitivo, però in relazione con la realtà attuale, precariamente concreta: saldando inizio e fine nelle loro inquietudini e contrasti, aldilà di ogni favola, invenzione o trascendimento onirico.

Una lettura, quella di Enrico Testa, che ci aiuta a penetrare nei significati più difficilmente decifrabili della poesia montaliana, e ci sollecita a rileggere quel capolavoro che rimane tuttora La bufera, recentemente riproposto da Mondadori.

© Riproduzione riservata      https://www.sololibri.net/Proda-di-Versilia-Montale.html     26 agosto 2019

 

 

 

RECENSIONI

MONTALE

EUGENIO MONTALE, LA BUFERA – MONDADORI, MILANO 2020

 

«Montale occupa, nella poesia italiana del Novecento, lo stesso posto che Leopardi occupa nella poesia dell’Ottocento: è l’autore più importante del secolo, colui che ha cambiato, una volta per sempre, il modo di intendere la lirica moderna nella nostra letteratura».

Con queste parole di elogio e profonda considerazione, Guido Mazzoni apre il suo saggio introduttivo al volume mondadoriano dedicato a La bufera, terzo libro di versi di Eugenio Montale, pubblicato da Neri Pozza nel 1956, diciassette anni dopo Le occasioni, una volta trascorsa e metabolizzata la sardana infernale della seconda guerra mondiale, di cui molte poesie rendono sofferta testimonianza. Una bufera storica, quella che ha investito le sorti del mondo, ma anche «guerra cosmica, di sempre e di tutti», come ebbe a chiarire lo stesso autore, che in quegli anni visse tribolate vicende personali (politiche, professionali e sentimentali), ben documentate dalla biografia curata da Tiziana de Rogatis.

Mazzoni indica nella prefazione le ragioni della centralità di Montale nella storia letteraria italiana, e quelle per cui La bufera risulta altrettanto nodale all’interno della sua produzione. Difficile, ma non oscura, la scrittura del poeta genovese si offriva come alternativa al crepuscolarismo, all’ermetismo e al simbolismo, rifuggendo sia da qualsiasi impenetrabile autoreferenzialità (l’orfismo inesplorabile dal senso comune, il soggettivismo incomunicabile nella sua esclusiva arbitrarietà), sia dall’incontrollata caoticità delle procedure avanguardistiche e surrealiste. Il classicismo moderno di Montale si pone invece come comunicabile al lettore, pur nella sua ardua interpretazione, perché mantiene un riferimento preciso alla realtà, ai dati sensibili della memoria, alla descrizione di persone, ambienti e oggetti, per quanto possano essere privati e individuali. Pur esibendo uno stile “alto”, di grande compostezza formale e legato alla tradizione letteraria, è riuscito a mantenersi ancorato ai dati reali dell’esistenza e della storia, fedele a un contesto di vita quotidiana esperibile da chiunque.

Guido Mazzoni individua quattro elementi caratterizzanti il classicismo montaliano. In primo luogo la continuità (metrica, sintattica e lessicale) con la lirica premoderna di stile tragico, ma in una maniera dinamicamente dialettica, senza ossequi restaurativi al passato, e invece con aperture al plurilinguismo, al repertorio colloquiale, a una terminologia tecnicamente esatta ed eterogenea. Secondariamente, l’io cui si rifanno le poesie è definito da un ideale umanistico di signorilità e compostezza, con precise caratteristiche di ceto e di classe, individuabili più come categorie dello spirito che come categorie sociali. In terzo luogo, Montale interpreta in maniera umanistica e raffinata la crisi esistenziale dell’uomo contemporaneo e i suoi conflitti interiori, dando all’esperienza personale un valore universale, senza pietismi, ribellioni, autoflagellazioni ironiche. Infine, sull’esempio eliotiano, evita l’effusione soggettiva, sentimentale e retorica, preferendo al compiacimento egotistico, all’accentramento soggettivo individuale, un’oggettivazione del mondo concreto e vissuto; nessuna immediatezza descrittiva o ansia di confessione tardoromantica, dunque, ma la capacità di circostanziare in un racconto partecipabile al lettore anche i suggerimenti offerti dalla sua vicenda e memoria privata.

Questo volume, il primo a includere tutti i testi della Bufera (introdotti e annotati da Ida Campeggiani e Niccolò Scaffai, corredati da una ricchissima bibliografia e da due interventi critici di Gianfranco Contini e Franco Fortini) completa la serie dei commenti alle opere montaliane inaugurata nel 2002 nella collana degli Oscar Mondadori, ripresa e proseguita di recente nello “Specchio”. L’introduzione di Niccolò Scaffai si sofferma sulla composizione del libro a partire dalla prima pubblicazione in Ticino della plaquette di quindici liriche intitolata Finisterre, e quindi sulle vicende editoriali conclusesi nel 1977 con l’edizione mondadoriana di Tutte le poesie. Scaffai valuta poi temi e forme del testo, il suo successo di pubblico e critica, le lunghe polemiche riguardanti il manierismo di Montale. Tutte le poesie contenute nella Bufera vengono situate nel contesto storico, culturale ed esistenziale in cui sono state scritte, commentate nello stile e nei contenuti, relazionate alla precedente produzione dell’autore e a quella degli scrittori italiani e stranieri che più lo hanno influenzato.

Suddivisa in sette sezioni (FinisterreDopoIntermezzo; ‘Flashese dedicheSilvaeMadrigali privatiConclusioni provvisorie: in tutto 55 liriche e due prose, composte tra il 1939 e il 1954), la raccolta tratta temi diversi, dalla tragica attualità della guerra alla funzione testimoniale della poesia, espressione di dignità umana e intellettuale, che sola può offrirsi come spazio di riflessione morale e di libertà. La novità fondamentale rappresentata dai versi de La Bufera consiste nel rilievo che il poeta dà al contesto storico, verso cui prende una decisa posizione di condanna, espressa già nell’epigrafe  di Finisterre  (citazione dello scrittore francese seicentesco Agrippa d’Aubigné: «Les prences n’ont point d’yeux pour voir ces grand’s merveilles, leurs mains ne servent plus qu’à nous persécuter…»), evidente sconfessione del potere dominante negli anni del fascismo, da lui vissuti in una dignitosa e solitaria non-collaborazione. In questo senso, il testo più esplicitamente rappresentativo del libro è La  primavera hitleriana, in cui viene descritta la visita di Hitler a Firenze avvenuta nel maggio del 1938 («un messo infernale / tra un alalà di scherani»), nell’attesa del «respiro di un’alba che domani per tutti / si riaffacci, bianca ma senz’ali / di raccapriccio». Gli intollerabili eventi politici (l’hic et nunc da cui prende sempre spunto l’ispirazione montaliana) assumono quindi una valenza metafisica, diventando simbolo di un “male di vivere” che accompagna negativamente l’essere umano nel dipanarsi della sua vita materiale.

Lo sconforto derivato dalla constatazione della brutalità della tregenda bellica e della dittatura, ma anche dell’indifferenza morale della popolazione entro cui tale sciagura ha potuto manifestarsi, viene in parte mitigato dalla presenza di due figure femminili contrapposte, Clizia e la Volpe, effettivamente legate alla sua biografia (Clizia è Irma Brandeis, giovane studentessa ebrea-americana conosciuta a Firenze nel 1933, la Volpe è la poetessa torinese Maria Luisa Spaziani). Alla donna, mai descritta nella sua interezza, ma resa sempre in un solo atteggiamento o in un minimo particolare fisico, Montale demanda differenti funzioni: il recupero della memoria, l’espressione di un’alterità spirituale, l’implacabile difficoltà del distacco, la generosità dell’indulgenza, la missione salvifica dal baratro in cui sta per affondare. Clizia, severa e algida donna-angelo di impronta stilnovistica, è richiamo all’assoluto e all’ultraterreno; la Volpe recupera un eros più concreto e vitale, altrettanto coinvolgente ma meno angoscioso.

Forse, ad esemplificare la complessa coerenza tematica e stilistica del libro, è sufficiente l’accostamento di due liriche in esso comprese: quella iniziale, che dà il titolo all’intera raccolta, e la penultima, Piccolo testamento, giustamente considerata tra i capolavori letterari del nostro Novecento. In entrambe, storia privata e storia collettiva (la guerra, il nazismo) si compenetrano, illuminandosi e oscurandosi a vicenda; in entrambe una figura femminile si costituisce come senhal di perdita e di salvezza. Nei due componimenti è simile la forma metrica (versi liberi con prevalenza di endecasillabi), il costante utilizzo di rime e figure retoriche (allitterazioni, enjambement, onomatopee, ossimori, metafore) e di termini obsoleti, arcaici o specifici (sgronda, candisce, sistri, fuia, fandango, madreperlacea, sardana), la prevalenza di una sintassi frantumata e paratattica.

Ne La bufera all’elemento atmosferico della tempesta, metafora della guerra in corso, si contrappone il profilo della donna amata, strana sorella, legata al poeta da un’affinità spirituale più assolutizzante dell’amore, ma lontana perché fuggita in altro paese per sottrarsi alle persecuzioni razziali, e ora al riparo nella sua casa, elegante nido notturno improvvisamente rischiarato dalla luce di un lampo: l’istante rivelatore che non basta a illuminare il buio abisso in cui il dolore privato e quello storico fanno precipitare i due protagonisti.

In Piccolo testamento sono presenti i temi tipici della poetica montaliana: la sfiducia nella politica intesa come potere, la polemica contro qualsiasi ideologia massificante (chierico rosso, o nero), l’addensarsi di un futuro minaccioso (la sardana si farà infernale… un ombroso Lucifero… l’ali di bitume… l’urto dei monsoni). Ma c’è anche la fiera rivendicazione della propria coerenza morale (Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio / non era fuga) e della fedeltà alla funzione salvifica della poesia (il tenue bagliore strofinato / laggiù non era quello di un fiammifero), ancora una volta personificata da una figura femminile amata in passato, recuperata nostalgicamente attraverso i suoi gesti più usuali, e nei piccoli oggetti (la cipria nello specchietto) a cui affidava la sua testimonianza di vita e di resistenza.

La bufera: “La bufera che sgronda sulle foglie / dure della magnolia i lunghi tuoni / marzolini e la grandine, / (i suoni di cristallo nel tuo nido / notturno ti sorprendono, dell’oro / che s’è spento sui mogani, sul taglio / dei libri rilegati, brucia ancora / una grana di zucchero nel guscio / delle tue palpebre) / il lampo che candisce / alberi e muro e li sorprende in quella / eternità d’istante – marmo manna / e distruzione – ch’entro te scolpita / porti per tua condanna e che ti lega / più che l’amore a me, strana sorella, – / e poi lo schianto rude, i sistri, il fremere / dei tamburelli sulla fossa fuia, /
lo scalpicciare del fandango, e sopra / qualche gesto che annaspa… / Come quando / ti rivolgesti e con la mano, sgombra / la fronte dalla nube dei capelli, / mi salutasti – per entrar nel buio”.

Piccolo testamento: “Questo che a notte balugina / nella calotta del mio pensiero, / traccia madreperlacea di lumaca / o smeriglio di vetro calpestato, / non è lume di chiesa o d’officina / che alimenti / chierico rosso, o nero. / Solo quest’iride posso / lasciarti a testimonianza / d’una fede che fu combattuta, / d’una speranza che bruciò più lenta / di un duro ceppo nel focolare. / Conservane la cipria nello specchietto / quando spenta ogni lampada / la sardana si farà infernale / e un ombroso Lucifero scenderà su una prora / del Tamigi, dell’Hudson, della Senna / scuotendo l’ali di bitume semi- / mozze dalla fatica, a dirti: è l’ora. / Non è un’eredità, un portafortuna / che può reggere all’urto dei monsoni / sul fil di ragno della memoria, / ma una storia non dura che nella cenere / e persistenza è solo l’estinzione. / Giusto era il segno: chi l’ha ravvisato / non può fallire nel ritrovarti. / Ognuno riconosce i suoi: l’orgoglio / non era fuga, l’umiltà non era / vile, il tenue bagliore strofinato / laggiù non era quello di un fiammifero”.

 

© Riproduzione riservata                     «Il Pickwick», 10 febbraio 2020

 

 

 

 

 

 

 

 

 

RECENSIONI

MONTALE

EUGENIO MONTALE, DIVINITÀ IN INCOGNITO. Lettere a Margherita Dalmati (1956-1974) – ARCHINTO, MILANO 2020, pp. 116

A quarant’anni dalla morte di Eugenio Montale (1896-1981), le edizioni Archinto pubblicano le lettere inedite che il premio Nobel scrisse alla musicista e poetessa greca Margherita Dalmati, più giovane di lui di ventiquattro anni, tra il 1956 e il 1974. L’epistolario è stato recuperato ad Atene da Alessandra Cenni, che ha ora magistralmente curato introduzione e note del volume Divinità in incognito, in cui il lettore può scoprire non solo aspetti ignorati della biografia montaliana, ma anche particolari rilevanti della sua attività giornalistica e letteraria.

Margherita Dalmati, il cui vero nome era Maria-Nike Zoroyannidis – coltissima esperta di arte, profonda conoscitrice della storia e della letteratura italiana, traduttrice di Kavafis, Seferis, Elytis –  considerava l’Italia sua seconda patria, soggiornando a lungo a Roma (per perfezionarsi nello studio del clavicembalo al Conservatorio di Santa Cecilia), a Firenze  (dove al caffè delle Giubbe Rosse frequentava amici scrittori e pittori di fama: Luzi, Bigongiari, Gatto, Betocchi) e a Palermo, con l’incarico di lettrice dell’Istituto di Cultura greca e bizantina. Proprio nella città siciliana aveva incontrato per la prima volta fuggevolmente Montale,  ma fu soprattutto il breve periodo trascorso insieme in Grecia nel ’62 che approfondì anche sentimentalmente la loro amicizia. Montale, accompagnato dalla moglie Drusilla Tanzi (la “Mosca” di Satura), allora già molto malata, era stato inviato ad Atene dal Corriere della Sera per una serie di reportage di viaggio, e aveva esplicitamente chiesto l’accompagnamento e la guida di Maria-Nike. Da quel momento lo scambio epistolare tra i due, precedentemente episodico e formale, si era intensificato: ci sono rimaste le 42 lettere di Montale, mentre quelle della Dalmati sono state distrutte, o dallo stesso poeta, o dalla sua fedelissima governante Gina Tiossi, probabilmente gelosa del fascino che la giovane donna esercitava sull’anziano poeta, e decisa a salvaguardarne la fedeltà alla moglie. Firmate spesso come Agenore (nome del mitico re fenicio di Tiro, padre di Europa) su carta intestata del Corriere, ci forniscono nuove chiavi interpretative sull’inattesa e sorprendente svolta creativa della maturità montaliana, avvenuta con la pubblicazione, dopo un lungo periodo di silenzio, degli ultimi tre libri caratterizzati dal passaggio dall’ermetismo a uno stile più prosastico, colloquiale e ironico (Satura, Diario del ’71 e del ’72 e Quaderno di quattro anni).

L’epistolario, inoltre, ci illustra il proficuo scambio culturale tra il poeta e la sua corrispondente, con il reciproco arricchimento derivato dalla collaborativa traduzione di Kavafis, con i riferimenti arguti agli scrittori contemporanei (Moravia, Pasolini, Quasimodo, Ferrata, Zampa, Spaziani…) e alla situazione delle arti e della musica in Italia (“la Scala è un grosso teatro inutile, incapace di formare artisti e legato a un repertorio che ormai sappiamo a memoria”).

Montale confessa il suo fastidio per gli impegni ufficiali e le cerimonie mondane cui deve presenziare, per la routine del lavoro giornalistico, per i progressivi disturbi dovuti all’avanzare dell’età. L’aperta confidenza che si instaura tra loro lo induce a sfogarsi anche sulla difficile quotidianità familiare, costretta tra l’invalidità della moglie e l’opprimente custodia della governante, “l’Erinni domestica”. Alla morte di Drusilla, il 24 novembre 1963, così scrive all’amica: “Margherita cara, spostare i mobili, prendere un cane, vedere amici, ahimè, mi servirebbe poco. Si tratta di 36 anni vissuti insieme nella
buona e nella cattiva sorte, venti dei quali occupati da una lotta eroica per vincere il male che covava, la cecità che progrediva, gli anni che crescevano, l’amministratore che la derubava e tutto il resto che non ti dico. 36, dei quali almeno venti di orrore; ed ora la fedele Gina che vive con noi da vent’anni, stesa al suolo in lacrime, incapace di prender cibo, con le fotografie della morta stese sul letto, sul suolo, dappertutto… Mi capisci?”.

L’amitié amoureuse tra i due dopo l’incontro ateniese era diventata più esplicitamente accesa e coinvolgente, fino a trasformarsi in un’approfondita intesa sentimentale, concretizzata in pochi incontri fisici, a Roma e a Milano, ma esplicitata dal poeta con accenti di reale devozione e gratitudine: “Ti voglio bene, Margherita cara, anche se questo mi spaventa…  lasciami la speranza che un giorno  potrò ripiombare in Grecia e sentirti almeno per un giorno, una notte intera, mia, tutta mia. Ti voglio bene, Maria Nike, ti amo (sono vent’anni che non scrivo una simile parola) e spero che questo mi ringiovanisca e mi faccia vivere a lungo, fino al   giorno in cui potrò sentirmi unito a te anima e corpo per un istante o per un secolo” (19 maggio 1962); “Margherita mia cara e adorata… Io sono fedele per costituzione, anche se mi sono innamorato tre o quattro volte in vita mia (solo i morti non lo fanno), ma ora è davvero l’ultima volta ed anche se è l’ultima è la più preziosa e mi fa camminare un centimetro più alto del suolo… Ti abbraccio con tutto il cuore e con tutto il resto” (22 maggio 1962); “Mia adorata… Così come sei ora mi sembri adorabile e ti sogno la notte come Tristano poteva sognare Isotta. Con feroce desiderio” (2 giugno 1962); “My angel… Io ti posso solo dire che vivo con te ogni minuto e che la mia sofferenza mi aiuta tuttavia a vivere… ora tutto mi pare diverso, più incorruttibile, anche se non si svolge nella stratosfera e accende furiosamente il mio sangue!” (11 giugno 1962); “Mio caro tesoro… Ora che cosa posso aggiungere? Che ti voglio bene, lo sai; che ti amo, anche; che ti ammiro, anche; che ho per te una devozione senza limiti, anche; e allora? Ciò non toglie che io sia un fantasma senza esistenza fisica, senza direzione e senza bussola” (25 agosto 1962); ” Vorrei tanto poter abbracciarti ancora una volta prima di morire. Non ho mai conosciuto nessuno (nessuna) che ti valga. Non credevo di arrivare fino al 68: che me ne faccio del poco tempo che mi resta? Credo di averti detto tutto, mia carissima. Ti amo in modo inverosimile, inutile e non desidero nemmeno di rivederti. Sei come una di quelle stelle che gli astrofisici conoscono: io amo un raggio di luce che vedo appena al telescopio. Non meritavo nulla di più. Si può baciare una stella? Se si può ti mando un bacio lunghissimo, con tanta riconoscenza per la vita o il caso che mi ha permesso d’incontrarti. (22 novembre 1968); “Amo tanto la vita, ma più di tutto Maria Nike” (30 settembre 1969). Fino all’ultima lettera, scritta a settantasette anni: “Voglio dirti semplicemente una cosa. Ed è che TI AMO e che penso a te con infinita tenerezza. Mandami una tua fotografia: ne ho già una ma ne vorrei due. Ti abbraccio e bacio fin la punta dei tuoi piedi. Il tuo Agenore” (12 gennaio 1974).

Margerita/Maria-Nike non è Clizia, non è la Volpe, non è la Mosca: le donne più decantate da Montale ne Le Occasioni, ne La Bufera, in Satura; a lei dedica una sola poesia, Botta e risposta III, in cui è rievocato il viaggio in Grecia del 1962: “Ma ero pur sempre nel divino”, scrive. Una Divinità in incognito, questa giovane, riservata, comprensiva e solidale amica straniera, che con assoluta discrezione seppe offrire squarci di miracolosa felicità all’esistenza ormai fragilmente in declino del nostro più importante poeta novecentesco.

© Riproduzione riservata         «Gli Stati Generali», 12 marzo 2021

 

RECENSIONI

MONTANARI

GABRIELLA MONTANARI, ARSENICO E NUOVI VERSETTI– LA VITA FELICE, MILANO 2013

Il poeta e critico letterario Lino Angiuli, nell’introdurre questo «urticante» volume di versi di Gabriella Montanari (Lugo di Romagna, 1971), parla di «intenzione non sublimatoria ma ‘bassa’, ovvero provocatoria e sovversiva, dell’intera raccolta». E ancora di «reattività fino alla rabbia, corporalità fino all’esibizionismo, diversità fino all’antipoesia, lotta senza quartiere verso le mosse perbenistiche e autopromozionali dell’io lirico». Una poesia, quindi, che percorre un itinerario decisamente trascurato dalla vena petrarchesca, intimistica, oracolare, ermetizzante della nostra produzione letteraria più in voga, e invece assume spavaldamente, sprezzantemente, i toni insofferenti alle regole, sarcastici e “maledetti” sulle orme di un Bukowski («di certo c’è / che a Bukowski / una botta gliel’ avrei data, di sicuro»), per risalire – attraverso Villon – fino al nostro sghignazzante Cecco Angiolieri. Gabriella Montanari si fa ironicamente beffe di qualsiasi tronfia ispirazione poetica “alta”, di ogni atteggiato versificatore à la page: «i versi seguono le mode e la domanda di mercato, / si attengono al formato e ai criteri editoriali, / non sgarrano, non dicono una parola di troppo, / profondi perché incomprensibili, sublimi se lo decreta l’Arnoldo // l’orifizio anale non è degno di menzione, / la vita va bene finché non sporca / e a forza di ermetismo e introspezione / vien voglia di scalfire, sverginare / non per posa, ma per amore».

Ma non c’è solo la tradizione letteraria nostrana nel suo target: il feroce e liquidatore arsenico a cui allude il titolo del libro è riservato a qualsiasi aspetto della vita in cui l’autrice si trova impazientemente e rancorosamente costretta: dal «fottutissimo padre padrone» che l’ha messa al mondo, ai parenti morti («la tipica puzza di salma / il tanfo cimiteriale»), alla stupida dirimpettaia diventata madre controvoglia dopo goderecci bagordi, al pontefice («per terra c’è un profilattico esausto / e io mi interrogo sull’utilità del papa») e alla religione tout court («il paradiso è un morso in un tartufo d’alba / il purgatorio, il risveglio dopo una sbornia / l’inferno, il frigo vuoto»), in una sua personale teologia più blasfema che eretica. Nemmeno la natura, nella sua innocente bellezza, si salva dal furioso cupio dissolvi della poetessa («spasmi di pesce rosso a corto d’acqua, / l’ananas immaturo / col suo pennacchio sprezzante, / le banane turgide / come peni con l’ittero», «fuori i gabbiani abbaiano da almeno un’ora / o forse gracchiano», «la battigia è uno sfacelo di meduse, / un mattatoio di granchi e murici dissanguati»), e persino gli innocui e silenziosi libri si meritano velenosi insulti: «inerpicati sugli scaffali / mi ossessionano con le loro facce da campioni d’incassi… // cos’ avranno mai avuto da dire di tanto speciale… / tanto, prima o poi, li vendo al chilo». L’amore stesso è finzione, presa in giro, perdita di tempo e tutt’al più scambio di liquidi o tempesta ormonale: «L’ho accettato come un inevitabile contrattempo. Così come si accetta il ciclo mensile, il tacco della scarpa che nella corsa si spezza o la carta igienica che manca sul più bello», e il sesso «ha il soffio corto dei coiti clandestini / e delle sveltine da divano immondo». Il lettore può ritrovarsi sconcertato o addirittura divertito da questo allegro e rabbioso vorticare di vesciche, genitali, sigarette, birre, obitori, scopate,
maledizioni, sperma: mai scandalizzato, tanto provocatoriamente eccessiva è l’immagine che la poetessa tende a dare di sé («sputai contro le macchine / e pisciai in faccia ai passanti, / presi a sberle il cadavere di mia madre, / rinserii i figli nella placenta, / ritornai feto, spermatozoo ovulo e orgasmo»), ossessivamente insultante anche contro la sua stessa scrittura: «Pisciare, scrivere. Lo stesso sfogo appagante, la soddisfazione di un bisogno impellente». Al punto che chi legge questi versi finisce addirittura per dimenticarsi di valutarli esteticamente, travolto com’è dalla sardana di tanta esplicita fisicità.

 

«L’Immaginazione» n. 276, luglio 2013

RECENSIONI

MONTANARI

TOMASO MONTANARI, PATRIMONIO CULTURALE – CORRIERE DELLA SERA, EBOOK

Di Tomaso Montanari (Firenze, 1971), storico dell’arte, professore universitario a Napoli, editorialista e blogger italiano, ho seguito con ammirazione le splendide lezioni su Caravaggio trasmesse recentemente da RAI 5. Alla chiarezza espositiva, alla citazione colta delle fonti e dei commenti antichi e contemporanei, all’illustrazione attenta delle sfumature pittoriche di ogni quadro e affresco presentato, Montanari affianca sempre appassionati appelli alla coscienza civica dei cittadini-utenti di opere d’arte, e coraggiose denunce dell’incuria amministrativa, dei furti, dei maneggi e degli interessi mafiosi che assediano il nostro patrimonio artistico.
Qualche anno fa, presentando se stesso su Il Fatto Quotidiano aveva scritto:  «Penso che l’amore per la storia dell’arte non debba essere un fatto privato (o peggio un’evasione, o un modo per non pensare), ma pubblico e ‘politico’. L’articolo 9 della Costituzione ha, infatti, mutato irreversibilmente il ruolo del patrimonio storico e artistico italiano, facendone un segno visibile della sovranità dei cittadini, dell’unità nazionale, e dell’eguaglianza costituzionale, perché ciascuno di noi (povero o ricco, uomo o donna, cattolico o musulmano, colto o incolto) ne è egualmente proprietario. Ma tutto questo è assai difficile da capire, perché oggi la storia dell’arte non è più un sapere critico, ma un’industria dell’intrattenimento ‘culturale’ (e dunque fattore di alienazione, di regressione intellettuale e di programmatico ottundimento del senso critico). Strumentalizzata dal potere politico e religioso, banalizzata dai media e sfruttata dall’università, la storia dell’arte è ormai una escort di lusso della vita culturale».

Autore di importanti volumi per Einaudi, Skira, Carocci e Minimum Fax, oggi collabora a Repubblica ed è appena stato eletto Presidente dell’associazione Libertà e Giustizia. Ho pensato che per introdurre i lettori di SoloLibri alla conoscenza di questo critico, così lontano dalle sguaiatezze, dalle volgarità e dalle autocelebrazioni mediatiche di molti suoi noti colleghi, e così impegnato nella difesa della ricchezza artistica e ambientale del nostro paese, fosse interessante recensire un ebook edito nel 2013 da Corriere della Sera, e offerto al prezzo risibile di 1,99 euro.

Ecco dunque Patrimonio culturale. Ripartire dall’ABC. Si tratta di “21 tesi per rivoluzionare la politica culturale italiana”, scandite in ordine alfabetico, esposte con un stile “asciutto e apodittico”. La direzione ideologica di tali lemmi è già evidente e dichiarata dai titoli: dai più polemici (Finanziamenti, Ius soli, Noleggi, Pubblico e Privato) ai più sconfortati (Educazione, Qualunque, Ultimi, Vandali). Ma basterebbe forse citare alcune frasi dai primi tre capitoli:

Ambiente: “È il contesto, il vero, inarrivabile, capolavoro dell’arte italiana. Il tessuto continuo di natura e arte, figure a parole, storia e idee che ci avvolge e ci dà forma”. Bene comune: “Oggi una profonda depressione culturale riduce la nostra vita alla sola dimensione economica: o meglio finanziaria… Ma esistono cose che non hanno prezzo, che non si possono comprare”. Costituzione: “L’articolo 9 della Carta dice che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”.

Appoggiandosi all’autorità dei Salmi e del Vangelo, di Dante e Vasari, ma citando anche David Foster Wallace, Edgar Wind e Tony Judt, Tomaso Montanari esprime tutta la sua indignazione verso una politica culturale che, anziché proteggere il patrimonio straordinario del nostro paese, lo mercanteggia, lo svende, lo privatizza offrendone la custodia ad amministratori incompetenti e a politicanti corrotti.

 

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www.sololibri.net/Patrimonio-culturale-Montanari.html; 14 marzo 2017

RECENSIONI

MONTANARI

TOMASO MONTANARI, LE STATUE GIUSTE – LATERZA, ROMA-BARI 2024

 

Nel paragrafo conclusivo del suo ultimo libro, Le statue giuste, Tomaso Montanari afferma che bisogna vegliare affinché “la storia, tutta intera, non sia dimenticata, falsificata, strumentalizzata a favore del potere presente”. Perché la “Storia” che ci viene raccontata, oggi, è distorta, parziale, resuscitata perlopiù con finalità repressive, e non in maniera problematica, contestualizzata e coinvolgente, come dovrebbe: studiata poco e male a scuola, è chiusa in asfittiche aree di ricerca nelle università, mentre ogni riflessione culturale rimane circoscritta nell’ambito della contemporaneità.

Storico dell’arte, divulgatore culturale, saggistarettore dell’Università per stranieri di Siena, Montanari (Firenze 1971) ha supportato campagne di opinione orientate alla difesa del patrimonio artistico, museale e architettonico italiano. La sua ultima battaglia civile prende di mira statue, monumenti, affreschi antichi e moderni osservabili in spazi pubblici, dedicati a eventi storici e personaggi responsabili di comportamenti riprovevoli, addirittura di reati penali, e più gravemente ancora di colpe ideologiche e militari.

Nell’arco di millenni la ricezione delle immagini ha creato contrapposizioni tra culto adorante e volontà di distruzione, appellandosi a differenti ideologie e fideismi: dalla costruzione del vitello d’oro nell’Esodo ai culti faraonici in Egitto, dalle damnationes memoriae di epoca romana alla riforma protestante, dalla rivoluzione francese fino alle dittature del ’900.

L’autore ritiene di dover difendere e incoraggiare il movimento di protesta che lotta contro le mentalità coloniali e totalitaristiche tuttora esistenti, per combattere ingiustizie e soprusi veicolati dall’ordine sociale occidentale ereditato dal passato. In questo senso, la sua vibrante indignazione non va considerata come un’adesione pregiudiziale alla cancel culture, definizione vuota e menzognera attraverso cui si condanna, in nome della conservazione della storia, il vandalico abbattimento di testimonianze materiali e la censura di testi letterari, ma intende rimarcare l’esigenza di trovare una terza via tra distruzione e venerazione, tra dissacrazione e adesione acritica.

I sette capitoli che costituiscono questo saggio (accompagnato da un ricco apparato di note) analizzano momenti ed episodi recenti che su questo argomento hanno dato adito a posizioni contrastanti. A partire dall’intervista di Trump del luglio 2020 contro la cancel culture, definita una barbarie distruttiva nei confronti di un passato storico da difendere ostinatamente, in nome della pacifica convivenza contro la violenza di piazza, della tradizione contro l’iconoclastia, dell’amore contro l’odio: messaggio raccolto e rafforzato nelle esternazioni più recenti di Giorgia Meloni e Gennaro Sangiuliano.

Montanari si sofferma sull’abbattimento di monumenti avvenuti in anni recenti in diverse parti del mondo: negli Stati Uniti sono stati oggetto di contestazione e demolizione i marmi raffiguranti i generali sudisti della Guerra di Secessione, nel campus dell’Università di Città del Capo la statua del teorico dell’apartheid Cecil Rhodes, a Bristol nel giugno del 2020 quella bronzea dello schiavista Edward Colston. Episodi sempre accompagnati da contestazioni, processi, proposte alternative di correzione.

Tali “eroi” del passato meritavano davvero l’onore di un monumento, in grado di influenzare positivamente l’immaginario di abitanti, turisti, passanti disinformati, o questo privilegio non andrebbe riservato a coloro che promuovono cambiamenti positivi, lottando per la pace, l’uguaglianza e l’unità sociale? Una statua dovrebbe offrire un modello di comportamento e una bussola va loriale, creare un visibile legame sentimentale tra passato e presente, raccontare il passato per spiegare il presente e proiettarsi in un futuro migliore…

Le piazze e i viali italiani sono ornati da mausolei, sculture, busti, targhe dedicate a sovrani, statisti, condottieri, filosofi e artisti dall’operato poco democratico, dai re di Casa Savoia ai generali risorgimentali, in un pantheon celebrativo spesso imbarazzante, costruito su un’idea di dominio (“dei maschi, dei bianchi, degli occidentali, dei cristiani, della cultura classica”…) L’ omaggio agli anni del fascismo e del colonialismo (1882-1960, con mezzo milione di vittime africane) è ancora recuperabile nella toponomastica nazionale, e negli articoli goliardicamente derisori, orgogliosamente razzisti e misogini di Indro Montanelli.

Montanari porta l’esempio dell’Aula Magna della Sapienza di Roma, affrescata da un dipinto di Mario Sironi celebrativo dei fasti mussoliniani. Italo Balbo, Rodolfo Graziani, Giuseppe Bottai e altri gerarchi fascisti godono tuttora di imperitura e grata memoria in diverse città della penisola, e anche i nomi delle strade non sfuggono a questa genuflessa tradizione. L’universo femminile viene ignorato: solo otto vie su cento sono dedicate a figure di donne, perlopiù rappresentative della classicità, della mitologia, e soprattutto del mondo cattolico (madonne, sante, martiri), della cura e del sacrificio personale.

Non si tratta solo di dare un giudizio estetico sulla qualità spesso scadente di molte opere d’arte, ma di considerare il codice dei significati che vengono trasmessi, generalmente di subordinazione e obbedienza a ideologie che calpestano i diritti delle minoranze, la pluralità delle culture, la differenza di genere, lo sfruttamento della forza lavoro.

Nei monumenti e nelle intitolazioni di strade e scuole, così come nel calendario civile (con un 2 Giugno celebrante la festa della Repubblica attraverso discutibili parate militari), il messaggio trasmesso è inequivocabile: “La scrittura simbolica dello spazio pubblico non è mai neutrale, non è un saggio di storia o una lezione accademica: è invece un atto politico che sceglie un versante della storia, e lo propone alla venerazione di tutta una comunità”.

La proposta suggerita da Tomaso Montanari (già indicata nel libro di Alessandro Portelli Il ginocchio sul collo, recensito in gennaio su Gli stati Generali) non consiste nell’esortare alla cancellazione e all’abbattimento di statue e testimonianze di un passato controverso e non condivisibile, ma in una loro risignificazione, risemantizzazione da affidare a storici e artisti che ne accompagnino l’esposizione con commenti adeguati. Oppure nel loro trasferimento dallo spazio pubblico a uno spazio museale “in cui la loro intera storia venga narrata nel modo più oggettivo, largo e inclusivo”, senza tuttavia eliminare i segni della loro precedente esistenza in luoghi destinati alla visibilità collettiva.

Basta una targa, per inquadrare correttamente le tante cose che una statua può raccontare su ciò che ha davvero raffigurato in passato e rappresenta nell’oggi.

 

© Riproduzione riservata                        «Gli Stati Generali», 16 febbraio 2024

 

 

RECENSIONI

MONTORFANI

PIETRO MONTORFANI, L’OMBRA DEL MONDO – ARAGNO, TORINO 2020

Già dal titolo di questa raccolta di Pietro MontorfaniL’ombra del mondo, possiamo intuire quanto temi e toni inscritti nel registro dell’autore siano sospesi in un’atmosfera di non-luminosità, non-trasparenza e probabilmente anche di non-appartenenza a una realtà vissuta come costrittiva e non condivisibile. È un tratto comune a chi, nato intorno agli anni ’80, scrive versi con una sorta di estraneità alla corrente precipitosa degli avvenimenti, quasi incapace non solo di adeguarsi ad essi, ma addirittura di comprenderli e di giustificarli. Un distacco che si vela, appunto, di ombra e di rassegnata rinuncia. L’introversione, la riflessione sul sé, ma anche una sorta di altera consapevolezza della propria acuta sensibilità, rende questi poeti umili e insieme fieri del loro dissenso, che non arriva mai però a essere ribellione o aperto contrasto.

Le sezioni del libro di Montorfani dichiarano esplicitamente questa sospensione di contatto con il mondo e il velo attraverso cui lo osservano, già nel loro nominarsi: «Dove nulla succede, Gente che passa, Il punto della croce, Così in pace, tra le altre. E diverse composizioni riprendono nei titoli una terminologia di negatività, sofferenza, alienazione: agonia, silenzio, confine, ibernazioni, memoria, pace. I due ultimi capitoli del libro sono dedicati all’assenza di persone amate, eventi luttuosi di cui si sottolinea l’incomprensibile ingiustizia: in Giona l’idea di sepoltura corrisponde al piccolo spazio occupato sulla terra durante un’esistenza tribolata («Dove ti metteranno ora? Disegnalo per noi il posto / che ti è stato assegnato / anima tormentata che ti insabbi / infilata di sbieco / tra le cose del mondo»), per cui l’approdo sperato rimane solo quello tacitante e protettivo della morte: «Di nuovo silenzio / buio fitto / odori notturni / portati dal vento / e grande quiete / in ogni dove». Ancora, in Memoria II nei versi dedicati a un aquilone, è l’idea di costrizione e impedimento che blocca il volo leggero e variopinto nell’alto del cielo: «Ciò che non sanno più / è il nome di quel rombo colorato, / di tela sottile, con il filo, / che prima volava e ora / lotta per liberarsi di tra i / rami e non ci riesce».

Trovare uno spiraglio di luce si può e si deve, e il poeta sembra cercarlo nel viaggio, nella dislocazione mentale e fisica in un altrove che offra orizzonti liberatori. «Il varco è qui?», pare domandarsi seguendo indicazioni montaliane. Ed eccola, allora, «la maglia rotta nella rete» attraverso cui fuggire, salvandosi: sarà Berlino, Varsavia, Praga, Siena, Finisterre, o nella metafora più suggestiva del libro, il passaggio alpino della Flüela, «dentro il buio dei monti», che indica un transito migratorio, abbandono del passato ma anche traguardo verso il futuro, rito iniziatico da superare per sopravvivere.
Montorfani, ticinese, è nato e vissuto in zona di confine, crocevia di culture e lingue differenti, che dalla pianura di Lugano si alza verso le Alpi svizzere («superato il più stretto / corridoio d’Europa nel cui / buio si muore / dopo tanta piana per chi / suona la cornamusa nella stiva / del San Gottardo per chi / stride»), e attraverso di esse ci si apre al continente, accompagnati dal più tradizionale ed evocativo degli strumenti, che annuncia la venuta di un laico dies natalis. Le facce che si incontrano sono tuttavia quelle di persone anonime, sconosciute, «gente che passa… dove nulla succede… in un silenzio assordante», secondo una geografia che ‒ se pur varia tra Gibilterra e la Russia, fiordi e fiumi, boschi e deserti, ponti e viadotti, cartelloni pubblicitari e posti di blocco, caravan e santuari ‒, resta estranea, impenetrabile.

L’Europa percorsa da Pietro Montorfani diventa simbolo di un’unione fittizia che non è in grado di saldare né la sua storia (dalle grotte di Lascaux a re Artù alle tragiche migrazioni mediterranee), né i suoi territori («Europa a testa in giù: / oltre le Alpi, il Mare»), e che nemmeno la poesia riesce a redimere: «Che agonia questi ultimi / giorni d’Europa, accesi da albe / di destini infranti, / chiusi da sere di notizie / sempre uguali. // Muta e non muta l’orizzonte // e inspiegabilmente si avvicina, / stringe la mente dentro un cerchio / che solo il cielo contiene».

 

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5 settembre 2020

 

RECENSIONI

MORAVIA

ALBERTO MORAVIA, IL VIAGGIO A ROMA – BOMPIANI, MILANO 1988

 

Ho passato le vacanze natalizie -complice un breve soggiorno a Roma, madre matrigna di Alberto Moravia e di tanti suoi romanzi- in compagnia del primo tomo delle sue Opere Complete, edito da Bompiani. Si trattava per me in parte di una rilettura (Gli indifferenti, Inverno di malato, Agostino…), ma per lo più di piacevolissime scoperte tardive: mi hanno incantato i racconti Delitto al circolo del tennis e L’ufficiale inglese, ho ammirato la struttura ben articolata e la scrittura asciutta de La romana. Mi sono avvicinata quindi all’ultimo successo di Moravia, Il viaggio a Roma, con una certa trepidazione, temendo di incorrere nuovamente nella delusione che mi avevano provocato le sue opere più recenti, timore che per fortuna è andato scomparendo nel corso della lettura. La vicenda narrata è quella di un viaggio che il giovane protagonista, Mario De Sio, fa a Roma per incontrarvi il padre, non più rivisto da una quindicina d’anni, da quando cioè era stato costretto, bambino, a seguire la madre a Parigi. “Viaggio” è, come sempre, termine duplice, di conoscenza e arricchimento esteriore e interiore insieme. Per Mario, in particolare, questo ritorno a Roma ha una funzione terapeutica: in termini psicanalitici, serve a liberarlo dal complesso edipico nutrito nei riguardi della madre, morta nel pieno di una giovinezza sensuale e sfrenata. Appena giunto nella capitale, dopo un piacevole viaggio aereo in compagnia di due francesi, madre e figlia (Jeanne, giovane vedova inappagata, e Alda, acerba e inquieta quattordicenne, destinate entrambe ad avere un ruolo risolutorio nella crisi esistenziale del protagonista), questi ritrova un padre complessato e istrione, per cui sente subito un’avversione molto simile al ribrezzo fisico. Con una tecnica narrativa che potrebbe sembrare ingenua e un po’ irritante da parte di un narratore consumato come lui, Moravia già dal secondo capitolo esibisce al lettore la chiave di interpretazione del romanzo: nella prima lunga conversazione col padre, precipitosa e pretestuosa, Mario viene a conoscenza di quanto aveva rimosso per quindici anni, e rivive quella che Freud ha definito “la scena primaria”, cui egli scopre di avere assistito da bambino, sorprendendo un animalesco accoppiamento della madre con l’amante. Il giovane ne è talmente scosso da essere portato a ricreare tale scena con tutte le donne che incontra, cercando puntigliosamente di recuperare tutti i particolari ambientali e fisici che riesce a ricostruire nella memoria. Jeanne, Alda, la scimmiesca donna di servizio Oringia, e infine la conturbante amica del padre Esmeralda, fungono tutte, più o meno consapevoli, da controfigure della madre, cui sono confrontate per contrasto o somiglianza. Il romanzo è quindi la storia di un incesto desiderato e mai consumato, una terapia analitica caparbiamente voluta ma destinata al fallimento a causa dell’eccessiva coscienza razionale del protagonista, che è insieme paziente e analista di se medesimo. Il sesso, come in tutti i romanzi moraviani, è ossessivamente presente nella vicenda, ma nello stesso tempo trattato con spietatezza e freddezza clinica: nessun rapporto fisico viene portato a termine, poiché ogni personaggio finisce per fuggire precipitosamente o per bloccarsi, reiterando una morbosa esibizione di genitali vogliosi e insoddisfatti. Oltre al sesso, ritroviamo in questo romanzo tanti altri tipici temi di Moravia: l’età di Mario, in bilico tra adolescenza e giovinezza, tra una virtuale disponibilità ad aderire a qualsiasi evento e una sostanziale estraneità al mondo che lo circonda, ci ricorda altri caratteri dello scrittore: Agostino, Luca, Girolamo, Michele. Il fatto che Mario si consideri poeta, ma non scriva poesie in quanto tutte le poesie che vorrebbe scrivere sono già state scritte da Apollinaire; il fatto, insomma, che egli sia un poeta fallito, lo accosta alla galleria di altri intellettuali frustrati che Moravia ha sempre scelto come protagonisti dei suoi romanzi. La Roma agiata e borghese, che fa da sfondo a questa storia, con i suoi giardini spelacchiati, le signorili palazzine anni ’20, gli interni luminosi con ampie terrazze, è la stessa Roma complice e ruffiana di tante altre vicende. Il concetto di famiglia come istituzione-rifugio da rispettare e salvaguardare esteriormente, ma in realtà crogiolo di inganni, simulazioni, interessi inconfessabili e altrettanto inconfessabili vizi o sopraffazioni, è anch’esso un motivo riconoscibile di Moravia. Ancora, le figure femminili sempre ambigue, sempre carnali al limite di ogni fisicità, figure dominanti rispetto allo scialbo mondo maschile, ripercorrono tutto il filo dei personaggi (madri, amanti, sorelle) che abbiamo conosciuto dagli indifferenti in poi, al punto che l’acerbità scontrosa e aggressiva della protagonista più giovane, Alda, e l’opulenza felliniana esibita da Esmeralda ricalcano i personaggi de La vita interiore in modo impressionante. Dà un po’ fastidio, in questo Viaggio a Roma, l’insistito ricorso a situazioni da manuale di psicanalisi, per cui ogni avvenimento e ogni pulsione sono freudianamente interpretabili e, purtroppo, freudianamente ineccepibili: ma anche questo, lo sappiamo, è ormai diventato un tic – più che un topos- in Moravia, e glielo perdoniamo volentieri, in considerazione del fatto che lui, almeno, è un grande narratore. Altri, che magari vendono di più, si riducono ai loro tic, senza aggiungere molto.

 

«Agorà» (Svizzera), 22 febbraio 1989